CARMINE, Pietro
Nato a Camparada (Milano) il 13 nov. 1841 da Saverio e da Carlotta Speroni, e laureatosi in ingegneria, a 26 anni era eletto nel Consiglio comunale di Vimercate (incarico già tenuto dal padre dal 1859). Nominato sindaco, verso la fine del 1870, rimase in carica fino ai primi del 1876, poi per altri sei anni fu assessore. Eletto nel Consiglio provinciale nel 1874, fu deputato provinciale effettivo dal 1875 al 1882; vicepresidente della sessione ordinaria del Consiglio del 1902, ne divenne presidente pochi mesi dopo (26 nov. 1902). Entrato in Parlamento dopo la prima riforma elettorale nelle elezioni generali politiche del 1882 (XV legislatura) fra i rappresentanti del terzo collegio di Milano, fu rieletto senza interruzione fino alla XXIII legislatura, passando dal terzo collegio di Milano a quello di Vimercate quando, nella XVII legislatura (1890-92), fu approvata la legge - di cui era relatore - per l'abolizione dello scrutinio di lista. Alla Camera fece parte del gruppo liberale-conservatore lombardo, con G. Colombo, R. Casati, R. Taverna, A. Sola-Cabiati e G. C. Bianchi, e occupò sempre idealmente il medesimo posto. Ebbe una speciale competenza in argomenti tecnici e finanziari, e lo dimostrò intervenendo, nella tornata del 30 nov. 1885, a favore di quella perequazione fondiaria che, riproposta dal ministero al Parlamento, avrebbe favorito i proprietari del Nord, fino allora più colpiti di quelli del Sud dalle imposte sulle terre censite a catasto: su questo tema il C. tornerà a insistere più volte durante la sua attività politica. Dopo aver seguito A. Depretis sulla via del trasformismo, divenuto tenacissimo assertore del programma delle economie, combatté F. Crispi. La sua opposizione, peraltro simile nelle motivazioni a quella di altri moderati lombardi, era dovuta sia all'ostilità per le avventure coloniali nelle quali Crispi stava portando l'Italia, sia alla sua tecnica di governo tra l'autoritario e il dittatoriale che sottovalutava il ruolo del Parlamento. Ma il C. combatté anche A. di Rudinì, pur se in tono minore: al ministero, infatti, che era sorto col programma delle economie, egli aveva prima concesso la sua fiducia, ma la negò quando gli parve che mancasse all'impegno delle economie militari.
Dal 1885 in poi il nome del C. s'incontra più spesso nelle discussioni parlamentari, di cui alcune rimasero famose, come quella del 1885 sulle convenzioni ferroviarie e quella del 1889 sugli istituti di beneficenza. Il primo importante documento parlamentare col suo nome è la relazione della Commissione per il disegno di legge (15 dic. 1890) sul ritorno al collegio uninominale, di cui fu tra i proponenti. La Commissione era presieduta da F. Martini, e ne facevano parte anche R. Bonghi, S. Sonnino e B. Grimaldi: il C. constatava che lo scrutinio di lista era fallito proprio in ciò per cui era stato istituito, sottrarre cioè il governo della nazione a interessi personali e locali, e che aveva invece soffocato il senso del bene pubblico e del dibattito politico. Il C. fece parte, inoltre, del Comitato dei cinque (con A. Damiani presidente, F. Cavallotti segretario, G. Cibrario relatore, L. Chinaglia), che redasse una relazione, nei giorni 11 e 12 dic. 1894, sul famoso "plico Giolitti", contenente documenti che si ritenevano sottratti da Giolitti all'epoca del suo primo ministero e che coinvolgevano la responsabilità di F. Crispi per gli scandali bancari.
Seguace della politica del "piede in casa", ovvero del disimpegno dall'impresa africana, entrò nel secondo ministero presieduto dal di Rudinì il 10 marzo 1896 in qualità di ministro delle Poste e Telegrafi, accentuando con la sua presenza il carattere moderato del governo, ma vi restò solo fino al 14 luglio, ritirandosi in seguito alla crisi parziale per la quale uscirono dal governo anche O. Caetani, G. Colombo, C. Ricotti Magnani e C. Perazzi. I dissensi riguardavano sempre l'ordinamento dell'esercito: infatti il C., rappresentando l'opinione allora dominante della regione lombarda, in cui prevalevano considerazioni economiche, riteneva che l'ordinamento più ridotto non dovesse menomare l'efficacia bellica. Il C. fu di nuovo al governo dal 14 maggio 1899 al 24 giugno 1900 in qualità di ministro delle Finanze nel secondo gabinetto Pelloux. Benché il governo, a differenza del precedente presieduto dallo stesso Pelloux, non avesse tra gli obiettivi la modifica del sistema tributario mirando al consolidamento delle finanze pubbliche, il C. proseguì e svolse con diligenza e rigore l'opera di riordinamento finanziario intrapreso dal 1891. La preoccupazione politica che dominò il ministero non permise al C. di attuare le importanti riforme che progettava, quali la revisione del sistema di percezione di certe imposte e la relativa modifica delle aliquote per una più equa valutazione dei redditi. Portò comunque alla Camera, nella tornata del 28 nov. 1899, insieme al collega di Grazia e Giustizia A. Bonasi, un disegno di legge "sulla formazione e sulla conservazione del catasto e sulla determinazione dei suoi effetti giuridici". Il disegno si divideva in tre parti: nella prima si proponevano provvedimenti per l'esecuzione del catasto in tutte le province per perequare l'imposta fondiaria fra tutti i contribuenti, che era stato uno dei fini della legge del 1886; nella seconda si determinavano gli effetti giuridici del catasto, e si proponevano alcune aggiunte alla legislazione civile; nella terza si intendeva provvedere ai modi di conservazione delle risultanti catastali.
Fermo nella rigida difesa degli interessi dello Stato contro le resistenze degli interessi privati, il C. riuscì a condurre in porto la riduzione dell'eccessiva produzione di zucchero. Ebbe poi una parte notevole nelle vicende del breve ministero Sonnino, in cui, dall'8 febbr. al 29 maggio 1906, resse il dicastero dei Lavori Pubblici.
La questione più viva e urgente era quella ferroviaria: l'anno prima si era passati all'esercizio di Stato, addirittura stabilito in solo settanta giorni di intercorrenza dalla legge, benché il C. avesse già sulla Riforma sociale del 15 sett. 1897 avvertito Parlamento e paese che era scarso il tempo per studiare le modificazioni da introdursi nell'esercizio delle ferrovie italiane a partire dal 1º luglio 1905. Gli aveva dato atto G. Saracco, nell'articolo Il fondo di sgravio e le ferrovie sulla Nuova Antologia del 16 genn. 1898, di essere stato tra i primi a toccare l'argomento. Nel suo articolo, La questione ferroviaria, il C. sosteneva che l'esercizio doveva essere ispirato a un criterio essenzialmente commerciale, e attaccava l'esercizio di Stato perché gli azionisti interessati al prodotto dell'azienda ferroviaria, cioè la totalità dei contribuenti, avrebbero dovuto sostenere il peso della parte di spese che non risultasse coperta dai relativi introiti: le tariffe ferroviarie perdevano cioè il carattere di corrispettivi commerciali pagati da chi riceve un servizio a colui che lo presta, per assumere quello d'imposte la cui misura avrebbe finito per essere determinata non più in base a criteri commerciali ed economici, ma in relazione alle esigenze del bilancio dello Stato e alla maggiore o minore gravezza di tutti gli altri tributi. L'alternativa che il C. proponeva, escludendo il sistema dell'appalto dell'esercizio allora in vigore, e quello della concessione intera, era di lasciare il prodotto lordo dell'esercizio alla società esercente, che si obbligava a pagare allo Stato un canone fisso, con la partecipazione dello Stato agli utili netti della società. Riprese queste tesi in altri articoli sulla Nuova Antologia nel 1901 e nel 1903, poco o niente ascoltate, finché, di fronte all'approvazione dell'esercizio di Stato, lo commentò con l'articolo Retorica ferroviaria sulla Nuova Antologia del 1ºdic. 1905: allo stato presente delle cose, scriveva, non sarebbe stata attuabile in Italia nessuna delle diverse forme possibili di contratto d'appalto dell'esercizio ferroviario, tanto più che l'appalto non avrebbe risolto convenientemente il difficile problema della copertura delle spese per i lavori di completamento e miglioramento delle linee. Certo c'erano difetti nell'esercizio di Stato: per la connessione tra il bilancio industriale ferroviario e il bilancio generale dello Stato, per l'immancabile rallentamento nel disbrigo degli affari, dovuto ai maggiori controlli cui l'amministrazione avrebbe dovuto sottoporsi, per il pericolo di ingerenze estranee derivanti dalle condizioni particolari del regime parlamentare; per la mancanza di quella difesa contro eventuali soprusi e disordini dell'amministrazione che, sotto il regime dell'esercizio privato, il pubblico trovava nel governo e che scompariva nell'esercizio di Stato perché il governo, divenuto una delle parti contendenti, non poteva più essere giudice. Di conseguenza il C. auspicava la massima indipendenza ed autonomia per l'amministrazione, ma non le vedeva facilmente realizzabili essendo questa alla dipendenza del ministro dei Lavori Pubblici nel cui nome doveva agire il direttore generale.
Il C. era già stato relatore del disegno di legge per una prima provvista di fondi per l'esercizio ferroviario di Stato. La Camera quasi all'unanimità lo considerò uno dei pochi competenti in grado d'assumersi il compito, e il C. si trovò quindi a sostenere il suo progetto come ministro. Lo Stato aveva assunto, nel 1905, leintere reti delle società Mediterranea e Sicula, ma solo una parte dell'Adriatica, dell'altra parte restando concessionaria fino al 1966 la Società delle Meridionali. Imponendosi però l'unificazione dell'esercizio di tutte le grandi reti, il C. trattò una nuova convenzione con la società, dopo aver scartato il ricorso ad un'imposizione legislativa. La convenzione fu sottoposta alla Camera, ma la richiesta di sollecita approvazione fu respinta. La medesima convenzione fu approvata con una sola modifica nel successivo ministero, e il C. si compiacque per la sanzione legislativa data alla sua opera, anche se con la firma del successore.
Il C. rivolse la sua attività anche al settore della beneficenza, specie in favore degli storpi e dei mutilati, sostenendo la creazione di scuole di lavoro, utili non solo per l'aspetto umanitario, ma anche per quello sociale ed economico. Il C. ne trattò nell'articolo Beneficenza moderna sulla Nuova Antologia del 1ºmaggio 1908, dove sosteneva la necessità dell'intervento dello Stato per integrare e consolidare gli effetti della filantropia privata. Poiché era duplice la funzione delle scuole di lavoro, di addestramento dei deformi al lavoro e di impiego degli allievi che non potessero guadagnare a sufficienza col mestiere imparato, il C. auspicava la creazione di due diverse categorie di istituti, scuole di lavoro prima e case di lavoro poi.
Benché le energie del C. andassero scemando, nel maggio 1910 fu designato all'ufficio della vicepresidenza perché il più adatto a raccogliere un largo suffragio. In quella carica il 19 maggio 1913 compì, con gli altri vicepresidenti, un'inchiesta sul comportamento di sei deputati coinvolti nello scandalo per il palazzo di Giustizia: l'esame dei documenti da rendere pubblici fu la sua ultima attività parlamentare.
Morì a Milano il 10 luglio 1913.
Oltre agli articoli citati, si ricordano: Esercizio ferroviario e progresso economico, in Nuova Antologia, 1º genn. 1901, pp. 122-139; Esercizio ferroviario per conto dello Stato. ibid., 1º genn. 1903, pp.98-120.
Fonti e Bibl.: Cenni biografici in T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazion., Terni 1890, p. 236; A. Malatesta, Ministri, deputati e senatori d'Italia dal 1848 al 1922, Roma 1946, I, p. 212. Per la linea di condotta polit. e parlamentare, oltre gli Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discuss., legislature XV-XXIII (1882-1913), ad Indices, in partic.: legislatura XV, I sess., tornata del 30 nov. 1885, pp. 15345-15354; legislatura XX, III sess., tornata del 28 nov. 1899, p. 259; S. Cilibrizzi, Storia parlamentare, politica e diplomatica d'Italia da Novara a Vittorio Veneto, Milano 1925, II, pp. 432, 545; III, pp. 3, 58, 109, 123, 319; IV, pp. 32, 380; si vedano A. Salandra, P. C. in Parlamento, in Nuova Antologia, 1º marzo 1914, pp. 57-64; Dalle carte di G. Giolitti: Quarant'anni di politica ital., a cura di P. D'Angiolini, Milano 1962, I, pp. 52, 54, 318, 366, 402, 414; G. Carocci, A. Depretis e la politica interna ital., Torino 1956, p. 430; F. Fonzi, Crispi e lo "Stato di Milano", Milano 1956, pp. 178, 307, 315, 501, 508, 514, 536. Sui problemi finanziari cfr. L. Luzzatti, Il progetto di legge Bonasi-Carmine sugli effetti giuridici del catasto, in Riforma sociale, s. 2, VII(1900), pp. 291-322; G. Borragine, Della pubblicità immobiliare in relazione alle proposte Carmine e Bonasi sugli effetti giuridici del catasto, in Memorie e Annali della Soc. agraria della provincia di Bologna, Bologna 1901, pp. 147-170; A. Plebano, Storia della finanza ital. nei primi quaranta anni dell'unificazione, Padova 1960, III, pp.375-380; F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975, p. 79. Suiproblemi ferroviari cfr. F. Taiani, Storia delle ferrovie ital., Milano 1939, pp. 115-130; La gestione di Stato delle ferrovie ital. (1905-1955), Roma 1956, p. 5; L. Einaudi, Cronache economiche e polit. di un trentennio (1893-1925), Torino 1959, II, 1903-1909, pp. 318-320, 326-329.