Pietro Giannone
Autore dell’Istoria civile del regno di Napoli (1723) e del Triregno, pubblicato postumo perché requisito dal papato, Pietro Giannone morì in carcere nel 1748, vittima della ragion di Stato e di Chiesa. Egli descrisse una società laica e tollerante come possibile ideale e denunciò il cristianesimo come sua minaccia. L’Istoria teorizzò l’indipendenza di Stato e Chiesa, come nessuno aveva ancora fatto, mentre Il Triregno fu la prima, settecentesca storia filosofica e politica della religione e del potere spirituale. La vita di Giannone ricorda quelle di Galileo Galilei e di Paolo Sarpi, la tragica morte quelle di Giordano Bruno e di Mario Pagano. La sua esistenza fu testimonianza di una strenua volontà di vitam impendere vero.
Pietro Giannone nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella (Foggia). Arrivò a Napoli nel 1694 e dal 1696 studiò diritto e filosofia con Domenico Aulisio. Nel 1698 si laureò e partecipò all’Accademia di Medinaceli. Iniziò quindi la carriera forense con Gaetano Argento e nel suo cenacolo si avviò agli studi storici. La professione gli diede successo e lo rivelò giurisdizionalista radicale. Ebbe due figli, Giovanni e Fortunata, da Elisabetta Castelli. Dopo un lavoro più che decennale, la Istoria civile del regno di Napoli apparve nel marzo 1723.
La polemica con il mondo curiale divampò subito violenta. Giannone fu accusato perfino di far tardare il miracolo di san Gennaro. Si sentì in pericolo e il 1° maggio partì per Vienna per chiedere l’appoggio dell’imperatore Carlo VI. A Napoli non tornò più.
Il soggiorno a Vienna, dove si inserì nella comunità italiana e frequentò la prestigiosa biblioteca del principe Eugenio, iniziò con la prosecuzione della difesa della Istoria, messa all’Indice il 1° luglio, e si chiuse con la stesura del Triregno, che accantonava il giurisdizionalismo e condivise la visione religiosa del radical Enlightenment.
Divenuto Carlo Borbone re di Napoli, Giannone, come molti napoletani, lasciò Vienna il 28 agosto 1734 e giunse a Venezia il 14 settembre. Pensava fosse la prima tappa per Napoli, ma il governo borbonico gli negò il passaporto per compiacere il papa. Giannone quindi si fermò a Venezia, dove strinse molte amicizie. Progettò una nuova edizione dell’Istoria e continuò a lavorare al Triregno; a Padova gli fu offerta la cattedra di diritto civile, che non ebbe per l’opposizione del nunzio. Infine, la notte del 13 settembre 1735 fu rapito da emissari del Santo Uffizio e condotto nel ferrarese, cioè nello Stato papale. Riuscì però a raggiungere Modena, dove fu aiutato da Ludovico Antonio Muratori. Da Milano pensò di presentarsi come storico a Carlo Emanuele III. Contemporaneamente, il ministro sabaudo Carlo Vincenzo Ferrero, marchese d’Ormea, aveva ceduto alle pressioni romane per chiudere il ventennale conflitto con il papato in cambio dell’arresto di Giannone. L’uno era ignaro delle decisioni dell’altro.
Giannone si fermò a Torino il 27 e 28 novembre 1735 e arrivò a Ginevra il 5 dicembre. Dichiarò con franchezza di non voler divenire protestante, ed entrò in contatto con i teologi calvinisti Jean-Alphonse Turretin e Jacob Vernet. Il 24 marzo 1736 fu arrestato con un inganno turpe. Si era recato nel borgo di Vésenaz e lì il doganiere sabaudo che lo ospitava lo tradì e fece arrestare lui e suo figlio. L’Ormea ne impedì il trasferimento a Roma, richiesto da Clemente XII, ma i manoscritti del Triregno furono trafugati e inviati a Roma. Da Chambéry fu condotto nel carcere di Miolans (aprile 1736-settembre 1737), dove compose la Vita scritta da lui medesimo; nel settembre 1737 fu trasferito nella cittadella di Torino. Nel marzo 1738 abiurò in un modo che non soddisfece la Chiesa e non tornò libero. Fu portato a Ceva, dove rimase fino al 1744. Da lì tornò nella cittadella di Torino. Inizialmente spaventosa, in seguito la detenzione migliorò. Riuscì a stringere vari legami, soprattutto con il residente inglese Arthur Villettes, prodigo con lui di libri. Morì in carcere il 17 marzo 1748.
Cosmopolita, e tuttavia profondamente legata a Napoli, fu la vita di Giannone. Si formò nella Napoli di fine Seicento, all’epoca del processo degli ateisti, dell’Accademia di Medinaceli, in una cultura che trovava la propria linfa nell’eredità umanista cinquecentesca, e che però cominciava a volgersi con determinazione alla grande cultura europea, da cui misurava la propria distanza e la necessità di colmarla. Fu questo il percorso di Giannone. Fu, per questo aspetto, il vero esponente del preilluminismo napoletano.
Nella vita forense mostrò sicura conoscenza della materia sia feudista, sia ecclesiastica. Affrontò dunque entrambe le questioni che erano al fondo della tradizione giuridica meridionale, i rapporti dello Stato con la Chiesa e il baronaggio. L’opera di Argento, il De re beneficiaria (1709) e le coeve e analoghe opere di Alessandro Riccardi e Costantino Grimaldi avevano avuto valore di rottura e aperto nuovi orizzonti critici e politici. In quegli anni, l’anticurialismo, ossia lo sforzo di contenere l’aggressività pontificia, si trasformò in giurisdizionalismo: «la regolamentazione unilaterale e il controllo delle materie ecclesiastiche da parte dello Stato» (Lauro 1974, p. 28), il quale richiedeva, oltre il controllo, l’inferenza statale nelle attività ecclesiastiche. Il passaggio da contenimento a normazione del mondo ecclesiastico diede vigore alla polemica sulla feudalità ecclesiastica e contro la presunta dipendenza feudale del regno dal papa. Ma siffatta volontà di intervenire nella vita religiosa e nelle sue articolazioni sociali, culturali, civili, implicò una nuova percezione e rappresentazione dello Stato. In questa visione assolutista del potere politico, che non tollerava vincoli particolaristici, anche l’arbitrio feudale venne sentito come pericolo politico da combattere.
Come disse John Locke, la cultura politica era dominata da due linee: la teoria dello Stato, che, da Jean Bodin ad Algernon Sydney a Thomas Hobbes a Locke medesimo, metteva in luce i meccanismi ipotetici della sua genesi e delle condizioni della sua legittimità; e quella che assumeva come proprio punto di partenza la dimensione storica effettuale, e aveva l’obiettivo della gestione della police. A Napoli, la prima impostazione non ebbe allora grande forza; prevalse la seconda, che potremmo chiamare umanistica. Così fu anche per Giannone. La ricostruzione della genesi dell’Istoria contenuta nell’Autobiografia fa vedere come nella sua formazione si siano intrecciati interessi filosofici – Pierre Gassendi, poi René Descartes, la scoperta di Baruch Spinoza con Aulisio – e scientifici – geologia e scienze della vita –, giuridici, di storia e storia delle religioni. Proprio nel cenacolo di Argento, l’Accademia dei Saggi, la ricerca giuridica si sviluppò affrontando anche la storia, che divenne via per andare oltre l’antiquaria e il pirronismo. Così nacque l’Istoria, opera che fu espressione di un bisogno ed esigenza di un gruppo di intellettuali che lo aiutò nella stesura: non furono di Blaise Pascal le Lettres provinciales? Una ottocentesca tradizione guelfa e manzoniana sostenne pure la tesi di Giannone plagiario: tesi priva di intelligenza critica, come fu subito mostrato da Benedetto Croce e poi confermato dalla ricerca novecentesca. Giannone fece spesso bensì ricorso massiccio senza filtrarle a fonti da altri raccolte, ma le piegò sempre alla propria interpretazione: e nel caso della storia longobarda originali furono le sue ricerche archivistiche.
Dall’Istoria natura e storia della monarchia napoletana risultavano chiare. La natura era quella che si era palesata nel modello di Federico II: Stato monarchico monocratico, i cui confini giuridici e geografici erano segnati dalla conquista e dalla fedeltà del popolo che ne sancivano l’autonoma legittimazione. Alle sue origini stavano i Normanni e ancora prima i Longobardi (P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di A. Marongiu, 2° vol., 1970, p. 62). Per Giannone il Medioevo fu un’epoca di secoli barbari, nel quale agirono forze che rinnovarono la storia europea. Seguì in questo la strada che stava tracciando Muratori. E poiché il modello fredericiano era ancora valido politicamente, occorreva tornare al Medioevo per capire «la presente costituzione d’Europa», per vedervi nascere i nuovi Stati, costumi, leggi d’Europa. Giannone capovolse l’approccio antiquario ed ebbe un atteggiamento quasi illuminista per la modernizzazione delle società del passato alla luce di una contemporaneità spostata à rebours (Giarrizzo 1962). Esemplare di questa vicenda era Napoli:
poiché non altronde potrà con chiarezza ravvisarsi come tante e sì divise signorie finalmente s’unissero insieme sotto la dominazione d’un solo, e sorgesse quindi un sì bel regno, che stabilito poscia con provvide leggi e migliori instituti (sic) poterono i Normanni mantenerlo nelle loro posterità (P. Giannone, Istoria, cit., p. 243).
Lo Stato così nato non era frutto di un capriccio dinastico e non poteva essere impedito da un capriccio papale. Si era lì costituita, fuori dagli schemi universalistici, senza veruna mediazione né della Chiesa, né dell’Impero, una nuova società: si trattava della formazione d’una «nazione» (p. 243). Al centro vi era il rapporto tra re e società, che ubbidisce ma pure dà regola al sovrano per l’incremento del benessere, come era esposto nella magistrale Introduzione. Il potere longobardo, visto con gli occhi di Ugo Grozio, non era quello dispotico musulmano, altro motivo illuminista, e nemmeno quello romano, pericolosamente frutto della volontà al potere, ma era un potere soggetto a controlli (p. 52). Aveva in germe i caratteri del moderno giusnaturalismo e giurisdizionalismo che servivano per la verifica delle leggi e per la progettazione di nuovi istituti. In questa vicenda il papato giocò un ruolo negativo, pensato da Giannone sulla scia di Niccolò Machiavelli. Alla sconfitta del modello di Federico corrispose la vittoria della Chiesa nel Regno. L’Istoria distinse i due corpi del papa. Il pontefice a capo del mondo religioso non andava identificato con quello a capo di uno Stato e della struttura chiesastica. Se il primo resta enigmaticamente sullo sfondo, il progressivo ampliamento del potere del secondo diventa l’altro principale tema dell’opera (pp. 277-78), che è così una grande e originale storia del potere politico dell’antico regime, come Giannone rivendicò contro l’abate Nicolas Lenglet du Fresnoy (Bertelli 1968, pp. 71-72).
La novità del suo lavoro sta nell’aver fatto una storia civile. Era in questo aggettivo che Giannone trovò il modo di unire la tradizione erudita e la confutazione del pirronismo in una ricostruzione che non era più quella umanistica. A lui, come ai persiani di Montesquieu, non sembrò necessario discutere il diritto pubblico partendo dalla ricerca sull’origine delle società. Più che alla tradizione di Locke, era vicino a quella di Spinoza, che nell’Antico Testamento e in Tacito aveva trovato la testimonianza delle storie umane più remote.
La dissociazione dei due corpi del papa aveva avuto un’implicazione profonda. Come il sovrano nulla doveva alla religione, essendo la storia del sacro una storia profana, così il diritto canonico nulla più aveva di divino. Tre erano le aree che di conseguenza vennero a costruirsi nella storia umana: il potere civile, le religioni, la religiosità. La dissociazione di religioni e religiosità veniva a Giannone dalla lettura di Spinoza guidata da Aulisio. La storia sacra fu quindi pensata come area della socialità (Robertson 2013), appunto seguendo anche in questo Spinoza e non Hobbes. Ne ricavò un problema, che gli venne certo dalla tradizione della storia sacra, ma che riformulò:
Il soggetto che abbiamo ora per le mani, per la sua novità e stranezza non ha bisogno di commendazione. Contiene l’intraprese dei pontefici romani sopra questo reame, ed in qual maniera e per quali deboli principii abbiano finalmente conseguito che sia ora riputato feudo della Chiesa romana. Né della stranezza sarà minore la maraviglia, come senza eserciti e senz’armate […] abbiano potuto stabilirsi questo diritto, da essi acquistato non già come capi della Chiesa universale, o patriarchi d’Occidente, ma come principi del secolo (P. Giannone, Istoria, cit., p. 277).
Effettuando poi un’ulteriore e fondamentale precisazione, più avanti sottolineava che i papi
solevano ricorrere al presidio delle armi spirituali e delle scomuniche, alle quali la forza della religione avea dato tanto vigore e spavento, che non solo a’ popoli ed a’ principi erano tremende, ma, quel ch’è degno di stupore, erano formidabili ai capitani delle milizie ed a’ soldati stessi, uomini per lo più sceleratissimi (p. 291).
Venuta meno con Spinoza la separazione di storia sacra e profana, questo problema, nella sola prospettiva della storia profana, diveniva un mistero. Ma cruciale, perché era il problema stesso della natura della società europea: il problema della natura del potere spirituale diventava il centro di una storia filosofica e politica della religione che fu svolta nel Triregno.
La polemica che la Chiesa e i gesuiti scatenarono contro l’Istoria fu di terribile violenza. Scomunicato e messo all’Indice, Giannone andò a Vienna. A Napoli inizialmente l’Istoria, per il grande suo successo, aveva messo in evidenza l’autore, che aveva colto onori e riconoscimenti. Ma le feroci critiche ecclesiastiche raffreddarono tali reazioni, anche perché il viceré giunto a Napoli nel pieno della questione della Prammatica sanzione, il cardinale Friedrich Michael von Althann, fu assai flebile nella difesa di Giannone. Arrivato a Vienna, Giannone entrò in contatto con l’imperatore Carlo VI. Questi fece ritirare la scomunica e diede una pensione a Giannone, che però non riuscì a ottenere un incarico pubblico né per tornare a Napoli né per restare a Vienna. Proseguì quindi l’attività forense e fu coinvolto nelle polemiche sull’Istoria. Nella risposta alle osservazioni, probabilmente ispirate da Matteo Egizio, che padre Sebastiano Paoli fece al nono libro dell’Istoria, polemizzò con la corrente moderata dei togati; ma il climax di queste polemiche fu raggiunto dalla sua risposta alle Riflessioni morali e teologiche sull’Istoria del gesuita Giuseppe Sanfelice.
La Professione di fede fu forse la più potente, straordinaria risposta polemica che il Settecento italiano abbia dato alla Chiesa. Giannone difese l’opera ideata a Napoli in un modo che già risentiva della cultura europea che aveva trovato a Vienna. Risalta la sua differenza dalle risposte che vennero prodotte a Napoli, che sono la ripresa letterale dell’Istoria; la Professione, invece, presenta un’argomentazione completamente nuova, di chiara ascendenza free-thinking. Provocò la ripresa della persecuzione ecclesiastica e indicò la strada della nuova indagine di Giannone.
Nell’Istoria la Chiesa era vista come la minaccia principale all’autonoma determinazione dello Stato, che perciò doveva e poteva regolarla dall’esterno. Adesso Giannone entra nell’area della Chiesa. Conosceva certo i modelli di questo procedimento: i più noti erano le Lettres provinciales di Pascal e le Lettres persanes di Montesquieu. Come Pascal si mosse entro la teologia gesuita per combatterla, come i persiani erano giunti in Europa e ne presentavano un’immagine che era insieme esterna e interna, così Giannone entrò nel campo del sacro per coglierne la logica e combatterla. Pubblicata nel 1734-1735 alla macchia, la Professione ebbe un’enorme circolazione manoscritta e un successo straordinario. In quegli anni Giannone si affermò come intellettuale europeo: fece tradurre l’Istoria in inglese (1729-31) e iniziò a collaborare agli Acta eruditorum. Proprio allora, cominciò a impegnarsi nella nuova opera. Si volse infatti a
studi che fossero drizzati unicamente alla cognizione di me stesso e della condizione umana, della quale io era vestito, e ripigliare i miei tralasciati studi di filosofia, e col soccorso dell’istoria d’investigare più da presso la fabbrica di questo mondo e degli antichi suoi abitatori (P. Giannone, Vita di Pietro Giannone, in Id., Opere, a cura di S. Bertelli, G. Ricuperati, 1971, p. 203).
Questa prospettiva antropologica lo condusse, «tralasciata la considerazione de’ moderni imperi, regni e monarchie» (p. 232) ad andare alle prime società, ossia a Mosè, più antico di Omero. A religione e politica si unì l’antropologia. Ne vennero le tre parti del Triregno. La prima, il regno terreno, affronta la natura della credenza religiosa originaria, così come l’Antico Testamento descrive il monoteismo giudeo e il politeismo e l’idolatria delle altre popolazioni. La religione, in entrambi i casi, non affermava l’immortalità dell’anima; Dio aveva permesso agli uomini il dominio sulla natura e dunque una felicità terrena. Nel regno celeste si descrive la nuova religione. Gesù il Nazareno aveva parlato di un regno celeste contrapposto a quello terreno: suoi principi erano la dottrina della salvezza individuale eterna, la dipendenza dell’etica dalla religione, la risurrezione dei corpi. L’annuncio del regno spirituale, che si basava su fede, amore e carità, non si realizzò: Cristo aveva annunciato l’avvento del regno celeste, invece al suo posto comparve la Chiesa. Il terzo regno era perciò quello papale, sorto nella lunga protrazione e procrastinazione del regno celeste.
La mediazione che aveva fatto Paolo con la cultura greca aveva condotto alla negazione della corporeità dell’anima, così stravolgendo il primitivo principio religioso. Questa differenza dottrinaria, tuttavia, non impedì al cristianesimo di diffondersi valendosi delle comunità ebraiche: ma anche qui si ebbe una nuova trasformazione, perché si introdusse la separatezza tra laici e religiosi. La rinuncia al radicamento terreno della vita religiosa; la negazione della corporeità dell’anima; la dottrina della sua esclusiva spiritualità con le nuove teorie sulla risurrezione che ne discesero; la strutturazione ruotante sulla separazione del mondo sacerdotale; la biunivoca intesa tra Impero e Chiesa con la conseguente preminenza della sede romana dentro il mondo ecclesiastico furono quindi le condizioni del sorgere di un potere nuovo, intravisto nella Istoria, ma a Vienna saldamente teorizzato: poiché «fra i cristiani altro era il fine e l’intento, poiché la lor religione non era indrizzata alla conservazione dello stato e al riposo di questo mondo» ma «a un più alto e sublime fine, qual’era (sic) la possessione d’un regno felice e celeste» (Il Triregno, a cura di A. Parente, 3° vol., 1940, p. 7). Da questi diversi fini ne venne
che i ministri di questa religione, che si reputavano i soli custodi ed interpreti della parola di Dio, e che ad essi si appartenesse il chiudere e l’aprire le vie che conducono ad un sì felice regno, riportando a Dio solo questo lor potere spirituale che essi amministravano fra gli uomini, e riputandosene i prìncipi non pur privi, ma in ciò a lor sottoposti ed affatto incapaci di poterlo amministrare fra’ loro sudditi (p. 7).
In tal modo con il cristianesimo era nata quella distinzione, non sconosciuta ai pagani,
che nel mondo ci erano due potenze separate, la spirituale e la temporale, riconoscenti un medesimo principio ch’è Dio solo, e che l’una non abbia ad impacciarsi sopra l’altra. Da ciò avvenne che non si potessero impedire i progressi della spirituale sopra la temporale, quando ella fu riservata nell’imperio (p. 8).
Giannone sembra dunque porsi il mistero del «totato» pensato da Sarpi (che così indicava il prepotere del papato), perché il potere ecclesiastico aveva investito pure la morale: «avendosi costoro posto in mano la norma del giusto e dell’ingiusto, dell’onesto e dell’inonesto, e resi giudici della bontà e reità delle azioni umane» (p. 8). Ma la denuncia di Sarpi è risolta su un piano filosofico e politico.
Il mondo europeo aveva assunto una fisionomia che era il frutto della presenza del cristianesimo, la cui azione era eccezionale nel confronto con le religioni mediterranee e con quelle orientali e degli altri nuovi paganesimi. Occorreva pensare tale eccezionalità. Questo programma impegnò Giannone a Vienna a partire dalla fine degli anni Venti e costituì il prisma nel quale convergono tutti i vari fili del free-thinking europeo. Nel pensare il fenomeno della religione la sua ricerca sulla storia comparata delle religioni non fu mera, estrinseca esposizione di credenze ma aveva alla base una radicale serietà etica (Ricuperati 2001, p. 139). Il problema che stava allora oscuramente delineandosi era quello della religiosità, intesa come sentimento primitivo distinto dalla credenza in una religione specifica. Giannone non lo separò dalla dimensione universale della socialità, e quindi non ebbe una piena comprensione della religione civica di Roma, come invece ebbe Montesquieu. Questa valenza emotiva che fu scoperta al fondo della storia o della scienza delle religioni spiega il giudizio di Antonio Genovesi sulla inadeguatezza filosofica di Giannone. La contraddittorietà di questo discorso fu sciolta, circa un secolo dopo, da Benjamin Constant.
La linea dell’interpretazione di Giannone del corpus delle fonti filosofiche e storiche che poté conoscere a Vienna è chiara. Piuttosto che seguire le orme del cristianesimo ragionevole che John Toland aveva tracciato sulla scia di Locke, accettò la nuova idea di religione svincolata sia dall’evemerismo, sia dalla teoria dell’impostura, e pensata invece come un fenomeno originario. Era la teoria di Hobbes e di Bernard Le Bovier de Fontenelle. Giannone leggeva Spinoza con i nuovi contributi dell’antropologia della sua epoca, che facevano sì che il mondo della Bibbia, piuttosto che essere il luogo della religione ebrea, fosse l’area delle religioni possibili. Lo studio della natura della religione ebraica e la sua degenerazione in cristianesimo si allargò in una storia comparata di religioni. Giannone fu attento alla nuova dinamica della religione come religione del libro; alla sua interiorizzazione; alla fine del sacrificio cruento; al sorgere di nuove comunità, alle nuove filiazioni del cristianesimo e del maomettanesimo. In questo quadro di religioni possibili, politeiste e monoteiste, risalta la realtà della coscienza errante: tra imposture e impostori, tra credenze e paure e passioni, è un mondo dove c’è posto per le religioni false, perché non se ne può cercare una vera, che detenga il monopolio del naturale sentimento religioso. Era la condizione della tolleranza, che è l’ideale discusso nella Prefazione del Triregno. Scritta quasi dall’aldilà («riposando in un sonno ed oscuro oblio fuor d’ogni odio ed altrui invidia e maldicenza», van Heck 2009, p. 318), animata da un pathos straordinario, criticò i sovrani che avevano impedito la libera discussione sulle credenze, a torto preferendo il potere basato sulle superstizioni. Al contrario Giannone si propose di illustrare la «pura, schietta e semplice religione» originaria (van Heck 2009, p. 322), e di diffonderne l’accettazione ricorrendo al dialogo critico, alla ragione e persuasione.
L’Istoria civile era ormai la storia filosofica del Triregno. Con le opere del carcere, che sono «frammenti di un unico work in progress» (Ricuperati 2001, p. 141), ricompose l’unità filosofica e politica del suo progetto che la persecuzione papale gli impedì di concludere.
Giurisdizionalista napoletano, philosophe cosmopolita: anche la seconda identità di Giannone fu intollerabile per il Santo Uffizio, che riprese vittoriosamente la sua rabbiosa caccia all’uomo. Il rapimento a Venezia fu ricordato dall’amaro Ragguaglio dell’improvviso e violento ratto praticato in Venezia ad istigazione de’ gesuiti e della corte di Roma, cominciato nel 1735; quello sabaudo nell’autobiografia.
Nell’imprigionamento di dodici anni, fino alla morte, Giannone sviluppò i temi del Triregno in varie direzioni. La scrittura carceraria, suggestivamente indagata da Giuseppe Ricuperati, se ha disseminato e frammentato la ricerca di Giannone, tuttavia ha per certi versi creato una diversa unità fra queste opere. La trama è assicurata dalla riflessione autobiografica. Nella Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo (1736-1737) ripensò la genesi della propria attività e i contesti in cui aveva vissuto. Scritta per rielaborare il passato, fu strumento per pensare il futuro. I Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio (1736-1738 e 1746-1748) furono una riflessione sul rapporto tra religione civile e cristianesimo e dunque in riferimento al regno terreno; l’Apologia de’ teologi scolastici (1739-1741 e 1746-1748) fu l’indagine sul secondo regno, il celeste; l’Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno (1741-1742) sul regno papale.
I Discorsi su Tito Livio, che cercano di fondere la tradizione umanistica e machiavelliana con quella free thinker dell’Adeisidaemon (1709) di Toland, furono scritti per farne omaggio a Carlo Emanuele III per l’educazione del futuro Vittorio Amedeo III. Giannone vi elaborò la tesi che la religione romana fosse stata una religione civile, anche sulla base di una più che probabile lettura delle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) di Montesquieu. Ma il tema della religione civile era stato discusso anche dalla patristica, che aveva mostrato l’irriducibilità dei due sistemi e aveva difeso la religione cristiana e la sua nuova relazione con lo Stato.
L’Apologia continuò l’esplorazione di questo rapporto tra religioni, morale e politica. Fu forse il testo più originale tra quelli carcerari, cui Giannone tornò negli ultimi mesi della sua vita, quando poté avere a disposizione nuovi testi o di nuovo i testi che aveva conosciuto. La tradizione antipatristica, soprattutto protestante, era unita alla tradizione giusnaturalistica di Jean de Barbeyrac. La patristica aveva leso irrimediabilmente il governo politico perché ne aveva minato la libertà civile e l’aveva assoggettato alla propria intollerante logica religiosa. La morale cristiana, che non poteva adattarsi alla morale profana dei governi civili, riuscì a imporsi a questi. La conciliazione tra ragione civile e religione era perciò impossibile. Il Gregorio Magno tornò a sviluppare dall’interno la riflessione sulla politica della Chiesa. Il cammino di Giannone verso la Chiesa, che non era stato fatto dall’Abiura – la quale non aveva che riconosciuta la religiosità al fondo del cristianesimo: il papato capì con stizza lo scacco, vietandone la diffusione –, fu ora ripercorso con luce illuministica. Mostrò come il papa avesse approfittato del vuoto di Impero per imporsi alle Chiese locali, affermare da Roma la centralizzazione ed ergersi a deuteragonista nella lotta per il potere universale. Vano era agli occhi di Giannone il rimpianto protestante per la Chiesa primitiva.
La disciplina della Chiesa fu in tutti i secoli sempre varia e diversa, siccome furon e saran sempre vari e diversi i costumi degli uomini, le usanze, i riti, le lingue, gli abiti e tutto ciò che in essi non proviene dalla natura, ma dalla società civile, sottoposta a ricever sempre mutazioni e cangiamenti (P. Giannone, Apologia de’ teologi scolastici, a cura di L. Cecchetto, introduzione di G. Ricuperati, 2011, p. 567).
Con questa dissociazione (di sapore volterriano) tra natura e storia, Giannone uscì dall’impasse giansenista e poté presentare come spinoziana la propria storia, nella quale risolveva l’ispirazione scettica di Michel de Montaigne e quella fideistica di Pascal. E difatti l’opera si concludeva con il capitolo Che ancor oggi fra le cose desiderate debba riporsi un’esatta e compita istoria ecclesiastica. Al di là di alcuni ripensamenti di taluni luoghi del regno celeste sul conflitto tra dottrina rivelata e decisioni di concili (Apologia de’ teologi scolastici, cit., pp. 628-29), la tesi di fondo rimase inalterata. Il confronto tra le religioni faceva emergere non la continuità tra queste, ma l’aberrante eccezione del cristianesimo. Giannone capovolse il modello di apologetica che aveva avuto presente, quello di Pascal. Ora l’apologetica conduceva non alla conferma della verità cristiana, ma alla sua negazione, ispirata da una sorta di eterogenesi dei fini:
Ma sopra tutto stupiranno come da principii da’ quali ciascuno avrebbe dovuto promettersi altri effetti, se ne sian veduti contrari ed opposti. Puossi immaginar religione che tutta si appoggiasse sopra l’umiltà e il disprezzo delle ricchezze […] aspirando solo ad un regno celeste? (Apologia de’ teologi scolastici, cit., p. 661).
E invece «si è veduto sorgere in Europa un nuovo ed a tutta l’antichità sconosciuto regno papale». Bisognava
né fermarsi solo nell’ammirazione di effetti sì portentosi, ma inoltrarsi ad indagarne le vere cagioni, le quali non troveranno nell’altre religioni, cioè d’essersi per lei confuse queste due potenze, imperio e sacerdozio, le quali prima eran separate, ed esserne esclusi i principi cristiani dall’ispezione dell’esterna politia ecclesiastica (p. 661).
L’ape ingegnosa mise in luce del sistema del Triregno l’aspetto che abbiamo detto antropologico. Giannone, ricorrendo alla filosofia e alla scienza moderna (in particolare, è assai significativa la lettura di Isaac Newton), volle preparare materiali per una storia naturale dell’uomo, in cui ribadiva, come sempre aveva fatto, il postulato deistico della creazione divina dell’uomo. Del rapporto tra storia e natura Giannone esplorò qui il primo termine. Nelle 42 osservazioni, intessute su repertori enciclopedici quali la Storia naturale di Plinio e le Stuore del gesuita Giovanni Stefano Menochio, si discuteva la natura dell’uomo, che è un animale che piange, ride, crea religioni e scienza, e che ha per natura la tendenza all’errore e alla libertà.
Opere postume, Napoli 1770-1777.
Opere inedite, a cura di P.S. Mancini, 2 voll., Torino 1859.
Il Triregno, a cura di A. Parente, Bari 1940.
Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di A. Marongiu, 7 voll., Milano 1970-1972.
Opere, a cura di S. Bertelli, G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971.
Lettere autografe, a cura di P. Minervini, Fasano 1990.
L’ape ingegnosa, a cura di A. Merlotti, Roma 1993.
Apologia de’ teologi scolastici, a cura L. Cecchetto, introduzione di G. Ricuperati, Torino 2011.
Istoria del pontificato di Gregorio Magno, a cura di C. Peyrani, introduzione di G. Ricuperati, Torino 2011.
L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli, Bari 1950.
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Pietro Giannone e il suo tempo, Atti del Convegno di studi, Foggia-Ischitella (22-24 ottobre 1976), a cura di R. Ajello, 2 voll., Napoli 1980.
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