GRITTI, Pietro
Terzogenito di Marcantonio di Bernardo, del ramo di calle dalle Rasse, e di Maria Priuli di Giovan Francesco da S. Maria Nova, nacque a Venezia il 2 apr. 1580. Dal matrimonio nacquero altri sei figli, dei quali solo due sopravvissero fino all'età adulta: Bernardo (1562-1623) e Giovan Francesco (1576-1630).
Il G. debuttò nella vita politica nel dicembre 1605 con la nomina a savio agli Ordini, carica che reiterò nel 1606. Legatosi al gruppo di patrizi cosiddetti "giovani", e al circolo sarpiano, mostrò subito buone doti personali, soprattutto in campo diplomatico. A dimostrazione della fiducia di cui già godeva, evitati gli incarichi più modesti che contrassegnavano gli esordi, fu eletto nella primavera del 1608 podestà e capitano a Feltre.
Pur operando in un territorio considerato relativamente tranquillo, isolato e meno turbato da conflitti tra i ceti sociali che altrove tenevano desta l'attenzione dei reggitori, il G. non mancò di far valere le sue qualità. Mentre il controllo sul sistema degli approvvigionamenti, l'assistenza ai poveri, la cura del sistema fiscale pubblico e del clero, la sorveglianza sul confine asburgico costituivano la normale amministrazione, era invece più legata al momento politico la vigilanza sulle prerogative giurisdizionali dello Stato nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche. Il G. intervenne con moderazione ma con fermezza a bloccare un intervento del nunzio B. Gessi, che aveva agito senza il suo permesso in un caso giudiziario, e con la piena collaborazione del vescovo Agostino Gradenigo esercitò una discreta ma oculata vigilanza sull'attività dei predicatori e sui monasteri che li ospitavano. Quando poi il Gradenigo negò il permesso per una monacazione soprannumeraria adducendo le disposizioni dei superiori, il G. replicò con fermezza rivendicando l'autorità della Repubblica sui suoi cittadini.
Il G. terminò il suo mandato il 27 apr. 1609. La buona prova che aveva dato gli fruttò la nomina, il 3 apr. 1612, ad ambasciatore straordinario a Mantova per presentare al nuovo duca Francesco IV Gonzaga le condoglianze della Repubblica per la morte del padre Vincenzo I e rallegrarsi della successione.
Giunto a Mantova il 19 luglio, fu ricevuto il giorno dopo. Francesco confermò la continuità con la politica paterna, ma tra "piacevoli ragionamenti" e assicurazioni di voler "sempre dipendere e vivere sotto l'ombra e protettione della Serenissima Repubblica" si "mostrò risentito" della questione dei "titoli" e approfittò per porre sul tappeto altre questioni che dettero qualche imbarazzo al G., costretto a prodigarsi per "raddolcirlo, e levarle il disgusto".
La relazione finale letta in Consiglio è rivelatrice dello stile che il G. avrebbe mostrato nei dispacci e nelle relazioni future. Dopo le consuete osservazioni sul territorio e sulla capitale del Ducato, il G. si concentra sul ritratto del nuovo principe. Francesco mostra nel governo "attitudine grande e tanta diligenza", ascoltando tutti - diversamente dal padre - trattando tutti "con modo riservato e grave, né lascia scoprire in lui indignazione o affetto più all'uno che all'altro". I sudditi, tuttavia, erano "più soddisfatti del governo del duca Vincenzo", forse "perché la natura libera, affabile e piacevole del passato duca era più conforme e più accomodata alli naturali costumi di quei popoli". Con la casa d'Austria il duca ha "buona intelligenza" e pare che cercherà di "intendersi sempre" anche a motivo della parentela che lo lega all'imperatore. Sulle inclinazione del sovrano verso l'una o l'altra potenza, però, c'è poco da dire per la brevità della visita e perché "è sempre cosa difficile il far giudizio degli interni pensieri de' principi, ma il scovrir ed il penetrar ne' dissegni d'un principe nuovo è cosa molto pericolosa perché questo giudizio convien esser fondato non nelle operazioni ma sopra conghietture che riescono molte volte fallaci".
Nel 1613 e 1614 il G. ricoprì per due volte la carica di savio di Terraferma; ricercò anche la candidatura a podestà di Bergamo e nell'ottobre 1615 fu nel novero dei 41 grandi elettori del doge Giovanni Bembo. Il 9 luglio 1615 succedette a Francesco Morosini nella carica di ambasciatore ordinario in Spagna, con la commissione, ricevuta il 5 marzo 1616, di insistere per il rispetto degli accordi sugli Uscocchi, di denunciare i danni provocati alla navigazione e al commercio veneziani dai corsari che agivano con la copertura del viceré di Napoli e di richiedere il rispetto degli impegni sottoscritti nel gennaio 1616. Passato per Milano, dove espose alle autorità locali il punto di vista veneziano sul contenzioso con gli Arciducali, ribadito anche al doge al suo arrivo a Genova il 24 marzo, dopo avere toccato Marsiglia il 7 maggio e raggiunta Alcalá il 1° giugno, il G. giunse a Madrid il 1° luglio. Il 3 luglio Filippo III gli accordò udienza e con la schiettezza che lo contraddistingueva gli disse che la risoluzione del "grave negozio de Uscochi" consisteva in "un punto solo, che si essequiscano le cose promesse". Il G. "ministro di così misurata prudenza che né trascendeva la flemma né cedeva alla sagacità di quella Corte" - scrisse lo storiografo Battista Nani (p. 123) - esordiva nell'incarico più impegnativo e defatigante della sua carriera.
Dopo la guerra di Gradisca a Venezia era prevalsa la corrente pacifista e il 23 genn. 1617 fu dato incarico al G. di intavolare a Madrid trattative di pace con gli arciducali valendosi della mediazione spagnola, insieme con la procura per negoziare a nome del duca di Savoia gli accordi con la Spagna, per addivenire a una vera e propria pace d'Italia. In un serrato confronto con Francisco Gómez de Sandoval y Rojas duca di Lerma il G. difese gli interessi della Serenissima, ma le resistenze arciducali sostenute dagli Spagnoli e le divisioni in seno alla classe dirigente veneziana resero particolarmente arduo il suo compito. A intorbidare il clima del negoziato pensava anche il viceré di Napoli Pedro Téllez-Girón y Guzmán duca di Osuna con continue minacce alla navigazione veneziana nel basso Adriatico. Il negoziato progredì fino al capitolo sulla restituzione delle navi sequestrate dal viceré, poi si bloccò per il rifiuto asburgico di inserirlo nel testo del trattato. Il G. ritenne di dover tenere duro, ma a Venezia il partito moderato, desideroso di addivenire alla pace nel timore che Venezia fosse schiacciata da Spagna e Impero uniti, revocò i poteri al G., ordinandogli solo di "ratificare et estendere ciò che in Parigi dagli ambasciatori Bon e Gussoni si concludesse". Il 6 sett. 1617 fu firmato il trattato di Parigi e il 27, a Madrid, il G. siglò la ratifica.
La missione del G. proseguì contrassegnata da "incontri durissimi" e "accidenti travagliosi", da "negozi ardui e spinosi, trattati di accordi, conclusioni di pace".
Nell'estate del 1618 scoppiò la vicenda detta della "congiura di Bedmar" e al G. fu ordinato di illustrare a Filippo III la convenienza di allontanare da Venezia il suo ambasciatore, Alonso de la Cueva y Benavides marchese di Bedmar, "già da gran tempo pietra di scandalo e seminatore di zizzanie e di disordini". Il 2 luglio questi fu allontanato, ma la Spagna protestò per le accuse e chiese una ritrattazione, forte anche della posizione di debolezza dello Stato veneto. La prudenza dei "vecchi" ebbe il sopravvento sull'audacia dei "giovani" e al G. fu suggerito di piegare il capo. Egli tuttavia operò abilmente e salvò l'onore, dichiarando che si era sempre usato riserva nel parlare di "congiura (senza smentirla)" e che "s'era lasciato dir la gente", non potendo fare altrimenti.
Il G. concluse la sua legazione ai primi di marzo del 1619, confermando la fama di intransigenza con il rifiuto - tra lo sconcerto generale - di intervenire alla cerimonia di conferimento del cavalierato da parte del re, dopo che, presentatosi al primo appuntamento, se l'era visto aggiornare (a causa di un disguido, si giustificarono gli Spagnoli; per un deliberato sgarbo, sostenne l'ambasciatore). Siglato, l'8 marzo, l'ultimo dispaccio, il G. si mise in viaggio per ritornare a Venezia, ma lungo il percorso fu raggiunto dalla nomina, decretata il 15 marzo, ad ambasciatore straordinario a Londra in sostituzione di Antonio Donà, rientrato a Venezia per discolparsi da gravi accuse, e con l'ordine di restarvi fino all'arrivo del nuovo ambasciatore. Arrivato a Genova il 4 maggio e colpito da grave infermità, il G. informò il Senato della impossibilità di muoversi e fu sostituito. Rientrato a Venezia dopo qualche mese, il 20 ott. 1619 lesse in Senato la relazione sull'ambasceria in Spagna.
Dopo la consueta introduzione geografica, sociale ed economica sull'immenso impero, del quale l'Italia è "grande e principal parte", il G. passa ad analizzarne le strutture politiche e militari, spiegando il carattere dell'egemonia spagnola nel mondo e in Italia. Strategica la funzione di Genova, che "serve ai Spagnuoli per aver sempre la parte del mare aperta" e spostare truppe dagli altri regni. Nell'insieme gli Stati italiani "fanno un grande e bellissimo corpo" ma vulnerabile, perché "in più parti diviso". Grandi "le ricchezze di Sua Maestà, per la facilità che ha di premiare chi la serve con ricchissimi benefici, il che è grande eccitamento a ben servire". Il sovrano è "non di statura grande" ma proporzionato, sano e robusto; dall'aspetto "condito di maestà e piacevolezza, pieno di benignità, di clemenza di liberalità di continenza, alieno dai piaceri e da quella licenza dalla quale suole essere la gran fortuna accompagnata". Di "complessione flemmatica gravissimo e riservatissimo", gode assai "della quiete e della solitudine"; "gran cura e pensiero" mette "nelle cose appartenenti al culto divino". È "diligentissimo e accuratissimo in procurare di scoprire i disegni e segreti delli altri principi, con gran uso di spie", tanto che gli Spagnoli dicono "che in ciò consiste in gran parte la conservazione di quell'impero". Rapidi ma incisivi i ritratti dei familiari, tra i quali spicca il principe ereditario, "di complessione delicata, di faccia però amabilissima", di ingegno vivace, "di natura placida e quieta", ma incline alla collera più del padre. Non ancora ammesso nel Consiglio di Stato, "se ne duole", ma è obbediente e non "esce parola dalla sua bocca che non sia rapportata a Sua Maestà". Di spicco la figura del duca di Lerma, divenuto, grazie all'opera del G., non ostile a Venezia tanto che la sua "partita dalla corte ha pregiudicato agli interessi" della Signoria. Attentamente valutati i rapporti del sovrano con gli altri principi europei. La Serenissima ha mantenuto "il concetto e la reputazione" dopo le recenti guerre in Friuli, "ma si è bene aumentato negli spagnoli per questi ultimi successi il sospetto avuto da loro per il passato e l'opinione che non vi sia altro principe che faccia contrappeso alla grandezza di Spagna in Italia, né che più procuri di fare ostacolo a tuti i disegni loro". Ammonisce infine il G. che "le forze della Repubblica non sono pari a quelle di così gran re, che il voler soli incontrar con quella potenza non saria altro che cercar di dar pugni in cielo", e non potendo contare su alcun alleato, è necessario "desiderare ed aver carissima l'amicizia di quella corona". Ampio lo spazio riservato al trattato di Madrid, per il ruolo sostenutovi dal G. e per i retroscena che può ora liberamente illustrare. Evidenziando le difficoltà e i "grandissimi impedimenti" che contrassegnarono le trattative, egli fa risaltare la propria perspicacia nell'affrontare le "molte variazioni, dissimulazione e artificii" prodotte dalla controparte asburgica e la condotta ambigua e contraddittoria del duca di Savoia.
Nel dicembre 1618 il G. era stato eletto reservato loco savio del Consiglio e lo fu di nuovo nel dicembre 1619, dato che il 10 ott. 1619 era stato nominato ambasciatore ordinario presso l'imperatore. Ricevuta la commissione il 9 febbr. 1620, attese l'inizio del 1621 prima di mettersi in viaggio, giungendo a Vienna solo il 20 marzo 1621. All'imperatore Ferdinando II, che il 4 aprile gli concesse udienza accogliendolo "con termini molto cortesi", il G. presentò le credenziali, confermando la "ferma e costante volontà" della Repubblica di mantenere una "inviolabile et sincera amicizia".
Nei dispacci, tuttavia, il G. disegna un quadro internazionale sempre più fosco. Constata con disappunto che erano stati disattesi gli accordi di pace faticosamente raggiunti a Madrid e che a poco servivano le sue continue lamentele. Si andava nel frattempo ingigantendo la disputa sui "titoli" e la posizione del G. si faceva sempre più imbarazzante. Conoscendo la pretesa dell'ambasciatore spagnolo D'Ognega di trattare con lui "con disparità particolarmente nel titolo" e consapevole dell'obbligo "di non adottare il partito offertogli da quell'ambasciatore cattolico di trattare seco del pari", il G. aveva suggerito, alla luce del fatto che il suo predecessore "non si era restato di trattare con l'ambasciatore di Spagna e forse con qualche disparità", l'opportunità "di romper il giacio e forse a introdur hora novo modo di trattare a questa corte a queste congiunture con un ministro che vi tiene somma autorità". Ma il G. dovette attenersi alle disposizioni ricevute e per alcuni mesi la situazione si trascinò con risvolti un po' comici, con l'ambasciatore spagnolo che si rivolgeva in terza persona al G. e il G. che gli dava del "voi". Poiché le occasioni d'incontro tra i due erano frequentissime, il G. aveva una sola alternativa, "di cedere e ritirarmi, violando gli ordini, oppure "di venire ai disprezzi alle ingiurie e alle aperte rotture".
Decise per il rimpatrio, che chiese il novembre del 1621. Lo ottenne il 12 febbr. 1622 e, affidato al segretario Marcantonio Padavin il disbrigo degli affari correnti, lasciò la sua sede e dopo aver trasmesso il 7 apr. 1622 l'ultimo dispaccio da Augusta con le notizie sui più recenti eventi bellici, rientrò a Venezia passando per la Baviera. Non è certo che abbia steso la consueta relazione; se ne conserva tuttavia una, anonima "alla corte cesarea", datata 1623 a Londra (British Library, Add. Mss., 10198).
Ripresa pienamente l'attività politica in patria, il G. era consigliere quando morì a Venezia il 1° nov. 1622 (secondo M. Barbaro) nel silenzio delle fonti ufficiali.
Il 13 febbr. 1602 il G. aveva sposato Chiara Correr di Girolamo che gli aveva dato Marcantonio (1602-31), che avrebbe sposato Laura Gritti di Agostino, e Pietro (1604), morto probabilmente in tenera età.
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