SETTE, Pietro
– Nacque a Bari il 10 aprile 1915, primogenito di una famiglia benestante, da Francesco, importante magistrato, e da Grazia Petrera.
Il fratello Daniele (1918-2013), professore di fisica in varie università (statunitensi e italiane), fu uno dei maggiori esperti a livello mondiale nell’ambito dei fenomeni di dispersione del suono, e contribuì anche alla creazione del primo laser italiano.
Sportivo praticante, negli anni del liceo Pietro giocò nelle file del Bari calcio, ricoprendo il ruolo di terzino. Divenne anche amico di Aldo Moro, più giovane di un anno.
Ultimato il liceo si trasferì a Roma, dove nel 1937 si laureò in giurisprudenza, con una tesi che ottenne il massimo dei voti e la lode e ricevette il premio Breglia per la migliore tesi di diritto privato dell’anno. Suo relatore fu Alberto Asquini, uno dei maggiori studiosi di diritto commerciale, già sottosegretario al ministero delle Corporazioni (1932-35) e poi membro della commissione parlamentare per la riforma dei codici.
Sette iniziò l’attività accademica in qualità di assistente, svolgendo esercitazioni di diritto commerciale. Asquini lo fece nominare esperto giuridico nella commissione per l’accertamento degli usi commerciali al ministero delle Corporazioni.
Durante la guerra fu ufficiale di fanteria e capitano di complemento dei carabinieri.
Poiché Asquini nel 1943 aveva aderito alla Repubblica di Salò (era stato anche nominato commissario dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale), nel dopoguerra Sette non poté più contare sul suo aiuto. Si dedicò pertanto all’attività di avvocato commercialista, divenendo presto uno dei più noti e stimati professionisti in materia di diritto societario.
L’amicizia con Moro lo portò a prendere la tessera della Democrazia cristiana (DC), di cui questi era vicepresidente dal 1946. Non fu però per la sua appartenenza politica che nel gennaio 1951 Sette fu chiamato a sostituire Pietro Baldassarre come commissario straordinario della Società Ernesto Breda (SEB). Quest’azienda meccanica milanese – fondata nel 1886 – era stata nelle mani dello Stato tra il 1933 e il 1936 e poi era finita sotto il controllo della famiglia De Angeli Frua; anche dopo il 1945 era rimasta largamente dipendente dalle commesse statali di armamenti, e nel 1947 era finita tra le imprese finanziate e controllate dal FIM (Fondo per il finanziamento dell’Industria Meccanica), istituito in quello stesso anno per facilitare la riconversione bellica delle imprese industriali del settore meccanico.
Sette, coadiuvato da Giordano Dell’Amore ed Eugenio Rossi, contribuì in maniera decisiva alla definizione del piano di risanamento aziendale. La profonda ristrutturazione comportò un rilancio delle attività in campo ferroviario, con qualche iniziale tentativo di affacciarsi anche sui mercati esteri (in Grecia). Il passaggio formale di proprietà dalla famiglia De Angeli Frua allo Stato avvenne nell’agosto del 1951, ma già dal mese precedente Sette aveva ottenuto dal governo i pieni poteri nella gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa, condizione indispensabile per raggiungere gli obiettivi che aveva espresso in una corposa relazione presentata il 30 maggio agli azionisti. Secondo Sette, la ‘nuova Breda’, irrobustita sul piano finanziario (il capitale passò da 1125 a 11.250 milioni di lire, quasi interamente sottoscritti dal FIM), doveva inserirsi nel sistema di economia mista che si stava rafforzando nel Paese a partire dal 1947-48, divenendo così uno degli strumenti con cui affermare l’interesse nazionale.
Nel ‘gruppo Breda’, Sette divenne presidente non solo della Finanziaria Ernesto Breda (FEB) – l’azienda ‘capofila’, creata nel luglio 1952 – ma anche di tutte le altre società (Breda elettromeccanica e locomotive, Breda ferroviaria, Breda fonderia forgia e macchine industriali – poi Breda fucine –, Breda istituto di ricerche scientifiche applicate all’industria – poi Istituto di ricerche Breda –, Breda meccanica bresciana, Breda meccanica romana, Breda motori, Breda siderurgica o Siderbreda). Assunse inoltre incarichi direttivi in varie imprese che gravitavano nell’area pubblica (fu presidente delIe Industrie meccaniche e aeronautiche meridionali, IMAM, e della Siderurgica commerciale milanese, SCM; consigliere della Società idroelettrica del Liri; amministratore delegato della Immobiliare e agricola, IMA; sindaco revisore della Gestione azionarie, dell’Azienda agricola Maccarese e della Società pinerolese di elettricità). Fu anche consigliere della Banca del Fucino appartenente alla famiglia Torlonia.
Nel 1953 entrò nella commissione per la riforma dello statuto dell’IRI (la cosiddetta commissione Giacchi) e nel 1954 firmò – insieme a Paolo Baffi, Ercole Bottani, Emilio De Marchi, Aldo Silvestri, Carlo Urciuoli e Carlo Venditti – la relazione di minoranza per il Parlamento, che per il coordinamento delle imprese controllate dallo Stato auspicava la creazione di un comitato interministeriale ma non di un ministero delle Partecipazioni statali.
I lusinghieri risultati della Breda durante gli anni Cinquanta furono un test decisivo per le capacità organizzative di Sette, il cui profilo professionale appariva ormai adatto anche ad altri incarichi nelle imprese pubbliche. Nel 1957 assunse la presidenza della Società mineraria carbonifera sarda, SMCS (meglio nota come Carbosarda), un’azienda controllata dallo Stato. Costituita nel 1933, era stata la protagonista dello sviluppo delle miniere di carbone della zona del Sulcis, nella Sardegna sudoccidentale. Nel dopoguerra, tuttavia, l’impresa fu al centro di un dibattito sul suo ruolo strategico in un programma di utilizzo delle risorse energetiche a livello regionale. Sette sostituì alla presidenza della società Raffaele Sanna Randaccio, il quale l’aveva guidata negli anni Cinquanta, mostrando una grande disponibilità per i vincoli di carattere politico-sociale che rallentavano ogni progetto di riorganizzazione che implicasse una riduzione dell’occupazione. Sette fu invece molto abile nell’ottenere quanto voleva, anche se la produzione ne risentì non poco: tra il 1958 e 1964 gli occupati calarono da 6875 a poco più di 3000, mentre la produzione scese da circa 979.000 tonnellate a circa 461.000. L’ultimo bilancio della società, nel 1964, fu anche l’unico chiuso con un attivo. L’anno successivo le miniere passarono all’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia ELettrica), nell’ambito di un piano di ristrutturazione che avrebbe trasformato l’azienda in un produttore di energia elettrica. La Carbosarda, sempre guidata da Sette, cambiò ragione sociale, trasformandosi in MCS (Mineraria Carbonifera Sarda), e utilizzò gli indennizzi ricevuti dall’ENEL per puntare con decisione sul settore dell’alluminio, all’epoca in forte espansione.
Nel 1958 Sette divenne anche presidente della Terni, società che gravitava nel mondo delle imprese a partecipazione statale, ma con un profilo molto diverso dalle altre aziende controllate dalla Società finanziaria siderurgica (meglio nota come Finsider), la società del gruppo IRI che operava in quel settore. La Terni era infatti un gruppo polisettoriale che univa diverse anime, quella siderurgica, quella chimica e quella energetica. Il nuovo presidente aveva i contatti giusti a livello politico e a livello internazionale (faceva parte della delegazione italiana presso la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, CECA), ma nei tre anni in cui rimase alla testa della società si accorse che i margini di manovra a sua disposizione non erano molto ampi. Tuttavia cercò di usarli nel modo migliore. L’obiettivo era quello di fare uscire l’azienda da una certa marginalità in cui era stata relegata. La scelta fu quella di puntare sugli acciai speciali. A tale scopo vennero siglate due joint ventures con altrettante aziende statunitensi: nel 1960 con la ARMCO (American Rolling Mill COmpany) steel corporation, per la produzione di laminati magnetici, e nel 1961 con la United States steel, per la costruzione di un nuovo stabilimento per la produzione di acciaio inossidabile. Inoltre introdusse nuovi sistemi organizzativi nella società.
Nel 1957 Sette entrò nel Consiglio d’amministrazione dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), all’epoca guidato da Enrico Mattei. Per lui si occupò di contratti e di alcuni rapporti internazionali – in particolare con l’Iran – profilandosi come eccellente corporate lawyer, in grado di trattare le questioni legali più complesse. La sua fama di dirigente serio e preparato, unita agli appoggi politici di cui godeva nella segreteria nazionale della DC – dal 1959 retta da Moro – fecero di lui un possibile candidato alla successione di Mattei all’indomani della drammatica morte del presidente dell’ENI (ottobre 1962). Prevalse una scelta di continuità, con la nomina dell’ex vicepresidente, Marcello Boldrini, mentre Eugenio Cefis fu nominato vicepresidente esecutivo, ma per Sette l’appuntamento era solo ritardato.
La sua posizione nel mondo delle partecipazioni statali si era molto rafforzata. Dall’inizio del 1962 era il presidente di un nuovo organismo, l’EFIM (Ente autonomo di gestione per le partecipazioni del Fondo di finanziamento dell’Industria Meccanica), e vi rimase fino al 1975. Gli scopi dell’ente erano molto incerti – se non fumosi – nella definizione iniziale. Sette li riempì di contenuti, facendo dell’EFIM un elemento essenziale del sistema su cui si imperniava l’economia pubblica in quegli anni. Infatti, se inizialmente esso doveva occuparsi soprattutto di gestire le società meccaniche in precedenza presenti nel FIM, successivamente divenne soprattutto uno strumento per la creazione di nuovi insediamenti industriali nel Mezzogiorno. Tra le operazioni più rilevanti effettuate da presidente di EFIM ci fu lo scambio incrociato della cessione della Breda termomeccanica alla Ansaldo con la corrispondente acquisizione dalla Finmeccanica della Otomelara, che arricchiva il settore dei sistemi d’arma presenti nel gruppo con un’impresa ad alta tecnologia. Sette soprattutto allargò l’area dell’intervento in settori di promettente sviluppo come l’agroalimentare e il turismo con attenzione alle medie e piccole imprese, svolgendo, al tempo stesso, il ruolo di strumento per la promozione di insediamenti produttivi nel Mezzogiorno. Venne così a marcarsi una diversità nell’orientamento produttivo rispetto agli altri enti di gestione delle partecipazioni statali. Nel 1969 tale strategia trovò una certificazione esplicita in una nuova denominazione, Ente partecipazioni e finanziamento industria manifatturiera. Il numero degli addetti aumentò progressivamente, dalle poche migliaia iniziali a circa 40.000 nel 1975. Non poté però esimersi anche dall’intervento in imprese in crisi, come il gruppo elicotteristico Agusta, operazioni che si risolsero positivamente. In altri casi, invece, come l’acquisizione del settore della produzione di alluminio della Montedison, i risultati furono meno brillanti. Nel 1967, quando Sette ricevette il titolo di cavaliere del lavoro, era anche membro del consiglio d’amministrazione del Banco di Napoli e vicepresidente dell’Ente nazionale per la cellulosa e la carta. Inoltre, nel 1968 fu chiamato a far parte del Comitato consultivo europeo dell’IBM. Nel 1971 fu nominato presidente del Centro europeo dell’impresa pubblica.
Abile e persino astuto sul piano amministrativo e con uno spiccato senso organizzativo, Sette seppe circondarsi sempre di persone molto competenti, che in qualche caso lo seguirono nei diversi incarichi da lui ricoperti dentro la galassia delle imprese pubbliche.
Nel 1975, lasciata la presidenza dell’EFIM, assunse quella dell’ENI; era un momento molto delicato, per le enormi pressioni politiche e gli intrecci economico-finanziari che stavano caratterizzando quel settore in un decennio di grandi trasformazioni a livello internazionale. Nei quattro anni di presidenza, l’ultimo dei quali in prorogatio (ma c’era chi, come Rino Formica – segretario amministrativo del Partito socialista italiano, PSI, e anche lui barese – avrebbe voluto che restasse per un altro mandato pieno), gestì la fase finale degli accordi con l’Iran, subito prima della rivoluzione khomeinista del 1979. Sul piano aziendale si mosse con molta cautela, ma ciò non gli impedì qualche errore di valutazione. Il più importante fu quello di attribuire un enorme potere al direttore finanziario dell’ente, Leonardo Di Donna, che modificò profondamente la catena di comando e di controllo finanziario dentro l’ente e che trascinò l’ENI in pericolose operazioni con banche in grandi difficoltà, come il Banco Ambrosiano, o molto caratterizzate politicamente, come la Confederazione delle Casse di risparmio. Tra le acquisizioni più importanti, invece, ci fu quello della Recordati, una delle più antiche imprese farmaceutiche nazionali.
Contraddicendo l’immagine di amministratore sedentario, pacifico e pedante che l’aveva accompagnato all’ENI, appena insediato alla testa dell’IRI – nel gennaio del 1979, dopo il lungo ‘regno’ di Giuseppe Petrilli, presidente dal 1960 – Sette mostrò uno stile di governo deciso, dinamico e addirittura grintoso, come scrissero i giornali dell’epoca. Arrivato all’IRI accompagnato dall’allora trentenne Giovanni Bisignani – una sua ‘scoperta’ dei tempi dell’EFIM, che nominò condirettore centrale – ebbe subito uno scontro durissimo con il direttore generale Alberto Boyer (che aveva cullato a lungo l’idea di essere nominato presidente), in rotta di collisione con il ministro delle Partecipazioni statali Antonio Bisaglia (sulle procedure seguite per le grandi commesse di Bandar Abas in Iran). Lo sostituì con un suo collaboratore fedelissimo, conosciuto alla Terni, Antonio Zurzolo, per anni direttore generale dell’EFIM. Un altro personaggio che Sette liquidò fu Fausto Calabria, uno dei sodali del suo predecessore, promuovendolo alla presidenza di Mediobanca.
Per qualcuno un normalizzatore, per altri un liquidatore, per altri ancora il più grande presidente dell’IRI del dopoguerra, Sette fu più un PDG (Président-Directeur Général) alla francese che un semplice presidente. Mostrò tutte le sue doti di fine mediatore con il mondo politico, ma anche la capacità di motivare e di ridare slancio a un sistema in crisi, quasi ‘ai limiti della curabilità’. Fedele al suo stile di gestione, ridiede slancio alle attività di verifica e sorveglianza e introdusse un maggiore controllo sulle notizie filtrate alla stampa. Soprattutto, però, è con lui che iniziò lo smantellamento dei cosiddetti oneri impropri. Certe difficoltà – come scrisse qualche mese dopo la sua nomina all’allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga – erano congiunturali, ma altre erano «permanenti e, al limite, senza alcuna possibilità di recupero produttivo ed economico» (ACS, IRI, AG 45, Sette a Cossiga, 24 settembre 1979). Sua preoccupazione costante fu quella di trasmettere ai decisori politici una maggiore consapevolezza della gravità della situazione. Piuttosto che continuare a operare in tutti i settori, secondo lui occorreva che le forze politiche decidessero con chiarezza quale dovesse essere la funzione dell’IRI, delimitando – come scrisse nel 1980 al nuovo presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani – «con precisione i settori strategici consentendo a questi di sopravvivere con adeguati mezzi finanziari», poiché la situazione di incertezza generava «soltanto un inutile dispendio di risorse che né il Gruppo, né la situazione economica del paese può ancora sopportare» (ACS, IRI, b. 951/E, Sette a Forlani, 15 dicembre 1980).
Nel mondo politico la crescente competizione tra DC e PSI non aiutò Sette. Il Rapporto sulle partecipazioni statali del 1980 (noto come Libro bianco) – predisposto da Gianni De Michelis, ministro socialista delle Partecipazioni statali – verso il quale Sette manifestò «elementi di perplessità» (ACS, IRI, b. 951/E, Sette a De Michelis, 1° dicembre 1980), aumentò le tensioni sia tra i partiti sia con gli enti di gestione. Il mondo democristiano soffriva di questa nuova situazione in cui doveva scendere a patti con i socialisti. Sette ribadì nel 1981 – scrivendo al senatore democristiano Vittorino Colombo – la sua contrarietà al trasferimento del «centro propulsore imprenditoriale dagli Enti al ministero», sancendo il suo netto contrasto con il ministro De Michelis e in ogni caso, secondo lui la finestra entro cui effettuare le scelte fondamentali negli interessi del Paese non sarebbe rimasta aperta a lungo: il tempo per attuare «misure concrete» non era illimitato (ACS, IRI, b. 952/SE, Sette a Colombo, 31 marzo 1981).
Lasciò l’IRI nel 1982, in un momento difficile per l’avvio delle inchieste sulla loggia massonica P2 (che lambì anche l’ente), dopo avere sperato in una riconferma, per la quale era però necessaria un’uscita di scena di De Michelis, cosa che non avvenne (quattro anni dopo la sua morte, quest’ultimo avrebbe avuto tuttavia parole di grande apprezzamento per lui: «ho molto rivalutato Sette»; De Michelis attacca: «L’IRI è egemonizzato dai democristiani», in La repubblica, 28 agosto 1988). Alla fine del mandato di Sette, il margine operativo lordo dell’IRI era passato da 1000 a 3000 miliardi, le esportazioni erano salite da 3500 a 9000 miliardi; le perdite restavano però alte (2900 miliardi) e i debiti consolidati ancora di più (oltre 42.500 miliardi).
Dopo l’IRI, Sette non ebbe più incarichi di rilievo. Morì in un incidente stradale il 1° dicembre 1984 ad Altamura, in provincia di Bari. Con luì perì anche il professor Agostino Curti Cialdino delle Tratte, preside della facoltà di giurisprudenza dell’Università Lateranense.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato (ACS), Archivio storico IRI, presidenza Sette, b. 951/E, 952/SE; Archivio della Federazione nazionale dei cavalieri del lavoro, b. CLXXXI, c. 3.
F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia: la Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975, ad ind.; G. Aliberti, La nascita della Finanziaria Ernesto Breda, in La Breda: dalla Società Ernesto Breda alla Finanziaria Ernesto Breda, 1886-1986, Milano 1986, pp. 270-272; G. Are, M. Costa, Carbosarda: attese e delusioni di una fonte energetica nazionale, Milano 1989, ad ind.; L. Osti, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado: trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggero Ranieri, Bologna 1993, pp. 242, 247; M. Pini, I giorni dell’IRI: storie e misfatti da Beneduce a Prodi, Milano 2000, ad ind.; F. Briatico, Ascesa e declino del capitale pubblico in Italia: vicende e protagonisti, Bologna 2004, ad ind.; M. Colitti, ENI: cronache dall’interno di un’azienda, Milano 2008, ad ind.; C. Troilo, 1963-1982: i venti anni che sconvolsero l’IRI, Milano-Roma 2008, ad ind.; V. Varini, La genesi dell’impresa pubblica: la Breda nel secondo dopoguerra, in L’intervento dello Stato nell’economia: continuità e cambiamenti, 1922-1956, a cura di A. Cova, G. Fumi, Milano 2008, ad ind.; F. Lavista, Dallo statuto del 1948 alla programmazione economica nazionale, in Storia dell’IRI, II, Il ‘miracolo’ economico e il ruolo dell’IRI, a cura di F. Amatori, Roma-Bari 2012, pp. 537 s.; L. Segreto, Crisi della ‘governance’ e i rapporti con la politica, in Storia dell’IRI, III, I difficili anni ’70 e i tentativi di rilancio negli anni ’80, a cura di F. Silva, Roma-Bari 2013, pp. 347-359; P. Ciocca. Storia dell’IRI, VI, L’IRI nell’economia italiana, Roma-Bari 2014, ad indicem.