CANTELMO, Pietro Giampaolo
Secondo duca di Sora, primogenito di Nicola e di Antonella da Celano, il C. fu tra i più ricchi e potenti baroni napoletani durante i regni di Alfonso I e Ferrante I d'Aragona. Le cronache napoletane lo ricordano protagonista con Sigismondo Malatesta, il 19 apr. 1452, di una "bellissima giostra mantenuta dal duca di Calabria" (De Lellis, p. 131). Alla morte del padre, nel 1453, divenne duca di Sora e signore di Alvito, terra che l'anno successivo re Alfonso, a prova del favore di cui il C. godeva, eresse in contea. Tra il 1454 e il 1458 si impadronì con la forza della contea di Popoli, che il padre aveva donato al secondogenito Giovanni in occasione del matrimonio di quest'ultimo con Giovannella Caetani, e in quello stesso periodo tolse con le armi il feudo di Alfedena al fratellastro del padre, Onofrio Gaspare. Alla morte di Alfonso I il favore del C. declinò rapidamente; la sua ricchezza e questi atti di prepotenza spiacquero a Ferrante I, e da ciò ebbero origine i rancori tra la casa regnante ed il potente barone.
A conferma di questa sua ricchezza e potenza bisogna ricordare che il C. già dal 1453 aveva aperto una zecca a Sora, dove coniò con la sua sigla una delle più comuni monete che circolassero allora in Italia, il bolognino d'argento.
La "scoverta e gran nimicitia" con il nuovo sovrano (Vincenti, p. 51) doveva fare del C. uno dei più baldanzosi avversari degli Aragonesi, nonostante fosse congiunto da vincoli di parentela con quella casa regnante, per aver sposato Caterina Del Balzo, che era sorella di Isabella, prima moglie di Ferrante I. La guerra con Giovanni d'Angiò rappresentò dunque l'occasione attesa per il C.; e fu facile al duca di Sessa, Marino Marzano, convincerlo a ribellarsi al re e a prendere le armi a favore dei Francesi. Nel novembre del 1459 il C. iniziò una campagna militare contro i feudatari rimasti fedeli agli Aragona, assalendo e conquistando i castelli vicini e attizzando la rivolta.
La sua azione militare era stata preceduta da un incontro e da trattative concluse personalmente con il principe angioino, il quale nell'ottobre 1459 scriveva al duca di Milano di avere aperto col duca di Sora e con il principe di Rossano "alcune pratiche" (Nunziante, p. 333).
Il C. confermò con i fatti la propria fedeltà ai patti stabiliti con i Francesi. Alla fine del 1459 fece uccidere il castellano di Benevento fedele agli Aragonesi e nel giugno del 1460 assalì, al passo di Cervara, le squadre pontificie entrate nel Regno, riportando un prezioso successo e catturando anche uno dei capitani romani, Giovanni Malavolta. Ma nell'ottobre di quello stesso anno 1460 le sorti del C., dopo gli iniziali successi, mutarono. Sventata a Sora una congiura per rovesciarlo e per consegnare la città all'esercito pontificio, nello stesso autunno egli fu assediato dalle forze del papa nel "Castelluccio" presso Sora e, dopo gravi perdite dall'una e dall'altra parte, si arrese e patteggiò la pace promettendo di tornare alla obbedienza di re Ferrante. Ma passato l'inverno "mutò fede e nessuna cosa osservò di quanto aveva promesso" (Summonte, p. 308).
La rottura dei patti spinse il re a spogliare il C. di gran parte dei suoi feudi e in particolare della contea di Alvito, concessa al fratello Giovanni, che aveva già riacquistato la contea di Popoli. Il C. continuò nella ribellione per tutto il 1462 tenendo testa, insieme con il principe di Taranto e con il conte di Campobasso, alle compagnie di Alessandro Sforza, finché l'intervento delle artiglierie dell'esercito pontificio al comando di N. Orsini non costrinse alla resa la rocca di Isola, in cui egli aveva condotto l'ultima resistenza. Subito dopo si arrese Arpino senza combattere e i cittadini di Sora inviarono ambasciatori al vescovo di Ferrara, che era legato pontificio al campo, per consegnare le chiavi della città.
Le condizioni di pace imposte al C. dal pontefice furono assai dure: egli infatti non solo doveva restituire quanto aveva preso con la forza ai suoi parenti ed al monastero di Montecassino, ma il suo ducato di Sora, passato sotto il dominio della Chiesa, era attribuito al nipote di Sisto IV, Leonardo Della Rovere. Il C. conservò assai poco del suo "vasto Stato" e nel giugno del 1463 ritornava all'obbedienza di Ferrante, "certificato dal pontefice che dal re non avrebbe ricevuta ingiuria alcuna" (Summonte, p. 491).
Da questo momento si perdono per lunghi anni le tracce del C. che rimase estraneo alle lotte del Regno, non scendendo in campo nemmeno in occasione della guerra contro Innocenzo VIII e i baroni ribelli. E nel 1487, rinunziando anche ad Alvito, ultimo possesso che gli era rimasto nel Regno, si trasferì dapprima a Roma, e successivamente a Ferrara, "ove da quel duca fu cortesemente alimentato finché visse" (De. Lellis, p. 133). Ma quando le armi francesi ritornarono in Italia con Carlo VIII, l'ormai vecchio duca prese nuovamente le armi contro la casa d'Aragona.
Infatti durante i primi mesi del 1495 furono coniate numerose monete di rame che recavano da un lato lo scudo di Francia e il nome di Carlo VIII e dall'altra la sigla del C.: dunque la zecca di Sora, rimasta inattiva dopo la cacciata del duca, aveva ripreso a funzionare per il C., testimoniando la sua alleanza con il re francese. Nella lotta contro gli Aragonesi il C. fu affiancato dai figli Sigismondo e Ferrante; il 5 ag. 1496 essi rappresentavano il padre, rimasto ad Alvito, nell'assemblea tenuta nel castello d'Isola di Sora dai baroni aderenti al partito francese. Ma in quello stesso anno 1496 i ribelli dovevano vedere distrutte le loro speranze. Dopo una serie di successi delle armi aragonesi, il 29 novembre cadeva la piazzaforte di Gaeta, ultimo baluardo francese, e re Federico decise di eliminare le ultime resistenze dei baroni. Contro Sora, ove il C. si trovava insieme con il prefetto di Roma, Giovanni Della Rovere, mosse lo stesso Consalvo di Cordova, che nel mese di gennaio 1497 conquistò interamente il ducato. Il C. e i figli, Sigismondo e Ferrante, si recarono dal re ad Oliveto per fare atto di sottomissione. Pochi giorni dopo però, nel febbraio 1497, il C. moriva.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Modena, Cancelleria estense,Carteggi e docc. di Stati esteri,Regno di Napoli, p. 85, fasc. XLIV; E. S. Piccolomini, Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contingerunt, Romae 1584, p. 313; G. Pontano, De bello Neapolitano, Napoli 1769, p. 44; M. Sanuto, La spediz. di Carlo VIII in Italia, Venezia 1883, p. 194; B. Cirillo, Annali della città dell'Aquila, Roma 1570, pp. 73-75; P. Vincenti, Historia della famiglia Cantelma, Napoli 1604, pp. so s.; C. De Lellis, Famiglie nobili del Regno di Napoli, Napoli 1654, I, pp. 131, 133; A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, III, Napoli 1750, pp. 306 ss., 488 s., 491; V. Lazari, Della Zecca di Sora e delle monete di P. C., in Archivio stor. ital., III (1856), 2, pp. 222 s.; E. Nunziante, I primi anni di Ferdinando d'Aragona, in Arch. stor. per le provv. napol., XIX (1894), pp. 333-339; Racconti di storia napoletana,ibid., XXXIII (1908), pp. 500, 514; R. Filangieri, Una congiura di baroni nel castello d'Isola...,ibid., n.s., XXVIII (1945), pp. 190 s.; A. Archi, Gli Aragona di Napoli, Bologna 1968, p. 104; E. Pontieri, Ferrante d'Aragona re di Napoli, Napoli 1969, pp. 65 s., 94; P. Litta, Le famiglie celebri d'Italia,s. v. Cantelmi di Napoli, tav. I.