Signore di Mirandola (n. 1469 - m. Mirandola 1533). Nipote del più noto Giovanni, al quale ha dedicato una parte rilevante della sua attività di filosofo e letterato, scrivendone anche una biografia, P. rivendicò il primato della dottrina cristiana contro la cultura classica pagana.
Per investitura dell'imperatore Massimiliano, fu, per contese familiari, allontanato per alcuni periodi (1502; 1508-11) dal potere e infine ucciso dal nipote Galeotto. Nipote di Giovanni, del quale scrisse una Vita (premessa all'ed. delle opere da lui curata nel 1496), difese il De ente et uno e riprese alcune dottrine (per es. nel De rerum praenotione, contro l'astrologia), ne ereditò la passione per gli studi letterari e, soprattutto, per quelli filosofici e teologici. Seguace di Savonarola (ci ha lasciato di lui una Vita apologetica), sostenne da un lato la necessità di una riforma dei costumi e di una riorganizzazione della disciplina ecclesiastica, dall'altro, contro Ficino, l'impossibilità di fondare la fede cristiana sulla filosofia antica. Espose queste sue idee in molti scritti, ma specialmente in una memoria, De reformandis moribus, indirizzata a Leone X in occasione del V Concilio lateranense (1512-17) e che non rimase senza influenza su alcune decisioni dottrinali e disciplinari prese dal Concilio stesso, e nella sua opera principale, Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis christianae disciplinae (1520), in cui attaccò i sistemi filosofici degli antichi e soprattutto la filosofia aristotelica con forte accentuazione di motivi scettici, utilizzando (sembra per primo) le opere di Sesto Empirico, in una prospettiva fideistica che contrappone gli «errori» della ragione alla «verità» della fede. Al problema delle possessioni demoniache dedicò lo scritto italiano La strega (1523).