PIANOFORTE
. Da una fusione del clavicembalo, strumento a pizzico, col clavicordo, strumento a tocco, nacque il pianoforte, l'invenzione del quale è dovuta a Bartolomeo Cristofori (v.), nato a Padova, ma vissuto lungamente e morto a Firenze, dove era addetto alla corte medicea presso Cosimo III e, più specialmente, presso il figlio di lui, Ferdinando, che al Cristofori aveva affidato la custodia, la manutenzione e il restauro della sua ricca collezione di strumenti musicali, oggi, in parte, passata al Museo del R. Conservatorio di Firenze.
L'invenzione del Cristofori, intorno alla quale scrisse per primo Scipione Maffei nel Giornale dei letterati del 1711, risale a varî anni prima. Già lo scrittore veronese afferma in quel suo scritto di avere trovato presso il Cristofori ben tre pianoforti, evidentemente costruiti prima della sua venuta a Firenze nel 1711: onde il Pulibi opinò che l'invenzione dovesse datarsi almeno dal 1709. Ma questa data, con tutta probabilità, va ancora arretrata al 1702, poiché un pianoforte recante tale data e lo stemma mediceo del principe Ferdinando si trova oggi ad Ann Arbor nel Museo dell'università del Michigan.
Ad ogni modo e anche se si volesse partire dal 1711, l'invenzione del Cristofori precede d'assai i tentativi del francese Marius che presentò all'Accademia di Francia i disegni del suo strumento nel 1716 e quelli del tedesco Schröter che presentò i suoi modelli alla corte di Sassonia nel 1721, donde la priorità del Cristofori rimane indiscutibilmente accertata.
Tale invenzione, che trasformava lo strumento a pizzico in strumento a tocco e ne graduava le sonorità, mettendolo così in condizione di meglio corrispondere alle varie esigenze dell'arte musicale avviata a nuovi orientamenti, consisteva sostanzialmente nella sostituzione ai salterelli che nel clavicembalo pizzicavano le corde di sotto in su, di certi martelletti che le percotevano e rendevano possibile, oltre che una maggiore intensità, una graduazione dei suoni: questi infatti, secondo il maggiore o minore impulso dato ai martelletti per mezzo dei tasti potevano risultare piano o forte: onde la denominazione data dal Cristofori al nuovo strumento, di clavicembalo col piano e forte, da cui per brevità quella di pianoforte o anche di forte-piano, come nei primi tempi si disse.
Nel meccanismo Cristofori i martelletti non erano attaccati all'estremità interna del tasto, anzi ne erano indipendenti. Il tasto che, abbassandosi esternamente sotto la pressione del dito si alzava nella sua parte interna, aveva su questa una leva a bilancia con due movimenti, uno anteriore e uno posteriore; onde alzandosi da un lato, questa leva incontrava il martelletto e lo spingeva alle corde, abbassandosi dall'altro faceva calare lo smorzatore che vi era attaccato, rimanendo così libere le corde per poter vibrare al colpo del martelletto. Cessata l'azione del tasto, avveniva naturalmente il contrario: il martelletto ricadeva sopra sé stesso e, invece, lo smorzatore tornava in su, raggiungendo le corde e facendone cessare l'oscillazione. Non mancò il Cristofori di avvertire il pericolo che il martelletto, raggiunta e percossa la corda, potesse per qualche momento fermarvisi e quindi ostacolare la vibrazione: e per ovviare a tale possibile inconveniente lo munì di una molla a spirale che lo facesse immediatamente ricadere e che si chiamò scappamento. Si può dire che, pur essendosi più tardi introdotti nella costruzione dello strumento mutamenti e miglioramenti molteplici, questo del Cristofori rimane ancora il principio fondamentale su cui s'impernia il meccanismo del pianoforte moderno. D'altra parte, non pochi miglioramenti vi furono subito arrecati dal Cristofori stesso, come dimostrano alcuni dei pianoforti da lui successivamente costruiti e tuttora esistenti, quali quello costruito nel 1720 e quello del 1726, posseduto ora, l'uno dal Metropolitan Museum di New-York (era già appartenuto alla signora Mocenni-Martelli), e l'altro dal Museo Kraus di Firenze. Anzi, secondo una comunicazione fatta da Alessandro Kraus figlio al Congresso internazionale di musica svoltosi a Roma nel 1911, il Cristofori avrebbe già intravveduto e in parte anche applicato il sistema dello spostamento della tastiera, in virtù del quale il martelletto percoteva una o due corde sole, come accade oggi quando si adopera, sui pianoforti a coda, il pedale del piano.
Come suole quasi sempre accadere d'ogni novità, l'invenzione del Cristofori non ebbe da principio buona fortuna. Anzi il nuovo strumento fu fatto segno ad acerbe censure e il Voltaire, in una sua lettera dell'8 dicembre 1774, affermava "qu'un pianoforte n'était qu'un instrument de chaudronnier, en comparaison du majestueux clavecin". Il vecchio cembalaro, sconfortato e deluso, rimasto anche, per la morte del principe Ferdinando, privo del suo maggior protettore, tornò a costruire spinette e clavicembali. Pertanto egli ebbe alcuni allievi che continuarono l'opera sua, quali Geronimo da Firenze, Gherardo da Padova e, soprattutto, quel Giovanni Ferrini che costruì il famoso pianoforte (poi acquistato da Elisabetta Farnese regina di Spagna) da lui legato al celebre cantante Carlo Moschi, noto sotto il nome di Farinelli.
Emigrata ben presto dal paese d'origine, l'invenzione italiana doveva recare a costruttori stranieri, che variamente la perfezionarono, quei guadagni che erano mancati all'inventore e ai suoi primi seguaci. In Germania, dopo il ricordato Schröter, si diede all'arte del costruire pianoforti Goffredo Silbermann di Friburgo, che tentò anch'egli di passare per inventore dello strumento, mentre si sa che conobbe lo scritto di Scipione Maffei, che era stato tradotto in tedesco da Johann Ulrich König e pubblicato nel primo giornale musicale uscito in Germania verso il 1732. Ad ogni modo il Silbermann, oltre ad avere, specie per suggerimento di J. S. Bach (per il quale fabbricò un pianoforte che ora si trova al Museo di Potsdam), introdotto nella costruzione dei suoi strumenti miglioramenti notevoli, ebbe l'idea di fondarne la prima fabbrica con molti operai, il che permise la produzione di numerosi strumenti, ciò che non avevano potuto fare costruttori isolati, quali il Cristofori ed i suoi allievi. Il Silbermann inoltre ebbe a coadiutori il proprio nipote Johann Heinrich di Strasburgo, e suoi allievi, tra i quali J. Zumpe che, trasferitosi in Inghilterra, diede origine a quel sistema di costruzione che si chiamò meccanismo inglese e Andreas Stein che, insieme col genero Andreas Streicher di Vienna, adottò quel sistema che va sotto il nome di meccanismo di Vienna in cui il martelletto è attaccato all'estremità interna del tasto. Lo Streicher poi si valse d'un meccanismo che fu imitato a Parigi dal Pupe, ma che fu poi abbandonato, tornandosi al sistema Cristofori. Oltre settecento pianoforti uscirono dalla fabbrica dello Stein, tra i quali quello su cui suonò W. A. Mozart quando, passando per Augusta nel 1774, poté avere per la prima volta contezza del nuovo strumento.
Tutti i pianoforti costruiti dai fabbricanti fin qui nominati erano a coda. A un altro italiano, rimasto fino a non molti anni fa sconosciuto, spetta l'ideazione e la fattura del primo pianoforte verticale, a Domenico Del Mela, prete e maestro elementare a Fogliano nel Mugello, che ne costruì uno nel 1739. Quest'unico esemplare, rimasto presso la famiglia Del Mela e ridotto in pessimo stato, si trova attualmente nel Museo del R. Conservatorio musicale di Firenze. Oltre sessant'anni dopo che il Del Mela aveva costruito questo pianoforte, passò per inventore della forma verticale (e ne prese il brevetto) l'americano Hawkins. Altre forme di pianoforte si tentarono, come quella del pianoforte quadrato, o a tavolino, dovuto al costruttore Federici o come quella del pianoforte a due tastiere, una di fronte all'altra, nuovamente tentata dalla casa Pleyel; ma non attecchirono, onde rimasero in uso le sole due forme del pianoforte a coda e del pianoforte verticale.
Importanti miglioramenti e perfezionamenti e innovazioni nella costruzione del pianoforte furono poi introdotti dalla casa Erard di Parigi, la quale data dalla fine del Settecento, cioè da quando il tedesco Sebastian Erhardt di Strasburgo si trasferì a Parigi, diede forma francese al suo cognome e, insieme col fratello Johann, impiantò una fabbrica celebratissima che esiste tuttora. Oltre ad avere ottenuto negli strumenti da essi fabbricati una maggiore intensità e, soprattutto, una maggior dolcezza e limpidezza di suono, i fratelli Erard, coadiuvati dall'italiano Paolo Morellato, applicarono ai martelletti il doppio scappamento e, stando a quanto essi stessi affermano in una memoria storica sulla loro casa, introdussero nel pianoforte i pedali.
Il doppio scappamento consiste in una molla che, facendo rimbalzare il martelletto prima che sia interamente ricaduto sopra sé stesso, fa ch'esso rimanga, per così dire, a mezz'aria e quindi più vicino alle corde. Per conseguenza, da un lato viene notevolmente ad alleggerirsi la tastiera, richiedendosi invece sforzo sulle dita per muovere il martelletto già vicino alle corde, dall'altro, si rende possibile la veloce esecuzione delle note ribattute, mentre non si potrebbe imprimere loro la voluta rapidità se il martelletto dovesse percorrere un lungo tratto prima di giungere a percuotere le corde.
Quanto ai pedali, di cui gli Erard si attribuiscono l'introduzione, datandola dal 1780, si può credere che essi li abbiano introdotti nella forma, nel numero e con i sistemi attuali, poichè è noto che già si era trovato di sostituirli ai registri in uso negli strumenti a becco di penna e che erano, anzi, molteplici.
Altre rinomate fabbriche francesi di pianoforti furono o sono le Elké, Reisselot, ora cessate, quella fondata da Camille Pleyel, fabbrica divenuta poi Pleyel-Wolff, poi ancora Pleyel-Lyon e tuttora esistente, la Gaveau, anch'essa in attività, e altre.
Larghissima reputazione conseguirono poi, e anche oggi conservano, molte tra le case costruttrici sorte in Germania posteriormente a quella del Silbermann.
Una delle più antiche e delle più famose è la Schiedmayer di Stoccarda che data dal 1807 e che più tardi si divise in due: Schiedmayer-Fabrik e Schiedmayer und Söhne. I pianoforti ch'essa ha prodotto e continua a produrre, tanto a coda quanto verticali, sono molto apprezzati per la robustezza del suono e per la resistenza.
Vanno poi ricordate, fra le più pregevoli fabbriche tedesche di pianoforti, vecchie e recenti, la Herz (a capo della quale fu, in principio, il celebre pianista-compositore Heinrich Herz) e le Blüthner, Kaps, Rönisch, Otto, Lipp, Hardt, Ibach, Steingräber, Sponnagel, Förster, Neumayer, Hoff, Schwechter, Seiler, Grotrian-Steinweg, Bechstein, quest'ultima celeberrima oggi fra tutte. Né vanno dimenticate le fabbriche austriache Hofbauer, Heitzmann e Bösendorfer.
Per l'Inghilterra, dove dopo quella dello Zumpe fiorì la fabbrica del Backers, costruttore rinomatissimo, che poi trasmise il suo sistema al proprio genero Broadwood, vanno più specialmente citate, innanzi tutto la casa fondata dal detto Broadwood, tenuta per una delle migliori e produttrice di migliaia di strumenti apprezzatissimi, la casa Stodart, la casa Collard, della quale fu socio Muzio Clementi e, tra le più recenti, le case Chappel, Brinsmead, Hopkinson. In Inghilterra ebbero una loro filiale anche gli Erard. E si ricordano, a titolo di curiosità, quel Wad e quel Bleyer che, al principio del sec. XIX, costruirono rispettivamente i pianoforti-piramidi e i pianoforti-giraffe.
Particolare sviluppo prese in tempi recenti l'arte del costruire pianoforti in America, dove i fabbricanti mirarono con senso pratico, ad aumentare, oltre che la sonorità, la resistenza e la durata dei loro strumenti, specie col sostituire all'intelaiatura di legno quella d'acciaio. Oltre alle fabbriche Hamlin, Chikering, Knabe, Baldwin e ad altre, è celebratissima oggi, tra le americane, la casa Steinway, fondata veramente dal tedesco Heinrich Steinweg e dai suoi figli Heinrich, Karl, Albrecht e Wilhelm, coadiuvati poi dall'altro fratello Theodor, quando questi da Brunswik si trasferì a New York. I pianoforti Steinway sono di gran formato, resistenti anche al variare della temperatura e per la potenza e bellezza del suono vengono usati (come i Bechstein) specie per i concerti nei teatri o in altri vasti locali e quando il pianista suoni con accompagnamento d'orchestra. Pur dovendo riconoscere che l'Italia, cui se ne deve l'invenzione, non ha poi raggiunto nella costruzione del pianoforte la rinomanza conseguita da fabbriche di altre nazioni, non si possono omettere i nomi di varie case costruttrici che hanno sostenuto e, specialmente oggi, sostengono con onore la concorrenza di quelle straniere. Ed anzi a questo proposito si deve aggiungere che alcune di esse nulla hanno da invidiare a molte d'oltralpe, tanto è vero che talora si fanno passare sotto etichetta straniera pianoforti costruiti in Italia.
Vanno pertanto ricordate fra le maggiori fabbriche italiane di pianoforti, quelle torinesi, ora cessate, dell'Aymonino (poi M. Levi successore), del Colombo, della F. I. P. e quelle del Miola, del Roeseter, del Berra, del Piatino; quella padovana del Lachini, quella vicentina del Maltarelli e quella fiorentina di Brizzi e Niccolai, ora pur esse cessate; quella napoletana del De Meghi, quella cremonese dell'Anelli, la Schultz e Pollmann di Bolzano ecc.
Le parti che costituiscono il pianoforte moderno sono molteplici: ricordiamone le principalissime.
La cassa, cioè il mobile, che comprende il fondo, il coperchio, le fasce, le gambe e, nei pianoforti verticali, il cancello.
La tavola armonica e le sbarre che la sostengono e che la collegano alla cassa.
Le corde che sono attorcigliate ai piroli confissi nel pancone e che sono disposte orizzontalmente (quindi quasi perpendicolarmente alla tastiera) nei pianoforti a coda e verticalmente in quelli verticali: questi ultimi però sono spesso anche a corde oblique o a corde incrociate, disposizione che serve ad aumentare la sonorità dello strumento senza aumentarne le dimensioni. Le corde, che in tempi passati erano di ferro o anche di ottone, si fanno oggi di acciaio, e quelle delle note basse sono fasciate di rame: esse sono uniche di fronte a ogni tasto nelle note basse, duplici nelle centrali e triple nelle acute.
La meccanica, che comprende i martelletti e gli smorzatori, gli uni e gli altri con le capocchie infeltrate, e i primi più o meno complicati secondo i diversi sistemi, ma sempre muniti dello scappamento: naturalmente i martelletti e gli smorzatori hanno moto contemporaneo ed inverso: di su e giù e viceversa sui pianoforti a coda, di avanti e indietro e viceversa in quelli verticali. Dalla maggiore o minore bontà della meccanica e specialmente dalla infeltratura e impellatura dei martelletti dipende in buona parte l'effetto del tocco delle dita sui tasti.
La tastiera, che comprende i tasti bianchi, d'osso o d'avorio, e quelli neri, di ebano o di legno tinto (il profano spesso crede gli uni servire alle note naturali e gli altri alle alterate, ma ciò non è esatto, chè, ad esempio, in tono di sol bem. accade precisamente il contrario). L'accordatura dei tasti neri si effettua secondo il sistema temperato, cioè non tenendo conto della differenza che, nella scala acustica o naturale, intercede tra il numero di vibrazioni della corda producenti un diesis e quello delle vibrazioni producenti un bemolle: onde si adopera un'accordatura intermedia, dividendo la scala in dodici semitoni uguali, sì che il semitono valga da semitono diatonico e da due semitoni cromatici e che il tasto nero serva tanto da diesis per la nota inferiore quanto da bemolle per quella superiore. L'estensione normale della tastiera è di sette ottave da la a la, ma spesso contiene due note acute in più, onde i tasti bianchi sono 50 o 52, i neri 35 o 36.
I pedali, che abitualmente sono due, impropriamente chiamati del forte e del piano: impropriamente, s'è detto, sia perché certi passi debbono essere eseguiti senza pedale e altri col pedale, sia perché la graduazione della sonorità si può ottenere anche secondo il tipo di tocco che il dito dà al tasto e sia perché i pedali, oltre allo scopo di aumentare o diminuire la sonorità, hanno soprattutto quello di legare e di fondere i suoni, tanto che possono adoperarsi anche contemporaneamente. Il pedale detto del forte, che si trova a destra, agisce nello stesso modo tanto nei pianoforti a coda quanto in quelli verticali. Esso funziona con l'allontanare contemporaneamente dalla cordiera tutti quanti gli smorzatori; per modo che, da un lato, le corde restano libere e continuano a vibrare, dall'altro si destano, per simpatia, quei suoni armonici o concomitanti che sempre accompagnano i suoni principali e che, a questi associandosi, ne accrescono e ne prolungano la risonanza. Il pedale detto del piano, che si trova a sinistra, può venire costruito con sistemi diversi e funziona in differente modo nei pianoforti a coda e in quelli verticali. Nei primi si adopera abitualmente il cosiddetto pedale unicordo, il quale sposta la tastiera da sinistra a destra e quindi fa sì che i martelletti percuotano quasi sempre due e talora una sola delle corde nelle note centrali e acute e parte dell'unica grossa corda nelle note basse. Da ciò la maggiore debolezza di suono che si ottiene con l'applicazione di questo pedale, l'uso del quale spesso s'indica nella musica con la didascalia: "una corda". Nei pianoforti verticali, cui più raramente si applica il pedale unicordo, fu per qualche tempo in uso il cosiddetto pedale celeste che interponeva fra i martelletti e le corde una benda di feltro, per modo da farli battere su questa invece che sulle corde, onde l'attutimento del suono. Questo sistema peraltro è oggi pressoché abbandonato e rimane soltanto per la cosiddetta sordina che, mossa o da un terzo pedale o da un bottone posto sul lato sinistro del mobile presso le note basse della tastiera, affievolisce il suono al massimo grado, onde si adopera allo scopo di poter fare lunghi esercizî quasi silenziosamente. Il sistema oggi più comunemente usato per l'attutimento dei suoni nei pianoforti verticali è quello del pedale detto a ravvicinamento che, accostando in precedenza i martelletti alle corde, diminuisce la loro corsa e quindi la forza della percussione. In alcuni pianoforti un terzo pedale, detto pedale tonale, serve a prolungare la durata di singoli suoni, col tenere sollevati i rispettivi smorzatori.
Posto che l'introduzione dei pedali nella loro forma attuale dati dal 1780, ne consegue che tutti i pianisti compositori morti prima di quell'anno non li conobbero: che alcuni, quali il Haydn, il Mozart, il Clementi, D. Steibelt, I. L. Dussek (Dusík) ed altri n'ebbero conoscenza soltanto negli ultimi anni della loro vita e poterono per conseguenza adoperarli nelle ultime opere loro; che dal Beethoven in poi i pedali furono conosciuti e adoperati da tutti. Da questa osservazione (senza entrare qui a discutere le diverse opinioni dei pianisti e dei musicologi sul fare o no uso dei pedali in opere scritte quando non erano ancora stati inventati) potrà lo studioso trarre utili conseguenze, per lo meno intorno o alla totale esclusione o ad una moderata e ragionevole applicazione dei pedali secondo le epoche e secondo le opere dei varî scrittori. Certo è che, anche dopo la loro introduzione, i pedali furono per un certo tempo adoperati con ogni parsimonia e più che altro a scopi puramente artistici. Più tardi i veri e proprî "virtuosi" del pianoforte, quali il Liszt, S. Thalberg, ecc., miranti ad effetti particolarmente acustici, ne spinsero l'uso fino al limite estremo.
Pianoforti meccanici. - A rendere possibile l'esecuzione di musiche pianistiche anche ai non musicisti o a quanti di tecnica pianistica non siano esperti, vengono da qualche tempo introdotti nell'uso strumenti dotati di congegni atti alla meccanica riproduzione dell'intero disegno sonoro: tali, per es., gli strumenti noti sotto i nomi di pianola o di autopiano. Questi congegni hanno in comune il sistema delle registrazioni del disegno in un corrispondente - se pur naturalmente diverso - arabesco praticato sulla superficie d'una striscia che un rullo fa girare in contatto con gli agenti della produzione sonora. In alcuni strumenti, p. es. negli autopiani, è affidata all'"esecutore" la variazione dei coloriti e del movimento. Oltre a questi strumenti sono in uso da qualche tempo anche strumenti che registrano, con mezzi analoghi, l'esecuzione di questo o quell'interprete, offrendo così ai musicisti e musicologi, documenti d'importanza non dubbia.
Tendenze storiche della scrittura pianistica.
Il transito dall'arte clavicembalistica alla pianistica non si compie d'un tratto ma anzi durante un'evoluzione abbastanza lenta. La comparsa del nuovo strumento produsse infatti un'impressione notevole tra i musicisti d'ogni paese, ma dal 1711 (presentazione del pianoforte di B. Cristofori) fino al tardo sec. XVIII non si può dire che i varî strumenti a corda e tastiera, e tra questi il clavicembalo, siano stati posti in seconda linea, chè anzi proprio ad essi è destinata la produzione dei più grandi maestri del tempo da D. Scarlatti a F. Couperin il Grande, da J. Ph. Rameau a J. S. Bach, da G. Platti alla vecchiezza di J. Haydn e alla maturità di W. A. Mozart.
Al suo primo apparire, il clavicembalo "col piano e col forte" non ebbe un'utilità di molto superiore a quella indicata da tale denominazione che appunto allora gli fu data. Ora è interessante notare come questi pregi non fossero immediatamente percepiti come decisivi. Se, infatti, si esamina la produzione musicale dall'ultimo Seicento al primo Settecento, ci si avvede del carattere polifonico della sua corrente centrale. Quel che conta, nella scrittura del tempo, è specialmente il complesso del discorso contrappuntistico, il quale si avvantaggia, anziché deprimersi, in un regime d'uguaglianza di piano sonoro. Se si consideri, p. es., l'effetto d'una fuga, si riconoscerà come un crescendo o un diminuendo non vi siano meno pericolosi - ai fini della chiara percezione dell'intreccio polifonico - d'una qualunque mutazione di movimento: accelerando, p. es., o ritardando, ecc. Le quali mutazioni, e non soltanto queste ultime, ma anche le prime, possono certo essere praticate ora - e lo sono spesso - unicamente in quanto l'arte settecentesca è da noi inconsapevolmente interpretata secondo un vasto e profondo sviluppo storico, ad essa posteriore. Ma ancora alla metà dell'Ottocento, la massa dei dilettanti di musica considerava la fuga come forma estinta, come quella cui fosse preclusa ogni risorsa "espressiva" (si badi all'accezione romantica di tale concetto) dalla carenza - appunto - di coloriti (crescendo e diminuendo, accelerando e ritardando, rubato, marcato) e perfino di pause; carenza che non doveva essere assoluta ma che - per contrasto con il dilagare dei coloriti e degli effetti dinamici - tale poteva anche apparire.
Ora, verso la metà del Settecento, la produzione musicale comincia a sentire viva la spinta verso un dialogare di voci che - allontanandosi sempre più dal dialogare polivocale a cappella - diventava un dialogare assai libero. Ed ecco la linea melodica, e - di necessità - i coloriti e tutti i varî dinamismi assumere forza d'imperio; i violinisti naturalmente sono già su questa strada da tempo, mentre i clavicembalisti si sforzano di tenere loro dietro, e cercano di cantare, con varî ingegni ed espedienti: primo tra tutti la "coloritura", cioè l'ornamentazione, ove si diminuisce il valore della figura fino a che la corda pizzicata possa ancora vibrare. Meno polifonici, i Francesi debbono già da anni iperbolizzare tale efflorescenza di agréments, mentre Italiani e Tedeschi, affidandosi gli uni specialmente all'incisività della frase o al rapido movimento del pezzo, gli altri scavando in profondità l'accordo e la concatenazione delle armonie e ancora subendo l'influsso dell'organistica, possono a tali ornamentazioni concedere licenza assai minore. Decisivo diviene ora il documento dato dallo stile "galante", assorbito per un certo tempo in Francia dal giovane Mozart, e dall'Allegro cantante degli Italiani, dallo stesso Mozart ben presto assimilato. J. Christian Bach, M. Haydn, J. Haydn stesso, J. Schobert, gli ultimi cembalisti d'Italia, B. Galuppi tra gli altri, vogliono cantare per mezzo delle corde come i violinisti ed anzi come i cantanti di teatro: il grande J. Haydn si abbandona spesso al basso albertino, come un qualunque dilettante, e concentra ogni sua virtù nel fraseggio melodico "della mano destra". W. A. Mozart, anche più ispirato melodista, già raggiunge in tale fraseggio una pregnanza lirica che lo persuade a rinunziare perfino in regime clavicembalistico al sostegno delle fioriture, come si vede negli Adagi delle sue sonate, nel confronto con quelli, pur preziosissimi ma comunque assai "lavorati", del Haydn. E del resto ambedue questi maestri compongono le loro opere più tarde non più per il clavicembalo ma per il pianoforte, che - chiamato da tante esigenze concordi - ora appunto assurge in primo piano tra gli strumenti a corda e tastiera. Primo esponente della scrittura per il nuovo strumento, il fondatore della scuola pianistica non soltanto d'Italia ma di tutta l'Europa: Muzio Clementi. Nella cui scrittura avvertiamo per caratteri evidenti il mutato regime: il suono pieno, rotondo, vigoroso d'ogni nota, il "legato" contrapposto allo "staccato" anche nel particolare, e in senso orizzontale; la minore frequenza dell'ornamentazione, l'effetto d'una rilevante varietà di coloriti, sono tutti elementi necessarî all'esplicazione materiale di questa musica. Ecco dunque già disegnata fin dall'inizio, sia pure nelle sue linee maestre, la figura del nuovo strumento d'espressione musicale, nel quale - se vogliamo ancora porre confronti con gli strumenti anteriori - troviamo riuniti tra l'altro, caratteri che erano stati proprî del clavicembalo: rilievo e luminosità di metallo, attitudine al giuoco di movimenti agili e leggieri, insieme con altri che il clavicembalo non aveva posseduto e che avevano reso cara la pratica del clavicordo, principale tra tutti la persistenza del suono.
E infatti la scrittura tiene già conto presso il Clementi e s'avvia subito con il Beethoven a far tesoro delle nuove possibilità strumentali. Le prime idee delle sonate subito affermano nel pianoforte quel loro carattere d'incisiva potenza, pregna di slancio ritmico, che dall'orchestra mal poteva passare al clavicembalo e peggio al clavicordo; le seconde trovano l'intensità di volume sonoro, sufficiente, anche nel p. (piano) cui il loro carattere "cantabile" s'affida; il dialogo si scioglie in nuovo agio di movimenti, cui fin nella singola nota, sia pur "di passaggio", è data la possibilità di appropriate gradazioni foniche, tanto nell'intensità quanto nel timbro; gruppi cadenzali, code, ecc., raggiungono anche in materialità sonora la forza conclusiva, affermativa, che il pensiero sinfonico del primo Ottocento viene ad esigervi. E il pianoforte continua così e sviluppa secondo i nuovi spiriti musicali i movimenti componistici della sonata e del concerto (e di altre forme importanti) che - specialmente ad opera di Beethoven - di continuo lo raffrontano o addirittura lo pongono in aperto dialogo con l'orchestra, ricca di clangori quanto di varî giuochi timbrici e di dialoghi tra le tante sue voci. L'influenza dell'orchestra sul pianoforte è infatti visibile assai di frequente, così nei sensi cui alludono temi e tematici giuochi, come nella loro corposità fonica; ma è altresì da notare come talvolta pensieri virtualmente orchestrali comincino ad apparire nella storia musicale prima nei due pentagrammi del pianoforte che nei molti della partitura d'orchestra, come si può osservare, p. es., nella produzione beethoveniana, ove le Sonate in re op. 10 n. 3 e in do min. op. 13 corrispondono ad esigenze foniche che non saranno appagate - nella produzione orchestrale - prima dell'op. 37 (che del resto è un concerto per pianoforte e orchestra, e precisamente il III). Se esaminiamo ora in generale i caratteri strumentali del Largo dell'op. 10 n. 3 troviamo poste fin dalle prime battute le richieste d'un legato così unito e insieme vibrante, pur in regime di p., da richiamare l'ideale modello d'un legato espressivo di strumenti ad arco, mentre il ribattersi dello stesso accordo (per es., le 7e diminuite alla 7ª misura) non sarebbe stato di eccellente effetto nello strumento a corde pizzicate che era il clavicembalo. E se si prosegue nella lettura di tale pagina, ci vediamo di continuo riproporre queste esigenze di legato, p. es., già nella 2ª strofa, ove le note di passaggio, le appoggiature e via dicendo non sono ornamentazione di sostegno, ma fibre stesse dell'organismo melodico, e come tali richiedono una esecuzione ugualmente distesa e tenuta, tipica appunto del legato cantabile. Evidente nella stessa pagina appare la richiesta di coloriti assai varî e progredienti non solo per salti dal p. al f. o viceversa ma per insensibili sfumature, senza le quali l'indole stessa della frase risulterebbe tradita. Si veda, a questo proposito, l'effetto di diminuendo nel digradare del primo periodo dalla crisi in 7e diminuite alla cadenza sulla tonica, e, a misura 15, il rapido crescendo dalla 7ª di dominante di sol all'accordo perfetto di do maggiore.
Lo strumento è dunque già sfruttato nelle sue risorse più tipiche, dalla pienezza del volume sonoro, che consente un buon effetto di legato, alla graduabilità del forte e del piano, che dall'uno all'altro possono passare senza alcun salto. Inoltre s'è visto il ribattersi non soltanto di note ma anche d'accordi, che - poco raccomandabile nel clavicembalo - sul pianoforte dei tempi beethoveniani (di suono assai nitido, di timbro metallico, quasi - si direbbe - acerbo) sostiene con una risonanza discreta e bene staccata la linea del canto.
Continuando l'esame della produzione pianistica di Beethoven si spiegano sempre in maggior luce le ragioni estetiche di siffatti usi. S'è accennato già alla tendenza orchestrale cui il pianoforte spesso s'informa e cui anzi talvolta dà con i suoi mezzi allusivi un primo appagamento. Si veda, p. es., l'introduzione dell'op. 13, con le sue esplicite allusioni a contrasti e impasti di famiglie orchestrali. E si noti che se - a rigore - le prime quattro misure potrebbero essere eseguite anche su un grande e potente clavicembalo alla Bach (rinunziando, beninteso, a ogni graduazione di coloriti), certo nessun clavicembalo consentirebbe l'esecuzione delle quattro misure seguenti, in cui il suono deve legarsi e vibrare e crescere e diminuire al punto da evocare idealmente la massa degli archi:
E nell'Allegro troviamo il basso in un tremolo per ottave che in qualunque altro strumento a tastiera sarebbe inconcepibile, e che egregiamente mantiene la risonanza sostituendo i bassi d'orchestra:
Altri esempî di evocazioni orchestrali si trovano del resto in tutta la musica pianistica di Beethoven, e basterà ricordare - tra le Sonate - l'op. 26 (lo Scherzo e la Marcia funebre), l'op. 28, le due celebri in do magg. op. 53 (1° tempo) e in fa min. op. 57 (nelle quali l'evocazione sorge però più dal carattere dei temi che dalla registrazione strumentale, che specialmente nell'Appassionata ha figure veramente tipiche della tastiera), le op. 81 (1° tempo), 101 (2°), 106 (1°), 110 (Scherzo) e 111 (1°). Il semplice studio di queste due ultime composizioni farà intendere la figura nettamente orchestrale delle più grandi ispirazioni beethoveniane, e si può dire che in fatto di stile sinfonico il valore storico di pagine come l'intera op. 106 o come il primo tempo della 111 sia non meno fecondo di quello riconosciuto alle Sinfonie in la magg. o in re minore. In ogni modo una scrittura come quella dello Scherzo dell'op. 106
dà già un saggio di quella scrittura schumanniana che sarà non senza ragione detta più orchestrale nelle composizioni pianistiche che nelle sinfonie: Beethoven usa ormai di rado gli "accompagnamenti" a batteria d'accordi, quali invece sta profondendo il melodista F. Schubert (v. esempio 5, dal 1° Improvviso di Schubert) e preferisce un dialogo liberamente congegnato da movimenti contrappuntistici, armonici e melodici, in una polifonia che appaga il suo istinto d'orchestratore, come si vede nell'op. 106:
È l'"eloquenza" del nuovo stile musicale, avviato ormai, dall'impulso storico di idee come la prima dell'op. 106:
alle ricerche di sonorità potenti e marcate come di trombe e tromboni, ricche di echi e risonanze come di corni (che distinguono, dopo Beethoven, Weber e Schubert, tante pagine di R. Schumann):
Il romanticismo che gli Schumann e i Mendelssohn vogliono vedere nell'ultimo Beethoven si diffonde dall'animo loro nel mondo pianistico: vicino ai romantici squilli guerrieri, vicino agli slanci che tra poco assurgeranno al "titanismo" di un Liszt, troviamo il pur romantico desiderio d'intimo canto, stretto alla Sehnsucht germanica, che intorno alla melodia crea un avvolgente alone di trepide risonanze. La scrittura di uno Schumann, nutrita di ricordi contrappuntistici bachiani oltre che di beethoveniane ribellioni, riesce a innervare questo ricco tessuto con movimenti e fremiti di proprio particolare rilievo:
mentre il Mendelssohn troppo spesso s'abbandona ad una ovattata eleganza di veri e proprî "accompagnamenti" a figure già presso di lui alquanto formulistiche.
Figura forse più importante, a questa svolta della musica per pianoforte, di quella dello stesso grande Schumann, può apparire quella di F. F. Chopin, dalla quale il pianoforte è adoperato non per transvalutazioni in senso orchestrale o vocale, ma proprio per quel ch'esso ha di proprio e inconfondibile: dal timbro dei suoi registri alle possibilità della sua tastiera, all'effetto della pedalizzazione. Insieme con un'arte nuova, ne viene - interna - una nuova tecnica, che apre la via alla rivoluzione pianistica prossima al lisztiano trionfo.
Caratteristica della musica chopiniana (di cui ora non si tratta, naturalmente, che riguardo alla sua figura strumentale) è infatti l'impossibilità della trascrizione per altri mezzi fonici: le non rare melodie che a tutta prima parrebbero dense di vocalità, o di violinistica intensa vibrazione, trasferite alla voce umana o al violino perdono quasi sempre il loro significato. Per contro, nel suo naturale ambiente, ogni battuta di questa musica è di sicura proprietà, qualunque ne sia la figura particolare, dalla semplice frase monodica, accompagnata dal più semplice arpeggio o anche dalla batteria d'accordi, alla più tormentosa e febbrile vicenda d'agogiche movenze tematiche; dal delicato ricamo di armonie e di timbri argentini, ove la melodia si snoda in un'atmosfera ricca di armonici vicini e lontani, al cupo, insistente martellare d'accordi lentamente trasfiguranti il proprio armonico valore per le vie misteriose della modulazione chopiniana e - finalmente - alla disperata "allegria" dei virtuosistici slanci in rapidissimi avvolgimenti di gamme miste di ottave, di terze, di seste, ecc. al "brillante" o anche imperioso effetto delle cadenze da concerto.
Tutto ciò "suona" con proprietà unica, in quanto ogni nota nasce, nella tastiera chopiniana, al suo miglior posto, nella sua più proporzionata registrazione sonora. Di qui, per una simile coscienza pianistica, la possibilità di audacie d'ogni genere, di fronte alle quali la tecnica di scuola clementina già appare inadeguata. Il "pianismo" chopiniano è in funzione strettamente musicale cioè lirica, altro non essendo, in realtà, che la estrinsecazione materiale d'una scrittura che intesse, il regime di trasparenza e di mezze tinte, un giuoco raffinatissimo di armonie e di timbri; vedi, p. es., la registrazione della Berceuse:
Questa rivoluzione dell'arte pianistica, iniziata dallo Chopin sotto il segno dell'espressione, si sviluppa subito fino a esorbitare talvolta dai limiti estetici con la comparsa del maggior virtuoso che il pianoforte abbia avuto: F. Liszt. Sul quale agirono con forza particolare gli esempî del tecnicismo violinistico di Niccolò Paganini e della nuova scrittura annunziata da F. F. Chopin. Dietro questi esempî il giovane Liszt, di già concertista celebre, si rimette a studiare, rinnovando completamente la propria tecnica. Nella vastissima produzione lisztiana il pianoforte sviluppa insieme, e fino alle estreme conseguenze, le due tendenze principali delle scuole romantiche: la "titanica", cioè, e l'"intimista"; mediante una geniale intuizione di tutto il mondo di risorse che ancora potevano essere valorizzate in fatto di tastiera, il Liszt - che sa cantare per mezzo del pianoforte quanto uno Chopin, e che anzi alla cantabilità sa giungere anche entro sostanze musicali non nate per questo strumento - realizza compiutamente in -splicito effetto fonico la potenza e lo splendore già richiesti dall'indole delle sonate beethoveniane. Capacità, questa, che si consolida e si dimostra in documenti quali le trascrizioni dall'orchestra; come la capacità del canto nelle trascrizioni da Lieder, da arie d'opera italiana, da canzoni popolari, ecc. Si veda, p. es., quanto al timbro, il seguente frammento del Rossignol (trascr. d'un canto popolare russo):
che alla melodia, di scarso valore in sé stessa, conferisce un'intensità di vibrazioni subito emergenti dal fatto sonoro nel fatto estetico. Infinite sono del resto le interpretazioni pianistiche nelle quali una stessa idea melodica si ripresenta alla tastiera lisztiana: come nei seguenti esempî, tratti dal II° Notturno dei Liebesträume (Seliger Tod), gli elementi del discorso musicale, e tra questi la melodia e quel che si deve dire - nel caso specifico - "accompagnamento", non sono più legati a un piano costante, ma senza posa passano dall'un piano all'altro, colorandosi di infinite sfumature, ora illuminandosi, ora affondando nell'ombra:
L'influenza del Liszt nell'arte pianistica non si limita alle scuole ed alle correnti dell'Ottocento, ma giunge viva e feconda anche ai nostri tempi, e anzi si può additarne negli ultimi anni una energica ripresa nella pratica di un Albeniz (Iberia), d'uno Stravinskij (Trois mouvements de Petruska), e poderosi sviluppi nella concezione strumentale d'un Busoni. E del resto a quest' ultimo grandissimo artista è dovuto un tenace sforzo di rivalutazione del Liszt come musicista, quando troppi critici non sapevano vedere le ragioni profondamente musicali determinanti sì gran parte del giuoco pianistico lisztiano. Sta di fatto che la soverchia produzione del Liszt contiene anche pagine esorbitanti - come s'è detto dianzi - dai limiti estetici. Ma di solito anche i passi di brillante virtuosismo si svolgono in mirabile logica e ricchezza di elementi musicali, spesso superanti la stessa assimilazione (che nel sensibile Liszt fu sempre assai pronta) e attingenti alla più netta originalità, specialmente nei sensi dell'armonia e del timbro; e quivi infatti trovano esempio ed avviamento artisti come R. Wagner, C. Franck, J. Brahms, M. Balakirev, M. Musorgskij), N. Rimskij-Korsakov e i nostri contemporanei già citati. Forse allo stesso abbagliante effetto dell'eloquenza lisztiana è da connettere, in parte almeno, quella deficiente valutazione di tali forze musicali, agenti in così grande facilità ed eleganza di discorso. Ma intanto va tenuto conto dell'essenza romantica (per così dire: byroniana) di quest'arte, la quale va affrontata e interpretata (studiandone anche le determinazioni orchestrali: i poemi sinfonici ecc.) con romantici sensi di trasporto e di ardore, in romantica ebbrezza, sì da non raggelare questo tripudio di gioia sonora in piatta esibizione di meccanismo scolastico.
Sotto l'influsso della rivoluzione lisztiana la produzione pianistica del secondo Ottocento viene svolgendo nel proprio regno, sì accresciuto in estensione e in ricchezza, il discorso delle nuove scuole romantiche e degli artisti a queste comunque vicini, spesso anzi avocandosi il più puro succo di quella musicalità. Così vediamo, presso i maggiori esponenti del secondo romanticismo, C. Franck e J. Brahms, un affinamento delle possibilità analitiche della scrittura strumentale. In ambedue questi maestri si nota soprattutto quell'atteggiamento meditativo, tipico (insieme con l'ipertitanico) delle correnti spirituali che hanno ormai passato il momento del pieno trionfo. Non sempre i pregi della musica di Franck e di Brahms riescono a conservarsi al di là delle soglie "intimiste", mentre appaiono nella miglior luce nelle pagine discrete e raffinate del quartetto, del Lied, della lirica per pianoforte. Ed ecco i nuovi procedimenti lisztiani transvalutati in questo regime di analisi, di ricerca del tocco più proprio, del movimento più sottile. Al quale si poteva giungere proprio in quanto l'intero regno della tastiera e del pedale già era stato esplorato e ormai tranquillamente dominato: la tastiera di J. Brahms è assai più estesa di quella dello Schumann, perché tutte le sue zone sono poste a contributo con maggiore riflessione; e minore, per la stessa ragione, è spesso il carico del pentagramma quando, beninteso, il discorso non sia decisamente polifonico (come lo è - p. es. - nelle Variazioni). In apparenza può sembrare più contrappuntistica la scrittura di C. Franck, che forse, invece, al contrappunto chiede piuttosto la via per incessanti, romanticissime ricerche modulatorie, ove ogni formazione armonistica è registrata sì da accentuare la virtù dei suoi elementi agogici (v. il seguente frammento del Preludio, Aria e Finale).
Si deve d'altra parte osservare, a questo proposito, che l'influenza esercitata dai due maestri, e specialmente dal Franck, non ebbe importanza tanto grande in fatto di scrittura pianistica quanto in fatto di stilemi componistici: gli stessi seguaci dell'uno o dell'altro, p. es., i brahmsiani A. Dvořák e G. Martucci e i franckiani V. d'Indy e P. Dukas, attraverso i due maestri si ricollegano - come strumentalisti - alla grande scuola lisztiana. E a Liszt, più o meno fedelmente interpretato, guardano C. Saint-Saëns e G. Sgambati, mentre i coloristi delle nuove scuole nazionali: M. Balakirev, I. Albeniz, E. Grieg, imparano specialmente dal vecchio ungherese a impostare e risolvere i problemi pianistici insorgenti nella realizzazione del loro stile.
Ben più importante - a questo punto - il pianoforte di Claudio Debussy; che si presenta, nelle composizioni migliori, in un aspetto di singolare originalità. E certo - nonostante un frequente richiamo alla scuola propriamente chopiniana e qualche accenno franckiano (contenuto a dir vero più in alcuni movimenti armonici [v., p. es., le zone centrali della Cathédrale engloutie e della Terrasse des audiences du clair de lune, dai Préludes, I e II] che nella scrittura strumentale) - lo stile debussyano non avrebbe potuto realizzarsi nel pianoforte senza dare alla scrittura tale aspetto nuovo e singolare. Ed ecco dunque la discontinuità delle linee grafiche, la liberazione dell'accordo da qualunque giuoco di voci, e anzi la soppressione di questo stesso giuoco come costituente della composizione. Certo anche qui uno Chopin e un Liszt avevano mostrato validi esempî, ma presso Debussy l'eccezione diventa la regola, abolendo praticamente molti problemi e creandone di nuovi, quasi sempre però passibili di risoluzione anche per una tecnica non trascendentale. A importanza capitale ascende però qui l'esigenza d'una grande raffinatezza di tocco e di pedalizzazione, capace di quella continua transvalutazione che l'arte debussyana chiede allo strumento non soltanto in spirito ma anche per esplicita didascalia.
Né poteva essere altrimenti presso un musicista tutto inteso alla creazione di vaghe, misteriose atmosfere sonore. Esempî particolarmente significativi di tale esigenza e dei problemi ch'essa ha creato sia per lo scrittore sia per l'esecutore, si trovano specialmente nei Préludes e nelle Images, di cui si rivedano, anche a questo proposito, le raffinatissime sonorità dei seguenti frammenti (si notino, da questi esempî in poi, le significative didascalie di colorito ecc.).
All'"impressionista" Debussy alcuni ravvicinano M. Ravel, che infatti richiede all'esecutore pari raffinatezza di sensibilità armonicotimbrica, in un regime di scrittura, però, che non abbandona, ma soltanto va ricamando, il filo di seta della composizione lineare, che dalla risonanza se ne esce in sottile ma intensa melodia:
Nel periodo più recente si mostra un avviamento verso una nuova linearità, dipendente dal rinnovato culto per il contrappunto: tipico (oltre M. Reger) quel Ferruccio Busoni, che riprendendo le stilistiche bachiane le trasporta su quella tastiera cui il Liszt aveva dato tanta ricchezza di risorse anche nel senso polifonico. Busoni intende quel contrappunto nelle sue più essenziali ragioni sintattiche e - sia nella trascrizione dall'organo, sia in quella dal clavicembalo - sa legittimare su tale base il potenziamento di tutto il giuoco sonoro dell'originale bachiano, per mezzo non solo di rinforzi e raddoppî in funzione timbrica (ottave, quinte, ecc.), ma anche di armonici, o addirittura di note attigue. Cfr. il seguente frammento della Fantasia cromatica nell'originale e nella versione busoniana:
Vicino a questo, che è il massimo artista del pianismo contemporaneo, possono collocarsi per il comune indirizzo polifonico, musicisti quali A. Casella (che spesso si mostra, però, memore del clavicembalo, né soltanto del bachiano ma anche di quello di D. Scarlatti), P. Hindemith, ai quali specialmente si deve l'affermarsi d'un comune denominatore di linearità contro ogni tendenza coloristica e - sia pure in apparenza - frammentista. Eccezione - a tal riguardo - la Sonatina in cui lo stesso Casella sacrifica, nel 1916, ad influenze franco-tedesche. Tale esempio rimane del resto isolato nella produzione caselliana, che subito riprende quel monocromismo che la sua posizione cosiddetta "neoclassica" può spiegare. L'esempio di A. Schönberg, nonostante ogni intenzione e nonostante l'aspetto singolare della scrittura, è del resto di natura post-romantica o espressionista. Una scrittura come quella del seguente frammento schönberghiano (dall'op. 19):
può apparire, infatti, come totalmente opposta a quanto s'era visto nel pianismo anteriore. Essa è - invece - spiegata nelle sue intime radici (da Schumann e da Mendelssohn a Wagner, Brahms, Debussy e Reger) dalla coesistenza di brani di questo genere:
In fondo si tratta, qui, dell'arte intimista e analitica dei romantici, e specialmente dello Schumann, condotta alle estreme conseguenze in siffatta scrittura così tormentata e sezionata, ove ad ogni nota si vuol dare un valore espressivo proprio, a mezzo di raffinatissimi giuochi timbrici (quasi debussysti) che essa nota trasportano su di un suo particolare piano in confronto con le altre pur graficamente vicine. Ed è qui significativo il fatto che nella produzione successiva (Fünf Klavierstücke, op. 23) si accrescano insieme tanto le ricerche timbriche (le quali giungono ad esigere l'invenzione di nuovi segni di colorito, dichiarati in una preliminare avvertenza) quanto i caratteri tradizionalistici (Schumann-Wagner) sopravviventi nel pensiero schönberghiano:
Come s'è potuto, riguardo alla musica di A. Schönberg, parlare d'un atteggiamento "espressionista" (il cui nucleo è d'altra parte un romanticismo esasperato), così d'un atteggiamento "impressionista" si potrebbe parlare riguardo ad alcune musiche che - come quella dell'italiano Mario Castelnuovo-Tedesco - non hanno però accettato da tale corrente se non le infinite risorse espressive dell'armonia variamente timbrata su una tastiera in regime di dichiarata transvalutazione; v. i seguenti passi di Piedigrotta 1914:
Dalle quali battute si rileva, d'altra parte, come il nucleo del discorso componistico non sia tanto da ricercarsi nella pur raffinata armonia quanto nell'elemento melodico, con grande varietà di mezzi posto in appropriato rilievo. Sì che tali musiche, anche meglio che a C. Debussy, possono essere ravvicinate, p. es., a quelle di I. Albeniz. Esse costituiscono, in ogni modo, uno degli esempî più significativi, per la loro felice realizzazione strumentale, di queste correnti coloristiche che - come già s'è accennato - sembrano oggi vittoriosamente combattute dalle correnti più diffuse tra i novatori. I quali si volgono soprattutto al più marcato rilievo dell'ossatura generale della composizione, o trasferendo le differenze di valori timbrici dal rapporto tra i movimenti interni (ove le cercano impressionisti ed espressionisti) al rapporto tra zona e zona, come si nota in varî giovani, tra i quali l'italiano D. Alderighi, oppure cercando sulla tastiera valori d'uguaglianza anziché di varietà fonica. La quale ultima ricerca giunge anzi talvolta a risultati che forse meriterebbero - sia pure per capovolgimento - il nome di transvalutazioni: infatti uno Stravinskij, un Hindemith, un Petrassi, e - in modo meno radicale - un Casella e un Křènek finiscono per togliere al pianoforte gran parte delle risorse timbriche pure ad esso ormai connesse in maniera legittima da più d'un secolo di evoluzione componistica, sopravalutandone ora il fattore "percussione" (e certo la corda del pianoforte non vibra se non per la percussione d'un martello), come lo Stravinskij e il Hindemith, ora l'eredità componistica del clavicembalo, come spesso avviene ad A. Casella, ora spianandone la sonorità in un timbro piuttosto generico (e ciò del resto s'era dato - per ragioni non tutte identiche - in alcuni passi beethoveniani) come E. Křènek e G. Petrassi.
Intermedia, quivi, il pianismo di G. F. Malipiero.
Alle quali scritture è - d'altra parte - data piena legittimità estetica dal fatto ch'esse altro non sono se non la determinazione strumentale dell'odierna supremazia dei valori lineari sopra quelli coloristici.
Produzione e commercio.
L'industria dei pianoforti, che negli anni precedenti e immediatamente seguenti la guerra mondiale aveva assunto uno sviluppo notevolissimo, è andata dal 1926 in poi mano a mano decrescendo d'importanza, influenzata sfavorevolmente anzitutto dalla rapida e larga diffusione dei grammofoni e specialmente degli apparecchi radiofonici, e ultimamente anche dalla crisi economica mondiale, che si è ripercossa particolarmente sulla produzione di quegli articoli che non sono di prima necessità e comportano inoltre delle spese accessorie (insegnamento musicale).
I principali paesi produttori di pianoforti sono: gli Stati Uniti, la Germania, la Francia, l'Austria, l'Italia.
Gli Stati Uniti occupano il primo posto nella produzione mondiale dei pianoforti, che si è sviluppata specialmente nel periodo bellico, per effetto dell'arresto delle importazioni dalla Germania, ma che serve quasi totalmente al consumo interno. La produzione del 1929 è stata di 130.012 strumenti, di cui 69.135 verticali e 60.877 a coda per un valore complessivo di circa 38 milioni di dollari. Le fabbriche sorgono in generale in prossimità dei mercati di maggior assorbimento (specialmente negli stati di New York e Illinois). Il commercio estero ha un'importanza minima.
L'industria dei pianoforti in Germania è una delle più rinomate per qualità e viene per quantità al secondo posto dopo quella degli Stati Uniti. La fabbricazione di questi strumenti si svolgeva nel 1925 in 800 stabilimenti che occupavano 35.000 operai; ora gli operai si sono ridotti a 5000. Il ramo più importante è quello dei pianoforti verticali, di cui nel 1928 se ne fabbricarono circa 28.000 contro 10.000 di quelli a coda, per un valore complessivo di 106 milioni di RM. Dal 1928 la produzione si è andata fortemente riducendosi al punto che, mentre l'esportazione dei pianoforti nel 1926 aveva raggiunto la cifra di 45,3 milioni di RM., nel 1934 essa si è ridotta a 2,6 milioni di RM. Le principali fabbriche hanno la loro sede a Berlino, Lipsia, Amburgo e Stoccarda.
Anche la Francia ha una notevole produzione di pianoforti che servono, oltre che il mercato interno, le sue colonie (Algeria, Marocco, Tunisia), quelli verticali, e il Belgio, quelli a coda. Nel triennio 1928-30 si esportarono circa per 25 milioni di franchi di detti strumenti, mentre l'importazione è minima. L'industria è accentrata nei dintorni di Parigi.
In Austria, l'industria si era, prima della guerra mondiale, specializzata in strumenti di lusso; in questi ultimi anni ha dovuto intraprendere la lavorazione in serie, che, oltre a soddisfare al fabbisogno interno, alimenta una discreta corrente di esportazione. Vienna è il centro dell'industria; centri minori sono Linz e Salisburgo.
Oltre a questi paesi sono esportatori la Cecoslovacchia e la Gran Bretagna.
In Italia, l'industria dei pianoforti ha vecchie tradizioni: già nei primi anni del 1800 numerosi artigiani fabbricavano tali strumenti. Attualmente vi sono in Italia circa 30 stabilimenti di cui 4 importanti, situati principalmente in Lombardia (Cremona) e nel Piemonte (Torino).
La produzione dei pianoforti nel 1930 si è aggirata sui 6000 pezzi all'anno per un valore complessivo di 30 milioni di lire. Malgrado questo, la produzione è inferiore al fabbisogno interno e perciò la corrente d'importazione è piuttosto forte (media annua nel 1931-33, 710 strumenti).
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