Piero Martinetti e Antonio Banfi
Nella filosofia italiana della prima metà del Novecento Piero Martinetti e Antonio Banfi hanno rappresentato due percorsi intellettuali che non solo si sono incrociati tra loro, ma che per diversi aspetti sono stati contrassegnati da due caratteri comuni: la sostanziale estraneità alla cultura idealistica e una costante attenzione nei confronti della filosofia tedesca, di cui entrambi furono profondi conoscitori e in qualche misura divulgatori. Sotto il profilo civile, il primo fu fiero avversario del fascismo, mentre il secondo fu esponente di spicco del Partito comunista nel periodo successivo alla Liberazione, alimentando così l’immagine del filosofo come intellettuale legato al suo tempo.
Primo di quattro figli, Piero Martinetti nacque a Pont Canavese il 21 agosto del 1872 da famiglia benestante che contava nel ramo materno ascendenze nobiliari. Compiuti gli studi liceali a Ivrea, nel 1889 si iscrisse alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino, dove ebbe come maestri Arturo Graf, Giuseppe Allievo e Pasquale D’Ercole. Laureatosi nel 1893 con una tesi sul Sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana, che verrà pubblicata nel 1896 e che ottenne il Premio Gautieri da parte dell’Accademia delle scienze di Torino, nel 1894 si recò in Germania grazie al sostegno paterno e proseguì gli studi di filosofia a Lipsia, dove entrò in contatto con Wilhelm Wundt e Wilhelm Schuppe. Tornato in Italia, vinse il concorso per insegnare filosofia nei licei e iniziò la carriera scolastica ad Avellino, per poi proseguirla a Correggio, a Vigevano e, dal 1902 al 1904, a Ivrea. Dopo due anni di insegnamento al liceo Alfieri di Torino, nel 1906 fu dichiarato idoneo al concorso di filosofia teoretica dell’Università di Roma e nello stesso anno venne nominato professore straordinario di filosofia teoretica presso la Regia accademia scientifico-letteraria di Milano (che diverrà nel 1924 l’Università statale). La cattedra universitaria era il riconoscimento dell’originalità del pensiero di Martinetti, la cui prima formulazione organica si trova nell’Introduzione alla metafisica pubblicata nel 1904 e che rappresenta il punto di avvio della sua avventura filosofica dipanatasi per quasi un quarantennio. Durerà invece sino agli inizi del 1932 il suo ruolo di professore universitario, dal momento che il 1° gennaio di quell’anno Martinetti verrà collocato forzatamente a riposo per essersi rifiutato di firmare (insieme ad altri undici colleghi) fedeltà al regime fascista.
Ho sempre considerato – aveva scritto nel dicembre del 1931 al Ministro dell’Educazione nazionale Balbino Giuliano – che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto io verrei a smentire queste mie convinzioni, a smentire con esse tutta la mia vita (Lettere di Piero Martinetti, a cura di I. Raboni, «Il ponte», 1951, 7, p. 343).
Piuttosto che compiere un simile «sacrilegio» Martinetti decise di tornare nella sua terra (a Spineto, nei pressi di Castellamonte), dove visse in solitario ritiro sino alla morte avvenuta il 22 marzo 1943 (ma nel 1935, a causa dei suoi contatti con gli ambienti dell’antifascismo torinese, venne arrestato e trascorse alcuni giorni in carcere).
In quegli anni, in polemica con un mondo che sentiva non suo, preferiva essere definito un «agricoltore» anziché un «filosofo», nonostante continuasse il mestiere che sempre aveva svolto e organizzasse dietro le quinte il lavoro della «Rivista di filosofia», che resisteva alla politica culturale del fascismo senza lasciare «stormire i propri fragili ramoscelli al vento talora impetuoso che veniva da Roma» (N. Bobbio, Italia civile, 1964, p. 107). Attorno a Martinetti si era raccolta negli anni dell’insegnamento universitario e poi dell’isolamento una ristretta cerchia di amici e di giovani seguaci, da Norberto Bobbio a Ludovico Geymonat, da Gioele Solari a Vittorio Enzo Alfieri, che insieme anche ad altri suoi discepoli (come gli scrittori Carlo Emilio Gadda e Guido Piovene) contribuiranno a mantenerne l’eredità e a dar vita a quel «martinettismo» di cui ha parlato Bobbio.
Nell’Introduzione alla metafisica Martinetti dichiarava che la teoria della conoscenza non esaurisce i compiti della filosofia, ma acquista senso e significato soltanto quando la si riconosca come «parte della metafisica» (Introduzione alla metafisica, 1904, nuova ed. 1987, p. 43). In altre parole la funzione della teoria della conoscenza è di svolgere una «preparazione negativa all’opera positiva della metafisica» (p. 325); ma non appena si passi dalla determinazione oggettiva del dato alla domanda circa il «senso» del mondo che si costituisce nella sintesi conoscitiva, la teoria della conoscenza non basta più e si pone invece l’esigenza di un’esplicazione del reale che è compito della metafisica vera e propria (pp. 381, 139-40). L’ampia analisi che Martinetti conduceva della conoscenza sensibile e della conoscenza razionale, sempre tenendo presente la filosofia di Immanuel Kant, metteva a fuoco il processo attraverso il quale la ragione, a partire dai dati sensibili e via via trasfigurando la realtà sul piano concettuale, raggiunge infine la pura realtà intelligibile: quel piano che Kant aveva chiamato noumenico e che Martinetti interpretava non già come una realtà attuale, bensì come un termine ideale, come una meta mai del tutto raggiungibile, come «il dover essere della realtà sensibile» (p. 370). L’Assoluto non è pertanto, alla maniera hegeliana, un processo (e Martinetti nutrì sempre una sostanziale avversione nei confronti di Georg Wilhelm Friedrich Hegel così come dei suoi epigoni italiani), ma un’Unità trascendente a cui infinitamente si tende, «il termine ideale» a cui aspira il nostro spirito che pure è «legato alla terra» (p. 371). Da questo punto di vista Kant appariva a Martinetti non tanto come il filosofo della conoscenza su cui insisteva il neokantismo contemporaneo, quanto come «il padre della nuova metafisica idealistica» (p. 199).
Nonostante i numerosi lavori preparatori, Martinetti non portò mai a compimento la progettata Metafisica generale a cui l’Introduzione del 1904 aveva aperto la strada. Tutto il suo percorso filosofico venne tuttavia snodandosi intorno a questo progetto, delineando via via le linee portanti di un idealismo religioso e di un impegno etico alimentati dal kantiano ‘regno dei fini’ che ispireranno le opere maggiori della maturità. Salendo alla cattedra milanese, nel 1906, Martinetti sottolineava la «funzione religiosa della filosofia», che nasce dal bisogno dell’anima nella ricerca incessante dell’unione con il «Tutto»: la vita spirituale, nella molteplicità delle sue forme, altro non è se non «un processo graduale di espansione, di liberazione, di potenziamento dello spirito» verso forme sempre più alte, verso l’Unità ultima (Saggi e discorsi, 1926, pp. 12, 26). Di lì a poco, sulle pagine del «Rinnovamento» (la rivista dei modernisti milanesi), Martinetti insisteva d’altra parte sulla centralità della morale, sul «presentimento imperioso» che noi abbiamo della sfera religiosa – il «vertice» della vita umana – attraverso il sentimento del dovere: «il sentimento del dovere è la forma sotto cui si rivela, nella coscienza dell’individuo, la presenza di questa realtà spirituale superiore». Quello che Martinetti chiamava «il rinnovato idealismo» si delineava insomma all’ombra del «pensiero immortale di Emanuele Kant» (pp. 35-39).
A Kant Martinetti dedicherà studi, edizioni e traduzioni, nonché i corsi universitari della metà degli anni Venti che confluiranno in un volume postumo; ma insieme a Kant sono Baruch Spinoza, Platone e i grandi classici della tradizione metafisica a impegnare la riflessione martinettiana, negli anni del primo conflitto mondiale così come nel lungo periodo che si chiude con il ritiro a Spineto. Tuttavia Martinetti fu anche autore ‘popolare’, capace di parlare di filosofia in un linguaggio chiaro e accessibile ai non addetti ai lavori. In particolare non si può non ricordare quel testo inconsueto per la cultura filosofica italiana che è il Breviario spirituale (uscito anonimo nel 1922). Martinetti perseguiva qui – auspici alcuni dei suoi ‘autori’ prediletti, da Spinoza ad Arthur Schopenhauer – l’ideale di una saggezza della vita o, meglio ancora, di una vita condotta secondo ragione, nella convinzione che «l’uomo è tanto più libero quanto più è ragionevole» (Breviario spirituale, a cura di A. Verrecchia, 2006, p. 7). Ne uscivano pagine di rigorosa ispirazione morale: di una moralità per un lato protesa nel raggiungimento di un fine e di un «perfezionamento spirituale» che sono sempre oltre la vita terrena, ma al tempo stesso radicata, per un altro lato, nella modesta riflessione sulle «cose della vita», configurando in tal modo una «filosofia popolare», una «filosofia semplice ed accessibile a tutti», attraverso la quale Martinetti promuoveva una morale ancorata «solidamente sul terreno della pratica quotidiana» (pp. 9, 12-13, 16, 18). L’ideale era quello di una vita austera, concentrata nell’aspirazione religiosa e purificata di ogni vanità terrena: come ammoniva Martinetti, occorreva «non essere schiav[i] della vanità, del lusso e della moda!» (p. 26).
L’immagine del Martinetti ‘ascetico’, fustigatore della vita contemporanea e dispensatore di un’umile saggezza quotidiana sempre rivolta al ‘regno dello spirito’, usciva indubbiamente rafforzata da queste meditazioni. Eppure proprio in quegli anni Martinetti mostrava di non ignorare in nessun modo lo ‘spirito del tempo’ e di essere ben consapevole dei rischi che correva la vita pubblica italiana ormai avviata al ventennio del regime totalitario fascista.
Nel settembre 1926, in un discorso agli studenti universitari canavesani tenuto a Castellamonte, Martinetti sottolineava come l’essenza dello Stato fosse nella giustizia: «dove non vi è giustizia non vi è stato, ma barbarie»; e per questo esortava a «un energico rinnovamento morale» dell’Italia, un compito per il quale si doveva fare appello ai giovani, alla «volontà di libertà e [alla] dirittura incrollabile» che sono proprie della giovinezza (Paviolo 2003, p. 93). Nel mese di marzo di quello stesso 1926, del resto, Martinetti era stato al centro di un episodio drammatico. Incaricato di organizzare a Milano il 6° Congresso nazionale di filosofia, egli aveva resistito alle pressioni dei neoscolastici e delle autorità fasciste che volevano impedire la partecipazione di Ernesto Buonaiuti, protagonista del movimento modernista scomunicato nel 1921 e sospeso a divinis nel 1926. Lo svolgimento tumultuoso del Congresso, disertato dai filosofi cattolici e divenuto occasione di resistenza al regime, culminò nella sospensione dei lavori da parte delle autorità e nello scioglimento della Società filosofica italiana che lo aveva promosso; e fu proprio Martinetti, in apertura dell’assise, a trovare parole memorabili per denunciare il clima in cui stava precipitando la cultura italiana proclamandosi «cittadino di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche» (Saggi filosofici e religiosi, a cura di L. Pareyson, 1972, p. 38).
La filosofia matura di Martinetti è profondamente segnata da questa prospettiva etico-religiosa, che appare al tempo stesso immersa nella situazione drammatica dell’Italia contemporanea e protesa verso quell’Unità ultima in cui le forme della cultura vengono superate e, in certa misura, negate. Ma nonostante Martinetti rivendicasse il valore di una personale meditazione metafisica fieramente chiusa nella propria «torre» (Sciacca 1943, p. 21), è pur vero che il processo di liberazione dell’uomo dai vincoli del tempo e della storia si compie comunque nel tempo e nella storia (Vigorelli 1998, p. 359). Ed è in questa luce che vanno lette le opere più significative di Martinetti, dal libro su La libertà (1928) al grande affresco di Gesù Cristo e il cristianesimo (1934; che fu messo all’Indice) sino alla maggior parte dei saggi raccolti in Ragione e fede (1942). Tre opere che scandiscono altrettanti grandi temi tra loro connessi: la libertà dell’uomo e il suo rapporto con la morale, la religione laica, e infine la ragione come comune fondamento, come unica «vera grazia» (Ragione e fede, 19442, p. 37). In particolare, se la libertà è (come voleva Kant) «attività conforme alla ragione», si dovrà parlare della libertà come di un processo di «graduale liberazione», come un graduale passaggio – in termini kantiani – dal carattere empirico al carattere intelligibile: perché la nostra vita empirica, sottolineava Martinetti con Spinoza, non è vita nella libertà ma vita verso la liberazione, verso l’ordine razionale divino, verso quel Dio che deve essere pensato come ragione (La libertà, 1928; nuova ed. a cura di G. Zanga, 1965, pp. 368, 434-35, 440, 444; Spinoza, a cura di F. Alessio, 1987, p. 261).
Del resto è questa la prospettiva che conduce Martinetti a vedere in Kant il punto di riferimento insostituibile per la stessa comprensione storica e filosofica del cristianesimo, giacché l’opera kantiana costituisce non solo «una vera riforma religiosa», ma il più consapevole tentativo di elaborare filosoficamente il tema della «chiesa invisibile» come autentica e unica chiesa «di tutti gli spiriti» (Gesù Cristo e il cristianesimo, 1934; nuova ed. a cura di G. Zanga, 2° vol., 1964, pp. 111, 273). Il regno di Dio annunciato da Gesù e il mondo intelligibile di Kant, dirà poi Martinetti in uno dei saggi che compongono Ragione e fede, «sono fondamentalmente la stessa cosa» (Ragione e fede, cit., 19442, p. 371); ed è questo veramente il focus imaginarius verso cui tende tutto il pensiero di Martinetti, alimentando la stessa dimensione terrena che nelle pagine inedite sull’amore o nell’appassionata difesa della zoofilia si rivela anche per lui – il filosofo della «sublimazione sempre più perfetta della vita» (L’amore, a cura di A. Di Chiara, 1998, p. 85) – tanto irrinunciabile quanto lo è il ‘regno dello spirito’.
L’anno dopo l’abbandono da parte di Martinetti della cattedra universitaria milanese, Banfi fu chiamato all’Università statale di Milano per insegnarvi storia della filosofia. La coincidenza apparentemente casuale rimanda in realtà a una biografia intellettuale e a un percorso filosofico che si intrecciano in maniera significativa con la personalità di Martinetti.
Nato a Vimercate il 30 settembre 1886, Banfi sino al liceo compì i suoi studi a Mantova, dove il padre era preside dell’Istituto tecnico. Nel 1904 si iscrisse alla Regia accademia scientifico-letteraria di Milano, dove si laureò in lettere nel 1908 discutendo una tesi su Francesco da Barberino condotta sotto la guida di Francesco Novati. Ben presto, però, Banfi abbandonò gli interessi filologico-letterari, stimolato anche dall’entusiastica scoperta di Hegel; e nell’autunno 1909 si laureò in filosofia con Martinetti discutendo una tesi dedicata al pensiero francese contemporaneo che prendeva in esame l’opera di Charles Renouvier, di Émile Boutroux e di Henri Bergson.
Nel «provinciale piemontese» Martinetti – come scriverà molti anni più tardi – Banfi aveva trovato il rigoroso «impegno della ragione», alimentato dalla consuetudine con Kant e con la filosofia tedesca contemporanea che collocavano Martinetti lontano dal naturalismo positivistico e dall’idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Eppure, considerata retrospettivamente, la figura di Martinetti doveva apparire a Banfi anche nei suoi limiti più vistosi: da un lato Banfi avrebbe lamentato l’insensibilità dell’idealismo trascendente nei confronti della «fenomenologia della vita e dello spirito», dall’altro egli intendeva respingere il peso eccessivo attribuito da Martinetti alla dimensione etico-religiosa, che andava invece ridimensionata per dare spazio a un ben più «radicale illuminismo» (Filosofi contemporanei, a cura di R. Cantoni, 1961, pp. 51-66). Già negli anni giovanili, del resto, Banfi era uscito dalla «scuola milanese» con una «doppia sete» di «ragione e di vita» che lo aveva spinto a recarsi in Germania, per frequentare la filosofia tedesca in cui trovava espressione, nell’inquieta vigilia della guerra mondiale, una profonda e drammatica «crisi di cultura» (La ricerca della realtà, 1° vol., 1959, p. 1). Nel 1910-1911, con il sostegno di una borsa di studio finanziata dall’Istituto Franchetti di Mantova, Banfi si recò a Berlino, dove ebbe modo di seguire tra l’altro le lezioni di Georg Simmel e di frequentare il circolo intellettuale raccolto intorno a lui; e proprio Simmel doveva diventare uno degli ‘autori’ di Banfi, soprattutto in virtù di quella tensione dialettica tra la «vita» e le «forme» che costituisce il nodo cruciale della filosofia della cultura simmeliana. Ma dalla breve e intensa esperienza tedesca Banfi aveva tratto al contempo un crescente interesse per il neokantismo (specie per il neokantismo della scuola di Marburgo), per la fenomenologia di Edmund Husserl, per le filosofie della vita e della cultura, per la ‘rinascita hegeliana’, nonché per quelle tendenze ‘irrazionalistiche’ e per quelle filosofie della ‘crisi’ che – per lo più assenti nel panorama filosofico italiano – diverranno componenti fondamentali del razionalismo critico banfiano delineato nel corso degli anni Venti.
Tornato in Italia nel 1911, Banfi si dedicò alla carriera di insegnante liceale a Lanciano, Urbino e Iesi, poi ad Alessandria e infine a Milano. L’ingresso nella vita universitaria avverrà solo nel 1930, dapprima come incaricato del corso di filosofia al Regio istituto superiore di Firenze, poi nel 1931 come professore di storia della filosofia e vincitore di concorso a Genova e infine dal 1932 a Milano, dove insegnerà sino alla morte. Gli anni milanesi sono gli anni in cui Banfi si afferma come esponente di spicco della cultura filosofica italiana, dando ben presto vita a una scuola influente formata da giovani studiosi come Luciano Anceschi, Giovanni Maria Bertin, Dino Formaggio, Remo Cantoni, Enzo Paci, Giulio Preti, Luigi Rognoni. Nel 1940 Banfi fondò «Studi filosofici», una rivista che «riuscì unitaria senza essere monocorde» e la cui impronta sulle ‘cronache di filosofia italiana’ di quegli anni fu rilevante (E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, 1974, pp. 241-64). Sospesa dalle autorità fasciste nel 1944, la rivista riprese le publicazioni nel 1946, per cessare definitivamente nel 1949 quando la ‘scuola milanese’ di Banfi stava ormai frantumandosi in indirizzi non più conciliabili.
Già nel periodo berlinese e poi nel primo dopoguerra Banfi aveva maturato un interesse crescente per i problemi politici e per le vicende del socialismo; ma la militanza politica vera e propria iniziò molto più tardi, quando nel 1941 egli entrò in contatto con la rete clandestina del Partito comunista italiano, per poi aderirvi e partecipare alla Resistenza a Milano (nel 1944, con Eugenio Curiel, lavorò all’organizzazione del Fronte della gioventù). Nel dopoguerra Banfi venne eletto nel Consiglio comunale di Milano e nel 1948 divenne senatore come rappresentante del Fronte popolare, per essere poi rieletto nel 1953 nelle liste del Partito comunista italiano. Sono gli anni in cui Banfi partecipa alle battaglie e ai dibattiti sulla scuola, entra nel Comitato centrale del Partito comunista, visita l’URSS e la Cina, elaborando contestualmente una ‘via al marxismo’ che riformula l’impianto originario del suo razionalismo critico alla luce della categoria storico-pragmatica dell’«uomo copernicano». Morì il 22 luglio del 1957: il suo feretro accompagnato per le vie di Milano da uno stuolo di bandiere rosse è l’immagine forse più eloquente del percorso ultimo di Banfi.
L’opera principale di Banfi è senza dubbio il libro del 1926 sui Principi di una teoria della ragione, che rappresenta la base teorica a partire dalla quale Banfi ha costruito la sua prospettiva filosofica. Tuttavia, a differenza dell’Introduzione alla metafisica di Martinetti (che Banfi ha comunque largamente presente), i Principi non costituiscono la preparazione di una metafisica fondata sulla teoria della conoscenza, bensì un’indagine critica sulle strutture della ragione e sulle categorie formali del conoscere operanti sul duplice piano della ragione scientifica e della ragione filosofica: i due momenti nei quali si esprime, per Banfi, «la trascendentalità razionale», l’uno rivolto alla varietà dell’esperienza, l’altro al principio unitario che ne opera la sintesi (Principi di una teoria della ragione, nuova ed. 1967, p. 100).
Se di metafisica si può parlare, essa è da intendersi non nel senso di «un essere metafisico», bensì nel senso della totalità dell’esperienza, in cui ogni aspetto particolare e statico è travolto dalla «potenza di una Vita che trascende in ogni punto se stessa e di cui la ragione esprime tale pura libertà» (p. 199). Nell’impianto neokantiano del razionalismo critico di Banfi, che supera il carattere chiuso e immobile dell’apparato delle categorie kantiane in nome della storicità e della dinamicità delle forme del sapere (in primo luogo del sapere scientifico), irrompeva così il momento della vita e dell’incessante farsi ‘più che vita’ che Banfi aveva appreso da Simmel. La familiarità con la scuola di Marburgo, con Husserl, con il neohegelismo, con l’idealismo angloamericano o con il neocriticismo francese non impedivano pertanto a Banfi di denunciare i limiti di un razionalismo astratto e di invocare il pieno riconoscimento dell’irrazionale come «il momento di vita del razionale» (p. 81). Privata la ragione di ogni irrigidimento metafisico e risolta la razionalità critica in un compito, in un’idea-limite, Banfi intendeva così restituire alla filosofia il carattere di meditatio vitae e di riflessione sistematica su tutte le forme del sapere, sulla cultura nelle sue diverse direzioni. La ragione è la «legge di un infinito compito del sapere» e al tempo stesso la «potenza creatrice» che organizza l’esperienza risolvendone le antinomie in un tessuto di relazioni: il «razionalismo trascendentale» non è dunque una soluzione tra altre possibili, ma «la posizione filosofica in generale, in cui tutte s’inverano» (pp. 197, 202, 226-27).
Alla luce di questa impostazione, dagli anni Trenta, Banfi avrebbe sviluppato una filosofia della cultura che si accompagnava alla delineazione di una galleria ideale di autori, inseriti nel quadro più ampio di una storia della cultura concepita come affresco di un’intera epoca. Si collocano in questa prospettiva le lezioni su Friedrich Nietzsche e su Spinoza pubblicate postume o, su un altro versante, la biografia intellettuale di Galileo Galilei uscita nel 1930, fino al libro del 1943 su Socrate, simbolo di una coerenza morale che non è una «dottrina», ma «una vita, una vita la cui esperienza non ha nulla di astratto, di intellettuale, di dottrinario» (Socrate, a cura di E. Garin, 1984, p. 40).
Ma il lavoro di Banfi si concentrava soprattutto sulla crisi della cultura e della civiltà contemporanee, con una particolare sensibilità per quelle correnti ‘irrazionalistiche’ e per quelle tendenze vitalistiche che gli erano familiari sin dai tempi della prima frequentazione dell’ambiente tedesco. Ed è a partire di qui che negli anni Trenta Banfi si rivolse anche all’estetica, pur mantenendo sempre il quadro di riferimento di una «filosofia della cultura» intesa – in termini neokantiani – come «definizione dell’idea o della legge che determina l’esperienza culturale» (La ricerca della realtà, 2° vol., 1959, p. 386). A questa impostazione si richiamano le riflessioni che Banfi venne sviluppando sulla natura e sui problemi dell’estetica filosofica, in una posizione critica nei confronti dell’estetica crociana e tesa a rivendicare il carattere anche eteronomo dell’arte, l’importanza delle tecniche artistiche e il rapporto che l’esperienza estetica intrattiene con altre forme di esperienza. «Il principio estetico» di cui parlava Banfi assumeva così il ruolo di una «legge unitaria della struttura estetica dell’esperienza», che deve essere messo in relazione con le altre sfere della cultura «secondo il principio universale che ne esprime la reciproca correlazione» (Opere, 5° vol., a cura di E. Mattioli, G. Scaramuzza, 1988, pp. 13-14). A queste formulazioni di principio egli accompagnava contestualmente l’attenzione per la vita concreta dell’arte, su cui si soffermavano molte sue lezioni universitarie; e furono proprio queste lezioni a fare di Banfi il filosofo corteggiato dai circoli artistici e letterari milanesi, punto di riferimento per una cultura inquieta che troverà espressione nelle pagine di una rivista sempre più orientata verso la ‘fronda’ intellettuale come «Corrente di vita giovanile» (Papi 1990, pp. 100-05).
Con l’inizio del periodo bellico e la fondazione di «Studi filosofici» il pensiero di Banfi entrò in una nuova fase. Per un verso la rivista voleva essere una tribuna di discussione dei problemi della filosofia contemporanea, che secondo Banfi potevano trovare risoluzione in una «sistematica del sapere» aperta all’esperienza e alla vita. Indirizzi diversissimi tra loro come l’empirismo della «scuola di Vienna» o le varie forme di «irrazionalismo» di cui l’esistenzialismo era la manifestazione più recente e problematica venivano intesi da Banfi come aspetti parziali, ma in sé positivi, della «dissoluzione del razionalismo dogmatico»: passaggi obbligati di una crisi di cultura che dalla degenerazione di «un romanticismo estremo» avrebbe tratto linfa per «un nuovo aperto illuminismo umanistico» (Filosofi contemporanei, a cura di R. Cantoni, cit., pp. 5-33). Ma gli allievi di Banfi avrebbero progressivamente messo in discussione la prospettiva del razionalismo critico, ora battendo la via dell’esistenzialismo ormai affacciatosi anche sulla scena italiana (come nel caso di Paci) o quella della filosofia della scienza maturata nell’Europa danubiana (come nel caso di Preti), ora leggendo la crisi dell’uomo contemporaneo al di fuori dell’ottimismo progressista del maestro (come iniziava a fare Cantoni). Soprattutto però, ed è questo il secondo aspetto, l’avvicinamento di Banfi al Partito comunista e la sua militanza politica comportavano un significativo mutamento di prospettiva, che si incentrava ora – tra guerra e dopoguerra – sul marxismo e sulla «coscienza progressiva dell’umanità» come nuovo orizzonte del razionalismo critico, non a caso definito non più razionalismo «trascendentale» quanto piuttosto razionalismo «dialettico costruttivo» (Valore 1999, p. 1).
L’orientamento politico-ideologico di Banfi si manifestava particolarmente nelle ultime annate di «Studi filosofici» e trovava espressione nel volume L’uomo copernicano del 1950 (che raccoglie i saggi degli anni precedenti). Qui il marxismo come «sapere pragmatico» diventava il criterio valutativo della cultura contemporanea e il quadro entro il quale collocare i compiti di un razionalismo critico ravvivato dall’apporto del materialismo storico. Cadeva così su Croce e Gentile, sullo yankee John Dewey e sul neopositivismo, su Martin Heidegger e su Karl Jaspers (e persino sul «piccolo borghese» Martinetti) un giudizio di estrema durezza, non diversamente da quanto avveniva a proposito di Jean-Paul Sartre e di Gabriel-Honoré Marcel, «schiuma soggettiva di un insipido culturalismo» (L’uomo copernicano, 1950, p. 220). Dall’altra parte la fiducia nella potenza liberatrice dell’«uomo copernicano», che costruisce il suo mondo e indirizza la ragione e la tecnica sulla base dell’umanesimo radicale rappresentato dal marxismo (p. 395), assumeva il volto di un programma di politica culturale non facilmente armonizzabile con l’apertura intellettuale di chi in gioventù si era formato leggendo Simmel e Husserl. Il marxismo come «sapere pragmatico», l’elogio del materialismo dialettico come «schema del sapere storico, criterio dell’interpretazione storica di ogni realtà umana» (pp. 52-55, 379) oscuravano, e forse mettevano a tacere, quella
drammatica relazione tra la vita, che può vivere solo trascendendosi, e quindi nell’infinità della ragione, e l’infinità della ragione che deve incarnarsi, determinarsi, entrare nella storia, nel tempo e, quindi, nella negazione della propria infinità (E. Paci, Relazioni e significati, 1° vol., Filosofia e fenomenologia della cultura, 1965, p. 20)
a cui il pensiero di Banfi degli anni Venti aveva dato espressione.
Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana, Torino 1896; nuova ed. a cura di P. Caracchi, Milano 1981.
Introduzione alla metafisica, 1° vol., Teoria della conoscenza, Torino 1904; nuova ed. Casale Monferrato 1987.
Breviario spirituale, Milano 1922 (anonimo); nuova ed. a cura di A. Verrecchia, Torino 2006.
Antologia kantiana, Torino-Milano 1925.
Saggi e discorsi, Torino-Milano 1926; nuova ed. con il titolo Funzione religiosa della filosofia. Saggi e discorsi, a cura di L. Pareyson, Roma 1972.
Breviario di metafisica, Milano 1926 (anonimo).
La libertà, Milano 1928; nuova ed. a cura di G. Zanga, Torino 1965.
Gesù Cristo e il cristianesimo, Milano 1934; nuova ed. a cura di G. Zanga, 2 voll., Milano 1964.
Ragione e fede. Saggi religiosi, Torino 1942, 19442; nuova ed. a cura di L. Pareyson, Napoli 1972.
Schopenhauer, Milano 1941, Genova 20052.
Kant, Milano 1943, 19682 (rist. anast. Torino s.d.).
Hegel, Milano 1943; nuova ed. a cura di G. Carchia, Milano 1985.
Saggi filosofici e religiosi, a cura di L. Pareyson, Torino 1972.
Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura di E. Agazzi, 2 voll., Milano 1976.
Spinoza, a cura di F. Alessio, Napoli 1987.
Il pensiero di Africano Spir, a cura di F. Alessio, Torino 1990.
L’amore, a cura di A. Di Chiara, Genova 1998.
Pietà verso gli animali, a cura di A. Di Chiara, Genova 1999.
La religione di Spinoza. Quattro saggi, a cura di A. Vigorelli, Milano 2002.
M.F. Sciacca, Martinetti, Brescia 1943.
F. Alessio, L’idealismo religioso di Piero Martinetti, Brescia 1950.
Giornata martinettiana: 16 novembre 1963, Torino 1964.
C. Terzi, Piero Martinetti. La vita e il pensiero originale, Bergamo 1966.
G. Bersellini Rivoli, Il fondamento eleatico della filosofia di Piero Martinetti, Milano 1972.
V. Meattini, Ragione teoretica e ragione pratica. Martinetti interprete di Kant, Pisa 1988.
C. Scarsella, Piero Martinetti: politica e filosofia. Con alcuni pensieri inediti, Napoli 1989.
Piero Martinetti nel cinquantenario della morte, a cura di P. Rossi, «Rivista di filosofia», 1993, 3, pp. 329-554.
A. Vigorelli, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Milano 1998.
A. Paviolo, Piero Martinetti aneddotico. L’uomo, il filosofo, la sua terra, Aosta 2003.
A. Vigorelli, Martinetti Piero, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 71° vol., Roma 2008, ad vocem.
La filosofia e la vita spirituale, Milano 1922; nuova ed. a cura di L. Sichirollo, Roma 1967.
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Vita di Galileo Galilei, Milano 1930; nuova ed. Milano 1962.
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L’uomo copernicano, Milano 1950.
La ricerca della realtà, 2 voll., Firenze 1959.
Saggi sul marxismo, a cura di D. Banfi, Roma 1960.
Filosofi contemporanei, a cura di R. Cantoni, Firenze 1961.
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Filosofia dell’arte, a cura di D. Formaggio, Roma 1962.
Incontro con Hegel, a cura di P. Rossi, Urbino 1965.
Studi sulla filosofia del Novecento, a cura di D. e R. Banfi, Roma 1965.
La crisi, a cura di C. Bo, Milano 1967.
Umanità, pagine autobiografiche raccordate da D. Banfi Malaguzzi, Reggio Emilia 1967.
Esegesi e letture kantiane, a cura di L. Rossi, 2 voll., Urbino 1969.
Spinoza e il suo tempo, a cura di L. Sichirollo, Firenze 1969.
Scritti letterari, a cura di C. Cordié, Roma 1970.
Introduzione a Nietzsche. Lezioni 1933-1934, a cura di D. Formaggio, Milano 1974.
Opere, 1° vol., La filosofia e la vita spirituale e altri scritti di filosofia della religione 1910-1929, a cura di L. Eletti, Reggio Emilia 1986; 6° vol., Pedagogia e filosofia dell’educazione, a cura di G.M. Bertin, L. Sichirollo, Reggio Emilia 1986; 13° vol., t. 1, Scritti e discorsi politici. Scuola e società, a cura di A. Burgio, Reggio Emilia 1987; 5° vol., Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli, G. Scaramuzza, Reggio Emilia 1988.
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Ad Antonio Banfi cinquant’anni dopo, a cura di S. Chiodo, G. Scaramuzza, Milano 2007.