pianificazione linguistica
La pianificazione linguistica è l’insieme delle misure (linguistiche, legislative e sociali) che si adottano per alterare deliberatamente la composizione del ➔ repertorio linguistico di una comunità; è anche lo studio teorico di tali processi, eventualmente al di là della loro applicazione nelle situazioni reali (Dell’Aquila & Iannàccaro 2004). Mentre l’insieme di questi provvedimenti – che comprende azioni legislative, amministrative, scolastiche e delegate alla società civile – viene preso da una società nel suo complesso ed è spesso l’attuazione effettiva di una serie di politiche linguistiche (➔ politica linguistica), lo studio delle misure che potrebbero di volta in volta essere intraprese per conseguire un certo risultato è compito principalmente del linguista.
L’espressione pianificazione linguistica ha una duplice accezione, speculativa e applicata: intesa come riflessione scientifica, la pianificazione linguistica si pone come parte della sociologia del linguaggio, della sociolinguistica e della linguistica del contatto, configurandosi in particolare come lo studio dei rapporti fra la situazione linguistica di una lingua e la sua situazione sociolinguistica; tuttavia concernono la pianificazione linguistica anche le azioni linguistiche, politiche o legislative effettivamente intraprese per incentivare o scoraggiare l’uso di una o più lingue. L’uno o l’altro senso dell’espressione è di solito chiarito dal contesto.
La pianificazione linguistica è di per sé uno strumento neutro: può essere rivolta ad aumentare il tasso di plurilinguismo di una comunità, tramite il sostegno o l’incremento delle risorse linguistiche, delle possibilità e dell’appetibilità di uso di una specifica lingua, se contemporaneamente non si cerca di limitare la compresenza di altri codici; può anche però tendere a mantenere stabile o ridurre il plurilinguismo di una comunità, se è diretta al tentativo di sostituzione di un codice con un altro o all’ulteriore rafforzamento e penetrazione di una lingua già forte nella società. Esplicite operazioni di proscrizione linguistica sono in genere esito di politiche linguistiche globali (➔ fascismo, lingua del), più che di specifiche iniziative di pianificazione.
Il caso di gran lunga più frequente nelle situazioni italiane, e l’unico studiato ed esplicitamente praticato in Italia, è il primo. Esperienze di sostituzione di lingua sono da vedersi, oltre che in un certo numero di casi africani o asiatici – si pensi per es. al Tibet, dove il tibetano non è ufficialmente proscritto, ma è palese il suo tentativo di sostituzione con il cinese –, anche in Europa nelle attività di pianificazione linguistica della Generalitat di Catalogna, che tende ad accantonare il castigliano in favore del catalano. È invece difficile trovare attualmente nel mondo lingue il cui uso sia vietato da leggi e regolamenti; ma questa è una situazione recentissima.
Ancora pochi anni fa, ad es., la Costituzione turca del 1982 (in ciò emendata nel 2001) comprendeva diversi articoli di esplicita proibizione linguistica: «nessuna lingua proibita dalla legge può essere usata per esprimere o diffondere opinioni» (art. 26); «nulla può essere pubblicato in una lingua proibita dalla legge» (art. 28); «nessuna lingua al di fuori del turco può essere insegnata ai cittadini turchi, o utilizzata come lingua materna nell’educazione» (art. 42).
L’ambito di competenza della pianificazione linguistica è, come accennato, prevalentemente quello della tutela e della rivitalizzazione o rafforzamento di lingue meno favorite, come le lingue di minoranza (➔ minoranze linguistiche) o le lingue indigene della popolazione in stati in cui la lingua ufficiale sia una grande lingua di colonizzazione (inglese, francese, spagnolo e così via).
In questa accezione la pianificazione linguistica è, nella sua applicazione pratica come nella sua riflessione scientifica, un’operazione diretta alla facilitazione della vita linguistica dei parlanti e della comunità. Ha cioè il compito di adeguare dal punto di vista linguistico le varietà che di volta in volta sono riconosciute come oggetto di tutela, perché possano ricoprire le funzioni di lingua scritta, amministrativa e ufficiale cui sono chiamate; ma anche e forse soprattutto di pianificare questo cambiamento rispettando le esigenze concrete dei parlanti e sapendo adattare le istanze teoriche alle singole realtà locali.
Sul piano operativo, è consueta una suddivisione interna della pianificazione linguistica in corpus planning («pianificazione del corpus») e status planning («pianificazione dello status»), che riflette la distinzione fra «lingua come struttura» e «lingua come uso» (Kloss 1952). Si intende con la prima espressione il lavoro sulla lingua in quanto tale, ossia la codificazione ortografica, fonetica, morfologica, sintattica, lessicale che può parere necessaria perché una lingua possa acquisire i mezzi per far fronte alle funzioni cui è destinata (o si vuole destinarla). Con status planning ci si riferisce invece all’insieme dell’apparato normativo e legislativo che assicura il supporto alla lingua, così come a tutte quelle operazioni di promozione sociale volte ad aumentarne o a consolidarne il prestigio. Queste ultime operazioni sono raccolte sotto la denominazione di acquisition planning («pianificazione dell’acquisizione»; Cooper 1989), che comprende anche l’eventuale introduzione nelle scuole della lingua oggetto di tutela, e le misure che possono facilitare la sua penetrazione all’interno della società civile e l’accettazione del plurilinguismo da parte dell’intera comunità.
È spesso considerato necessario intervenire sui rapporti di forza fra le lingue compresenti nello stesso territorio, o sulla forma interna di una lingua per rivitalizzarla e modernizzarla, anche solo per non alterare la situazione de facto esistente: le lingue oggetto di pianificazione linguistica sono generalmente più deboli, spesso in minoranza sul territorio e perciò particolarmente soggette a perdere funzioni e uso a favore di quelle dominanti nell’area, in un processo di «deriva linguistica» (Fishman 1991 e 2001). Invertire la deriva linguistica (reversing language shift) è spesso una delle più importanti operazioni di pianificazione linguistica; e questo processo, articolato in studi e interventi diversi, prevede il coinvolgimento attivo della comunità parlante, oltre a una serie di operazioni anche apparentemente controintuitive.
Fishman individua otto stadi, ordinati in base alla gravità della situazione nella quale si trova la lingua debole (cfr. tab. 1).
Come si vede sembra necessario anzitutto, per quelle situazioni che già non la presentassero – e sono, almeno in Italia, la maggioranza – acquisire una solida diglossia (➔ bilinguismo e diglossia), che solo in un secondo momento può eventualmente essere superata. Il passaggio fondamentale è il n. 6, quello in cui è assicurata la trasmissione intergenerazionale della lingua fra i parlanti. Questo comporta, per es., che l’ufficializzazione esterna della lingua di minoranza, e soprattutto il suo ingresso nella scuola possono (e talora debbono) essere posposti fino a stadi relativamente tardivi; e ciò va contro lo spontaneo sentire delle comunità di minoranza e spesso degli amministratori. Scuola e pubblica amministrazione, d’altra parte, sono mezzi assai importanti per incrementare il prestigio della lingua: la dialettica fra le due esigenze diverse mostra come lo studio scientifico della pianificazione linguistica deve potersi adattare alle differenti situazioni concrete nelle quali si opera.
Informazioni dettagliate sulla situazione delle singole ➔ minoranze linguistiche si trovano nelle voci specifiche loro dedicate; qui si offre una breve tassonomia delle questioni principali.
La ➔ legislazione linguistica in Italia si articola su tre livelli: la Costituzione, l’apparato legislativo comune e le leggi e i regolamenti regionali o provinciali. La Costituzione si occupa di questioni linguistiche all’art. 3 e all’art. 6 («La legge tutela con apposite norme le minoranze linguistiche»). Da questi cardini, e da una serie di accordi internazionali, discendono, già dal dopoguerra, le legislazioni ordinarie relative alle lingue delle cosiddette minoranze nazionali: francese in Valle d’Aosta, tedesco in provincia di Bolzano e sloveno nelle province di Gorizia e Udine.
Viene però soprattutto dall’art. 6 della Costituzione la legge del 15 dicembre 1999 n. 482, che istituisce la protezione di una serie di lingue di minoranza (art. 2: «la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo») (Dal Negro 2000; Orioles 20032; Dutto 2006). Oltre a ciò, numerose regioni italiane si sono dotate di proprie leggi di tutela e valorizzazione delle alloglossie interne. Il dibattito legislativo si incentra su una serie di possibili inclusioni di altre varietà nel novero di quelle tutelate, fra cui quelle delle lingue delle minoranze non territoriali (rom e sinti; ➔ zingare, comunità) e delle nuove minoranze derivate dall’immigrazione.
La standardizzazione dei codici riconosciuti dalla legge 482/99 è assai varia. Molte minoranze hanno come lingua ‘tetto’ una lingua internazionale dotata di norma standard ufficiale: questa è talora accettata come standard dalle minoranze in territorio italiano (francese, tedesco in Alto Adige, sloveno nella Venezia Giulia, catalano); in altri casi la lingua standard esterna non è sentita come propria dalla minoranza, che preferisce avvalersi di sue forme locali (comunità germanofone fuori dall’Alto Adige, sloveni della provincia di Udine, parlanti albanese, greco, croato).
Ci sono poi comunità prive di lingua tetto internazionale: in questi casi le soluzioni adottate sono molteplici e variamente problematiche. I ladini e i sardi (e in parte i friulani) hanno tentato la strada della creazione di una propria varietà di lingua amministrativa ad hoc, di diversa (anche se generalmente non ampia) accettazione da parte delle popolazioni e delle amministrazioni locali. Altre minoranze, e fra queste quelle che rifiutano lo standard esterno, procedono affidandosi a norme molto locali, talora in contraddizione fra un paese e l’altro della stessa comunità; oppure non hanno adottato per il momento alcuna norma (per una disamina dei problemi che si pongono cfr. Dell’Aquila & Iannàccaro 2004).
Anche in questo caso le tipologie sul territorio sono molto differenti: le minoranze nazionali già tutelate prima della legge 482/99 hanno in genere un sistema scolastico che prevede l’insegnamento bilingue (con totale autonomia della scuola tedesca nella provincia di Bolzano, dove opera anche una scuola ladina) e una certa presenza della lingua tutelata nei mezzi di informazione (per es., nella RAI regionale); spesso dispongono di giornali e pubblicazioni nella lingua e di istituti culturali appositamente preposti, fra gli altri compiti, alla tutela linguistica.
Altrove la penetrazione della lingua di minoranza nella società civile è molto varia, così come lo sono le condizioni dell’insegnamento scolastico della e nella lingua; per quest’ultimo punto, il Ministero dell’Istruzione ha predisposto nel 2009 un’inchiesta conoscitiva sulle condizioni del plurilinguismo scolastico dopo dieci anni di applicazione della legge 482/99 (Iannàccaro 2010).
Cooper, Richard L. (1989), Language planning and social change, Cambridge, Cambridge University Press.
Dal Negro, Silvia (2000), Il DDL 3366 - “Norme in materia delle minoranze linguistiche storiche”: qualche commento da (socio)linguista, «Linguistica e filologia» 12, pp. 91-105.
Dell’Aquila, Vittorio & Iannàccaro, Gabriele (2004), La pianificazione linguistica. Lingue, società e istituzioni, Roma, Carocci.
Dutto, Mario G. (a cura di) (2006), Le minoranze linguistiche in Italia nella prospettiva dell’educazione plurilingue. La legge 482/99 sulle minoranze nel settore scolastico, «Annali dell’Istruzione» 5-6.
Fishman, Joshua A. (1991), Reversing language shift. Theoretical and empirical foundations of assistance to threatened languages, Clevedon, Multilingual Matters.
Fishman, Joshua A. (edited by) (2001), Can threatened languages be saved? Reversing language shift, revisited. A 21st century perspective, Clevedon, Multilingual Matters.
Iannàccaro, Gabriele (2010), Lingue di minoranza e scuola. A dieci anni dalla legge 482/99. Il plurilinguismo scolastico nelle comunità di minoranza della Repubblica Italiana, Roma, MIUR.
Kloss, Heinz (1952), Die Entwicklung neuer germanischer Kultursprachen seit 1800, München, Pohl (2a ed. Düsseldorf, Schwann, 1978).
Orioles, Vincenzo (a cura di) (2002), La legislazione nazionale sulle minoranze linguistiche. Problemi, applicazioni, prospettive. In ricordo di Giuseppe Francescato. Atti del Convegno di studi (Udine, 30 novembre - 1° dicembre 2001), Udine, Forum.