Pietro Verri
Il profilo politico e culturale di Pietro Verri, il maggiore degli illuministi italiani, consente di leggere le modalità concrete mediante le quali le forze più vive della società lombarda del 18° sec. parteciparono – prima con il dispotismo illuminato degli Asburgo, quindi con gli eserciti rivoluzionari di Francia – alla costruzione della modernità politica. L’impegno riformatore di Verri, volto a fare dell’aristocrazia una nuova forza sociale che rifiutasse il privilegio di ceto in nome del merito, connota una traiettoria culturale attorno alla quale avrebbe trovato forma un discorso politico di libertà destinato ad avere larga parte nel movimento nazionale italiano nel corso del 19° secolo.
Pietro Verri nacque a Milano il 12 dicembre 1728 da famiglia aristocratica. Avviato agli studi presso i gesuiti, avrebbe presto dimostrato un atteggiamento ribelle nei confronti delle convenzioni del tempo, entrando in urto con la famiglia. Dopo alcune prove letterarie, si arruolò nell’esercito imperiale in occasione della guerra dei Sette anni (1756-63) e nel biennio 1759-60 – soggiornando tra Dresda e Vienna – trasformò il proprio universo ideologico mediante molteplici letture che lo indussero a un’appassionata condivisione del discorso illuminista. Tornato a Milano, fondò, assieme al fratello Alessandro, a Cesare Beccaria e ad altri amici, l’Accademia dei Pugni, una società che rifiutava i modelli culturali tradizionali e che, tra il 1764 e il 1766, avrebbe dato voce alla propria volontà di rinnovamento mediante la pubblicazione del foglio «Il Caffè», primo esempio di giornalismo moderno nell’Italia del 18° secolo.
In parallelo all’impegno editoriale, Verri accettò di partecipare all’esperimento di governo riformatore degli Asburgo: nel 1765 fu consigliere della Giunta per la revisione della ferma, nello stesso anno entrò nel Supremo consiglio di economia e, nel 1771, venne inserito nel Magistrato camerale, di cui divenne il presidente nel 1780. Piena la sua adesione alla politica riformatrice della casa d’Austria, di cui sono prova i suoi molti scritti di economia politica, dove il liberismo economico intreccia la libertà civile in una chiara prospettiva di superamento della società cetuale. Anche all’indomani del 1780, Verri appoggiò le scelte di governo del nuovo sovrano Giuseppe II, stampando nel 1783 una Storia di Milano, che si prefiggeva di abbattere la trabeazione antiquaria dell’antico ordine. Nondimeno, l’improvvisa giubilazione da ogni incarico di governo, avvenuta nel 1786, indusse Verri a rivedere il proprio giudizio sul governo degli Asburgo, accostandosi a un costituzionalismo, fondato sull’esercizio della sovranità da parte della sola possidenza, che lo portò a guardare con interesse al 1789 di Francia. Anche per questo motivo, mentre veniva scoprendo nel corso degli anni Novanta una dimensione italiana sino allora sempre schiacciata tra il cosmopolitismo e la patria cittadina, egli guardò con grandi speranze all’arrivo di Napoleone Bonaparte in Italia.
La sua collaborazione con i francesi, in nome di un ordine repubblicano fondato sul concorso di una nobiltà liberata degli intralci cetuali, improvvisamente si concluse con la morte, intervenuta il 28 giugno 1797. Tuttavia, proprio gli ultimi anni della sua vita mostrano con chiarezza il decisivo contributo offerto da Pietro Verri alla nascita di quel moderatismo politico, impostato sui valori della possidenza e del merito, che largo rilievo avrebbe avuto nella vicenda del movimento nazionale del 19° secolo.
Pietro Verri era il primogenito di una famiglia dell’antica nobiltà cittadina che solo grazie a Gabriele, suo padre, era riuscita ad acquisire un sicuro prestigio sociale. Noto giurista, questi aveva deciso di investire il peso delle ricchezze accumulate dai predecessori in un’impegnativa partita politica, che gli avrebbe dovuto consentire di entrare nel governo cittadino e di divenire parte integrante di un sistema di potere fondato sullo stretto collegamento del patriziato milanese con i circoli di corte nella Vienna imperiale. Il giovane Verri entrò presto in collisione con i genitori, dai quali tutto sembrava differenziarlo, e riservò loro durissime parole, accusandoli di bigotteria, insensibilità e prevaricazione: tuttavia, avrebbe in pari tempo mutuato dal padre l’orizzonte sociale, perché anche Pietro rimase fermo sulla consapevolezza nobiliare quale naturale punto d’appoggio per l’affermazione sulla scena pubblica. Da qui una profonda discontinuità rispetto all’universo ideale del padre che avrebbe però avuto come limite invalicabile la discriminante dell’appartenenza di ceto: lo scontro generazionale, che riecheggia puntualmente nella denuncia dell’autoritarismo e dell’insensibilità dei genitori, si manifestò in un atteggiamento orgoglioso e ribelle e in una netta presa di distanze dalle convenzioni del tempo senza che queste scelte dissacratorie si prefiggessero però di distruggere il quadro nobiliare nel quale, anzi, Pietro sempre intese collocarsi.
Verri rimase, insomma, un patrizio milanese, anche se si sentiva (e voleva essere) diverso dalla maggior parte dei componenti del suo stesso ceto, perché, a differenza loro, egli presto rivendicò il profilo di un filosofo riformatore che gli consentiva di aggiungere alla piccola patria cittadina quella di un’Europa nel fermento del rinnovamento culturale. A questo passo, tuttavia, non arrivò presto: dapprima fu il tempo della giovinezza burrascosa, degli amori impossibili e delle prove poetiche, in un turbinio di esperienze che lo contrapponevano alla famiglia, ma che, ancora una volta, lo avrebbero indotto, sempre in omaggio al vivere nobiliare, alla scelta della carriera delle armi, mediante la partecipazione, nel 1759, in qualità di ufficiale, alla guerra dei Sette anni.
Quella stagione, benché di breve durata (anche perché ostacolata dai genitori che gli rimproveravano la disinvoltura nelle spese) fu tuttavia decisiva per aprire gli orizzonti culturali del giovane Verri. Risale a quell’epoca l’accostamento agli autori che gli avrebbero consentito di trasformare il proprio universo ideologico: Montesquieu, Voltaire, John Locke, Michel de Montaigne, Claude-Adrien Helvétius, gli economisti gli consentirono di ridefinire la propria identità alla luce di quel progetto civilizzatore che attraversava l’Europa intera, ma del quale nella sua patria era ancora scarsa contezza. L’interesse per la politica e l’economia finì per sembrargli la giusta via per un ritorno a Milano da posizioni di forza, che gli permettesse di affrancarsi, mediante il proprio sapere sociale, dall’opprimente tutela familiare e di affermarsi quale nuovo protagonista della scena politica locale. Nei suoi primi scritti, da Sul tributo del sale nello Stato di Milano (1761) al Saggio sulla grandezza e decadenza del commercio di Milano sino al 1750 (1763), pur presentati senza successo alcuno al nuovo plenipotenziario asburgico Carlo Gottardo Firmian, già affiora la coscienza di appartenere a una nuova élite culturale, destinata a sicuri compiti di governo dall’uso critico della ragione. Nel convincimento che la nuova scienza economica, al di là delle molte resistenze, non avrebbe mancato di trionfare acquisendo un profilo di governo che neppure i sovrani avrebbero potuto a lungo ignorare, era l’entusiasmo di chi si sentiva partecipe di un rinnovamento culturale su scala europea che gli assicurava ben altre armi contro le forze più retrive della società lombarda. Da qui, all’indomani del ritorno a Milano, la decisione di svecchiare le stesse strutture culturali cittadine, con la fondazione, nel 1761, dell’Accademia dei Pugni, dove si metteva al bando il sapere paludato e gli esercizi poetici per sostituirli con moderne letture, tra le quali spiccavano le opere di David Hume, Montesquieu, Jean-Baptiste d’Alembert, Étienne Bonnot de Condillac e soprattutto quelle di Jean-Jacques Rousseau: quelle scelte erano il segno di una svolta generazionale e, al tempo stesso, culturale nella stanca vita sociale cittadina di cui gli anni successivi avrebbero dato una plateale dimostrazione.
Nel giugno del 1764 – assieme al fratello Alessandro e a Beccaria – Pietro Verri fondava la rivista «Il Caffè», che si proponeva di dare voce alle linee guida del rinnovamento culturale proposto dall’Accademia dei Pugni. Il foglio, che avrebbe avuto breve durata e si sarebbe interrotto già nel maggio del 1766, aveva come punto di riferimento l’inglese «The Spectator» che Joseph Addison e Richard Steele avevano pubblicato tra il 1711 e il 1714: da quel giornale aveva origine la scelta di un luogo immaginario, una bottega di caffè appunto, dove prendevano forma i discorsi destinati a comparire sotto forma di articoli. Oltre ad aver lanciato l’idea, Pietro Verri seguì direttamente gli sviluppi della rivista, contribuendo alla progettazione dei singoli numeri che sempre affrontavano molteplici temi, spaziando dalla divulgazione scientifica alle discussioni d’ordine giuridico, senza mai dimenticare gli scritti di natura letteraria e satirica, in un costante confronto con il lettore immaginario.
Lo scopo dichiarato era quello di rinnovare i fogli a stampa del tempo, che sembravano alla cerchia di Verri dominati da un paludato sapere. Sotto questo profilo, il tentativo largamente riuscì, perché il foglio, abbandonato ogni intento erudito, puntò alla valorizzazione del modello illuministico e apparve subito come un giornale affatto diverso da quelli al tempo presenti proprio perché, sul modello dell’Encyclopédie di Denis Diderot e d’Alembert, mai mancò di ribadire il proprio sostegno a una politica di progresso civile. A questa prospettiva Pietro Verri dette un contributo decisivo con oltre quaranta articoli di genere molto diverso, in cui le considerazioni d’ordine economico e giuridico si alternano con quelle letterarie e scientifiche e tutte concorrono a definire un progetto di rinnovamento della società mediante un preliminare miglioramento culturale del suo ceto dirigente. Lo provano brillantemente i suoi scritti, che prendono di mira le élites delle libere professioni, come gli aristocratici e i possidenti: nei suoi scritti d’ordine giuridico e scientifico, non mancano le critiche verso un ceto di uomini di legge il cui obsoleto profilo favoriva il mantenimento dei tanti impedimenti giuridici al rilancio dell’economia lombarda, mentre la polemica avviata da Verri a favore dell’inoculazione del vaiolo costituiva un guanto di sfida a un sapere passatista che rifiutava il metodo di lavoro fondato sull’osservazione.
La necessità di una profonda riforma della nobiltà milanese attraversa d’altronde anche i suoi scritti d’ordine economico e morale, permettendo di rendere compatibili le pagine in difesa del lusso (quale strumento di redistribuzione della ricchezza) con quelle dove si stigmatizza l’inutile prodigalità. La richiesta all’aristocrazia di legittimarsi differentemente, mediante la scelta di favorire i talenti e il merito in luogo dell’ozio e dell’ignoranza, non andava però disgiunta da un’offerta di libertà: sempre nelle sue pagine offerte al «Caffè» è possibile scorgere una decisa opzione a favore della distinzione dei poteri, perché – sulla traccia di Montesquieu – il dispotismo è solo delle leggi, mentre quello esercitato dai sovrani verrebbe giusto utile per determinare (e accompagnare) il processo di ricivilizzazione di una società nel frattempo decaduta.
Non sia inutile subito aggiungere, allora, come un chiaro progetto politico sottendesse e raccogliesse gli interventi di Verri: alla base era il convincimento che solo il pieno sostegno del potere centrale avrebbe potuto consentire i progressi civili e morali del Milanese, ossia che soltanto la piena disponibilità di Vienna a sostenere con l’azione di governo le ragioni del fronte riformatore avrebbe potuto assicurare plausibilità e, in definitiva, successo alla linea politico-culturale del «Caffè». Da qui – e non appaia contraddittoria – la cura di Verri a mantenere la linea editoriale del foglio sui binari della leale collaborazione con il potere imperiale: nella scelta dei collaboratori e degli argomenti da pubblicare, egli mai mancò di dar prova di duttilità e prudenza, escludendo alcuni interventi che gli sembravano troppo radicali, rivedendo (e ammorbidendo) altri scritti che in materia di religione potessero incorrere nelle ire del censore, aggiustandone adddirittura altro ancora che potesse, sotto il profilo politico, lasciar credere come il foglio reputasse addirittura odiosa la presenza di casa d’Austria in terra italiana.
La circospezione di cui Verri dette prova nella pubblicazione del «Caffè» ricorda come quelli fossero anche gli anni del suo esordio quale funzionario di casa d’Austria. La sua carriera non sarebbe stata rapida e brillante come egli avrebbe desiderato, tuttavia non mancò di successi: nel 1765 diveniva consigliere della Giunta per la revisione della ferma e nello stesso anno entrava a far parte del Supremo consiglio di economia presieduto dall’amico Gian Rinaldo Carli. Successivamente, nel gennaio del 1771 era fatto primo consigliere della Regia finanza, mentre nel settembre veniva confermato nel nuovo organo del Magistrato camerale che sostituiva il Supremo consiglio di economia. L’ipotesi di succedere a Carli, a lungo accarezzata, sarebbe stata stornata dalla sua nomina l’anno successivo a vicepresidente soltanto e l’ambito incarico gli sarebbe arrivato solo nel 1780, in occasione del definitivo passaggio delle consegne tra Maria Teresa e il figlio Giuseppe II.
Quel risultato gli fece credere che il nuovo imperatore gli avrebbe profuso ulteriori riconoscimenti e in questo senso bisogna leggere la pubblicazione della sua Storia di Milano, fatta avere personalmente a tutto l’entourage di corte, senza tuttavia ottenere altro che la pur importante onorificenza di cavaliere dell’ordine di Santo Stefano. Anzi, a distanza di poco tempo, la complessiva riforma del Milanese, voluta nel 1786 da Giuseppe II, segnava la fine della carriera di funzionario di Pietro Verri, prontamente giubilato senza neppure larghi riconoscimenti. Il trauma non sarebbe stato da poco e avrebbe indotto Verri a ripensare l’esperienza dell’assolutismo, ma le scelte che egli avrebbe fatto a seguito delle novità di Francia del 1789 non devono porre sotto silenzio come per interi decenni egli intravvedesse, dapprima nel riformismo teresiano e quindi in quello ancor più radicale di Giuseppe II, lo strumento di rinnovamento dell’universo lombardo. La scelta di divenire funzionario – anche se Verri sempre pensò di aver contratto una sorta di alleanza quasi paritaria con la monarchia – gli parve l’irripetibile occasione per dimostrare le capacità della nuova scienza economica di accompagnare la trasformazione socioeconomica del Milanese e per sottolineare, al tempo medesimo, come soltanto una risoluta azione di governo calata dall’alto, ma dotata dei nuovi valori culturali, potesse togliere dalla scena il tradizionale potere del patriziato cittadino.
Su questo terreno, anche se in nome di una politica delle libertà, egli avrebbe condotto la propria azione contro il sistema corporativo e contro il gruppo di potere che lo legittimava: la contraddizione non gli sarebbe a lungo sembrata insopportabile, proprio perché, nell’incontro con la monarchia, egli intravvedeva il necessario compromesso per avere ragione delle resistenze di un consolidato ordine tradizionale. Per questo motivo, nell’infaticabile opera di governo, volta a dare risposta alle questioni urgenti dello sviluppo economico e sociale di Milano, a far da stella polare era una prospettiva di libertà: per la libertà nella vita economica da ogni forma di vincolo e di monopolio, sulla quale tanto sarebbe tornato a insistere in quelle Meditazioni sulla economia politica (1771) che gli avrebbero definitivamente assicurato notorietà internazionale; per la libertà nella vita sociale mediante il rifiuto di convenzioni e formalità che avvertiva tutte come il comodo usbergo per il mantenimento al potere di un ceto nobiliare sulla cui insufficienza culturale mai avrebbe mancato di lanciare i propri strali; e, infine, per la libertà sul terreno propriamente individuale, che si sarebbe dovuta naturalmente accompagnare al pieno dispiego delle attività produttive finalmente liberate da ogni intralcio corporativo.
Nell’insieme, una coerente proposta liberale che, sotto il segno di un totale rifiuto del passatismo e contro l’arretratezza culturale del patriziato cittadino, teneva assieme il liberismo economico e la libertà civile. A far da collante erano una nuova sensibilità di chiaro stampo rousseauiano e la presunzione, rivelatasi fallace, che l’azione di governo lasciasse ampi margini di manovra. Tuttavia, il disinganno sarebbe arrivato, soprattutto a far data dal 1776, quando, a nome dei circoli più conservatori del patriziato locale, il padre Gabriele stilò il parere contrario del Senato di Milano all’abolizione della tortura e le note del figlio, prontamente redatte contro la barbarie di quella posizione (Osservazioni sulla tortura, 1776-1777) e in linea con gli indirizzi di Vienna, rimasero invece manoscritte. Apparve allora sempre più chiaro come la scelta di collaborare con la monarchia si fosse rivelata per certi tratti inutilmente compromissoria, perché ogni profilo propriamente politico era negato all’azione di governo dei funzionari, che erano giusto chiamati a dare seguito, in un quadro sempre più indistinto e impersonale, alle scelte compiute a Vienna soltanto.
Sempre nel 1776, mentre ferveva il dibattito sull’abolizione della tortura, Pietro Verri avrebbe avviato la stesura della sua Storia di Milano, la cui prima parte, dalle origini della città al 1447, dette alle stampe nel 1783. L’opera rappresentava una sincera offerta di collaborazione con il potere asburgico: dedicata al fratello minore di Giuseppe II, Ferdinando – esaltato come un principe distruttore dei corpi intermedi che erano soliti impedire ai sovrani un diretto rapporto con le collettività delle province –, essa venne fatta pervenire a tutti gli uffici di governo milanesi e viennesi. La fatica di Verri si proponeva di smontare l’ideologia di ceto della memoria patrizia che a Milano, ancora in tempi recenti, aveva indotto il padre di Pietro, Gabriele, a redigere delle memorie storiche sul passato cittadino rimaste manoscritte e aveva decretato un largo successo allo storiografo patrio Giorgio Giulini (1717-1780).
Verri coglieva in quelle opere il chiaro intento politico di legittimare i tradizionali equilibri di potere mediante una conferma di quel primato all’indietro nel tempo e contestava un metodo che permetteva alla memoria di Milano di identificarsi con l’esaltazione di un ceto privilegiato. Contro una prospettiva siffatta, egli aveva cura di costruire altri quadri del passato milanese, in cui ogni intento magnificatore del patriziato venisse messo da parte e a prevalere fossero invece i quadri generali di una società liberata della classificazione cetuale. Nelle scelte storiografiche di Verri era dunque altra polemica ancora, contro il padre e contro l’aristocrazia cittadina, perché il patriziato locale, sconfessato nel proprio uso predatorio del passato, venisse infine esautorato della tradizionale opera di intermediazione svolta tra la città e la dinastia al potere e sostituito in quella funzione da altra élite, di ben altro profilo culturale, capace di rilegittimare in quella chiave la propria origine sempre e comunque aristocratica. Sotto questo profilo non deve stupire che l’opera venisse accolta con interesse a Vienna (e valesse al suo autore il titolo dell’ordine di Santo Stefano), ma fosse a Milano un clamoroso insuccesso. In città, gli antichi centri di potere avrebbero letto con un preoccupato acume quella ricostruzione storica, che nulla più concedeva loro, che li faceva addirittura responsabili dei momenti di crisi e che a fronte della radicalità della politica di Giuseppe II si proponeva addirittura di sostenerne lo sforzo demolitore dei poteri tradizionali.
E, tuttavia, la ricerca storica di Pietro Verri, anziché rilanciare l’incontro con il dispotismo, avrebbe invece costituito l’ultimo concreto atto di fiducia nei confronti degli Asburgo. Di lì a breve, nel 1786, l’irruenza riformatrice di Giuseppe II avrebbe finito per sacrificare lo stesso Verri alle esigenze di razionalità amministrativa, inducendolo, dopo inutili tentativi di ottenere la revoca del licenziamento, a prendere le distanze dall’intero esperimento riformatore della casa d’Austria. Verri si vide costretto al mero diletto degli studi, conducendo una vita appartata e amareggiata dalla coscienza di un’ingiusta giubilazione, alla quale parve sottrarlo l’improvvisa morte di Giuseppe II e la salita al trono del fratello Leopoldo, il quale si affrettò a prendere le distanze dalle troppe novità del predecessore.
Nel caso milanese, questa politica della mano tesa alle singole realtà locali poteva significare sia un ritorno in forze dei tradizionali gruppi di potere, sia il richiamo dei riformatori nel quadro di un progetto che mettesse da parte il dispotismo per puntare a una soluzione in chiave costituzionale: era quanto si augurava, anche sull’onda delle nuove straordinarie di Francia, lo stesso Verri, il quale – per contrastare la scelta dei ceti dirigenti milanesi di far richiamo al buon tempo antico – si affrettò a scrivere alcuni Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790 (scritto nel 1790 e lasciato inedito dall’autore). In quelle pagine, la vicenda della città – liquidato il tempo spagnolo come quello del predominio infausto degli ordini privilegiati – non veniva presentata, quanto agli anni austriaci, sotto una luce migliore, perché la disattenzione dei sovrani aveva favorito il dominio dei ministri plenipotenziari e quando Giuseppe II aveva preso in mano la situazione aveva fatto ancor peggio, tutto mortificando, molto distruggendo, senza pressoché nulla costruire. Inutile dire che a fronte dell’improvvisa apertura di credito da parte di Leopoldo II, Verri si augurasse la fine del dispotismo attraverso una scelta d’ordine costituzionale alla quale egli invitava l’aristocrazia, suggerendole, ancora una volta, di rinunciare agli antichi privilegi. A suo avviso, l’occasione era propizia per ottenere da Leopoldo un’assemblea rappresentativa – eletta dai soli proprietari fondiari, con un sistema a doppio grado destinato a premiare il merito – cui riservare l’approvazione delle leggi con particolare riguardo alle questioni finanziarie. In tal modo, qui riprendendo il discorso che aveva dominato la scena francese degli anni Ottanta, Verri rifiutava l’antica distinzione di ceto per costruire un ordine fondato sulla possidenza che facesse da baluardo a ogni ritorno in forze dell’assolutismo. La soluzione così adombrata sembrava disegnare una terza via tra il dispotismo del governo centrale e il particolarismo dei poteri locali sui cui binari non a caso sembrava correre la parallela vicenda rivoluzionaria di Francia.
All’indomani della giubilazione, nelle riflessioni di Verri restituito al mero diletto degli studi, si affaccia quasi d’improvviso, accanto al cosmopolitismo e alla patria milanese, un interesse per la situazione italiana, quasi che questa – in una dimensione circoscritta alla sola area settentrionale – potesse far da correttivo all’indeterminatezza dell’identità europea e all’angustia di quella cittadina. A questa scoperta lo induceva il risentimento verso Vienna che gli suggeriva di tratteggiare l’assolutismo asburgico nei termini di un potere dispotico smanioso di dettar la legge a una nazione dal profilo culturale superiore.
Tutto questo sarebbe stato fonte di altre preoccupazioni perché, a fronte del progresso civile e politico del 18° sec., l’Italia gli appariva ancora irrimediabilmente arretrata e corrotta: e tuttavia, l’incrocio con le nuove di Francia, dove l’emancipazione popolare si era rivelata un fatto tanto inatteso quanto magnificamente compiuto, gli avrebbe dettato una cauta apertura anche al popolo italiano, quasi che il miracolo politico del 1789 potesse preannunciarne anche un altro da questo lato delle Alpi. Sono d’altronde note le attenzioni di Verri al processo politico rivoluzionario francese, per il quale avrebbe avuto parole di grande entusiasmo nel corso della stagione costituzionale, ma che sempre avrebbe difeso, anche quando, all’indomani della messa a morte di Luigi XVI, esso precipitò nella stagione del Terrore. Certo, le straordinarie prove di abnegazione offerte dal popolo di Francia lo avrebbero in taluni momenti portato a un desolato confronto con le plebi di Lombardia e a disperare che quella straordinaria stagione di libertà potesse varcare le Alpi: tuttavia, proprio per questo motivo, l’improvvisa comparsa di Bonaparte a Milano nella primavera del 1796 dovette apparirgli l’irripetibile occasione perché, ancora una volta dall’alto, si arrivasse a una profonda trasformazione della società lombarda. Inutile dire che egli salutò con ammirazione l’abolizione dell’antico regime, ma che al tempo stesso fu molto preoccupato per gli sviluppi politici a Milano dove, nonostante la presenza delle truppe francesi, l’azione dei commissari civili – che gli apparivano emuli di quei funzionari cui aveva in precedenza addossato tutte le responsabilità del dispotismo austriaco – lo turbava molto.
Nonostante fosse immediatamente inserito nella nuova municipalità cittadina insediata a Milano il 26 maggio 1796, Verri non mancò di stilare note allarmate nei confronti di una nuova generazione di giovani repubblicani che gli sembrava addirittura puntare a una sorta di palingenesi sociale da cui sarebbe derivata un’eguaglianza non solo d’ordine giuridico, ma anche della possidenza. Era quanto il patrizio Verri, che pure aveva salutato con emozione la fine delle distinzioni di ceto sancita dai francesi, non poteva affatto tollerare: sotto questa luce vanno lette le sue dichiarazioni circa il saccheggio cui i nuovi venuti, spalleggiati dai loro partitanti locali, non mancavano di abbandonarsi. Tuttavia, merita subito di aggiungere che, come il quadro politico parve stabilizzarsi attorno alla volontà di Bonaparte di far soprattutto appello al ceto possidente, Verri tornò subito dalla parte della Repubblica francese, spronando i nobili a riconoscere il nuovo ordine, mostrando i vantaggi che sarebbero derivati loro da una leale collaborazione, entrando a far parte, nel gennaio 1797, della Società di pubblica istruzione e presiedendo il Consiglio dei Quaranta, il nuovo organo incaricato di proporre un complessivo riassetto dei poteri locali in Lombardia.
Le sedute furono poche, perché già in aprile le nuove vittorie sugli austriaci e la caduta di Mantova suggerivano a Bonaparte la nascita della Repubblica cisalpina, alla quale Verri sembrava guardare con interesse: in effetti, il nuovo corso politico indicava come il generale corso intendesse fare appello per il governo d’Italia al ceto possidente e segnatamente alla sua parte più colta e preparata. Sotto questo profilo, la denuncia delle ruberie e delle violenze dei francesi pareva lasciare il passo, negli auspici di Verri, all’apprezzamento per un corso politico dove sembravano esservi le basi per la nascita di una nazione italiana guidato dalla possidenza.
La morte, giunta improvvisamente alla vigilia della nascita della Repubblica cisalpina, avrebbe impedito a Verri di definire compiutamente il suo obiettivo: la rivendicazione di una libertà politica, fondata sulla partecipazione della cittadinanza alla costruzione delle leggi mediante un libero (anche se selezionato) voto e la fiducia in un’eguaglianza giuridica sulla quale costruire un nuovo modello sociale. Non sia inutile concludere come, lungo questa traiettoria, Pietro Verri ponesse le basi per la costruzione di quel liberalismo culturale e di quel moderatismo politico sui quali avrebbe finito per ruotare una larga parte delle vicende del movimento nazionale del 19° secolo.
È in corso, per iniziativa preminente di Carlo Capra, l’edizione critica e integrale delle opere di Pietro Verri. Tra i saggi sopra citati, ricordiamo che quelli d’argomento economico sono raccolti nel 2° vol., Scritti di economia, finanza e amministrazione, a cura di G. Bognetti, A. Moioli, P.L. Porta, G. Tonelli, Roma 2006-2007, mentre quelli storici, tra i quali le Osservazioni sulla tortura e la Storia di Milano, sono nel 4° vol., a cura di R. Pasta, 2009. Gli scritti politici dell’ultimo Verri sono invece nel 6° vol., Scritti politici della maturità, a cura di C. Capra, 2010.
Per gli articoli comparsi ne «Il Caffè» si veda l’edizione a cura di G. Francioni, S. Romagnoli, “Il Caffè”, 1764-1766, Torino 1998.
C. Mozzarelli, Del buon uso della storia. Pietro Verri e la sua “Storia di Milano”, «Società e storia», 1987, 10, pp. 581-605.
F. Venturi, Settecento riformatore, 5° vol., L’Italia dei lumi (1764-1790), t. 1, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987, pp. 425 e segg.
S. Baia Curioni, Per sconfiggere l’oblio. Saggi e documenti sulla formazione intellettuale di Pietro Verri, Milano 1988.
G. Scianatico, L’ultimo Verri. Dall’Antico Regime alla Rivoluzione, Napoli 1990.
Pietro Verri e il suo tempo, Atti del Convegno, Milano (9-11 ottobre 1997), a cura di C. Capra, 2 voll., Milano 1999.
C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002.
L. Mannori, Un “affare di sentimento”. L’identità civile del signor Pietro Verri, gentiluomo milanese, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2003, 32, pp. 583-98.
M. Isabella, Riformismo settecentesco e Risorgimento. L’opera di Pietro Verri e il pensiero economico italiano della prima metà dell’Ottocento, «Il pensiero economico italiano», 2005, 13, 1, pp. 31-50.
B. Anglani, “L’uomo non si muta”. Pietro Verri tra letteratura e autobiografia, Roma 2012.