LEOPARDI, Pier Silvestro
Nacque ad Amatrice, allora appartenente al Regno di Napoli, il 31 dic. 1797 da Bernardo, possidente, e da Loreta Lely. Era giovanissimo allorché, mentre studiava diritto a L'Aquila, si unì alle bande di settari protagoniste della rivolta abruzzese contro le truppe di Gioacchino Murat (1814): la sua personalità prese dunque a formarsi a contatto con il patriottismo carbonaro e sotto l'influsso degli ideali costituzionali che lo animavano. Restaurati i Borbone nel Regno, forse fu proprio l'appartenenza alla rete settaria che a 20 anni gli consentì di diventare capo divisione nell'intendenza generale dell'Aquila e di ottenere con le sue relazioni sulle organizzazioni carbonare la fiducia dei funzionari periferici e centrali. Intanto, constatando che tali organizzazioni non erano malviste a Napoli (da dove anzi le si incoraggiava), non si peritava di fondare lui stesso alcune "vendite" alla vigilia della rivoluzione del 1820.
Nella fase conclusiva del moto il L. vi ebbe un ruolo diverso da quello burocratico con cui ne aveva seguito l'origine: fregiato del grado carbonaro di "maestro fondatore e seduttore", vestì la divisa e, col favore del marchese F.S. Del Carretto, entrò come ufficiale aggiunto nello stato maggiore dell'esercito che il 7 marzo 1821, con il gen. Guglielmo Pepe alla testa, subì ad Antrodoco una sconfitta che molti anni dopo il L. avrebbe attribuito anche agli errori del comandante.
Terminò qui la carriera amministrativa del L., sul quale poco o nulla si sa relativamente al decennio 1821-30: mentre esercitava privatamente l'avvocatura, non cessavano i suoi rapporti con la cospirazione carbonara, le cui ramificazioni lo legavano a L. Dragonetti e a C. Poerio e, nel 1831, lo inserivano con il fratello Domenico in una congiura che gli costò alcuni mesi di carcere e da cui uscì prosciolto il 18 ott. 1832, non prima di aver rivolto alcune suppliche a Del Carretto, il quale forse lo aiutò e certamente lo invitò, una volta libero, a collaborare alla Gazzetta ufficiale. In questa zona grigia tra legalità e cospirazione si collocano anche i rapporti intrattenuti nel 1833 con G. Mazzini che, bisognoso di contatti con il Sud, trovò nel gruppo cui faceva capo anche il L. elementi disposti a cooperare alle iniziative antiassolutiste, non però ad abbracciare la causa repubblicana e unitaria: ne nacque una nuova trama, ma, alla vigilia dell'insurrezione programmata per il 10 agosto, il L. fu ancora arrestato a L'Aquila e, su delibera del Consiglio di Stato, condannato all'esilio perpetuo. A Parigi, dove si stabilì nell'aprile del 1834 dopo una breve sosta in Toscana, lo raggiunsero le lettere di un Mazzini vanamente impegnato nello sforzo di convincerlo della bontà della formula unitaria.
Infatti negli ambienti dell'emigrazione che il L. prese a frequentare, e nei quali fu solito incontrare personaggi quali N. Tommaseo (che per qualche mese coabitò con lui e sicuramente gli trasmise qualcosa della sua religiosità), T. Mamiani, G. Massari (attraverso il quale conobbe e ammirò V. Gioberti), Cristina Trivulzio di Belgioioso e i coniugi Arconati, dominava, come ipotesi di soluzione del problema italiano, l'idea della confederazione; nel L., in particolare, la scelta politica trovava conferma nella sua lettura della storia d'Italia e del ruolo che vi aveva avuto la Chiesa, vista - allora e più ancora dopo l'uscita del Primato giobertiano - non come la causa prima della disunione della penisola ma come la sola promotrice della sua civilizzazione: sicché, scrisse nell'aprile 1842 a G.P. Vieusseux, ai suoi occhi il riformismo moderato aveva senso solo se e in quanto capace di introdurre quegli ordinamenti che "sono il vero portato della civiltà cristiana, vo' dire la rappresentanza, il giudizio dei fatti (la giuria) e la stampa non dipendenti dall'arbitrio, ma resistenti all'arbitrio di chi governa" (Rondoni, p. 266). Tuttavia, pur nella saldezza di tali convincimenti, con la democrazia mazziniana il L. riprese nel 1843 e mantenne aperta fino al 1845 (tramite G. Ricciardi) una via di comunicazione che in vista dei conati insurrezionali di quegli anni portò alla creazione di un comitato formato da democratici e da moderati, senza che però si venisse mai a capo del dissenso di fondo sugli obiettivi della rivoluzione nazionale. D'altronde, a partire appunto dal 1843, il L. si era definitivamente persuaso attraverso la lettura degli scritti teorici di C. Balbo e di Gioberti che l'unica strada percorribile era quella, per Mazzini inaccettabile, dell'accordo con i sovrani.
Intanto, per temperare i disagi dell'esilio, il L. aveva intrapreso per conto di Vieusseux un'attività di ricerca di codici italiani conservati nelle biblioteche parigine; nel 1840 gli fu commissionata la trascrizione per l'Archivio storico italiano della cronaca del milanese G. Cagnola, che egli corredò di una prefazione, intitolata De l'unité nationale de l'Italie, non pubblicata per timore della censura toscana. Questo stesso scritto il L. premise come introduzione alla prima versione francese delle Speranze d'Italia di C. Balbo da lui curata nel 1844 per l'editore Didot. Malgrado la buona diffusione il lavoro non soddisfece l'autore, che si lamentò per i molti errori di traduzione e per un apparato di note giudicato improprio; ancora più difficile riuscì il lungo rapporto con un esigentissimo C. Cantù del quale il L. curò per lo stesso editore una versione della Storia universale "soigneusement remaniée" in 19 volumi apparsi tra il 1843 e il 1849 (due successive edizioni si ebbero nel 1853-55 e nel 1865-67). Più cortesemente, F. de Lamennais lo ringraziò per aver volto in italiano le sue "reflexions et notes" sui Vangeli pubblicate a Losanna da Bonamici nel 1846 (Gli Evangeli, tradotti in lingua italiana da G. Diodati, con le riflessioni e note di F. Lamennais).
Comunque anche tale attività consolidò l'appartenenza del L. all'area moderata e neoguelfa. Due articoli, ospitati nel luglio del 1845 dalla Gazzetta italiana, un periodico che si pubblicava a Parigi ed era finanziato dalla Belgioioso, rappresentarono il suo maggior contributo alla propaganda di una linea che, predicando prudenza e auspicando un progresso graduale da conseguirsi con l'accordo dei sovrani, postulava l'emarginazione della sinistra rivoluzionaria dalla scena politica italiana.
I due articoli, intitolati Di una opposizione tutta nuova e tutta pacifica in Italia e Della nazionalità italiana, furono seguiti da un altro scritto, anonimo ma riconducibile al L., che conteneva una sorta di manifesto programmatico chiaramente ispirato al giobertismo. Concluse questa stagione pubblicistica un opuscolo su I Borboni di Napoli. Discorso storico (Losanna 1847; poi due ristampe, una in francese e l'altra in italiano, entrambe Paris 1847) che, riprendendo una tematica già trattata nel 1836 con un articolo che non era piaciuto a Tommaseo, raccontava in un rapido excursus la degenerazione di una dinastia passata dai fasti di Carlo e delle sue riforme alla speranze presto deluse di Ferdinando II; un breve cenno era dedicato alla rivoluzione del 1820 il cui unico errore il L. individuava nella scelta della costituzione spagnola.
Non appena si ebbero in Francia e in Italia le novità di inizio 1848 il L. si affrettò a rimpatriare. Arrivò a Napoli il 17 marzo; doveva avere conservato qualche ascendente se il re lo ricevette in udienza e il governo Troya lo nominò inviato straordinario e ministro plenipotenziario presso la corte sabauda accreditandolo anche presso la Confederazione elvetica. Gli avevano indubbiamente giovato i suoi ripetuti inviti alla moderazione e le prese di distanza dai gruppi radicali: ciò non toglie che egli improntasse la sua missione a un sostegno forte allo sforzo bellico del Piemonte e che perciò cercasse di spingere re, governo e corpo di spedizione napoletani a essere più risoluti nel sostegno a un conflitto che a suo parere doveva essere combattuto da tutti i sovrani italiani. Questa sua linea, messa a punto anche nei frequenti colloqui con Carlo Alberto e resa problematica dal ritiro di Pio IX, si fece anche più convulsa dopo la reazione del 15 maggio a Napoli e si espresse con continue pressioni sul generale G. Pepe perché si affrettasse a raggiungere con il corpo di spedizione napoletano il teatro delle operazioni; né lo demotivò il voltafaccia di Ferdinando II, ché anzi il L. continuò a comportarsi come se da Napoli non gli fosse giunta la notizia del richiamo, sostenendo che per lui erano sempre valide le istruzioni dategli dal sovrano al momento della partenza per il Nord. In effetti la destituzione formale avvenne solo il 25 luglio 1848.
Alla fine dovette risolversi a tornare anche perché nel frattempo era stato eletto al Parlamento napoletano nel distretto di Sulmona, ma lo fece solo dopo aver preso parte con S. Spaventa e G. Massari al congresso federativo tenutosi, su proposta del Gioberti, a Torino dal 10 al 27 ottobre e che approvò un progetto di confederazione finalizzato all'autonomia della Sicilia da Napoli. Dopo un lungo giro che lo portò prima in Toscana e poi a Roma, dove assistette da vicino all'attentato a P. Rossi, il L. rimpatriò all'inizio del 1849 ma il 24 aprile fu arrestato e condotto in carcere con l'accusa di non essersi opposto all'ipotesi del distacco della Sicilia e dunque di avere attentato all'integrità del Regno.
Il Gioberti, cui risultava invece che il L., Massari e gli altri napoletani "difesero apertamente la riunione di Sicilia con Napoli, e oppugnarono la sentenza contraria" (La diplomazia del Regno di Sardegna, p. 48), tentò invano di fare intervenire a suo favore la diplomazia francese: l'8 ott. 1852, al termine di un processo durato 16 mesi (la sua posizione era stata unita a quella degli imputati per i fatti del 15 maggio, contro i quali peraltro aveva protestato formalmente con un atto depositato presso il municipio bolognese), il L., riconosciuto colpevole di "cospirazione progettata ma non compiuta", fu condannato all'esilio perpetuo.
Si stabilì allora a Torino, dove chiese e, con l'aiuto di P.S. Mancini, ottenne all'inizio del 1853 la naturalizzazione sarda. Tra i compagni d'esilio godeva di un certo prestigio rivestito, con un comportamento che gli sarebbe stato da più parti rinfacciato, di una innocente vanità rievocando i suoi trascorsi di diplomatico e arrivando sino a farsi passare per conte. Sempre presente nelle riunioni degli esuli meridionali, nel 1855 gli si attribuì qualche contiguità con il murattismo, rispetto al quale restò in definitiva piuttosto defilato; ma se la voce di una sua adesione al movimento poté circolare fu anzitutto per la sua antica amicizia con A. Saliceti che ne era l'ispiratore, e poi perché, pubblicando nel 1856 a Torino il volume delle Narrazioni storiche, con molti documenti inediti relativi alla guerra dell'indipendenza dell'Italia e alla reazione napolitana, parve con la sua idea di confederazione voler fornire una piattaforma politica a chi intendeva portare un discendente di Murat sul trono meridionale. L'adesione nel 1857 alla Società nazionale italiana segnalò piuttosto il passaggio del L. nel campo cavouriano.
Il volume, 552 pagine stampate "a spese dell'autore", ebbe comunque una sua circolazione perché, oltre a ricostruire le vicende del L. nel periodo 1814-48, interpretava la reazione avutasi in Italia come prodotto della "conventicola austro-sanfedistica", dava rilievo alla politica liberale del Piemonte in antitesi a quella del Regno borbonico raffigurato come uno Stato di polizia ed era basata su una abbondante documentazione in gran parte inedita (dal L. poi depositata a Torino presso la Biblioteca della Camera). Vi si avvertiva forte l'influsso del giobertismo nella polemica astiosa contro l'unitarismo mazziniano e nel legame di causa-effetto che si stabiliva tra la repressione poliziesca e le fortune della "demagogia". Ma a risentirsi per alcuni aspri giudizi non fu tanto il Mazzini quanto G. Ulloa per ciò che il L. aveva scritto del generale Pepe appena defunto (Ulloa replicò con un opuscolo, Brevi cenni sulla spedizione del corpo d'esercito napolitano … in risposta alle Narrazioni storiche, Torino 1856); anche M. Minghetti se ne ebbe a male, ma chi, a distanza di anni e su un piano già storiografico, criticò duramente il lavoro fu Giustino Fortunato, discendente e omonimo di uno dei ministri reazionari di Ferdinando II, il cui "mal dissimulato rancore" verso il L. avrebbe contagiato il "suo fedele portavoce G. Paladino" (Coppola, p. 1215), che, scrivendo sul '48 napoletano, gli avrebbe attribuito un'ambizione smodata e lo avrebbe accusato di essersi inventato molti particolari facendo per giunta, come diplomatico, più gli interessi di Carlo Alberto che quelli del suo re.
Coerente con il suo antiborbonismo, non appena nel 1860 gli si presentò l'occasione il L. si precipitò a Napoli e vi assunse la presidenza del Comitato dell'ordine, un organismo vicino a Cavour che puntava a una rapida annessione del Mezzogiorno al Piemonte: di qui la sua ostilità a ogni compromesso con il regime al tramonto e la sua azione per spingere ad abbandonarlo chi ancora lo sosteneva; di qui anche la sua collaborazione con Torino sotto forma di relazioni periodiche al governo sardo onde illustrare la situazione napoletana e segnalare l'urgenza di sventare le iniziative mazziniane. Di fatto, però, egli rimase sostanzialmente escluso dal processo di annessione del Sud al Regno d'Italia. Gli fu fatta balenare come premio la possibilità di un ritorno in diplomazia che poi gli fu negato, così come gli fu negato, forse per intervento di Minghetti, il posto nel Senato del Regno di Sardegna. In compenso il collegio di Sulmona lo elesse al primo Parlamento nazionale e, soprattutto, il governo gli riconobbe la continuità del servizio prestato tra il 1848 e il 1860 garantendogli "il salario annuo di dodicimila lire" (Tommaseo, Cronichetta, p. 14).
Alla Camera il L. intervenne spesso e sugli argomenti più disparati, ma non sempre con piena cognizione di causa, tanto che nel 1862, elogiandolo come anfitrione e come gastronomo, F. Petruccelli della Gattina osservava che "i signori deputati preferiscono i pranzi ai discorsi di Leopardi" (p. 166). Schierato a destra, talvolta si comportò da indipendente, per esempio votando, il 14 marzo 1862, l'ordine del giorno Crispi sulla questione romana e poi pronunciandosi contro la pena di morte. Il posto in Senato lo ebbe l'8 ott. 1865 dal governo La Marmora, e qui tra i molti suoi interventi si segnalò quello del 25 giugno 1868 con cui, affermando la necessità dell'accentramento, giustificava la tassa sul macinato definendola una "tassa che si paga senza accorgersene". Per molti anni lo angosciò la mancata integrazione del Sud, che collegava alla presenza a Roma della deposta dinastia borbonica: la morte, cogliendolo a Firenze il 14 luglio 1870, gli impedì di assistere alla sospirata fine del potere temporale.
Fonti e Bibl.: Tre nuclei di lettere del L. sono conservati presso la Biblioteca nazionale di Firenze: Arch. Tommaseo, cass. 95 (97 lettere del L. negli anni 1837-68); Arch. Vieusseux, cass. 57 (8 lettere del periodo 1845-53); 9 lettere a destinatari vari. A Roma, alcune lettere a diversi sono presso la Biblioteca della Camera dei deputati, Fondo Leopardi, arm. XV/02; altre presso il Museo centr. del Risorgimento (per le collocazioni si consulti lo schedario sul posto). Una bibliografia pressoché completa degli scritti di e sul L. è in R. Aurini, Diz. biogr. della gente d'Abruzzo, II, Teramo 1955, pp. 133-142, alle cui indicazioni si possono aggiungere: Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, VIII legislatura, e Senato, Discussioni, IX legislatura (per la consultazione si veda l'indice nominativo nell'ultimo volume di ogni legislatura); Gioberti-Massari. Carteggio, a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1920, ad ind.; V. Gioberti, Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo Crivelli, III, V, VII, IX e XI, Firenze 1928-37, ad indices; N. Tommaseo, Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino 1939, ad ind.; Id., Cronichetta del 1865-66, Firenze 1940, pp. 12-15; La diplomazia del Regno di Sardegna durante la prima guerra d'indipendenza, III, a cura di G. Quazza, Torino 1952, ad ind.; F. Petruccelli della Gattina, I moribondi del palazzo Carignano, a cura di G. Fonterossi, Roma 1960, pp. 165 s.; L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, a cura di M. Themelly, Milano 1961, ad ind.; Carteggi di Vittorio Imbriani. Voci di esuli politici meridionali, a cura di N. Coppola, Roma 1965, ad ind.; G. Rondoni, Uomini e cose del Risorgimento nazionale nel carteggio di G.P. Vieusseux, in Archivio storico italiano, s. 5, 1898, t. 4, pp. 242-311; M. Mazziotti, La reazione borbonica nel Regno di Napoli, Milano-Roma-Napoli 1912, pp. 193, 199, 324, 346, 372, 386, 415; R. Ciampini, Gian Pietro Vieusseux, Torino 1953, ad ind.; F. Bartoccini, Il murattismo, Milano 1959, ad ind.; L. Perla, Contributo alla storia del Senato del Regno, in Rass. storica del Risorgimento, XLIX (1962), p. 421; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il "partito d'azione" 1830-1845, Milano 1974, ad ind.; C. Lodolini Tupputi, Il Parlamento napoletano del 1848-1849…, Roma 1993, ad indicem. Infine: Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v. (G. Minozzi). Le notizie sulla famiglia d'origine sono state fornite dai discendenti.
G. Monsagrati