Pio II
Enea Silvio Piccolomini nacque il 18 ottobre 1405 a Corsignano, in Val d'Orcia, primogenito dei diciotto figli di Silvio Piccolomini e Vittoria Forteguerri. Uno dei principali lignaggi di Siena, imparentato con i Tolomei, la famiglia Piccolomini era stata esclusa dalla vita pubblica della città nel 1385, a causa della sua appartenenza al partito dei nobili, e costretta a ritirarsi nella signoria avita di Corsignano; qui versava in difficili condizioni economiche, vivendo del lavoro nei campi. Dei diciotto fratelli, non ne sopravvissero contemporaneamente mai più di dieci e solo tre raggiunsero l'età adulta: Enea Silvio e le sorelle Caterina e Laudomia. Dal matrimonio di quest'ultima con Nanni Todeschini sarebbero nati i quattro nipoti che P. beneficò grandemente durante il suo pontificato: Antonio, Francesco (il futuro cardinale e papa Pio III), Andrea e Giacomo. L'estrazione magnatizia fu per Piccolomini, specialmente lungo la prima parte della sua vita, un pungolo costante a riconquistare, grazie alla personale eccellenza nelle lettere e nella diplomazia, quella preminenza sociale un tempo goduta dalla propria famiglia e poi perduta. Nell'intento di risollevare le sorti familiari valorizzando una spiccata attitudine agli studi, nel 1423 il padre inviò il diciottenne Enea Silvio a Siena, a studiare diritto; ma il giovane, anziché seguire le direttive paterne, vi diede libero sfogo alla sua divorante passione per le lettere classiche. Sacrificando le ore notturne e il denaro per i pasti, egli prendeva a prestito dagli amici i codici contenenti le opere da lui preferite (Cicerone, Livio, Virgilio fra gli antichi; Petrarca fra i moderni), che trascriveva o sunteggiava per proprio uso. Copiando e imitando i suoi modelli, divenne a sua volta autore di poesie in latino e in volgare, di argomento per lo più erotico e profano; affine a lui nei gusti era il suo compagno di studi Antonio Beccadelli, detto il Panormita. Durante questo intenso periodo di avviamento alle "humanae litterae", nel 1429 si recò a Firenze, per udire le lezioni di greco di Francesco Filelfo; vi conobbe anche Leonardo Bruni, Poggio e altri celebri umanisti, da lui assai ammirati. Dopo due anni in quella città, rientrò in patria per volere dei parenti, animato da una grande avversione per la giurisprudenza, che dovette però tornare a studiare. A Siena seguì le lezioni di importanti giuristi implicati a vario titolo nella vicenda conciliare che stava allora sconvolgendo la Chiesa occidentale, quali Antonio Roselli e Niccolò Tudeschi, detto il Panormitano. Anche il teologo Andrea Biglia figurava allora fra i docenti dello Studio senese; ma il professore che esercitò su di lui il maggior fascino fu Mariano Sozzini, che lo entusiasmò per la sua vastissima, benché fondamentalmente dilettantesca, cultura umanistica, con cui arricchiva le sue cognizioni di diritto civile. Incontrò anche s. Bernardino da Siena, le cui prediche lo suggestionarono al punto da mettergli in animo l'idea di farsi frate; ma fu lo stesso santo a dissuaderlo, non vedendo in lui alcuna vocazione alla vita contemplativa, come lo stesso Enea Silvio raccontò più tardi nel De viris illustribus. Le sue sorti conobbero una svolta decisiva nell'inverno del 1431. Tornato da un infruttuoso viaggio nelle città dell'Italia del Nord alla ricerca di un impiego, il ventiseienne Enea Silvio venne notato per il suo talento dal cardinale Domenico Capranica, vescovo di Fermo, che si trovava a Siena di passaggio verso Basilea, dove intendeva unirsi al concilio riformatore. L'adesione del Capranica al concilio era stata dettata dall'intento di combattere papa Eugenio IV, che gli aveva negato la conferma della promozione a cardinale; Piccolomini, da lui assunto in qualità di segretario, gli avrebbe fatto da procuratore davanti all'assemblea basileese, al fine di ottenergli il riconoscimento della dignità cardinalizia. Giunto a Basilea nella primavera del 1432, il giovane letterato senese aderì in pieno al movimento conciliare, sbrigando con successo l'affare del Capranica e andando ben al di là delle personali esigenze di quest'ultimo. Quando nel 1433 Eugenio IV sospese il concilio di Basilea, dichiarandolo scismatico in caso di prosecuzione, Enea Silvio combatté energicamente il gesto del pontefice romano e abbracciò l'oltranzismo con cui l'assemblea conciliare continuò nel suo programma di demolizione della monarchia pontificia. La partecipazione del Capranica al concilio non ebbe lunga durata; nell'aprile 1434 il cardinale si rappacificò con Eugenio IV, tornando a Roma. Enea Silvio decise di rimanere a Basilea e passò al servizio di Nicodemo della Scala, vescovo di Frisinga; successivamente, fu assunto dal vescovo di Novara, Bartolomeo Visconti, parente del duca di Milano e suo stretto collaboratore nella lotta contro la potenza temporale della Sede apostolica. Al servizio del Visconti, il giovane Piccolomini venne messo a parte del piano, ideato dal duca di Milano con la complicità del vescovo di Novara, per catturare papa Eugenio IV mentre si trovava a Firenze e ricattarlo, se non addirittura deporlo o sopprimerlo. Il complotto venne scoperto e Piccolomini fu costretto a dileguarsi per un certo periodo di tempo. Trovò impiego come segretario di un altro prestigioso cardinale allora partecipante al concilio di Basilea, il bolognese Niccolò Albergati; con l'ammissione nella "familia" di questi, Piccolomini si legò di amicizia con il di lui maestro di casa, Tommaso Parentucelli da Sarzana: ovvero il futuro pontefice Niccolò V, che un giorno lo avrebbe eletto cardinale. Nel 1435, Piccolomini seguì il cardinal Albergati in un lungo viaggio in Lombardia, in Savoia e in Borgogna, per sondare la disponibilità di quei sovrani ad appoggiare l'assise conciliare. Al termine della missione, egli solo venne mandato da Albergati dalla Borgogna in Scozia, intraprendendo così un viaggio non privo di pericoli mortali e di avventure galanti, che più tardi suggestivamente descrisse nei Commentarii. Nel corso di questa vera e propria odissea, ebbe modo di conoscere popoli e paesi lontani e di effettuare osservazioni ed esperienze, nel cui resoconto traspare tutta la forza di una mentalità razionalista e volontarista, aliena dal ricorso al miracolo e al dato magico-soprannaturale quale principio di spiegazione dell'inconsueto. Durante questo e molti altri viaggi accumulò parecchio materiale che rielaborò poi in opere storico-geografiche più tarde, quale il frammento che va sotto il nome di De Europa. Tornato a Basilea nel 1436, Enea Silvio non vi trovò più Albergati, che era stato riguadagnato alla causa papale. L'assemblea conciliare stava inoltre conoscendo una progressiva spaccatura fra un'ala propensa alla riconciliazione con Eugenio IV, capeggiata dal cardinal Cesarini, e una maggioranza fieramente antipapale, capeggiata dal cardinale d'Aléman e sorretta dalla componente gallicana. In tanta incertezza, Piccolomini optò per mantenere salde le proprie posizioni conciliariste e si impose all'attenzione generale grazie alle sue doti oratorie: memorabile fu il suo discorso del 16 novembre 1436. La sua carriera di funzionario conobbe di conseguenza una notevole progressione, con il conseguimento delle cariche di scrittore, di abbreviatore, e infine di primo abbreviatore del concilio. Rivestì anche mansioni organizzative, come quella di membro della commissione dei dodici, che preparava gli ordini del giorno da sottoporre all'assemblea; e, benché laico e non teologo, fece parte della deputazione per la fede, di cui assunse occasionalmente anche la presidenza. Il suo talento diplomatico si evidenziò in alcune legazioni svolte per conto del concilio in città e corti d'Europa. Aggravatasi intorno al 1436-1437, la rottura fra il concilio di Basilea e Eugenio IV divenne irreparabile nell'autunno del 1439, quando il concilio procedette all'elezione di un antipapa, nella persona del duca di Savoia Amedeo VIII, che il 5 novembre venne eletto e prese il nome di Felice V. Nel conclave, Piccolomini rivestì le funzioni di chierico cerimoniere. Avrebbe potuto perfino entrare nell'assise come elettore se solo avesse preso gli ordini sacri; ma si rifiutò di farlo, per non contravvenire, disse, all'obbligo della castità. Ancora nel 1444 poté scrivere che era questa la ragione che continuava a distoglierlo dal farsi prete, rinviando negli anni una scelta che si era comunque già affacciata alla sua mente; ma è lecito supporre che, accanto a tale fattore, agisse in lui la sfiducia intorno alle reali possibilità di avanzamento sociale che un antipapa isolato e senza mezzi come Felice V gli avrebbe potuto riservare. In ogni caso, Felice V nominò Piccolomini suo segretario: in tal veste egli scrisse nel 1440 il celebre Libellus con cui difese la scelta del concilio di Basilea di eleggere un nuovo pontefice, dopo avere deposto Eugenio IV. Attraverso tutte queste vicende, Enea Silvio emerse come un raffinato uomo di lettere, ambizioso ma povero, esigente ma di costumi per nulla esemplari, che intendeva fare fortuna al servizio dei grandi ecclesiastici, senza per questo divenire egli stesso uomo di Chiesa. Proprio a causa della disinvoltura con cui era solito affrontare le grandi questioni di politica ecclesiastica, gli era ben chiara l'entità dei rischi connessi a una simile scelta, che avrebbe potuto segnare la riuscita o il disastro della sua vita pubblica, legandolo alla fedeltà a un'autorità pontificia a danno di un'altra. Le sue inquietudini in merito alla piega che l'intera vicenda conciliare aveva preso lo indussero anzi a mettere in risalto la propria condizione di laico per tentare di abbandonare un'impresa del cui successo cominciava già forse a dubitare, cercando una sistemazione presso una corte secolare. Dalla necessità di Felice V di mantenere una salda intesa con l'imperatore derivò una nuova svolta nella storia personale di Enea Silvio. Nel 1442 egli venne inviato in qualità di legato alla Dieta di Francoforte, dove il 27 luglio ricevette la corona di poeta: un gesto, rievocante l'incoronazione di Petrarca, che gli consentì di fregiarsi, nelle sue lettere, di questo glorioso titolo. Apprezzando il suo talento di latinista, Federico III d'Asburgo gli offrì un posto nella Cancelleria imperiale, forse su sollecitazione dello stesso interessato, ormai pienamente deciso a percorrere nuove strade. Nel novembre 1442, durante una visita a Basilea, Federico III richiese per il suo nuovo funzionario il permesso di congedo da parte di Felice V, che lo concesse, sperando in tal modo di incrementare le proprie amicizie alla corte austriaca. Nel gennaio 1443 Enea Silvio si trasferì a Wiener Neustadt. L'abbandono dell'assise basileese e dell'antipapa da essa eletto non comportò per Enea Silvio alcun vantaggio di natura economica; ma le sue idee in materia di politica ecclesiastica dovettero subire, in conseguenza di tale passo, una decisiva modifica. A stretto contatto con il cancelliere imperiale Kaspar Schlick, di cui era segretario minutante, Piccolomini ammorbidì le sue posizioni conciliariste: Schlick, convinto dell'opportunità di una ricomposizione ad opera dell'imperatore della frattura fra papa Eugenio IV e il concilio di Basilea, lavorava affinché Federico III si mantenesse equidistante fra le due parti, onde porsi in un secondo tempo quale arbitro dei destini della Chiesa occidentale. La maturazione della nuova visione politico-ecclesiologica di Piccolomini, che si affermò in lui non senza travaglio interiore, fu graduale: le preoccupazioni di colui che persisteva a presentarsi anzitutto come "poeta" e segretario aulico sembrarono infatti restare dapprima di natura prevalentemente letteraria. Ispirato, fra gli altri modelli, da Boccaccio, nei primi tempi del suo servizio alla Cancelleria imperiale egli attese alla composizione della commedia Chrisis (1443) e della famosa novella De duobus amantibus historia (1444), il cui contenuto lascivo venne da lui speciosamente contrabbandato come antidoto contro la follia d'amore diretto ai giovani. A questo periodo risale anche una famosa lettera al padre (Epistola 15, 20 settembre 1443), in cui, con toni audacemente naturalistici, in cui è ben discernibile l'influenza di Boccaccio, lo pregava di accogliere in casa un suo figlioletto, frutto dei suoi amori con un'inglese. Non mancarono comunque da parte sua gesti più impegnativi sul piano intellettuale: come quando propose a Federico III, in quello stesso anno 1443, di affidare al pubblico dibattito, in seno al concilio, la questione dell'autenticità della Donazione di Costantino. L'esperienza che maggiormente segnò questi anni fu tuttavia la scoperta della precarietà e dei disagi della condizione del cortigiano, come testimonia il De curialium miseriis (1444). Il declinare della salute e un invecchiamento precoce nel fisico, si incrociavano per lui in quegli anni con le gravissime sciagure subite dalla cristianità, quale la distruzione della spedizione crociata ad opera dei Turchi a Varna (10 novembre 1444): in questa battaglia trovò la morte il cardinal legato Cesarini, che fu forse l'uomo da lui maggiormente ammirato fra i contemporanei. Tutti questi fattori spinsero il quasi quarantenne Enea Silvio, che ancora nell'aprile 1443 faceva professione delle sue convinzioni conciliariste e che l'anno dopo confessava di non voler prendere gli ordini sacri a causa del precetto della continenza, ad affrontare in termini nuovi il problema dell'avvenire della cristianità, legandolo con la questione della scelta definitiva intorno al proprio stato di vita. Grazie al molto di sé che egli, epistolografo instancabile, scrisse nelle sue lettere, siamo in grado di documentare la sua evoluzione con una precisione che non ha forse eguali per un uomo del Quattrocento. Egli era certamente conscio dei suoi meriti e ansioso di riconoscimenti, ma non era un calcolatore senza scrupoli, né un avido autointeressato; anelava piuttosto alla gloria, intesa in senso umanistico: un successo mondano, derivante da prudenza nell'agire e sorretto dal possesso delle virtù morali. Il suo ingresso nel fronte filoromano, lungi dall'essere frutto di una mera ricerca di tornaconto, fu da lui vissuto come un tormento di tipo etico: coincise infatti con una serie di eventi dolorosi, che gli inculcarono la convinzione di dover emendare la propria vita, rientrando in se stesso e abbandonando la frivola licenziosità del passato. Nell'ottobre 1444 dichiarava in una lettera che sua volontà era di servire Dio solo, e non altri, ma rimandò ancora fino al 1445 la decisione, che già aveva maturato in cuor suo, di farsi prete, attuandola poi soltanto ai primi del 1446, quando venne ordinato suddiacono. Fu infine consacrato sacerdote il 4 marzo 1447. Nel contempo, gli apparve ben chiara l'impossibilità che il concilio di Basilea potesse mai vincere la sfida in cui si era imbarcato, rappresentata dal riformare la Chiesa occidentale mantenendone l'unità. Dominata dalla componente gallicana, l'assemblea basileese stava spingendo a oltranza la lotta contro la Chiesa romana, confidando sull'appoggio politico del re di Francia, che ne aveva approfittato fra l'altro per emarginare l'autorità imperiale dalle grandi decisioni in merito al futuro assetto della cristianità europea. Si rischiava la frantumazione dell'Europa cristiana in diverse Chiese nazionali, sottoposte alla tutela dei rispettivi principi secolari. Per stornare un simile esito della crisi conciliare, era legittimo prospettare una convergenza di sforzi fra la Sede apostolica e l'Impero germanico, direttamente interessato, peraltro, ad abbattere la risorgente egemonia francese nella Chiesa occidentale. L'impegno culturale che Enea Silvio dimostrò nel giustificare il suo révirement verso il partito romano fu incomparabilmente superiore a quello di altri conciliaristi, altrettanto dotti e prestigiosi di lui, che fecero in quel frangente lo stesso passo. La sua vocazione alla storiografia, appendice imprescindibile della sua complessiva attività di intellettuale-segretario, gli aveva suggerito la composizione, verso il 1440, del De gestis Basiliensis concilii; intorno al 1450 lo spinse alla stesura del De rebus Basileae gestis, stante vel dissoluto concilio, che altro non è se non un rifacimento, in senso papista, della prima opera. Le nuove convinzioni di Enea Silvio, elaborate attraverso la frequentazione del cancelliere imperiale Schlick, ebbero modo di venire alla luce quando quest'ultimo, impossibilitato a lasciare l'Austria, affidò a Piccolomini una delicata missione diplomatica a Roma, nella primavera del 1445. A nome di Federico III, Enea Silvio dovette in quella circostanza invitare Eugenio IV a partecipare a un nuovo concilio, indetto stavolta sotto l'egida imperiale e non più francese, per comporre i dissensi interni alla Chiesa. Come era prevedibile, il pontefice respinse l'offerta; ma Enea Silvio colse l'occasione dell'ambasceria per fare pubblica ammenda, davanti al papa e alla sua Corte, degli errori passati, dichiarando, nel bel mezzo dell'udienza, la sua conversione alla causa della Chiesa romana. Senza opporre difficoltà, Eugenio IV, che lo aveva accolto con benevolenza, lo perdonò, dopo che, già prima di ammetterlo al suo cospetto, lo aveva assolto dalle censure in cui era incorso in quanto partecipante al concilio di Basilea e ufficiale dell'antipapa Felice V. Entrambi i discorsi, di supplica da parte di Enea Silvio e di pronta concessione del perdono papale, furono poi rievocati nei Commentarii. Una fase nuova si era aperta nella vita e nella carriera del Piccolomini; essa sarebbe stata coronata dall'assunzione degli ordini sacri, avvenuta, come si è detto, entro la primavera del 1446. Dietro la rapidità con cui lo storico gesto venne effettuato da lui e avallato dal pontefice si può intuire il buon funzionamento di un reticolo di amicizie che Enea Silvio vantava da tempo alla Curia romana, poggiante su personaggi di medio rango ma di grande attivismo, quali Tommaso Parentucelli, Pietro da Noceto e Giovanni Campisio, segretario del cardinale di Taranto, Giovanni Berardi. Precisamente il cardinal Berardi, che fu il braccio destro di Eugenio IV nel comporre la crisi conciliare attraverso una serie di accordi al vertice fra il pontefice romano e i principi secolari, sarebbe stato di lì a poco l'artefice dell'elezione a sorpresa di Parentucelli a papa. Non è dunque escluso che il recupero alla causa romana di un diplomatico di eccellenza, legato all'Impero germanico, come Enea Silvio potesse essere patrocinato, dietro le quinte, proprio dal cardinal Berardi. Con la conversione del Piccolomini al partito eugeniano, sancita alcuni mesi dopo dalla nomina onorifica a segretario apostolico, la causa papale nel mondo tedesco acquistò un prezioso paladino. In qualità di segretario di Federico III, Enea Silvio agì in stretto accordo con i nunzi pontifici in Germania, Juan Carvajal e Tommaso Parentucelli, al fine di porre un freno alle effervescenze della lega dei principi elettori, nell'interesse congiunto del papato e dell'Impero. L'Asburgo venne facilmente guadagnato alla causa papale, anche grazie alla promessa di 200.000 ducati, con i quali Eugenio IV avrebbe finanziato il suo viaggio a Roma per l'incoronazione imperiale. Più difficile fu piegare la lega dei principi elettori, che rifiutava la destituzione degli arcivescovi di Colonia e di Treviri, decretata dal papa nel gennaio 1446, e reclamava l'indizione di un concilio ecumenico in terra tedesca. Facendo anche ricorso allo strumento della corruzione, entro l'estate del 1446 Enea Silvio riuscì a staccare dalla lega degli elettori il marchese Alberto del Brandeburgo e l'arcivescovo di Magonza; fu così possibile a Federico III trovare un accordo con i principi tedeschi circa il modo di ottenere la pace della Chiesa (22 settembre): fu il preludio al riconoscimento del papa come unico pastore supremo della cristianità, che la Dieta di Francoforte decretò l'11 ottobre 1446. Seguì l'invio a Roma di una sessantina di ambasciatori, incaricati di notificare a Eugenio IV l'obbedienza da parte della maggior parte dei territori dell'Impero. Insieme con altri rappresentanti del re dei Romani, anche Enea Silvio fu mandato a Roma, a cogliere gli allori della vittoria della linea da lui perseguita. Il 7 gennaio 1447, con un solenne discorso tenuto nel Concistoro, egli espose al papa le condizioni poste dalla Dieta imperiale per il ritorno all'obbedienza romana: convocazione di un concilio ecumenico di riforma; conferma papale, messa per iscritto, della preminenza del concilio sul papato; soddisfazione delle denunce della nazione tedesca intorno agli abusi della Curia romana nell'amministrazione della Chiesa. Nell'esporre tali richieste, Enea Silvio si atteggiò non solo a difensore dell'unità ecclesiastica, ma anche a restauratore, attraverso l'obbedienza romana, dell'antica costituzione dell'Impero germanico, che proprio nel 1446 aveva rievocato nel De ortu et authoritate Romani imperii. Mostrando un'opportuna malleabilità, Eugenio IV sostanzialmente accolse le richieste esposte dal Piccolomini, così da gettare le basi per il concordato, detto dei principi tedeschi, che venne promulgato fra il 5 e il 7 febbraio, mediante quattro decreti pontifici diretti a regolare i rapporti fra la Sede apostolica e la nazione germanica. Neppure tre settimane dopo, il 23 febbraio, Eugenio IV moriva, essendo riuscito a sottrarre la Germania al campo dei sostenitori del concilio di Basilea: con l'adesione della Dieta alla Sede apostolica, il ritorno all'obbedienza da parte di quei principi tedeschi che ancora perseveravano nella loro opposizione era infatti ora solo una questione di tempo.
Quale segnale dell'urgenza per la Sede apostolica di completare l'operazione di recupero del mondo tedesco, il 6 marzo 1447 venne eletto come nuovo papa Tommaso Parentucelli, che prese il nome di Niccolò V. Dando compimento alla politica del suo predecessore, Niccolò V stipulò con Federico III d'Asburgo il celebre concordato di Vienna del 17 febbraio 1448, mediante cui venne ricomposto lo scisma basileese nell'area tedesca. La completa chiusura della crisi conciliare sarebbe seguita nell'aprile 1449, quando Felice V, abbandonato anche dal re di Francia, abdicò. Quale riconoscimento dell'operato di Enea Silvio a favore della Sede apostolica, il 19 aprile 1447 Niccolò V lo promosse vescovo di Trieste; la nomina non andò poi a effetto, a causa dell'opposizione del Capitolo della cattedrale. Questo incidente non intaccò minimamente la sua militanza nel partito filoromano alla corte asburgica: egli, che dopo aver preso gli ordini sacri aveva smesso di intitolarsi poeta, continuò a ripetere di volere fare solo ciò che piaceva a Dio, combattendo per il vangelo nell'unica Chiesa legittima, che era quella romana. Dato che circolavano insinuazioni intorno al carattere interessato della sua conversione alla causa papale, scrisse al rettore dell'Università di Colonia una lettera (13 agosto 1447) in cui diede conto delle ragioni della sua scelta, sconfessando nel contempo la sua adesione al concilio. Soprattutto, continuò a lavorare, con gli strumenti diplomatici e culturali a lui propri, per la completa sottomissione della Germania all'autorità del papato romano. Niccolò V, che per rafforzare il suo impegno a favore della Sede apostolica intendeva comunque promuoverlo al grado vescovile, il 23 settembre 1450 gli conferì la diocesi di Siena: evento che lo riportò, in una posizione di massimo prestigio, dentro l'orizzonte politico di quella patria lontana a cui egli non aveva mai smesso di pensare, durante la lunga permanenza Oltralpe. Soprattutto, la promozione a vescovo lo tolse dalla provvisorietà e dall'avvilimento in cui era caduto nella corte austriaca dopo la scomparsa del suo protettore. Caduto in disgrazia, Kaspar Schlick era stato destituito ai primi del 1448 ed era morto nel luglio 1449. L'esaltazione alla cattedra senese divenne una permanente fonte di attrito fra il Piccolomini e il governo di Siena, che diffidava di lui in quanto membro di una famiglia della vecchia aristocrazia, nemica del partito popolare allora al potere. Sospettando giustamente che Enea Silvio avrebbe presto o tardi reclamato la reintegrazione al governo del proprio gruppo familiare, se non addirittura della propria fazione, i Senesi osteggiarono quanto poterono l'autorità del nuovo vescovo, che pure accolsero con grandi festeggiamenti all'atto della sua intronizzazione. Quando poi, nel 1456, Enea Silvio ricevette il cappello rosso, l'ostilità dei suoi concittadini crebbe al punto che egli, da cardinale, non poté mai rimettere piede in patria. Nel suo nuovo grado episcopale, Enea Silvio venne fra l'altro incaricato di una spinosa legazione in Boemia nell'estate 1451; qui toccò con mano le difficoltà insite in qualsiasi tentativo di ricondurre all'obbedienza romana il partito utraquista, contro le cui dottrine egli scrisse anche un trattatello e un'opera storiografica (Historia bohemica). Maggior successo arrise al vescovo di Siena nel suo proposito di orchestrare, in pieno allineamento alla causa pontificia, la politica italiana di Federico III d'Asburgo. Subito dopo la riconciliazione con la Sede apostolica, agli inizi del 1447, Federico III aveva cominciato a progettare un viaggio a Roma, dove, secondo l'antica consuetudine, avrebbe commutato il titolo di re dei Romani in quello di sacro romano imperatore, ricevendo la corona dalle mani del sommo pontefice. Le turbolenze politiche scoppiate nel Ducato di Milano a partire dall'agosto 1447, con la morte dell'ultimo dei Visconti, dissuasero l'Asburgo dal muoversi. Pochi mesi dopo, insieme a Schlick, Piccolomini venne inviato a Milano per intimare la sottomissione della città all'Impero; ma l'ambasceria non ebbe fortuna. Quando poi, nel febbraio 1450, il condottiero Francesco Sforza si impadronì di Milano, i rapporti fra l'Asburgo e la Sede apostolica si fecero tesi. Niccolò V, che perseguiva una politica di neutralità papale davanti alle pretese delle grandi potenze europee in Italia, riconobbe prontamente Sforza come nuovo sovrano della Lombardia, a prescindere dal fatto che questi mancasse totalmente di un titolo di legittimazione da parte dell'Impero. Mirando a salvaguardare per altra via i diritti imperiali sul suolo italiano, nel settembre 1450 Federico III inviò il vescovo di Siena in Italia, in qualità di suo ambasciatore fiduciario, per incontrare a Napoli re Alfonso I d'Aragona e concludere con lui il matrimonio tra l'Asburgo ed Eleonora del Portogallo, nipote dello stesso Alfonso. Fermatosi a Roma nel suo viaggio, Piccolomini riuscì a condurre in porto i negoziati per la futura incoronazione imperiale di Federico III, vincendo le resistenze di Niccolò V, che al pari delle principali potenze padane (Milano, Venezia) era assai poco propenso ad acconsentire che l'Asburgo comparisse nella penisola. La sagacia con cui il vescovo di Siena riuscì ad associare la celebrazione del matrimonio con l'incoronazione imperiale del suo padrone, costituendo così le precondizioni per una sua pacifica discesa in Italia, fu ricompensata da Federico III al suo ritorno in Austria con la nomina a principe e consigliere dell'Impero. Il matrimonio ebbe luogo per procura a Lisbona nella primavera del 1451; l'incontro tra i due sposi sarebbe dovuto avvenire a metà strada, in Italia. Nell'estate, Federico III mise dunque mano ai preparativi per il "Romfahrt", incurante della contrarietà di buona parte del mondo italiano, fra cui lo stesso papa, e dei fermenti di ribellione serpeggianti in Austria. Il 1° gennaio 1452 il re dei Romani giunse in Italia, scortato da appena duemiladuecento uomini; al suo seguito si contavano soltanto due principi e tre vescovi, fra cui il Piccolomini. L'incontro tra Federico d'Asburgo ed Eleonora del Portogallo - che, sotto l'attenta regia di Enea Silvio, era stato fissato a Siena - avvenne il 24 febbraio, presso porta Camollia, dove tuttora sorge una colonna commemorativa. Dopo le nozze la coppia si rimise in viaggio, per celebrare quella che fu l'ultima incoronazione di un imperatore a Roma che la storia ricordi. Frattanto, dentro l'Urbe, Niccolò V attendeva a fortificarsi, timoroso che i cittadini di Roma approfittassero dell'arrivo dell'Asburgo per offrirsi a lui in dedizione. La considerazione che il pontefice riservò a Federico III fu alquanto modesta, come lo stesso Piccolomini ebbe a notare nella Historia Friderici III, ricordando che un tempo i papi andavano incontro agli imperatori fino a Sutri, mentre il pontefice attese Federico III dentro Roma. Da ciò egli deduceva la caducità delle umane istituzioni, oltre che la superiorità che l'autorità pontificia aveva di fatto acquisito su quella imperiale ai suoi tempi. Nondimeno, Niccolò V si dimostrò accondiscendente verso le pretese dell'Asburgo, il quale, entrato a Roma il 9 marzo 1452, ottenne che il papa lo incoronasse anche re d'Italia, non avendo egli potuto ricevere tale titolo in Lombardia. L'incoronazione imperiale si svolse, con la massima solennità, domenica 19 marzo; in questa circostanza, il vescovo di Siena pronunciò un'orazione nel Concistoro pubblico, davanti al papa e all'imperatore, nella quale indicò il prossimo compito che ricadeva sulla cristianità occidentale, ormai riunificata: la guerra santa per soccorrere Costantinopoli, assediata dai Turchi. Il 24 marzo Federico III prese la strada di Napoli, da dove il 26 aprile ripartì precipitosamente, insieme a Piccolomini, richiamato in patria dalla rivolta dei suoi sudditi austriaci. A parte il conseguimento del titolo imperiale, la sua spedizione in Italia si era rivelata del tutto inutile a regolare i conflitti tra i potentati peninsulari, che dopo il suo passaggio ripresero più violenti di prima. In Germania, il prestigio di Federico III in seguito all'incoronazione a Roma, ancorché aumentare, era addirittura crollato. Frattanto, un'altra e ben più grave questione si era imposta all'attenzione del mondo italiano e del papato: l'assedio dei Turchi a Costantinopoli. In piena sintonia con le sollecitazioni di Niccolò V, la difesa di quella città, in quanto baluardo della Chiesa e delle civiltà greche, dall'aggressione dei nemici della fede cristiana divenne in questo periodo l'oggetto principale delle cure di Enea Silvio. Durante il viaggio a Roma al seguito di Federico III egli aveva ricevuto dal papa la carica di legato apostolico per l'Austria, la Boemia, la Moravia e la Slesia, al fine di contribuire all'organizzazione della riscossa contro gli infedeli. Gli sforzi messi in atto dal vertice della Chiesa latina, che non riscossero alcuna adesione da parte dei principi secolari, non valsero a salvare la capitale greca dal suo tragico destino: com'è noto, nessuna potenza cristiana si mosse in tempo a difenderla, ed essa cadde, il 19 maggio 1453, senza aver ricevuto alcun efficace soccorso dall'Occidente. Il catastrofico evento non venne considerato irrimediabile né da Niccolò V, che il 30 settembre 1453 bandì la crociata, né da Piccolomini, che fece immediatamente propria l'iniziativa papale. Non vedendo però nessuna mossa concreta diretta a riconquistare la città perduta, il vescovo di Siena prese a deplorare l'indifferenza dei principi cristiani, che agivano da "procuratori dei turchi" e che consideravano il papa e l'imperatore alla stregua di vani nomi e figure dipinte, senza effettivo potere di comando. La colpa era tuttavia generale: non solo l'imbelle Federico III, ma perfino Niccolò V, incapace di coordinare una risposta degna del papato dell'epoca d'oro delle crociate, gli parvero tiepidi e non all'altezza della missione a cui erano stati chiamati. La sua delusione fu totale quando, nelle due Diete di Ratisbona e di Francoforte, nella primavera e nell'autunno del 1454, dovette constatare che, nonostante gli incitamenti di un predicatore popolare come Giovanni da Capistrano, non era possibile in alcun modo trascinare i principi tedeschi a combattere contro i Turchi. Né poteva farlo Federico III, imperatore senza mezzi e poco stimato in Germania come in Italia. La disillusione verso il suo imperiale patrono portò il vescovo di Siena a trasferirsi alla Corte di Roma, imprimendo così una nuova svolta alla sua carriera di ministro e diplomatico. Del resto, all'incirca a partire dalla fine del 1451, dopo la legazione in Boemia, il "cursus honorum" di Enea Silvio prevedeva nei suoi piani, quale prossimo traguardo, la dignità cardinalizia. La decisione dell'ex segretario di Federico III di trasformarsi in dignitario della Curia romana coincise con la morte di Niccolò V (24 marzo 1455). Trasferitosi stabilmente nell'Urbe nell'agosto 1455, pochi mesi dopo l'elezione di Callisto III, agli inizi del 1456 Enea Silvio fu investito della legazione pontificia a Napoli: una missione delicata, che aveva anche per oggetto la tutela dell'indipendenza di Siena, minacciata da Iacopo Piccinino, istigato da Alfonso I d'Aragona. La legazione napoletana fu il banco di prova che diede modo a Callisto III di accertarsi definitivamente dello zelo di Piccolomini. Corrispondendo alle aspettazioni espresse da molte voci di Curia, e abilmente fomentate dallo stesso interessato, la considerazione delle benemerenze verso la Sede apostolica accumulate dal vescovo di Siena negli ultimi anni gli valse, al ritorno da Napoli, la promozione a cardinale, avvenuta il 17 dicembre 1456. Nella sua veste di porporato, Piccolomini funse da autorevole collaboratore dei piani di Callisto III per l'indizione della guerra santa, che egli curò soprattutto nei risvolti relativi al non facile rapporto del papato con l'area imperiale. Per questo motivo, egli riprese a viaggiare, recandosi nuovamente in Germania per tentare di ridurre all'obbedienza una nazione in pieno fermento, che alternava fronde antimperiali a movimenti di ribellione all'autorità di Roma. Alla Dieta di Francoforte, nel marzo 1457, Enea Silvio fu addirittura compreso nelle violente accuse lanciate da Martin Mayr contro il papato, denunciato come dispregiatore dei diritti della nazione tedesca. Il cardinale venne attaccato per certe lettere aspettative, relative a benefici tedeschi, da lui recentemente ottenute: questo fatto lo rendeva complice della cupidigia che, a dire del Mayr, ispirava ormai ogni atto del papato verso la Germania. L'estremismo di questo genere di denunce preoccupò assai Callisto III, timoroso che anche il clero tedesco, sull'esempio francese, promulgasse una Prammatica Sanzione. Avvalendosi dei buoni uffici di Piccolomini, il pontefice replicò scrupolosamente a ogni accusa. Fu sempre Piccolomini a predisporre e coordinare la fortunata missione in Germania del nunzio pontificio Lorenzo Roverella, al quale il cardinale diede anche istruzioni su come debellare il partito antiromano: un'operazione che poté dirsi conclusa già verso il 1458. Tutta questa attività è documentata da una serie di celebri epistole, di cui una ebbe più tardi il titolo (impreciso, perché corrispondente solo a una parte del suo contenuto) di De situ, moribus, etc. Germaniae. In essa, Piccolomini descrisse le condizioni politiche, economiche, civili e morali della Germania, sottolineandone la felice condizione onde demolire le interessate lamentele dei nemici del papato, che imputavano all'avidità dei curiali la rovina della Chiesa tedesca.
La morte di Callisto III, il 6 agosto 1458, colse la Chiesa romana in un momento critico. Nei Balcani, i Turchi, conquistata la Grecia, stavano muovendo contro la Serbia; in Italia, Iacopo Piccinino, che aveva dovuto distogliere le proprie mire da Siena, stava occupando una a una le principali città dell'Umbria, sostenuto dal re di Napoli, che intendeva attraverso di lui soggiogare il papato ai propri voleri. Con il decesso dell'autorevole cardinal Domenico Capranica, avvenuto il 14 agosto, a conclave non ancora iniziato, scomparve inopinatamente colui che tutti additavano come prossimo pontefice. Sembrò in tal modo aprirsi la via all'esaltazione al soglio pontificio del potente e ricchissimo cardinale normanno Guillaume d'Es-touteville, che capeggiava la fazione degli amici del re di Francia. Con la sua vittoria, non era escluso che si potesse verificare una radicale revisione del processo di radicamento della Sede apostolica nel contesto geopolitico italiano, intrapreso dai papi dopo la chiusura del Grande Scisma, a partire da Martino V. Ad innescare tale svolta avrebbe contribuito anche il riaccendersi della disputa per la successione al Regno di Napoli, in seguito alla morte di Alfonso I il Magnanimo, avvenuta il 27 giugno 1458. L'intromissione della Francia negli affari d'Italia si faceva ognora più vicina, dopo che la morte di Alfonso I aveva riproposto la questione della legittimità dell'occupazione del trono napoletano da parte della casa d'Aragona. La successione del di lui figlio bastardo Ferrante non era stata infatti riconosciuta dal partito filofrancese del baronaggio napoletano, che aveva invocato la discesa nel Regno di un pretendente al trono della casa d'Angiò, nella persona di Giovanni, figlio del re Renato di Provenza. Al pari del nuovo sovrano aragonese di Napoli, anche quello, non meno illegittimo, di Milano aveva un interesse vitale a impedire l'elezione di un papa francese, data la paura che incuteva allo Sforza la prospettiva di un nuovo ingrandimento su suolo italiano della Francia, che proprio allora aveva stabilito la propria sovranità su Genova: evento che poteva tramutarsi in preludio a una rivendicazione dei diritti della casa di Orléans sul Ducato di Milano. Francesco Sforza, morto il Capranica suo favorito, avrebbe voluto l'elezione di Prospero Colonna; ma anche Piccolomini non gli sarebbe tornato sgradito, dato che quest'ultimo negli anni passati si era adoperato presso Federico III per cercare di ottenergli la tanto desiderata legittimazione, attraverso l'investitura imperiale. Quanto a Ferrante, era noto come suo padre Alfonso avesse apprezzato le doti diplomatiche del vescovo di Siena durante la sua legazione napoletana: secondo quanto riportato nei Commentarii, in quella circostanza il re di Napoli gli avrebbe addirittura profetizzato la tiara pontificia. A favorire Piccolomini stava infine la radicale opposizione dello Sforza e dell'Aragona alla candidatura alternativa più forte rispetto a quella dell'Estouteville, che era quella del veneziano Pietro Barbo (il futuro Paolo II): si credeva infatti che un papa veneziano avrebbe surriscaldato le ambizioni espansioniste della Serenissima. Sulla base dei comuni timori, fu agevole trovare, per i due principi italiani maggiormente esposti ai contraccolpi di un eventuale trionfo in conclave del partito francese, una convergenza sulla candidatura di Piccolomini, nonostante si trattasse di uno dei cardinali più poveri e sprovvisti di seguito che annoverasse allora il Sacro Collegio. Le altre due grandi potenze italiane dell'epoca, Venezia e Firenze, vennero soppiantate dal dinamismo con cui lo Sforza e l'Aragona affrontarono il problema dell'elezione del futuro pontefice; ma è da dire che, pur intrattenendo buoni rapporti con la Francia, neppure loro avevano interesse a vedere eletto un papa oltremontano. Il conclave si aprì il 16 agosto, con la partecipazione di diciotto cardinali su ventiquattro: otto italiani, cinque spagnoli, due francesi, due greci e un portoghese. Nelle consultazioni preliminari del 17 agosto furono subito stipulate le capitolazioni elettorali, che presero a modello quelle del 1431. Esse vincolavano il futuro pontefice all'assenso del Sacro Collegio in alcune materie decisionali di fondamentale importanza, come il trasferimento della Curia romana o la collazione dei benefici maggiori; anche le prerogative papali in settori quali il governo temporale dello Stato della Chiesa e i compattati con i principi secolari vennero severamente limitati. A tutela dei privilegi del ceto cardinalizio, venne ribadito il decreto del concilio di Costanza sul numero e sulla qualità dei cardinali, nonché sulla procedura della loro nomina. Infine, fu stabilito per la prima volta il cosiddetto piatto cardinalizio, ossia un appannaggio mensile di 100 fiorini, che il papa avrebbe dovuto corrispondere ai porporati che godessero di rendite annue inferiori ai 4.000 fiorini. Il terzo giorno del conclave, 18 agosto, iniziarono gli scrutini, che confermarono le previsioni di un imminente duello per il controllo del papato fra la nazione francese, rappresentata dall'Estouteville, il favorito della vigilia, e la nazione italiana, che ebbe i propri alfieri in Piccolomini e in Calandrini. Per abbassare i suoi due avversari, il cardinale normanno non esitò a ricorrere anche alla denigrazione, accusando Piccolomini di inaffidabilità per i trascorsi di conciliarista filogermanico e per la vocazione di "poeta". Piccolomini era poi porporato da poco tempo, ed era notoriamente creatura dell'imperatore; infine, era reputato sì un buon diplomatico, ma la sua cultura era limitata alla poesia e alle lettere profane. Le manovre dell'Estouteville vennero però rintuzzate dal cardinale di Siena con altrettanta spregiudicatezza, mediante la denuncia ai confratelli dei rischi connessi alla scelta di un papa francese, che avrebbe potuto riportare la Sede apostolica ad Avignone; oppure, mantenendo il papato a Roma, avrebbe potuto soggiogare tutta Italia alle ambizioni della Corona di Francia. Il risultato della clamorosa azione di Piccolomini fu il rovesciamento dell'iniziale vantaggio di Estouteville, a causa dell'inattesa decisione di Barbo di far convergere il pacchetto dei sette voti da lui controllati sul primo, a discapito del secondo. Viste perdute le speranze di essere eletto papa, il cardinale veneziano optò infatti per mantenere almeno il papato sotto la custodia della nazione italiana, dato che sussisteva più di un sospetto che, una volta papa, Estouteville intendesse davvero, con l'appoggio del suo connazionale cardinale Alain de Coëtivy, riportare la Sede apostolica a una condizione di sudditanza verso la Corona francese. Al nuovo scrutinio, il 19 agosto, Piccolomini risultò primo con nove voti, seguito da Estouteville con sei. A questo punto si verificò l'improvvisa adesione "per accessum" a Piccolomini di altri tre voti, fra cui quello decisivo del cardinal Colonna, che la diplomazia congiunta di Milano e Napoli aveva saputo piegare alle ragioni della "quiete d'Italia". Altrettanto determinanti si rivelarono le pressioni di Ferrante d'Aragona sulla fazione dei cardinali catalani, guidata dai due nipoti di Callisto III, Mila e Borja, al fine di impedire la vittoria del partito francese: anche costoro si aggregarono in seconda battuta al gruppo degli elettori di Piccolomini. La conquista dei due terzi dei voti da parte del cardinale di Siena, con cui si chiuse il convulso scrutinio del 19 agosto 1458, fu seguita dall'immediata inversione di linea dei suoi avversari, fra cui Bessarione, che si affrettarono a confluire nel partito dei suoi sostenitori, onde non incorrere nella disgrazia del futuro papa. Lo stesso 19 agosto venne annunciata l'elezione di Enea Silvio Piccolomini a sommo pontefice, con il nome di Pio II. L'incoronazione ebbe luogo domenica 3 settembre.
Il neoeletto pontefice aveva appena cinquantatré anni, ma era minato nel fisico da dolorose malattie (podagra, catarro) e da un invecchiamento ormai avanzato, evidente nell'incanutimento, che non lasciava presagire speranze di lunga vita. Di statura piccola e tarchiata, aveva portamento austero ma dolce, da cui traspariva umana simpatia e sensibilità verso le cose elevate. Il nome da lui prescelto come papa fu una reminiscenza del "Pius Aeneas" virgiliano; nell'adottarlo, egli non fu spinto soltanto dalla sua inguaribile ricercatezza, quanto soprattutto dall'intento di esprimere una visione religiosa del proprio ruolo alla testa della Chiesa. Più volte ebbe modo di ribadire che l'elevazione al pontificato aveva comportato una cesura nella sua vicenda personale, trasformando la sua stessa fisionomia morale; è noto il passo di una lettera in cui, pentendosi di avere scritto la Historia de duobus amantibus, invitava gli eventuali detrattori a dimenticare il peso della sua storia privata di uomo e a considerare solo la sua nuova identità pubblica di vicario di Cristo: "Nec privatum hominem pluris facite quam pontificem: Aeneam reiicite, Pium suscipite". Dal punto di vista dottrinale, la sua abiura del conciliarismo dovette essere ripetuta, contro chi lo accusava di opportunismo, anche dopo l'elevazione al pontificato. Essa trovò articolazione definitiva nella Bulla retractationum del 26 aprile 1463, diretta all'Università di Colonia, che era stata la destinataria dei suoi scritti in difesa della superiorità del concilio su Eugenio IV. I suoi sei anni di pontificato avrebbero avuto, quale linea portante, l'impegno incondizionato dell'autorità papale a dirimere i più gravi motivi di decadenza spirituale della cristianità. Con le sue iniziative di riforma, P. si atteggiò a papa della restaurazione della monarchia pontificia e dell'unità religiosa dell'Occidente cristiano, in piena continuità con l'operato dei suoi predecessori quattrocenteschi, in particolare Martino V, Eugenio IV e Niccolò V. Distinguendosi da costoro per uno slancio quasi inesauribile nell'affrontare le sfide del momento, egli affiancò alla lotta al conciliarismo e alle pretese autonomistiche delle "nationes" della cristianità anche uno sforzo estremo, che arrivò al sacrificio di sé, per liberare l'Europa dalla minaccia musulmana, avvertita come una vergogna a cui tutto l'Occidente cristiano avrebbe dovuto reagire unitariamente. Strumentale all'organizzazione di una grande controffensiva europea contro l'aggressione turca nell'Egeo e nei Balcani fu la tutela che P. esercitò nei confronti delle dinastie che occupavano, pur senza titolo di legittimità, gli Stati italiani di Milano e di Napoli. Questa opzione, tendente a conservare e non a sovvertire lo status quo nella penisola - la cosiddetta "quiete d'Italia" - riprendeva consapevolmente una linea già imboccata dal papato sotto Niccolò V; essa doveva essere interpretata come un'applicazione particolare del programma di pacificazione generale europea che la Sede apostolica usava imporre quale atto preliminare all'indizione della crociata. In accordo con tale assunto, P. non ebbe difficoltà a riconoscere, già all'indomani della sua esaltazione al soglio pontificio, Ferrante d'Aragona come nuovo re di Napoli. Il 17 ottobre 1458 fu stipulato un trattato fra P. e Ferrante d'Aragona, in base al quale quest'ultimo avrebbe ricevuto l'investitura del Regno di Napoli dalla Sede apostolica, divenendo così vassallo feudale del papa. In virtù di tale accordo, Ferrante venne assolto da tutte le censure fulminategli da Callisto III e i suoi sudditi vennero invitati dal papa a sottomettersi; in cambio, il nuovo sovrano napoletano procurò lo sgombero delle città umbre occupate da Piccinino e restituì al papato la città di Benevento. La bolla d'investitura, emessa in data 10 novembre, ripeteva sostanzialmente le convenzioni intervenute due secoli prima fra Clemente IV e Carlo I d'Angiò, con l'aggiunta però di una clausola che faceva salvi gli eventuali diritti di terzi sul Regno: P. dimostrò in tal modo di non voler arrecare un aperto oltraggio alle rivendicazioni della casa d'Angiò. L'incoronazione di Ferrante si svolse a Barletta il 4 febbraio 1459, per mano di un legato "a latere" appositamente nominato, nella persona del cardinal Latino Orsini. A rinforzare l'accordo stabilitosi fra il papato e il nuovo re di Napoli, P. aveva nel frattempo inviato in missione il cardinal Forteguerri, suo fidato collaboratore, che negoziò con Ferrante il matrimonio di una principessa aragonese, figlia naturale dello stesso Ferrante, con Antonio Piccolomini, nipote del papa e castellano di Castel S. Angelo. La conclusione del matrimonio comportò per Antonio l'acquisto del Ducato di Sessa: con l'inserimento di un ramo della propria famiglia nei ranghi della nobiltà del Regno, P. accomunò la grandezza di casa Piccolomini alle sorti di Ferrante d'Aragona, un principe che doveva ancora molto lottare per difendere il suo titolo di re di Napoli per grazia della Sede apostolica. Sempre vedendo nell'autonomia degli Stati italiani dal dominio diretto delle grandi case regnanti europee un vantaggio per gli interessi temporali del papato, P. si adoperò anche ad assicurare la permanenza sul trono di Milano dell'illegittimo duca Francesco Sforza e dei suoi discendenti. Il riconoscimento da parte papale della sovranità di fatto degli Sforza in un'area soggetta alla giurisdizione dell'Impero germanico comportava di per sé un rapporto conflittuale fra la Sede apostolica e l'imperatore. In piena continuità con le opzioni di Niccolò V, P. preferì sacrificare l'intesa con l'Impero alla salvaguardia dell'indipendenza dello Stato di Milano: fattore che garantiva l'estromissione della Francia, pretendente alla successione viscontea, dal panorama politico italiano e manteneva sotto controllo l'espansionismo di Venezia in val Padana. Contemporaneamente alla temporanea sistemazione della questione napoletana, P. intavolò con la massima fretta le trattative per organizzare la guerra santa, seguendo una preoccupazione che era in cima ai suoi pensieri già da prima dell'elevazione al cardinalato. Con la bolla Vocavit nos del 13 ottobre 1458, egli diede solennemente appuntamento per la primavera successiva a tutti i principi e i potentati dell'Europa cristiana in una città dell'Italia del Nord, Mantova o Udine, nella quale egli stesso contava di recarsi personalmente. Insieme ai convenuti, il papa si riprometteva di discutere le modalità per allestire una spedizione crociata contro i Turchi, diretta a liberare dalla loro presenza il mare Adriatico per poi passare a recuperare quanto da loro occupato nell'Oriente bizantino. L'annuncio della decisione che il pontefice, da poco eletto, avrebbe lasciato l'Urbe per partecipare a una grande Dieta delle potenze cristiane suscitò molto malcontento nel mondo romano, sia fra i curiali sia fra i cittadini; in mezzo a costoro circolò perfino la diceria che P. volesse trasferirsi a Siena, per amore di patria, oppure addirittura trasportare il papato in Germania. In effetti, l'assenza prolungata del sommo pontefice avrebbe prodotto una catena di inconvenienti: risveglio delle lotte di fazione e della criminalità in ambito urbano, torbidi e usurpazioni ai danni del governo ecclesiastico nel territorio laziale. P. cercò di prevenire l'insorgere di tali problemi, predisponendo un soddisfacente apparato amministrativo che avrebbe funzionato nell'Urbe in sua assenza; alla direzione di esso venne posto il cardinal Cusano, suo vecchio amico, nominato vicario papale per Roma e Patrimonio di S. Pietro. Per garantire il disbrigo delle faccende ordinarie, una parte della Curia pontificia, composta da un gruppo di ufficiali e da alcuni cardinali, venne lasciata a Roma, dove, accanto al governatore, Galeazzo Cavriani vescovo di Mantova, P. nominò un nuovo prefetto nella persona di Antonio Colonna, che avrebbe dovuto assicurare al papato la fedeltà del clan baronale romano allora più potente. Il 22 gennaio 1459, accompagnato da sei cardinali, il pontefice partì per la Dieta, che, durante il suo viaggio, fu stabilito dovesse aver luogo a Mantova: i Veneziani rifiutarono infatti di mettere Udine a disposizione, per non compromettersi prima del tempo contro i Turchi. Prima di partire, decretò la fondazione di un nuovo ordine cavalleresco, sul modello di quello di S. Giovanni di Rodi: i Cavalieri della Vergine di Betlemme, con sede a Lemno, incaricati di presidiare le acque dell'Egeo. Un altro ordine cavalleresco, avente sempre finalità antiturche, fu poi fondato su istanza del cardinal Bessarione: la Compagnia di Gesù Cristo, che però fallì sul nascere, al pari del primo ordine. Sempre per creare una cintura di contenimento dell'espansione turca, P. avrebbe desiderato lo spostamento dell'Ordine teutonico dalla Prussia alla frontiera turca nei Balcani. Lungo il viaggio, P. passò per Assisi e Perugia, onde verificare la sottomissione della regione umbra all'autorità della Sede apostolica. Il 19 febbraio ripartì da Perugia e si recò al borgo natio di Corsignano, che in quest'occasione decise di ricostruire e di erigere a diocesi, conferendogli così la dignità di città, e di ribattezzare Pienza. Ne approfittò anche per recarsi a Siena, onde regolare una volta per tutte i rapporti con i suoi concittadini, che da molti anni erano degenerati in una situazione di conflitto latente. Dopo la sua elezione a sommo pontefice, P. si sentì libero di rendere esplicite le pretese da lungo tempo covate nei confronti della vita politica della propria patria. Prima ancora di lasciare Roma, con un breve scritto "manu propria", il 25 novembre 1458 il papa intimò al governo senese di riammettere il partito dei nobili alle cariche pubbliche, oppure di prepararsi a rinunciare ai molti benefici che egli come papa avrebbe potuto arrecare alla città di Siena. La risposta fu una mitigazione dei provvedimenti di esclusione vigenti contro il partito aristocratico, ma non la sua reintegrazione al governo. Il 24 febbraio 1459 P. fece il suo solenne ingresso in Siena, accolto con freddezza. Respinse le profferte di alcuni nobili, che con il suo avallo avrebbero voluto tentare un colpo di stato; richiese invece esplicitamente al governo popolare una riforma generale delle istituzioni comunali, con la cancellazione del sistema dei partiti - o "monti" - in competizione fra loro, in modo da permettere agli esclusi di tornare al potere e di evitare per il futuro le parzialità che tanto indebolivano il regime senese. Il compromesso con cui si conclusero i negoziati mantenne in vigore il sistema partitico, ma accontentò il papa riguardo alla reintegrazione al governo del "monte" dei nobili, a cui fu concessa una quota - oscillante fra un quarto e un ottavo - nell'attribuzione delle cariche comunali. In segno di gratitudine, P. elevò la diocesi di Siena al rango di metropolitana, ponendola a capo di una provincia ecclesiastica che veniva pressappoco a coincidere con il territorio su cui la Repubblica senese esercitava la propria giurisdizione. Lo Stato di Siena venne inoltre ampliato con l'investitura perpetua da parte della Camera apostolica del piccolo centro di Radicofani, che controllava l'accesso allo Stato della Chiesa lungo la via Cassia. In tali concessioni, dirette a consolidare il dominio territoriale del Comune di Siena, è da vedere una manifestazione del patriottismo di un pontefice preoccupato di difendere, con i mezzi offerti dalla Chiesa, l'indipendenza - o "libertà" - della propria città natale, insidiata dalle pressioni dei suoi più potenti vicini e minata dalle divisioni interne. Un altro segno del patriottismo di P. fu rappresentato dalla canonizzazione di s. Caterina da Siena, che egli decretò nel 1461. P. lasciò Siena il 23 aprile. Se il sopralluogo in patria non poteva dirsi un completo successo, il resto del suo viaggio verso Mantova fu addirittura la dimostrazione dell'ostilità, più o meno dichiarata, che gli Stati italiani nutrivano verso di lui quale sovrano temporale. Dall'impossibilità di annullare l'antagonismo fra gli interessi secolari della Chiesa e quelli degli Stati circonvicini sarebbe provenuto quel senso di radicale estraneità al progetto di crociata lanciato da P., che i principi italiani gli comunicarono fin da subito. Il 25 aprile il pontefice entrò a Firenze, dove venne onorato con feste e spettacoli. Qui egli incontrò alcuni signori di Romagna, formalmente suoi vassalli ma in realtà protetti dai principali Stati italiani, e il figlio primogenito del duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza. Tutti costoro si mostrarono assai renitenti a impegnarsi a favore dell'iniziativa di P.; più ambiguo di tutti fu Cosimo de' Medici, capo del governo fiorentino, che allegò una malattia per evitare di discutere con lui di materie politiche. Lasciata Firenze senza avere raccolto adesioni, il 9 maggio P. entrò a Bologna. La città, che giuridicamente ricadeva sotto la sovranità della Sede apostolica, era presidiata da truppe milanesi, che i Bentivoglio - la famiglia che governava allora la città alla stregua di un Comune indipendente - avevano fatto affluire per premunirsi contro eventuali rivendicazioni da parte del papa. Ripartito da Bologna senza avere nulla ottenuto dai Bentivoglio, che tuttavia aveva dovuto accettare di fatto come governanti della città, il 17 maggio P. entrò a Ferrara. Il fastoso ricevimento e i modi cordiali che Borso d'Este, suo vicario, ostentò verso il papa nascondevano in realtà il proposito di strappare da lui nuove concessioni, onde rafforzare la sua autonomia dalla Sede apostolica. Dopo avere opposto un deciso rifiuto, P. ripartì per Mantova, dove entrò il 27 maggio, venendo accolto dal marchese Ludovico Gonzaga assai meglio che da tutti i precedenti signori d'Italia; insieme a lui lo attendeva la duchessa di Milano, Bianca Maria, con i suoi figli. Lo stato delle cose che P. trovò al suo arrivo a Mantova fu estremamente deludente. Neppure uno dei principi cristiani, da lui tanto insistentemente invitati nel corso dell'inverno precedente, era comparso; né era giunto alla Dieta alcun ambasciatore plenipotenziario. Nessuna delle grandi potenze cristiane aveva risposto all'appello del papa, per cui la Dieta per discutere dell'organizzazione della crociata non avrebbe potuto avere luogo. Sembravano avere ragione quei profeti di sventura che avevano cercato di dissuadere P. dal partire, sia per la loro contrarietà a lasciare Roma sia per la loro inimicizia verso il papa e verso le sue convinzioni. Tra i critici di P. si contavano alcuni dei più autorevoli cardinali, quali Ludovico Trevisano, avvocato degli interessi veneziani, che contestava l'iniziativa unilateralmente presa da P. e mirava invece a rilanciare la centralità del ruolo della Serenissima nel decidere della spedizione contro i Turchi. Ostile al papa era naturalmente il partito cardinalizio filofrancese, che faceva appiglio al rifiuto di re Carlo VII di Francia a sostenere la crociata: la defezione del primo monarca della cristianità, aggravata dal disimpegno dei principi tedeschi, faceva apparire a buona parte del Sacro Collegio come capriccio di un papa sognatore il persistere di P. nell'inseguire il grandioso obiettivo della guerra santa. Senza perdersi d'animo, P. inaugurò lo stesso, il 1° giugno 1459, la Dieta di Mantova, con una messa solenne durante la quale tenne un discorso di deplorazione per la sordità al suo appello dimostrata dai governanti europei. Seguì la pubblicazione di una lettera enciclica a tutte le potenze cristiane, con cui il papa esortava i convitati a rimediare all'omissione compiuta, raggiungendo al più presto la Dieta. Particolarmente dolorosa fu per P. la presa di distanza nei suoi confronti che manifestò in quel frangente Federico III. L'imperatore era irritato con il sommo pontefice per il riconoscimento del titolo di re d'Ungheria che quest'ultimo aveva accordato a Mattia Corvino, incurante delle concorrenti pretese della casa d'Asburgo a quella Corona. In realtà, l'atteggiamento di P. verso Mattia fu analogo a quello da lui tenuto nei confronti di Ferrante d'Aragona: il riconoscimento dei titoli regali di entrambi, che fu effettuato dal papato senza pregiudizio di eventuali terzi, mirava a compattare il fronte delle potenze maggiormente esposte all'assalto dei Turchi, evitando perniciose disgregazioni motivate da dispute di successione. La reazione di Federico III fu invece improntata al particolarismo. Venendo meno al suo dovere di anteporre ai propri interessi dinastici la causa della riscossa cristiana contro l'Islam, che egli avrebbe anzi dovuto personalmente promuovere e guidare, l'Asburgo si alleò con la fazione della nobiltà ungherese ostile a Mattia Corvino, facendosi da essa proclamare re d'Ungheria (4 marzo 1459). In seguito a ciò, il legato pontificio in Ungheria, cardinale Carvajal, non poté impedire lo scoppio di una guerra tra Federico III e Mattia Corvino: con gran disappunto di P., che vide così andare in fumo la possibilità di concertare una linea di resistenza unitaria contro i Turchi lungo il Danubio. Non solo. Nel tentativo di affossare un'iniziativa presa da un pontefice troppo amico del suo rivale ungherese, Federico III cercò un'intesa con il re di Francia, che aveva un esplicito motivo di rancore verso P., a causa dell'investitura del Regno di Napoli a Ferrante d'Aragona. Per indurre il papa a distaccarsi dal sovrano aragonese, Carlo VII aveva addirittura utilizzato la propria partecipazione alla crociata come un'arma di ricatto, non diversamente da quanto aveva fatto con la Prammatica Sanzione. Di concerto con il re di Francia, l'imperatore tentò dunque di procurare il trasferimento della Dieta da Mantova a qualche città della Germania, dove egli contava di assumere il coordinamento di un'impresa che, comunque, non avrebbe mai potuto sorgere dal mondo tedesco. I principi e i territori dell'Impero erano infatti assolutamente contrari a scendere in campo per una crociata assai pericolosa e dall'esito incerto, che avrebbe fatto il gioco di potenze loro nemiche, quali Venezia e l'Ungheria, e avrebbe potuto rafforzare il prestigio delle due autorità a loro più invise, l'Impero e il papato. In questa situazione di crescente scollamento tra le grandi monarchie europee e la Sede apostolica in merito all'iniziativa della crociata, un debole sollievo poté provenire a P. da quei piccoli Stati italiani che avevano maggiormente interesse a legare a sé il papato, onde ottenere la sua collaborazione per tenere gli Oltremontani fuori d'Italia. Pur senza ancora raggiungere la Dieta, sul principio dell'estate del 1459 Francesco Sforza inviò un manipolo di soldati milanesi al papa, il quale decise di indirizzarlo immediatamente, insieme a un contingente di truppe pontificie, verso il Peloponneso, dove sperava di aiutare il despota Tommaso Paleologo nel suo ambizioso piano di sollevare tutta la Grecia contro gli invasori turchi. Il piano fallì e la piccola spedizione cristiana si disperse, mentre Maometto II, eccitato dalla debolezza dei soccorsi europei nei Balcani, decise di sferrare l'attacco definitivo al Peloponneso e al Regno di Bosnia. Intravedendo come prossima la caduta della Bosnia, Mattia Corvino fu spinto a inviare nel luglio a Mantova i propri ambasciatori, così come aveva da poco fatto, unico tra i principi italiani, anche Ferrante d'Aragona. Il destino della Dieta fu risollevato in maniera decisiva a metà agosto, quando giunse al papa la splendida ambasceria del duca di Borgogna, Filippo il Buono. Il duca di Borgogna si sentiva legato in modo speciale alla causa della crociata, poiché nel 1453, alla notizia della caduta di Costantinopoli, aveva proferito il voto solenne di andare a liberare la capitale dell'Oriente cristiano dai Turchi, se solo si fosse trovato un altro sovrano europeo che avesse intrapreso insieme a lui la spedizione. Rinnovando dunque una promessa a cui restava tuttora obbligato, Filippo di Borgogna offrì a P. un contributo di duemila cavalieri e quattromila fanti, nel caso in cui la guerra santa fosse stata effettivamente allestita. Dopo tale offerta, l'ambasceria borgognona ripartì immediatamente, senza attendere, come il papa avrebbe voluto, l'arrivo del duca di Milano, che aveva annunciato di volersi recare a Mantova di persona. Scortato da una flotta di quarantasette barche fluviali, Francesco Sforza giunse a Mantova il 17 settembre e ripartì il 3 ottobre. Più preoccupato della questione napoletana che delle aggressioni turche, il duca di Milano pose, quale condizione per la sua partecipazione alla crociata, l'aiuto del pontefice nella guerra in atto nel Regno di Napoli. In quella stessa estate, la nobiltà napoletana di tendenza filofrancese aveva preso le armi contro Ferrante d'Aragona, invocando la discesa in Italia di Giovanni d'Angiò, che tuttavia tardò a intervenire. Mentre Venezia e Firenze scelsero di restare neutrali, l'illegittimo duca di Milano strinse un vincolo di solidarietà con Ferrante, aiutandolo a difendersi da una minaccia oltremontana che, in prosieguo di tempo, avrebbe potuto travolgere anche lui. L'intervento dello Sforza alla Dieta di Mantova fu dunque motivato più dalla necessità di mantenere P. allineato all'asse Milano-Napoli che da un genuino desiderio di promuovere la spedizione crociata. Sempre nell'intento di ricavare il massimo vantaggio da una situazione in cui P. vedeva in lui il suo più autorevole interlocutore tra i principi d'Italia, Francesco Sforza rinnovò al papa la richiesta di adoperarsi presso Federico III al fine di ottenergli l'investitura imperiale del Ducato di Milano, atto che lo avrebbe messo al riparo dalle rivendicazioni della casa d'Orléans. La presenza di Francesco Sforza a Mantova funse da stimolo agli altri sovrani italiani, che in quello stesso settembre 1459 decisero finalmente di inviare propri rappresentanti alla Dieta papale. Particolarmente importante fu l'arrivo degli ambasciatori di Venezia, segnale del superamento dei timori da parte della Serenissima di esporsi in prima linea alla furia dei Turchi, subendo rappresaglie di tipo militare e commerciale che sarebbero andate a tutto vantaggio di Genova e di Firenze. La promessa veneziana di adesione alla crociata fu in ogni caso formulata in termini generici e subordinata all'iniziativa delle altre potenze cristiane. Fu così possibile a P. inaugurare la prima seduta del congresso mantovano, il 26 settembre 1459, dopo ben quattro mesi di attesa. Dopo un suo commovente discorso, l'assemblea approvò all'unanimità la mozione di bandire la guerra contro gli infedeli; infine si sciolse. Per attuare la decisione della Dieta, lo stesso P. fu delegato a trattare direttamente con i rappresentanti diplomatici delle singole nazioni della cristianità. Il giorno dopo, 27 settembre, avvenne il primo di tali incontri, tra P. e i sovrani e ambasciatori dei principali Stati della penisola, riuniti in quella che sempre più appariva come un convegno antiturco della "natio italica", sotto la presidenza papale. Oltre al duca di Milano, ai marchesi di Mantova e del Monferrato e al signore di Rimini, erano presenti gli ambasciatori di Napoli, Venezia, Firenze, Ferrara, Siena, Bologna, Lucca, nonché del re d'Aragona per le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica; unico assente il duca di Savoia, data la sua dipendenza dalla Francia. Gli ambasciatori veneziani si pronunciarono intorno al modo di condurre la guerra per mare ma si astennero dal prendere impegni; ancor più evasivi furono i Fiorentini. Francesco Sforza, consultato intorno alla spedizione terrestre, propose che si arruolassero soldati delle regioni confinanti con i Turchi, pagati dagli Stati italiani; l'ambasciatore napoletano si allineò a lui. P. si convinse della necessità di raccogliere la più grande quantità di denaro, benché fosse non poco irritato dalla renitenza dei Veneziani, che pretendevano di essere spesati per una somma enorme e ricusavano di muoversi per primi all'attacco, come sarebbe stato necessario. In realtà, la Serenissima, che aveva da poco concluso una pace con i Turchi, cercava di cautelarsi come poteva, dal momento che, in caso di apertura delle ostilità, i suoi domini nel mar Egeo sarebbero stati il primo bersaglio delle aggressioni del terribile nemico, davanti al quale essa sarebbe stata lasciata sola dagli infidi alleati italiani. Mettendo mano alle risorse finanziarie derivanti dalla sovranità pontificia nello spirituale, P. decretò il 30 settembre l'imposizione di una decima sui beni ecclesiastici (compresi quelli del papa e dei cardinali), di una trentesima sui beni dei laici e di una ventesima sui beni dei giudei, per costituire un fondo per la crociata. Il provvedimento venne promulgato per tutte le nazioni della cristianità, ma era rivolto in modo particolare all'Italia, sulla quale sembrò dovesse ricadere la funzione di antemurale contro l'avanzata turca nel Mediterraneo. Dalle potenze dell'Europa continentale non provennero a P. altro che delusioni. Il 24 novembre, giunsero a Mantova gli ambasciatori francesi, che però non conferirono con il papa intorno alla crociata, bensì intorno alla questione di Napoli. P. prese le parti di Ferrante d'Aragona e, per tutta risposta, mandò a dire al re di Francia che suo dovere di sovrano cristiano era di abolire quanto prima la Prammatica Sanzione. La Germania aveva fatto ben sperare P. quando, verso la fine del 1459, era arrivato a Mantova il marchese Alberto del Brandeburgo, uomo energico e valoroso, disponibile ad abbracciare l'iniziativa del papa, il quale dal canto suo meditò addirittura di affidare a lui, in qualità di luogotenente dell'imperatore, il comando supremo della crociata. Per conto di Federico III, il marchese del Brandeburgo presentò larghe promesse di contributi per la guerra contro i Turchi, se solo il papato si fosse fatto carico di risolvere la pendenza ungherese; i fatti avrebbero tuttavia dimostrato che si trattava di profferte a scopo dimostrativo. Anche dal re di Polonia, in cui P. aveva riposto qualche speranza, giunsero solo vuote parole. Al fine di sondare la veridicità delle profferte imperiali, fu comunque stabilito l'invio, una volta chiusa la Dieta, di una legazione pontificia in Germania, da affidare al cardinale Bessarione, il principale collaboratore nell'organizzazione della crociata che P. vantasse nel Sacro Collegio. Il 14 gennaio 1460 si celebrò la conclusione del convegno, con la solenne indizione della guerra santa per tre anni; il 19 gennaio P. lasciò Mantova. Prima di partire, il pontefice emanò la celebre bolla Execrabilis (18 gennaio 1460), che rappresentò una tappa fondamentale della ricostruzione dell'assetto monarchico della Chiesa romana. In tale documento, che riprendeva un divieto già promulgato da Martino V, venne condannata come abuso intollerabile la procedura del ricorso in appello al concilio (presente o futuro) contro il giudizio del papa: una prassi che derivava dalla dottrina, dichiarata falsa, della superiorità del concilio ecumenico sul papato. Destinata a rivestire un profondo significato nel processo che, in età rinascimentale, portò nella Chiesa cattolica all'annullamento di ogni possibilità di convocare l'assemblea conciliare contro la volontà del sommo pontefice, la costituzione Execrabilis dovette la sua genesi a una preoccupazione eminentemente pratica. Era infatti prevedibile che, come già sotto Callisto III, alcune università e corporazioni ecclesiastiche avrebbero fatto appello al futuro concilio contro l'imposizione della decima papale per la crociata; il moltiplicarsi di simili appelli stava allora assumendo proporzioni tali da svuotare la potestà pontificia di ogni potere reale. È comunque innegabile che la Execrabilis rientrò in un più ampio disegno restauratore, perseguito da P. lungo tutto l'arco del suo pontificato: nella più tarda Bulla retractationum (26 aprile 1463), composta per ribadire la propria ammenda dagli errori commessi in passato con l'aderire alle dottrine antipapali, Piccolomini affermò solennemente che l'autorità del papa doveva considerarsi a tutti gli effetti come la più alta nella Chiesa. Di ritorno da Mantova, P. arrivò a Siena il 31 gennaio 1460. Sarebbe rientrato a Roma solo il 6 ottobre, dopo un soggiorno di molti mesi nel Senese, trascorso ai bagni di Macereto e di Petriolo a curarsi la gotta. Durante tutto questo periodo, le vicende interne al Regno di Napoli conobbero una serie di sconvolgimenti che misero a dura prova la politica italiana di Pio II. Davanti ai rovesci subiti dalla coalizione milanese-napoletana, il papa giunse perfino a meditare di rivedere la sua opzione filoaragonese, anche in considerazione del fatto che, nel sostenere Ferrante nella sua guerra, egli stava profondendo tutto il denaro che aveva destinato alla crociata. L'avvio della guerra di successione napoletana fu decisamente sfavorevole a re Ferrante. Nell'estate 1459 tutta l'ala filofrancese del baronaggio del Regno aveva seguito l'esempio del suo più potente membro, Gian Antonio Orsini, principe di Taranto, ed era scesa in campo contro il sovrano aragonese; a costoro si aggiunse Iacopo Piccinino, che divenne il più temibile coadiutore militare di Giovanni d'Angiò. Quest'ultimo giunse di persona solo nell'ottobre seguente, quando si presentò nel golfo di Napoli al comando delle ventiquattro galee che il re di Francia gli aveva messo a disposizione, e che erano state armate con i fondi per la crociata. Il colpo di mano non ottenne l'effetto sperato, che era quello di provocare un'insurrezione antiaragonese nella capitale; ma molte città della Campania, dopo questa dimostrazione di forza, passarono al partito angioino. Nella primavera dell'anno seguente ripresero le ostilità. Superiore al suo nemico sul piano tattico-militare, Giovanni d'Angiò inflisse a Ferrante d'Aragona una piena disfatta a Sarno (7 luglio 1460), che tuttavia non venne sfruttata a dovere, a causa della disunione fra i vincitori. In conseguenza di ciò, P. venne fatto oggetto di forti pressioni da parte del partito cardinalizio filofrancese; ma venne riguadagnato alla causa aragonese con strumenti meramente nepotistici. Al fine di rinsaldare la scelta di campo compiuta dal papa senese a vantaggio della sua famiglia, Ferrante cedette a suo nipote Andrea Piccolomini il feudo di Castiglione della Pescaia con l'isola del Giglio, nonché la città pontificia di Terracina. Il coronamento di tale operazione avvenne nell'autunno del 1461, quando venne stipulato il matrimonio fra l'altro nipote di P., Antonio Piccolomini, che già era duca di Sessa, con Maria d'Aragona, figlia naturale di Ferrante, il quale concesse al suo nuovo genero anche il Ducato di Amalfi e l'ufficio di giudice supremo del Regno di Napoli. Nel 1463 a tale patrimonio si sarebbe aggiunta la Contea abruzzese di Celano, che fu dichiarata feudo papale. Soddisfatto mediante questo cumulo di rendite e di onori per i propri nipoti, P. poté restare insensibile all'ambasciata che il re di Francia, Luigi XI, gli inviò nel marzo 1462 per convincerlo ad abbandonare la causa aragonese. Le peripezie della guerra di successione al trono napoletano ebbero drammatici riflessi anche dentro Roma, producendo una situazione di ingovernabilità aggravata dalla lunga assenza del pontefice. In una città tradizionalmente teatro di luttuosi scontri, scoppiarono tumulti ed episodi criminosi, aventi carattere a metà di banditismo a metà di rivolta antipapale, che risalivano a manovre ordite da membri delle principali famiglie baronali: il conte Everso dell'Anguillara, Iacopo Savelli, i Colonna. Come si venne a risapere, tutti costoro erano sobillati dal principe di Taranto e da Giovanni d'Angiò, i quali miravano a indebolire la signoria del pontefice dentro Roma per consentire l'occupazione indisturbata dell'Urbe da parte di Iacopo Piccinino, quando questi sarebbe passato con le sue truppe per il Lazio, diretto verso Napoli. Rientrato a Roma il 6 ottobre, scortato da cinquemila cavalieri fornitigli da Milano, P. prese drastici provvedimenti. Il 31 ottobre fu impiccato, insieme a sette suoi compagni, il famigerato bandito Tiburzio, capo della banda della Palombara, che con il sostegno dei Savelli e di Piccinino aveva seminato il disordine in città, dichiarando di voler abbattere il governo papale seguendo il modello di Stefano Porcari, suo parente. Altri suoi seguaci fecero poi la stessa fine, anche se la repressione dell'ondata insurrezionale fu assicurata solo con la capitolazione di Iacopo Savelli (10 luglio 1461). P., che passò l'estate del 1461 a Tivoli, dovette in ogni caso faticare ancora prima di riprendere il controllo del territorio laziale. Il programma di rafforzamento dell'autorità papale nello Stato della Chiesa intrapreso da P. sarebbe dipeso in massima parte dai successi della coalizione antifrancese, da lui sostenuta, nella guerra multipla che essa aveva ingaggiato in vari centri della penisola italiana contro gli aderenti al partito angioino.
Poco dopo il rientro a Roma, nell'autunno del 1460, P. decise di perseguire, con i mezzi della giustizia papale, il signore di Rimini, Sigismondo Malatesta, reo di non avere osservato le rinunce territoriali che il papa, in qualità di suo sovrano feudale, gli aveva imposto durante la Dieta di Mantova. La vera colpa di Malatesta consisteva tuttavia nell'essersi compromesso totalmente con la causa di Giovanni d'Angiò, di cui il signore di Rimini si dimostrò il più pervicace fautore tra i vassalli papali, proprio nel momento in cui P. si applicava con tutti i suoi mezzi a tenere la minaccia francese lontana dall'Italia. Accertatosi dell'assenso del duca di Milano all'abbattimento della potenza malatestiana, il 25 dicembre 1460 P. dichiarò Sigismondo scomunicato e privato dei suoi domini, in quanto malfattore notorio e ribelle della Chiesa. A infliggergli la debita punizione fu designato il suo capitale nemico Federico da Montefeltro, conte d'Urbino, che sotto gli auspici congiunti di P. e di Francesco Sforza, iniziò la sua ascesa tra i signori di Romagna. Grazie agli aiuti finanziari di Iacopo Piccinino e del principe di Taranto, Sigismondo Malatesta riuscì in un primo tempo a prevalere sul Montefeltro, che venne battuto a Nidastore il 2 luglio 1461; anche Borso d'Este e la Repubblica di Firenze sostennero Malatesta, consentendogli di tenere sotto scacco l'avversario. Sigismondo non mantenne a lungo il vantaggio; finì per soccombere quando le vicende della guerra di successione nel Regno di Napoli, da cui le sorti del conflitto romagnolo tra Malatesta e Montefeltro dipendevano strettamente, volsero al peggio per gli aderenti allo schieramento filoangioino. Con la ripresa stagionale delle ostilità, nella primavera del 1461, arrivò una notizia ferale per i sostenitori napoletani di Giovanni d'Angiò: la città di Genova, tradizionalmente filofrancese e base logistica delle spedizioni angioine nel Regno, era passata in dedizione a Francesco Sforza, che era riuscito a prevalere su re Renato d'Angiò nella lotta per la signoria sulla città. Forte del trionfo in Liguria, lo Sforza poté concentrare le sue energie nell'espulsione degli Angiò dall'Italia meridionale. Grazie al determinante aiuto milanese, Ferrante d'Aragona riconquistò progressivamente la supremazia nel Regno, sancita definitivamente con la battaglia di Troia, in Puglia (18 agosto 1462), nella quale Ferrante e Alessandro Sforza sbaragliarono Giovanni d'Angiò e Iacopo Piccinino, costringendo subito dopo alla resa il principe di Taranto; la morte di quest'ultimo, nel novembre 1463, seguita dalla devoluzione del suo feudo alla Corona aragonese, privò il fronte angioino del suo principale finanziatore. Il conflitto si concluse nell'autunno del 1463, quando Piccinino passò ai servizi di Ferrante, l'Aquila venne sottomessa e Giovanni d'Angiò fu costretto a riparare a Ischia, da dove, nella primavera successiva, salpò per la Provenza. Nel frattempo si era consumata la rovina di Sigismondo Malatesta, al quale P. volle impartire un castigo esemplare. Il 12 agosto 1462 Federico da Montefeltro batté Malatesta a Senigallia, costringendolo a cedere quella città, che, insieme a Mondavio, venne data in vicariato a Giacomo Piccolomini, nipote di P.; Sigismondo Malatesta fu costretto a riparare in Puglia, dove tuttavia non trovò che gli avanzi dell'esercito angioino, recentemente sconfitto a Troia. Per non essere schiacciato dal Montefeltro, Sigismondo dovette raccomandarsi a Venezia, che l'anno successivo esigette la cessione di Cervia da parte di suo fratello Domenico. La protezione veneziana non bastò peraltro a evitare che i Malatesta perdessero anche Fano, che il 25 settembre 1463 si diede in soggezione alla Sede apostolica. Lo smembramento totale dello Stato malatestiano fu impedito dall'intervento congiunto dei principali Stati italiani, che indussero P. a lasciare almeno a Sigismondo Rimini e a Domenico Cesena, fatti salvi il pagamento del censo annuo e il diritto di devoluzione alla Chiesa in caso di morte senza eredi. Il potere offensivo del più audace signore italiano del partito filoangioino era stato in ogni caso cancellato, in concomitanza con la conclusione della guerra di successione nel Regno. La politica italiana di P. poté dunque considerarsi fortunata, come testimoniarono gli accrescimenti territoriali dello Stato pontificio con cui venne premiata. Assai più controverso sarebbe stato l'esito delle molte sfide che P. dovette sostenere per difendere l'autorità della Chiesa romana nel campo spirituale, cercando di domare le tendenze autonomistiche che provenivano dalle maggiori "nationes" europee, in particolar modo Francia e Germania. La Prammatica Sanzione di Bourges, emanata nel 1438, non sottraeva soltanto al papato la sovranità effettiva in materia beneficiaria nei territori soggetti alla Corona di Francia; essa era anche un'asserzione, formulata dal clero gallicano e autorevolmente confermata dall'Università di Parigi, della superiorità dei concili sul papato e delle prerogative di un monarca secolare nell'amministrazione degli affari ecclesiastici della propria nazione. Per questo i papi del tempo, specialmente Niccolò V e Callisto III, avevano cercato di ottenere la revoca dell'atto, che costituiva ai loro occhi una negazione dell'autorità universale della monarchia pontificia; lo stesso P. definì la Prammatica Sanzione un'idra dalle molte teste, che si era insinuata nella Chiesa cattolica per colpa del re e del clero di Francia. Nel luglio 1461 l'avvento al trono francese del nuovo re, Luigi XI, che in passato aveva manifestato l'intenzione di ristabilire buoni rapporti con la Sede apostolica, fece credere vicina a P. la ricomposizione di quello che, da parte romana, era sempre stato visto come un principio di scisma gallicano. Come tramite per le trattative fu prescelto Jean Jouffroy, vescovo di Arras, che però vide nell'importante missione anzitutto un mezzo per arrivare al cardinalato. Senza troppo andare per il sottile, il vescovo badò ad accorciare al massimo i tempi di risoluzione del negoziato. In cambio dell'impegno ad abrogare la Prammatica, Jouffroy non esitò ad accontentare Luigi XI nel suo desiderio di avere presso di sé un legato apostolico permanente dotato di pieni poteri per la nazione francese, in modo da potere ugualmente controllare la collazione beneficiaria nel suo Regno. A tale equivoca promessa si aggiunse l'ufficiosa assicurazione di un futuro cambiamento della politica papale intorno alla questione napoletana: elemento che guadagnò a Jouffroy la totale fiducia del re di Francia, che ne richiese la promozione al cardinalato. Sulla base di quello che si sarebbe poi rivelato un malinteso, il vescovo di Arras poté vantare, al suo ritorno a Roma, un grande successo diplomatico, che gli valse la creazione a cardinale, il 18 settembre 1461. Come d'accordo, poco dopo, il 24 novembre 1461, Luigi XI abolì la Prammatica Sanzione. Il tripudio con cui alla Corte pontificia venne accolta la notizia che la Chiesa gallicana era tornata a sottostare alla sovranità della Chiesa romana ebbe tuttavia corta durata. Già nel gennaio 1462 venne alla luce il contenuto della truffa ordita da colui che era ormai divenuto il cardinal Jouffroy. Luigi XI fece sapere che si aspettava, in cambio del pieno ritorno all'obbedienza romana da parte del Regno di Francia, il ritiro dell'appoggio papale a re Ferrante di Napoli, giurando addirittura di vendicarsi di P. se questi non avesse smesso di intralciare Giovanni d'Angiò. Le minacce con cui il re di Francia corroborò il suo messaggio erano pesanti: andavano dalla convocazione di un nuovo concilio e dalla diserzione della crociata fino all'alleanza con Venezia e all'invasione della Lombardia. Spaventato, P. meditò effettivamente di staccarsi da Ferrante; fu però trattenuto dalle insistenze di Francesco Sforza, il quale gli dimostrò come in quella circostanza il re di Francia stesse giocando il tutto per tutto, al fine di riprendere l'egemonia esercitata dai suoi antenati sulla penisola italiana. Qui gli restavano alcuni capisaldi (Firenze, Ferrara), ma altri gli erano venuti meno (Napoli, Genova): non si doveva dunque consentire a Luigi XI di recuperare quanto suo padre aveva perduto. Inoltre, lo Sforza comunicò a P. di sapere per certo che le promesse che Luigi XI gli aveva fatto di partecipare alla crociata non erano che fole, poiché il Regno di Francia era allora impossibilitato a mobilitarsi nel Mediterraneo. Nel ricevere in udienza l'ambasciata solenne di obbedienza da parte di Luigi XI, il 16 marzo 1462, P. non accondiscese dunque alle richieste francesi su Napoli, mentre ottenne che la revoca della Prammatica Sanzione fosse confermata. La vittoria morale del papato ebbe scarso effetto pratico, una volta che il re di Francia constatò l'impossibilità di condizionare, attraverso di essa, la politica italiana di Pio II. Le tensioni tornarono ad affacciarsi intorno al 1463, quando Luigi XI, pur senza ripristinare la Prammatica, promulgò altre ordinanze reali, con cui le prerogative sovrane della Sede apostolica nel Regno di Francia vennero nuovamente ridotte. È infine da dire che, nel campo della collazione beneficiaria, il re di Francia non aveva mai smesso di usare metodi prevaricatori di controllo, giustificandoli come rimedio contro quelle che venivano presentate come le usurpazioni romane a danno delle antiche libertà della Chiesa gallicana. Anche dalla Germania P. ricevette amare frustrazioni, nonostante il rapporto di servizio da lui intrattenuto verso gli Asburgo fino all'elevazione al cardinalato. In passato, la sua dipendenza da Federico III gli aveva attirato l'avversione di alcuni principi dell'Impero, che respingevano qualsiasi forma di autorità universale che tornasse a detrimento dei loro poteri particolari. Da papa, il Piccolomini non poté più neppure contare su un efficace appoggio da parte del suo antico patrono, al fine di ristabilire il primato della Sede apostolica sopra una Chiesa tedesca attraversata da lacerazioni e da continue intromissioni dei poteri secolari. Il grande problema del mondo tedesco era costituito in quegli anni dalla rivalità tra le case degli Hohenzollern, marchesi di Brandeburgo e sostenitori degli Asburgo, e dei Wittels-bach, a cui appartenevano Ludovico, duca di Baviera-Landshut, e Federico I, conte del Palatinato; quest'ultimo nutriva ambizioni alla Corona imperiale, in antagonismo con gli attuali detentori. Il conflitto, che non poté essere ricondotto alla mediazione di alcuna autorità sovrana, portò nel 1460 allo scoppio di una guerra civile, in cui vari principi tedeschi vennero coinvolti, per via di legami di alleanza o di parentela con le parti in lotta. Più o meno nello stesso periodo, i Turchi irruppero alle frontiere ungheresi; ma tale notizia non suscitò alcuna particolare apprensione in Germania, dove anzi Federico III proseguiva la sua lotta contro Mattia Corvino. Deciso a rilanciare il prestigio del papato in un'area imperiale in piena crisi spirituale e preda della guerra intestina, ai primi del 1460 P. vi mandò in legazione il cardinale Bessarione, deciso a far rispettare la promessa fatta a suo tempo di inviare dalla Germania trentaduemila fanti e diecimila cavalieri per la crociata. Secondo i programmi stabiliti a Mantova, il 2 marzo 1460 si aprì a Norimberga la Dieta che avrebbe dovuto definire le modalità della partecipazione tedesca alla crociata; ma lo scarso afflusso fece spostare la Dieta a Worms per il 25 marzo, e infine a Vienna per il 17 settembre, dove si concluse con un nulla di fatto. Per coprire la loro indisponibilità, i principi tedeschi presero a pretesto la questione della decima sui beni del clero tedesco per finanziare la crociata: P. aveva decretato tale imposizione senza la previa consultazione della Dieta, che ora denunciò tale atto come illegale. L'imperatore, che si dimostrò propenso ad avallare l'iniziativa del pontefice, si vide messo sotto accusa per complicità con gli abusi romani. Spazientito dalla capziosità dei suoi interlocutori, Bessarione si lasciò andare a ingiurie contro di loro, dichiarando rotto ogni suo rapporto con la Dieta imperiale, dalla quale gli appariva chiaro che non c'era da aspettarsi alcun concorso alla guerra santa. Nei mesi precedenti, il cardinal legato aveva inoltre toccato con mano l'impossibilità di ristabilire la pace tra i principi dell'Impero. Subito dopo il fallimento della Dieta di Vienna, Bessarione richiese licenza di lasciare la Germania; ma P., che sperava almeno di accordare per suo mezzo Federico III con Mattia Corvino, lo confermò al suo posto. Quando risultò evidente che anche questo obiettivo non poteva essere raggiunto, Bessarione venne richiamato a Roma, nel settembre 1461. Nel frattempo, i rapporti fra la Sede apostolica e il mondo tedesco erano stati incrinati dall'emergere di aspre controversie sul piano giurisdizionale, che, nel corso delle aspre polemiche che ingenerarono, misero allo scoperto la drammatica perdita di autorevolezza morale che il papato stava soffrendo in Germania. Mentre P. si trovava a Mantova nel 1459, emersero i prodromi della controversia che lo avrebbe lungamente opposto a Diether von Isenburg. Questi era stato proprio allora eletto, fra molte difficoltà e con sospetto di simonia, all'arcivescovado di Magonza: altissima dignità ecclesiastica, che comportava anche quelle di cancelliere del Regno di Germania ed elettore dell'Impero. Pur contestata, la nomina dell'Isenburg venne riconosciuta dalla Sede apostolica, a condizione che egli si recasse personalmente alla Curia romana, dove avrebbe dovuto fra l'altro pagare un'ingente tassa apostolica di 20.000 fiorini renani. Il nuovo arcivescovo di Magonza fece però sapere di non avere intenzione di presentarsi al papa né di sborsare un soldo, contando sull'intercessione di Alberto di Brandeburgo, suo alleato. Scaduto il termine per il pagamento, l'Isenburg venne colpito da scomunica minore per insolvenza; ma la punizione, anziché piegarlo a più miti consigli, lo offese. Acceso di furore per l'oltraggio arrecatogli dagli ufficiali della Camera apostolica, egli si mise alla testa del partito antiromano della nobiltà tedesca, distinguendosi per la sua protervia alla Dieta di Vienna nel settembre 1460, davanti al cardinal legato Bessarione. In questo arco di tempo, la guerra interna alla Germania si risolse a danno dell'Hohenzollern, che venne sconfitto sul campo dal suo rivale Wittelsbach e dovette accettare dure condizioni. L'Isenburg trovò pertanto consigliabile passare al campo dei vincitori, insieme ai quali architettò un ambizioso disegno relativo al futuro assetto politico-religioso della Germania, dalle finalità a un tempo antipapali e antiasburgiche. Alleatosi a Ludovico di Baviera-Landshut e a Federico I del Palatinato, Diether von Isenburg favorì insieme a loro il re di Boemia, Giorgio Podiebrad, nella sua aspirazione ad essere eletto re dei Romani. L'ingresso nella competizione per la Corona tedesca di un personaggio come il Podiebrad, notoriamente legato all'hussitismo, faceva aggio sulle tendenze conciliariste tuttora persistenti nel mondo germanico; la sua candidatura sarebbe stata l'arma con cui i principi elettori avrebbero abbattuto a un tempo la sovranità del papato sulla Chiesa tedesca e le mire degli Asburgo a rendere ereditario il titolo imperiale. L'oltranzismo antiromano dell'Isenburg risultò tuttavia inaccettabile ai suoi stessi alleati, tanto che nell'inverno 1460-1461 egli non riuscì a trascinare il Podiebrad e i principi tedeschi dissidenti nell'appello al futuro concilio che egli intendeva formulare contro il giudizio papale. Fu allora che l'arcivescovo di Magonza, per non rimanere isolato, inasprì l'attacco contro P., prendendo ai suoi servizi il celebre avvocato e pubblicista Gregor Heimburg, già ideatore della durissima polemica antiromana sferrata per conto del duca Sigismondo del Tirolo negli anni precedenti. Il conflitto fra il duca Sigismondo del Tirolo, fratello di Federico III, e il cardinale tedesco Nicola Cusano, vescovo di Bressanone, risaliva addietro nel tempo. Esso era nato durante il pontificato di Niccolò V, a causa delle riforme ecclesiastiche promosse dal cardinale nella sua diocesi. Le resistenze suscitate da tali riforme chiamarono in causa la questione dell'esercizio della giurisdizione temporale nel vescovato tirolese, che il duca Sigismondo fu intransigente nell'avocare a sé. Le violenze che ne seguirono, che portarono addirittura a insidie alla vita del Cusano, indussero il sommo pontefice a prendere le difese del cardinale vescovo: P. citò alla Corte pontificia, che allora si trovava a Mantova, le due parti contendenti, e impose loro una riconciliazione (novembre 1459). L'intervento papale non servì a fermare le prepotenze del duca Sigismondo, che giunse a far incarcerare il Cusano. Il pontefice citò allora nuovamente l'Asburgo in Curia e, davanti alla sua contumacia, lo scomunicò. L'inflessibilità di P. ebbe l'effetto di provocare le furibonde reazioni di Sigismondo, che scatenò una campagna di propaganda antipapale per tutto il mondo tedesco. Su consiglio del giureconsulto Gregor Heimburg, destinato a diventare il campione della lotta della Chiesa tedesca contro Roma, il duca del Tirolo si appellò al futuro papa e al futuro concilio generale, che secondo i decreti di Costanza e Basilea doveva tenersi ogni dieci anni. La Germania venne quindi invasa da un nugolo di libelli, composti dallo stesso Heimburg, inneggianti alla rivolta contro la tirannide papale. Non potendo tollerare l'insolente gesto di Sigismondo, in quanto adombrava la possibilità di un processo contro il sommo pontefice e di una sua eventuale deposizione, P. spinse l'affondo contro l'Asburgo: dopo avere fulminato la scomunica maggiore per eresia contro di lui e tutti i suoi fautori, lo mise al bando della cristianità, incitando i principi vicini ad assaltarlo. Nessuno raccolse però l'invito del papa. Anche lo Heimburg venne scomunicato nell'autunno del 1460 e dichiarato eretico nella Pasqua del 1461; P., che lo definì "figlio del diavolo", ne prescrisse la cattura, volendolo processare per i suoi attacchi infamanti alla Chiesa romana. Da parte sua, lo Heimburg rispose con una Appellatio al futuro concilio: di fatto, lo scritto antipapale più violento apparso in Germania prima di Lutero. Precisamente nella primavera del 1461 si verificò la convergenza fra le due battaglie combattute, fino ad allora indipendentemente, dall'arcivescovo di Magonza e dallo Heimburg. Le risorse giuridico-culturali del secondo avrebbero aiutato il primo a condurre in porto il suo progetto di alleanza fra i principi imperiali nemici di Roma e degli Asburgo, che si sarebbero ristretti sotto la bandiera dell'appello al concilio o al papa futuri. La coalizione dei principi dissidenti si lanciò all'attacco il 1° marzo 1461, con una lettera a Federico III in cui veniva descritto il miserando stato in cui versava l'Impero tedesco: un quadro a tinte fosche, redatto solo per rimproverare all'Asburgo la sua negligenza e preannunciargli l'intenzione di risolvere senza di lui le questioni interne alla Germania. Il 2 marzo fu la volta di P., a cui venne indirizzata una lettera con cui i firmatari prendevano sotto la loro protezione l'arcivescovo di Magonza, raccomandando nel contempo al papa di abbassare l'esosa tassa camerale che gli era stata imposta e che aveva dato origine a tutta la controversia. In separata sede, Isenburg rilanciò la posta in gioco, proponendo di sopprimere del tutto le annate, così come già era stato decretato dal concilio di Basilea; anche la vendita delle indulgenze fu oggetto di contestazione. Da tutti questi segnali, era chiaro il proposito dei principi elettori di invalidare il concordato di Vienna del 1448, per arrivare anche in Germania ad un pronunciamento del clero, poi convalidato dalla Dieta imperiale, che imitasse la Prammatica Sanzione di Bourges. Coerentemente con tale assunto, Heimburg fu mandato dalla lega dei principi elettori in Francia, dove tuttavia non trovò la sperata collaborazione da parte di Carlo VII: l'iniziativa dei principi elettori, che mirava all'indizione di un concilio ecumenico su suolo tedesco, risultò inaccettabile al sovrano francese. Gli sviluppi di questo sommovimento interno al mondo ecclesiastico germanico, dal carattere scismatico più che eretico, furono inficiati da quello stesso particolarismo da cui prendeva le mosse. Gli Hohenzollern, che pure vi avevano aderito, non avevano interesse a spingere a fondo la lotta contro Roma, e si tirarono indietro; seguirono altre defezioni, fra cui quelle di Federico I del Palatinato e dell'arcivescovo di Treviri, così che i piani di Heimburg e Isenburg andarono in frantumi. Sopraggiunsero infine i nuovi nunzi apostolici in Germania, Francisco de Toledo e Rudolf von Rüdesheim, che si mostrarono quanto mai malleabili nello sconfessare le prese di posizione del cardinal Bessarione e nel dare precise garanzie in merito alle procedure di imposizione della decima ecclesiastica. Alla Dieta di Magonza (22 maggio 1461), da cui Heimburg fu escluso perché eretico, Isenburg si trovò isolato e dovette ritornare sui suoi passi. Dopo avere tentato senza successo di accordarsi con la Sede apostolica, nell'agosto l'arcivescovo di Magonza venne deposto da P., che lo sostituì con Adolf von Nassau, l'antagonista sul quale Isenburg era prevalso con mezzi assai sospetti due anni prima. Il provvedimento di P. ebbe però l'effetto di riaccendere le guerre di fazione tra i principi tedeschi, con l'intromissione di Federico del Palatinato nella questione maguntina, che ora non poteva che essere risolta con le armi. Nella primavera del 1462, P. chiamò a raccolta tutte le forze dell'Impero contro Isenburg. La città di Magonza venne assediata ed espugnata il 28 ottobre 1462; esattamente un anno più tardi, Isenburg fu costretto a scendere a patti con il Nassau, riconoscendolo come nuovo arcivescovo in cambio della cessione di un piccolo territorio in cui rifugiarsi. Sempre nell'ottobre 1463 Isenburg si sottomise anche all'autorità della Chiesa romana. Entro la primavera del 1464 il conte Federico del Palatinato ritornò all'obbedienza alla Sede apostolica. Nell'estate dello stesso anno, appena dopo la morte di P., venne composta anche la controversia di Bressanone: il duca Sigismondo del Tirolo poté così essere perdonato, assolto dalle censure ecclesiastiche e riammesso alla comunione della Chiesa romana. Il principio di scisma da parte della fazione antipapale della Chiesa tedesca era stato sventato, anche grazie all'uso sapiente che P. aveva fatto delle divisioni tra la nobiltà per ricondurre costantemente il mondo germanico alla sottomissione alle due autorità universali dell'Impero e del papato. Assai meno felice fu l'esito della politica perseguita da P. nella questione ceca. In Boemia, il movimento popolare di protesta antiromana ispiratosi alle dottrine di Hus aveva messo radici profonde, come lo stesso Enea Silvio Piccolomini aveva potuto constatare di persona, in qualità di nunzio apostolico, nell'estate del 1451. Nuove speranze si aprirono per la causa romana con l'incoronazione a re di Boemia di Giorgio Podiebrad, avvenuta il 6 maggio 1458, pochi mesi prima dell'avvento di P. al soglio pontificio. L'elezione di Podiebrad era il frutto di un compromesso orchestrato con la partecipazione della Sede apostolica; quest'ultima ne aveva approfittato per imporre al nuovo sovrano un giuramento che lo impegnava a obbedire al papato e a ricondurre il suo popolo all'ortodossia cattolica. Quando P. riunì la Dieta a Mantova, Podiebrad fu largo di promesse, ottenendo così di essere trattato dal nuovo papa alla stregua degli altri sovrani della cristianità, benché egli fosse un monarca "sub condicione". Le promesse vennero però dimenticate o disattese, fattore che provocò i primi sospetti in Pio II. Emerse poi che Podiebrad, preso dalla necessità di consolidare la propria posizione, stava lavorando sottobanco per acquistarsi anche il titolo di re dei Romani; per arrivare a tale meta, egli si era alleato con quel partito antiasburgico, interno alla lega dei principi elettori, che in Germania rappresentava anche la fazione antipapale, guidata dai Wittelsbach e fomentata da Isenburg. La consapevolezza della fragilità delle basi del proprio potere suggerì a Podiebrad una tattica versatile, mirante a non rompere i rapporti con il papato, ma anzi ad avvalersi, se possibile, anche del suo aiuto. Al fine di guadagnarsi la riconoscenza di P., egli si propose l'ambiziosissimo traguardo di riconciliare la Boemia con la Sede apostolica, attraverso un compromesso che lui stesso intendeva impostare, ben sapendo però come gli umori di buona parte dei suoi sudditi fossero del tutto refrattari a un'abiura dallo hussitismo. Podiebrad aveva già concertato con P. l'invio a Praga di un nunzio apostolico, con cui trattare il ritorno della nazione ceca all'obbedienza romana; ma lo scoppio di un'insurrezione degli utraquisti, nella primavera del 1461, lo fermò lungo questo cammino. Un anno dopo, il sovrano boemo riprese tale tentativo, mandando a Roma l'ambasciata solenne di obbedienza a papa P., che fino a quel momento aveva trattenuto. Giunta a Roma il 10 marzo 1462, l'ambasciata di obbedienza del Regno di Boemia portò alla luce tutti i malintesi fino ad allora non chiariti nei rapporti fra Podiebrad e la Santa Sede. All'atto del giuramento di obbedienza al pontefice, il 20 marzo, P. ebbe molte difficoltà a ottenere dagli ambasciatori un impegno di fedeltà alla Chiesa romana che non vincolasse soltanto la persona di Podiebrad, come quello avrebbe voluto, bensì anche i suoi sudditi. Subito dopo emerse che, in cambio del suo gesto di sottomissione, il re esigeva la conferma dei cosiddetti Compactata bohemica: ossia di quei privilegi liturgici (fra cui il calice ai laici, preteso dagli utraquisti) concessi nel 1433 dal concilio di Basilea alla nazione boema, onde ottenere il suo rientro nella Chiesa cattolica. La richiesta irritò P., che fece osservare che Podiebrad, all'atto dell'incoronazione, aveva giurato di abolire ciò che ora tentava di ripristinare. Al fine di dare un chiaro segnale della volontà della Chiesa romana di cancellare ogni cenno di deviazione dall'ortoprassia in tutte le province soggette alla sua giurisdizione, il pontefice dichiarò esplicitamente nulli i Compactata bohemica (31 marzo 1462). L'inflessibilità di P. provocò una fiera reazione da parte di Podiebrad, che il 12 agosto 1462, dopo aver imprigionato il nunzio papale residente a Praga, professò solennemente la dottrina utraquista, dichiarando di essere stato educato in essa e di volerla sempre difendere. Non valse a piegarlo l'imputazione di spergiuro e di eretico recidivo che gli venne fatta a Roma; quasi paradossalmente, egli riuscì a evitare di subire le conseguenze più gravi di tali accuse grazie all'imperatore Federico III, che fu costretto a interporsi davanti al papa in suo favore dalle pressioni ricattatorie dei principi tedeschi dissidenti e dei cittadini viennesi ribelli. Benché ritardato dalle vicissitudini della politica europea, il processo romano contro Podiebrad era comunque destinato ad aprirsi: il 16 giugno 1464, in pubblico Concistoro, egli venne citato in Corte di Roma per rendere conto della sua inadempienza al giuramento fatto all'incoronazione. La morte di P., sopraggiunta poco dopo, lasciò in sospeso il destino del sovrano boemo. Il pensiero dominante di P. in quanto supremo pastore dell'Occidente cristiano rimase sempre la crociata. Vi erano certamente gravi motivi di dissenso fra lui e Federico III, dovuti alla divergenza degli interessi politici fra papato e Impero in merito alla situazione della Chiesa tedesca e all'assetto politico della penisola italiana, come attestava fra l'altro il riconoscimento papale della sovranità "de facto" degli Sforza sulla Lombardia. Tuttavia, la più profonda causa della spaccatura fra P. e l'Asburgo, che si tradusse in un tentativo da parte del papa di soppiantare l'imperatore nel promuovere la mobilitazione armata dell'Europa cristiana, fu l'incapacità d'iniziativa che Federico III dimostrò riguardo alla spedizione contro i Turchi. Fu questo deficit di coordinazione tra le potenze cristiane, causato dal declino dell'autorità imperiale, che ingenerò in P. la quasi incredibile idea di assumere su di sé il ruolo di capo non solo spirituale, ma anche militare, della cristianità. Incalzava in quegli anni la spinta dell'espansionismo turco nell'Europa orientale: nel 1459 la Serbia venne soggiogata; nel 1460 cadeva il Peloponneso, con conseguente fuga in Italia di ciò che restava della dinastia dei Paleologi; nel 1461 fu presa Trebisonda, ultimo avanzo di civiltà bizantina sul mar Nero; nel 1462 fu conquistata l'isola di Lesbo; nel 1463 fu invasa la Bosnia. L'indizione della crociata nel triennio successivo alla chiusura della Dieta di Mantova si risolveva intanto in un nulla di fatto, data la mancata risposta di tutti i principi cristiani, a cominciare da quelli italiani. La renitenza a pagare il sussidio imposto dal papa, manifestatasi in pressoché tutte le regioni della cristianità, forniva un chiaro indizio che l'ideale della guerra santa non riscuoteva più un consenso generalizzato nella società dell'epoca. Se le nazioni europee parevano indifferenti alla perdita di una così vasta porzione della Chiesa cristiana e della cultura occidentale, il papa non era per questo disposto ad abdicare al suo desiderio di opporsi alla disgregazione morale e territoriale della cristianità. Osando un gesto estremo, verso la fine del 1461 P. compose la celebre lettera al sultano Maometto II, con cui propose al sultano turco di convertirsi al cristianesimo e di ricevere dalla Sede apostolica il titolo di imperatore cristiano d'Oriente. La lettera è un compendio di dottrina cristiana, accompagnato da una meticolosa confutazione delle dottrine del Corano, redatto sulla falsariga delle apologie del cristianesimo di fronte all'Islam che avevano composto Cusano e Torquemada. Punto quanto mai interessante, P. vi esprimeva una dolente stanchezza per la sordità agli ideali della crociata dimostrata dai principi cristiani d'Occidente: fenomeno che veniva interpretato come indizio di un bisogno di rigenerazione morale della società europea, che il papa vedeva come maggiormente realizzabile attraverso l'iniziativa esterna di un infedele convertito piuttosto che per volontà degli attuali cristiani e dei loro corrotti sovrani. Non è certo che la lettera sia stata effettivamente recapitata; vi è stato pertanto chi vi ha visto un semplice espediente di P. per smuovere i suoi interlocutori. Negli anni successivi, gli eventi sembrarono volgere al meglio per i disegni papali. Venezia entrò comunque in guerra contro i Turchi; il duca di Borgogna annunciò ufficialmente il suo desiderio di partire per l'impresa d'Oriente; e soprattutto il grande re d'Ungheria, Mattia Corvino, che stava già dimostrando la propria superiorità militare sui Turchi per via di terra, decise di partecipare alla spedizione marittima voluta dal papa. La scoperta dei giacimenti di allume presso Tolfa, nell'alto Lazio, avvenuta nel maggio 1462, fu interpretata da P. come un segnale di favore divino ai suoi progetti: i proventi delle allumiere di Tolfa, calcolati a 100.000 ducati all'anno, vennero destinati a finanziare la guerra santa, che tornò a riaffacciarsi come possibile nella mente del pontefice. Di più: benché vecchio e molto malato, P. si sarebbe proposto lui stesso come "Goffredo della nona crociata", offrendo così la prova finale del suo attaccamento a un'epopea della cristianità ormai tramontata. Un'idea quasi stupefacente, che fu comunicata per la prima volta in privato a sei cardinali nel marzo 1462, con un bellissimo discorso riportato nei Commentarii. A indurre il pontefice a mettersi personalmente alla testa della spedizione contro i Turchi era stata la clausola del voto formulato più di dieci anni prima da Filippo di Borgogna, che aveva giurato di partecipare alla crociata se un altro principe lo avesse preceduto. Presentandosi nelle vesti di sovrano a capo dell'impresa, P. contava dunque di obbligare il duca di Borgogna a onorare la sua promessa, spingendo anche il re di Francia a unirsi a loro, per emulazione verso il suo potente vassallo. Soprattutto, il papa prevedeva un nuovo impegno nella guerra contro i Turchi da parte di Venezia e dell'Ungheria: come puntualmente avvenne quando, con la caduta di Argo nell'aprile 1463, si profilò per la Serenissima il rischio di perdere anche Negroponte e tutte le altre sue colonie nel Peloponneso. Contemporaneamente, la caduta della Bosnia indusse Mattia Corvino a stipulare con Federico III la pace di Wiener-Neustadt (24 luglio 1463), onde concentrarsi sulla resistenza all'invasione turca nei Balcani. Nell'autunno successivo, una fortunata legazione del cardinal Bessarione a Venezia portò alla conclusione della lega offensiva contro i Turchi fra la Serenissima, l'Ungheria e il papato (19 ottobre 1463), a cui P. sperava di far accedere anche l'imperatore. Ancora una volta, la renitenza dei potentati italiani a partecipare all'impresa risultò invincibile, come fu evidente all'udienza generale agli ambasciatori del 22 settembre 1463. P. se ne curò poco, essendosi già determinato a vincere le remore generali attraverso un esempio di abnegazione che avrebbe impartito di persona. Il 23 settembre, P. annunciò di volere intraprendere in ogni caso la guerra santa, con il solo aiuto di Borgogna, Ungheria, e forse Venezia; sarebbe stato lui stesso, il papa, a condurre la flotta al contrattacco nell'Adriatico. Il 6 ottobre 1463 P. bandì nuovamente la crociata, per la durata di un anno a partire dal successivo maggio. Benché gli Stati italiani si tirassero subito indietro dal progetto papale, consentendo solo l'imposizione nei propri territori di una decima sul clero e di un'indulgenza pontificia, il gesto unilaterale del pontefice produsse grande impressione. Alla pubblica lettura della bolla di indizione, il 22 ottobre, si diffuse tra i curiali la convinzione che la crociata, fino ad allora guardata con scetticismo da tutti, sarebbe forse stata possibile, grazie al concorso di quei pochi principi cristiani che si erano dimostrati solidali con quel papa eroico che era Pio II. Alla realizzazione del suo ultimo sogno, P. profuse tutti i suoi mezzi: si calcola che tra l'autunno 1463 e l'estate 1464 più di 106.000 ducati venissero versati dalle casse papali per l'armamento della flotta. Intanto, dall'Europa centrale e dalla penisola iberica provenivano segnali di un entusiastico concorso, soprattutto da parte dei ceti inferiori, alla campagna lanciata dal sommo pontefice con la collaborazione di alcuni Ordini mendicanti particolarmente attivi nella predicazione della crociata. Fra di essi, si distinsero i Francescani dell'Osservanza: la famiglia religiosa più favorita da P., che li aveva patrocinati anche nella diffusione dei Monti di Pietà. Le illusioni ebbero corta durata. Al momento di allestire i preparativi per la guerra santa, proprio quei sovrani nei quali P. aveva riposto le sue più vive speranze manifestarono un radicale distacco da lui. Filippo di Borgogna, anziano e malato, colse il pretesto fornito da alcuni rovesci subiti dai Veneziani nell'Egeo per procrastinare la sua venuta; infine, nel marzo del 1464, notificò che, malgrado il suo voto, non sarebbe partito, allegando a scusa il divieto che gli aveva imposto il re di Francia, suo sovrano feudale, che era tuttora offeso con il papa per la questione di Napoli. Francesco Sforza, a cui il pontefice aveva sperato di conferire il comando supremo della spedizione, per rivalità con Venezia si tirò indietro; anch'egli addusse a scusa la contrarietà di Luigi XI, a cui doveva obbedire in virtù del rapporto di vassallaggio che si era venuto a creare con l'investitura di Genova, concessagli nel dicembre 1463. Alle defezioni si mescolava l'arrivo di notizie alterne dal fronte di guerra: in Ungheria, Mattia Corvino sembrò poter rintuzzare l'assalto dei Turchi; ma il contrattacco dei Veneziani nel Peloponneso si risolse in un disastro. Molta parte del Sacro Collegio, confortata dai messaggi provenienti dalla Francia e da Milano, premeva su P. perché desistesse dal suo proposito; ma il papa procedette irriducibile nei suoi piani, nominando il 4 maggio il cardinal Forteguerri legato per la crociata. Con ciò, i preparativi per la spedizione bellica erano compiuti. Abortì invece, perché tardivo, un vasto piano per la riforma della Curia romana, che P. fece solamente in tempo ad abbozzare prima di partire per Ancona. La riforma della Chiesa "in capite et membris" era stata una delle sue prime preoccupazioni di pontefice, per affrontare la quale egli si era avvalso dei più prestigiosi ecclesiologi del tempo, chiamandoli a redigere programmi e proposte: il cardinal Cusano, Domenico de' Domenichi, Teodoro de' Lelli e perfino s. Antonino da Firenze. L'attuazione del proposito riformatore di P. rimase limitata ai plurimi interventi in sede locale da lui promossi in varie aree della cristianità; non gli fu possibile, come pure avrebbe voluto, raccogliere la sfida rimasta in sospeso dall'età conciliare e procedere a una riforma generale della disciplina ecclesiastica. L'11 giugno 1464 P. designò il cardinal Tedeschini Piccolomini, suo nipote, vicario per Roma e per lo Stato della Chiesa, per tutta la durata di una spedizione dalla quale si dimostrava certo di non poter ritornare vivo. Il 18 giugno, dopo una messa nella basilica vaticana al termine della quale prese il vessillo della Croce, il pontefice si mise in viaggio per Ancona, facendo la via interna dell'Umbria e delle Marche. Nella città adriatica diede appuntamento alle truppe e alla flotta che i sovrani partecipanti alla crociata avrebbero dovuto nel frattempo radunare, per poi salpare insieme a loro alla volta di Costantinopoli. Arrivato ad Ancona il 19 luglio, dopo un viaggio lentissimo e prostrante a causa del caldo e delle infermità, P. non trovò nel porto la flotta veneziana, come stabilito, ma solo due galee. Incontrò tuttavia circa cinquemila volontari affluiti da varie parti d'Europa, persone generalmente di bassa condizione e inadatte a combattere; dopo alcune settimane di vana attesa della flotta, la maggior parte di costoro si disperse. La situazione era sconfortante; le insistenze dei cardinali sul papa affinché non si imbarcasse, sapendo certamente di morire entro pochissimi giorni, si fecero assillanti. Stremato dagli stenti del viaggio e dal tormento inflittogli dai Veneziani, che non avevano mandato in tempo utile le quaranta galee promesse e neppure le navi per caricare i soldati, P. fu finito dalla peste, che insieme alla carestia stava allora imperversando nella città adriatica. Quando infine l'11 agosto arrivarono da Venezia due grandi navi da trasporto, seguite il giorno dopo da dodici galee comandate dal doge Cristoforo Moro in persona, il pontefice era ormai prossimo all'agonia. Spirò ad Ancona, sul colle di S. Ciriaco, la notte fra il 14 e il 15 agosto 1464. Morto lui, il doge di Venezia fece vela verso la patria, dove diede ordine di disarmare la flotta; la spedizione crociata si sciolse. Il 17 agosto, la salma di P. venne trasportata a Roma, dove venne tumulata nel gioiello artistico da lui eretto all'interno della basilica vaticana: la cappella di S. Andrea, costruita per accogliere la preziosa reliquia della testa di s. Andrea, portata a Roma dal fuggiasco despota di Morea, Tommaso Paleologo, nel marzo 1461. La traslazione della reliquia, avente un grande valore simbolico in quanto rappresentava la finale riunione a Roma dei due apostoli fratelli, capostipiti delle due famiglie cristiane d'Occidente e d'Oriente, venne solennemente celebrata la domenica delle Palme del 1462. La descrizione della grandiosa cerimonia, interpretabile come rivincita sulla Chiesa greca antiunionista, occupa quasi metà dell'VIII libro dei Commentarii, tanto che qualcuno ha visto in essa il primo nucleo dell'opera. Nell'occasione, fu rinnovato l'aspetto della piazza antistante S. Pietro, costruita la nuova loggia delle benedizioni, e venne approntato il sacello di s. Andrea dentro la basilica, che rappresentò uno dei vertici della committenza artistica di Pio II. Un secolo e mezzo più tardi, nel corso dell'ampliamento della nuova basilica di S. Pietro voluto da Paolo V, la cappella di S. Andrea andò distrutta. Nel 1623, il grandioso monumento funebre di P. fu trasferito, insieme a quello di Pio III, suo nipote, nella chiesa di S. Andrea della Valle, che sorge sul sito del palazzo romano dei Piccolomini.
Spirito geniale ed enciclopedico, in grado di abbracciare in sé tutta la cultura del suo tempo nei suoi aspetti più innovativi, P. fu un grande intellettuale e seppe anche essere uomo d'azione. Il fallimento complessivo in cui incorse il progetto a cui egli dedicò ogni energia nei suoi ultimi anni, animato da uno slancio idealistico che non lo fece arretrare davanti ad alcun ostacolo, poté forse dare ragione a chi lo tacciò di una certa qual fanciullesca ingenuità, che non sapeva fare i conti con l'opacità della realtà storica. Nondimeno, le scelte della parte finale della sua vita richiedono anche altre categorie valutative, quali quella di martirio, inteso come testimonianza della propria missione nel mondo e come ricerca della "buona morte", in senso cristiano. Tutto ciò venne ad arricchire, e, per così dire, a completare con un afflato religioso, un'avventura mondana sempre improntata al canone umanistico della "magnanimitas". Benché infatti fosse sempre ben discernibile in lui lo stimolo dell'ambizione, il Piccolomini non poté mai essere definito come un semplice arrivista, data la cura che egli costantemente impiegò nel mettere al servizio non solo della propria ascesa sociale, ma anche del bene comune, le proprie doti. Esse non si limitavano ad una grande cultura letteraria e al talento diplomatico e oratorio; ma rimandavano a una profonda conoscenza degli uomini e del mondo, che egli sviluppò grazie a una lunga esperienza di vita, a contatto con gli ambienti più disparati. Arguto e amabile, sobrio e parsimonioso, gran lavoratore, P. si dimostrò sempre equilibrato, nella buona come nella cattiva sorte. Della sua fede solida, tutta rovesciata nell'attivismo politico e culturale, è traccia eloquente il fatto che, pur nel vortice degli eventi e nella vastità delle sue intraprese letterarie, non trascurava mai le pratiche religiose quotidiane. Scrittore prolifico, parlatore facondo, insuperabile nel pronunciare orazioni, alle udienze P. usava rispondere personalmente agli ambasciatori e a quanti lo interpellavano, suscitando l'ammirazione degli astanti per la sua eleganza dialettica. Del pari, redigeva lui stesso alcuni dei brevi e delle bolle più importanti, apponendovi l'impronta del suo bel latino. Cercò anzi di innovare lo stile dei documenti apostolici, ma dovette rinunciare all'idea, perché i cambiamenti apportati nel secolare e venerando "stylus curiae" vennero presi per falsificazioni dai destinatari dei documenti. Il suo talento poetico, già utilizzato in gioventù per componimenti profani, fu da lui messo in età matura al servizio della fede, con la composizione di odi e inni a soggetto religioso. La versatilità del suo ingegno venne variamente giudicata dai contemporanei, che non sempre furono in grado di comprendere appieno la ricchezza di una personalità che appare a noi sorprendentemente "moderna": ad esempio, attraverso l'amore per i viaggi - che gli venne troppo spesso rimproverato - egli diede prova di una singolare capacità di cogliere la bellezza intrinseca della natura e dell'arte, che sotto la sua penna divenne oggetto di rappresentazione autonoma. Suggestivi sono gli squarci paesaggistici racchiusi nei Commentarii, non meno delle pagine in cui egli espresse tutto il fascino che esercitavano su di lui le memorie dell'antichità, pagana e cristiana. Nonostante la sua vocazione umanistica, fu nel complesso poco incline a premiare i letterati, in parte per penuria di denaro, in parte per l'incontentabilità del suo gusto: uno dei concetti da lui ripetuti era che gli scrittori o sono veramente sommi o non valgono nulla. Ritenendosi egli autore sommo, non solo non ricercava i componimenti altrui, ma addirittura correggeva quelli che gli venivano indirizzati. L'unico intellettuale verso cui dimostrò un autentico apprezzamento fu Flavio Biondo, del quale compendiò le Decades, servendosene inoltre largamente per le divagazioni storico-geografiche che amava inserire nelle sue opere. Verso il Biondo, che gli dedicò la sua Roma triumphans, P. fu generoso, sebbene indirettamente: fece infatti attribuire a suo figlio Gaspare il lucroso ufficio di notaio della Camera apostolica, a cui associò quello di segretario apostolico, che Flavio lasciò vacante alla sua morte nel 1463. I letterati che vennero direttamente sovvenzionati da P. furono, in effetti, assai pochi: fra questi si ricorda Giovanni Antonio Campano, suo poeta aulico, biografo e revisore letterario, e il senese Francesco Patrizi. La generosità del papa andò a beneficare piuttosto la cerchia dei suoi parenti, quali i figli di sua sorella Laudomia e suo cugino Goro Lolli, nonché i suoi più intimi collaboratori, come il poeta e funzionario romano Agapito Rustici. A testimonianza dei criteri di scelta adottati dal papa, è da ricordare che, all'interno della sua "familia", brillava la figura del segretario, poi cardinale, Giacomo Ammannati Piccolomini, uno dei migliori esponenti dell'umanesimo cristiano quattrocentesco e diretto continuatore delle operazioni culturali avviate da P. (fra cui il completamento dei Commentarii). Per dare un'idea della multiforme attività intellettuale di questo pontefice, ricorderemo che egli non fu solo storiografo, ma anche geografo ed etnografo, spinto in ciò da una naturale curiosità, che egli si preoccupò di piegare ai fini della comune utilità. Quando era cardinale, iniziò un'imponente opera di cosmografia, che rimase incompiuta: le parti eseguite - riguardanti l'Asia, con particolare attenzione ai Turchi, e la Germania - dimostrano come egli intendesse fare della scienza uno strumento per la difesa della cristianità e del papato. Con intento analogo furono stesi i Commentarii: un monumentale diario, pensato per la posterità, a cui P. lavorò instancabilmente, sottraendo il tempo al sonno, ma che non poté rivedere e ripulire (affidò quest'incombenza al Campano, che, per nostra fortuna, non prese l'incarico con radicalità). Lungi dal limitarsi alla rievocazione di una vita segnata, dall'inizio alla fine, da uno straordinario destino individuale, l'opera venne arricchita, oltre che accresciuta, dal succedersi continuo delle digressioni. Esse furono dettate in P. dal proposito di offrire ai lettori una raccolta di dati per la conoscenza del mondo dei suoi tempi, sia pure venata da parzialità di giudizio e da un intento autocelebrativo. In ciò sta l'essenza di questo mirabile saggio di storiografia umanistica, intesa come scienza del cosmo umano, acquisita attraverso il racconto delle azioni. Neppure è estraneo a tale assunto un atteggiamento per certi versi empirista, specialmente nei confronti della natura: dalla descrizione critica di luoghi e di cose traspare tutta la forza di uno spirito insaziabile nella sua indagine, che osservava e sperimentava in continuazione, registrando con pari attenzione anche ciò che aveva appreso da altri, magari solo per dimostrarne la falsità. La centralità della persona dell'autore, vero punto focale del racconto, è anche causa dei vizi letterari di un'opera che appare disorganica, in cui la successione dei temi è tenuta insieme solo dalla curiosità o dagli interessi di P. e gli avvenimenti non vi sono narrati secondo il loro proprio ordine cronologico, ma secondo il tempo in cui gliene giungeva la notizia. Proprio attraverso difetti così peculiari, è tuttavia possibile cogliere tutto il valore documentario di questo imponente memoriale, che costituisce una fonte di prim'ordine per la conoscenza della mentalità di un'epoca di grande creatività culturale, alla quale P. appartenne integralmente.
fonti e bibliografia
Si citano qui solo le raccolte o le edizioni delle opere di P. più frequentemente utilizzate dalla storiografia attuale:
Opera [...] quae extant [...], Basel 1571 (rist. anast. Frankfurt a. M. 1967).
Opera geographica et historica, Helmstadii 1699.
Orationes politicae et ecclesiasticae, a cura di I.D. Mansi, I-III, Lucca 1755-59 (cui deve essere aggiunta la Oratio de bello turcis inferendo, a cura di S. Borgia, Roma 1774).
Opera inedita, a cura di G. Cugnoni, "Atti della R. Accademia dei Lincei", memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. III, 8, 1883, pp. 319-686;.
De curialium miseriis epistola, a cura di W.P. Mustard, Oxford 1928 (trad. it. in G. Paparelli, Il "De curialium miseriis" di Enea Silvio Piccolomini e il "Misaulus" di Ulrich von Hutten, s.n.t. [1947]).
G. Kallen, Enea Silvio Piccolomini als Publizist in der "Epistola de ortu et authoritate Imperii Romani", Stuttgart 1939 (con edizione del testo).
De liberorum educatione, a cura di J.S. Nelson, Washington 1940.
Lettera a Maometto II, a cura di G. Toffanin, Napoli 1953.
Germania, a cura di A. Schmidt, Köln-Graz 1962.
De gestis concilii Basiliensis, a cura di D. Hay-W.K. Smith, Oxford 1967 (rist. ivi 1992).
Chrysis, a cura di E. Cecchini, Firenze 1968.
Storia di due amanti, a cura di M.L. Doglio, Milano 1990.
De viris illustribus, a cura di A. van Heck, Città del Vaticano 1991.
Carmina, a cura di A. van Heck, ivi 1994.
Gli scritti di ritrattazione delle dottrine conciliariste sono raccolti in C. Fea, Pius II P.M. a calumniis vindicatus, Roma 1823.
I Commentarii sono disponibili nelle edizioni recenti a cura di A. van Heck, Città del Vaticano 1984; di L. Totaro, Milano 1984; di I. Bellus-I. Boronkai, Budapest 1993.
L'imponente carteggio, nelle sue parti pubblica e privata, è stato edito solo fino al 1454: Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, I-IV, in Fontes rerum Austriacarum, LXI, LXII, LXVII, LXVIII, a cura di R. Wolkan, Wien 1909-18.
Lettere risalenti al periodo successivo si trovano in Pii II P.M. Epistolae, Mediolani 1473, 1481, 1487 e Basileae 1551; nell'appendice dell'opera, più sotto citata, di A. Weiss; e in A. Ratti, Quarantadue lettere originali di Pio II relative alla guerra per la successione nel reame di Napoli, "Archivio Storico Lombardo", ser. III, 19, 1903, pp. 263-93. Il ruolo della "familia" di P. nel 1460 è stato studiato da G. Marini, Degli archiatri pontificii, II, Roma 1784, pp. 152-66.
Le più antiche biografie di P. furono redatte dagli intellettuali della sua cerchia: Le vite di Pio II di Giovanni Antonio Campano e Bartolomeo Platina, in R.I.S.², III, 3, a cura di G.C. Zimolo, 1964; Leodrisii Cribelli, De expeditione Pii papae II adversus Turcos, ibid., XXIII, 5, a cura di G.C. Zimolo, 1948-50.
Fra le moderne, resta fondamentale, per vastità ed erudizione, G. Voigt, Enea Silvio Piccolomini als Papst Pius der Zweite und sein Zeitalter, I-III, Berlin 1856-63 (rist. anast. ivi 1967), seppur inficiata da pregiudizi antiromani e antiumanistici.
La grande produzione successiva, nel giusto intento di operare una più equilibrata valutazione, ha tuttavia risentito, in varia misura, della mitologia relativa all'"uomo del Rinascimento":
A. Weiss, Enea Silvio Piccolomini als Papst Pius II. Sein Leben und sein Einfluss auf die literarische Kultur Deutschlands, Graz 1897.
W. Boulting, Aeneas Silvius Orator, Man of Letters, Statesman and Pope, London 1908.
C. Ady, Pius II, the Humanist Pope, ivi 1913.
T. Buyken, Enea Silvio Piccolomini. Sein Leben und Werden bis zum Episkopat, Bonn-Köln 1931.
G. Paparelli, Enea Silvio Piccolomini (Pio II), Bari 1950.
R.J. Mitchell, The Laurels and the Tiara. Pope Pius II 1458-1464, London 1962.
E. Garin, Ritratto di Enea Silvio Piccolomini, ora in Id., Ritratti di umanisti, Milano 1996, pp. 9-39.
La storiografia del dopoguerra si è distinta qualitativamente soprattutto nell'area germanica:
G. Bürck, Selbstdarstellung und Personenbildnis bei Enea Silvio Piccolomini (Pius II.), Basel-Stuttgart 1956.
B. Widmer, Enea Silvio Piccolomini, Papst Pius II. Biographie und ausgewählte Texte aus seinen Schriften, ivi 1960.
Ead., Enea Silvio Piccolomini in der sittlichen und politischen Entscheid-ung, ivi 1963.
L.M. Veit, Pensiero e vita religiosa di Enea Silvio Piccolomini prima della sua consacrazione episcopale, Roma 1964.
C. Ugurgieri Della Berardenga, Pio II Piccolomini, Firenze 1973.
G. Paparelli, Enea Silvio Piccolomini. L'umanesimo sul soglio di Pietro, Ravenna 1978.
L. Totaro, Pio II nei suoi "Commentarii" [...], Bologna 1978.
L'eccellente produzione della storiografia tedesca più recente sulla crisi conciliare fornisce molte utili notizie intorno alla conversione del Piccolomini alla causa papale:
J. Stieber, Pope Eugenius IV, the Council of Basel and the Secular and Ecclesiastical Authorities in the Empire [...], Leiden 1978, ad indicem.
J. Helmrath, Das Basler Konzil, 1431-1449, Köln-Wien 1987, ad indicem.
H. Müller, Die Französen, Frankreich und das Basler Konzil (1431-1449), I-II, Paderborn 1990, ad indicem.
Fra gli studi particolari, si segnalano:
P. Bourdon, L'abrogation de la Pragmatique et les règles de la Chancellerie de Pie II, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 28, 1908, pp. 207-24.
G. Soranzo, Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesta (1457-1463), Padova 1911.
G.B. Picotti, La dieta di Mantova e la politica dei veneziani, Venezia 1912 (rist. anast. Trento 1996).
Id., La pubblicazione ed i primi effetti della "Execrabilis" di Pio II, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 37, 1914, pp. 5-56.
W. Schürmeyer, Das Kardinalskollegium unter Pius II., Berlin 1924 (rist. anast. Vaduz 1965).
E. Lazzeroni, Il viaggio di Federico III in Italia (l'ultima incoronazione imperiale in Roma), in Atti e memorie del I Convegno storico lombardo, Milano 1937, pp. 271-397.
G.L. Lesage, La Titulaire des envoyés pontificaux sous Pie II (1458-1464), "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 58, 1941-46, pp. 206-47.
R. Haubst, Der Reformentwurf Pius' II., "Römische Quartalschrift", 49, 1954, pp. 188-242.
A. Kraus, Die Sekretäre Pius II. Ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte des päpstlichen Sekretariats, ibid., 53, 1958, pp. 25-80.
F. Gaeta, Sulla "Lettera a Maometto II" di Pio II, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 77, 1965, pp. 127-227.
N. Casella, Pio II tra geografia e storia: la "Cosmographia", "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 95, 1972, pp. 35-112.
D. Brosius, Die Pfründen des Enea Silvio Piccolomini, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 54, 1974, pp. 271-327.
Th. Frenz, Die Gründung des Abbreviatoren kollegs durch Pius II. und Sixtus IV., in Miscellanea in onore di monsignor Martino Giusti [...], I, Città del Vaticano 1978, pp. 297-329.
F. Cardini, La repubblica di Firenze e la crociata di Pio II, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 33, 1979, pp. 455-82.
Di notevole importanza gli atti di due convegni: Enea Sivio Piccolomini papa Pio II, a cura di D. Maffei, Siena 1968; Pio II e la cultura del suo tempo, a cura di L. Rotondi Secchi Tarugi, Milano 1991.