Pietro da Eboli
Su questo poeta, che, sul finire del XII sec. scrisse in latino carmi di tipo storico-encomiastico e didascalico, possediamo solo poche notizie, che derivano in gran parte dai suoi stessi componimenti. Nel colofone del Liberad honorem Augusti ‒ opera dedicata all'imperatore Enrico VI, talvolta pubblicata anche col titolo di De rebus Siculis carmen o di Carmen de motibus Siculis ‒ l'autore si presenta come "magister Petrus de Ebulo, servus imperatoris fidelis"; nella parte conclusiva dell'altra opera De balneis Puteolanis, che ormai si attribuisce con una certa sicurezza al medesimo autore, l'Eboleus vates afferma di aver scritto anche un altro libellus, che aveva per argomento i "mira Federici gesta", che, tuttavia, non ci è pervenuto: le tre opere, in ogni caso, erano state composte "Cesaris ad laudem". Insomma, si ricava che era uno strenuo sostenitore dei rappresentanti della dinastia sveva e che, in particolare, era un sostenitore fedele di Enrico VI.
Da quell'imperatore, probabilmente, e forse in compenso della sua opera celebrativa, ricevette, iure hereditario, un "molendinum de Albiscenda in Ebolo consistens", se è da identificare con il nostro autore il magister Petrus versificator donatario di quel mulino, che ‒ a quanto risulta da un privilegio emanato da Federico II nel febbraio 1221 (Regesta Imperii, V, 1-3, 1881-1901, nr. 1280; 4, 1983, nr. 1280) ‒ in punto di morte lasciò in eredità alla Chiesa di Salerno. Poiché il 3 luglio 1220 Federico II, da Ulma, aveva già confermato alla Chiesa salernitana il possesso di quel mulino, si può dedurre che P. doveva già essere morto prima di quella data. Se, tuttavia, ci è consentito di circoscrivere l'epoca della sua morte, è assolutamente impossibile definire quella della nascita, anche se forse è da collocare negli anni Sessanta del XII sec.: nella miniatura posta alla c. 139r del manoscritto che contiene il carme in onore di Enrico VI, infatti, il poeta, l'imperatore e il cancelliere Corrado di Querfurt vengono rappresentati come coetanei. Dalla stessa miniatura possiamo desumere anche che il poeta era un chierico, dal momento che viene raffigurato con la tonsura.
Insomma, desultorie e incerte sono le notizie che lo riguardano, e non molto altro hanno potuto aggiungere le ricerche condotte soprattutto da Ettore Rota, editore del Liber ad honorem Augusti, che ha proposto di identificarlo con un "magister Petrus Ansolinus [o Ansolini] de Ebulo", menzionato in un privilegio di Federico II, del maggio 1219, in favore dell'abbazia di Montevergine. Ma tale attestazione si presenta molto aleatoria, così come quelle contenute in un diploma di Federico II dell'8 novembre 1239 e in un altro atto del 1244, nel quale anche si parla di un mulino sito in un luogo chiamato Albiscenda. Neppure sulla sua formazione culturale, del resto, si può dire qualcosa di preciso. Il fatto che si definisse magister non significa necessariamente che avesse frequentato uno Studium di tipo universitario, dal momento che, soprattutto in Italia meridionale, quel titolo era attribuito a chi avesse competenze specialistiche in determinati ambiti, non solo scientifici, ma anche artistici. In ogni caso possedeva una certa competenza di tipo medico, come dimostrano alcune descrizioni contenute nelle sue opere e soprattutto nel De balneis Puteolanis: è dubbio, però, che l'avesse acquisita a Salerno, sede della prestigiosa Scuola medica (v.). Possedeva, inoltre, anche una buona consuetudine di lettura dei classici, dal momento che si vantava di avere librerie piene di opere antiche (Magister Petrus de Ebulo, 1874, v. 1449) e che la sua opera dedicata alle imprese di Enrico VI era preceduta dalla citazione di versi di Virgilio, Lucano e Ovidio.
La prima opera scritta da P. è il Liber ad honorem Augusti, composta di tre libri di distici suddivisi in cinquantadue particulae. Fu scoperta dal geografo, economista, agronomo e statista Samuel Engel, che la pubblicò a Basilea nel 1746: da allora ne sono state approntate altre edizioni, basate sull'unico manoscritto che la riporta (Berna, Burgerbibliothek, ms. 120 II), che intercala ordinatamente testo e miniature, l'uno posto sul verso, le altre sul recto di ogni singolo foglio di pergamena, offrendoci pertanto la rappresentazione degli eventi del 1191-1194 ricorrendo a un innovativo doppio registro, narrativo e figurativo. Dato l'uso di materiali e colori pregiati, nonostante la presenza di correzioni, che sembrerebbero essere state apportate dalla mano dello stesso autore, non è improbabile che il manoscritto conservato fosse destinato a essere donato al dedicatario Enrico VI. Non sappiamo, però, se l'autore riuscì effettivamente a consegnarlo. Il Liber, in ogni caso, fu composto in un periodo compreso tra la fine del 1194, epoca in cui Enrico VI si impadronì dei territori dell'Italia meridionale sconfiggendo Tancredi conte di Lecce, e il 28 settembre 1197, data della morte dell'imperatore svevo. L'opera, pur essendo stata interamente composta in chiave celebrativa della dinastia sveva, non presenta, tuttavia, una struttura pienamente unitaria.
È, infatti, evidente un netto cambio di registro tra i primi due libri, che descrivono cronachisticamente la guerra per la successione al trono siciliano che seguì alla morte di Guglielmo II, e quello propriamente ad honorem Augusti, il terzo ‒ conclusivo e forse aggiunto in un secondo momento ‒, che offre soprattutto una raffigurazione di Enrico VI in cui la celebrazione mistica e ieratica dell'imperatore dimostra l'influenza di una tradizione culturale e letteraria che, precedentemente assente nel Regno, sembra essere simile a quella che ispirava Goffredo da Viterbo. Questo mutamento di tono, determinato probabilmente da una specifica richiesta del cancelliere Corrado di Querfurt, che assume un ruolo centrale proprio nell'ultimo libro, viene anticipato tuttavia, alla fine del secondo libro, dalla descrizione della nascita di Federico II e dei suoi presagia che, dando voce alle attese mistiche ed escatologiche che caratterizzarono la fine del XII sec., dà inizio al processo di mitizzazione dell'ultimo imperatore svevo (v. Mito).
Probabilmente poco dopo il Liber, forse entro il 1197, venne composto il De balneis Puteolanis, che Huillard-Bréholles, nel 1852, per primo attribuì a P.: nel tardo Medioevo, infatti, esso risulta variamente attribuito ad Alcadino o a Eustazio di Matera. In quest'opera ‒ la terza dopo il Liber e il perduto poema in cui si cantavano i "mira Federici gesta", ovvero le imprese di Federico I Barbarossa, come apprendiamo proprio dalla conclusione del De balneis ‒ vengono descritte le acque termali della zona flegrea, lungo il litorale che va da Napoli a Baia. Il poemetto è formato da trentacinque epigrammi, incorniciati da uno proemiale e da uno conclusivo, nei quali ‒ forse prendendo spunto da iscrizioni incise su lapidi antiche ‒ vengono celebrate, in sei distici, le virtù terapeutiche di trentacinque fonti e le infermità che riescono a curare. Esso venne scritto "Cesaris ad laudem": non è certo, però, quale sia l'imperatore, anche se sembra più plausibile che si tratti di Enrico VI e non di suo figlio Federico II, del quale, nella conclusione, si promette tuttavia di narrare le future imprese. L'opera, che, così come il Liber, presenta una ordinata alternanza di testo e miniature, dimostra una cultura in cui sono compresenti speculazione medico-scientifica e pratica empirico-popolare. Essa, in virtù del suo impianto didascalico, godette di una notevole fortuna nei secoli successivi (ne possediamo ventuno manoscritti e dodici edizioni a stampa tra il 1475 e il 1607), anche grazie ai volgarizzamenti che ne vennero fatti: uno è in napoletano, e se ne conoscono due redazioni, una databile al 1290-1310, l'altra risalente al 1340.
fonti e bibliografia
Opere
Petrus d'Ebulo, Carmen de motibus Siculis, a cura di S. Engel, Basileae 1746.
Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell'istoria generale del regno di Napoli, a cura di G. Gravier, XI, Napoli 1770.
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