Paolo V
Camillo Borghese nacque a Roma il 17 settembre 1552 da Marcantonio, decano degli avvocati concistoriali, e da Flaminia Astalli. I Borghese, residenti a Siena approssimativamente a partire dall'anno 1200, entrano nel patriziato locale nel XIV secolo. Come membri del Monte dei Nove fanno parte delle circa trecentocinquanta famiglie dell'oligarchia che domina la tarda Repubblica. Dal punto di vista socio-politico, nel XV secolo la storia della famiglia mostra un aumento d'importanza, documentato dai matrimoni con membri dell'antica nobiltà cittadina di Siena e dall'assunzione di ruoli guida nelle intricate lotte fra le fazioni della Repubblica, fra l'altro in relazione all'ascesa alla signoria di Pandolfo Petrucci. I Borghese assumono peraltro un ruolo storico che supera i confini locali solo con il trasferimento a Roma e con lo stabilirsi presso la Curia, verificatisi gradualmente nel corso di due generazioni secondo modalità che costituiscono addirittura un modello per il reclutamento e la carriera dei futuri papi dopo il concilio di Trento. Fu Marcantonio Borghese (1505-1574) a porre le basi per il nuovo status della famiglia ormai pluricentenaria. Stabilitosi in Roma almeno a partire dal 1537, proprio da qui cercò di mediare nell'accesa battaglia per Siena fra popolari e patrizi e fra le loro potenze protettrici Francia e Spagna, e riuscì ad assicurarsi, grazie a questa attività, i favori di entrambi i sovrani, ma in primo luogo quelli del nuovo signore di Siena, il duca Cosimo de' Medici. Con il risultato di realizzare, a favore dei componenti della generazione successiva, i presupposti fondamentali per carriere ricche di successi: e cioè la possibilità di giovarsi di un'articolata rete di protezione, di non crearsi inimicizie e di evitare di esporsi. Peraltro, il risultato più duraturo per le sorti future fu costituito dalla protezione degli stessi papi, della quale Marcantonio godette per più di tre decenni e che nel 1545 lo fece diventare, in quanto giurista estremamente qualificato, come non pochi dei suoi antenati, membro del Collegio degli avvocati concistoriali e gli consentì addirittura, dopo dieci anni, di diventare decano di questo organismo. La sua posizione era talmente solida che egli si poté permettere, senza perdere la suddetta protezione, di assumere, in due celebri processi, la difesa di personaggi la cui causa era già persa in anticipo per decisione politica: da un lato del cardinale Giovanni Morone, caduto in disgrazia sotto Paolo IV e del tutto riabilitato solo alla fine del suo pontificato; dall'altro dei nipoti Carafa nel processo conclusosi con la loro sentenza di morte e con l'esecuzione della condanna. Al successo professionale di Marcantonio corrispose l'ascesa sociale. Ammesso, come molti titolari di incarichi curiali venuti da fuori, a godere degli stessi diritti civili dei Romani con tutti i conseguenti diritti di partecipazione politica, già nel 1554 Marcantonio rivestì l'incarico di primo conservatore, ruolo tra i primissimi della Municipalità romana, le cui competenze si limitavano essenzialmente a funzioni di rappresentanza, ma il cui prestigio sociale rimaneva elevato. La sua integrazione, dimostrata dalle suddette circostanze, nell'ambiente della nobiltà romana - sia pure ad un livello inferiore rispetto alle famiglie dei baroni titolati quali quelle dei Colonna, degli Orsini e dei Savelli - trova adeguato riscontro nel suo matrimonio con Flaminia Astalli. Quasi superfluo aggiungere che questo progresso concernente lo status sociale era accompagnato da acquisti programmati di immobili, case e terreni in città e possedimenti, inizialmente ancora di modesta entità, in periferia. Con ciò venivano create condizioni favorevoli, ma comunque, rispetto a quelle di concorrenti economicamente più potenti e socialmente più radicati, assolutamente non ottimali per l'ulteriore ascesa sociale della futura generazione. Anche in vista di ciò Marcantonio aveva preparato il terreno mediante la destinazione - imposta dalla sua situazione patrimoniale - di tutte le risorse a favore dei due figli più grandi (in tutto ne aveva sette), una concentrazione che doveva trovare uno sviluppo anche nella storia successiva della famiglia ma comportava pure dei rischi, come venne dimostrato ben presto. Dei due figli di Marcantonio, Camillo ed Orazio (nato nel 1554), che avevano entrambi concluso con il dottorato "in utroque iure" gli studi giuridici, fu il più giovane a dimostrarsi il più dinamico e di successo, come appare evidente dalla sua ascesa, contrassegnata anche da salti di grado, nella carriera di funzionario pontificio. Coadiutore e poi successore del padre come avvocato concistoriale, Orazio, che nel frattempo aveva assunto sistematicamente incarichi minori, che gli fecero però guadagnare prestigio, iniziò a percorrere, con la nomina a referendario delle due Segnature, la carriera ecclesiastica, senza aver ricevuto gli ordini sacerdotali. Poi, in breve tempo, mediante un'audace operazione, arrivò ad occupare una posizione che si collocava immediatamente al di sotto del cardinalato: alla fine del dicembre 1588 Orazio divenne infatti "Auditor Camerae", ufficio resosi appena vacante - una delle quattro più alte cariche della Curia senza il cappello cardinalizio, competente per la giurisdizione concernente il clero esente, un trampolino praticamente sicuro per arrivare al Senato della Chiesa -, ad un prezzo di 60.000 scudi, considerato veramente inaccessibile, secondo suo fratello Camillo, per una famiglia come quella dei Borghese. Il fatto che ad ottenere la suddetta carica fosse Orazio, vincendo la concorrenza di pretendenti di Venezia, Genova e Roma, appartenenti ad ambienti socialmente ed economicamente più forti, rispecchia in modo impressionante l'intreccio clientelare creato dal padre sia a Roma, sia fuori della città. L'enorme onere finanziario derivato dall'acquisto della suddetta carica poteva essere in sostanza affrontato solo dall'intera famiglia in modo solidale e anche così con grandi sforzi e preoccupazioni. Le sorti della famiglia si vennero a trovare in grandissimo pericolo quando Orazio morì improvvisamente il 3 ottobre 1590; è vero che egli era riuscito ad ottenere l'ereditabilità della carica dell'Auditorato per un periodo di tre anni (al momento della sua morte non ancora trascorso), ma la relativa rivendicazione doveva sembrare di incerto risultato di fronte a riforme già fissate concernenti la Cancelleria. In questo caso si profilava minacciosa la perdita degli investimenti e con ciò la rovina del ramo romano dei Borghese. Ma questa eventualità venne evitata ancora una volta grazie al fondo di riserva costituito dai buoni rapporti con potenti e personalità influenti creato da Marcantonio e ampliato in modo sistematico dai figli; a dicembre il neoeletto Gregorio XIV Sfondrati, al quale i Borghese erano rimasti molto legati dai tempi di Marcantonio e che era inoltre padrino di Camillo, confermò a quest'ultimo il conferimento della carica dell'Auditorato - un favore ottenuto anche grazie alla raccomandazione almeno altrettanto decisiva del granduca di Toscana. Divenuto dottore "utriusque iuris" (probabilmente a Perugia), in origine destinato ad essere successore del padre come avvocato concistoriale, ma poi entrato nella carriera prelatizia come referendario della Segnatura di giustizia nel settembre 1572 e consacrato prete nel 1577, Camillo percorse, partendo da questo grado più basso, tutti i normali passaggi del "cursus honorum" della Curia: nel 1577 vicario dell'arciprete di S. Maria Maggiore; nel 1581 datario della Penitenzieria ed infine, dall'ottobre 1588 fino all'aprile 1591, vicelegato a Bologna. L'attività connessa a quest'ultima funzione si dimostrò un compito spinoso. La situazione conflittuale si aggravò infatti durante il suo mandato a causa delle crescenti difficoltà di approvvigionamento collegate alla penuria di granaglie del 1590-1591 comune a tutto il Mediterraneo; in tale situazione il vicelegato si trovò a mediare fra interessi diametralmente opposti, bolognesi e romani, ma soprattutto, nella stessa Bologna, fra pretese ovvero aspettative divergenti: i ceti poveri chiedevano un prezzo del pane più accessibile come dovere politico-sacrale del sovrano, mentre l'élite dei proprietari terrieri cercava di trarre profitto dalla crescita dei prezzi delle granaglie - un conflitto presente in tutta Europa, nel quale Camillo si trovò infine costretto a prendere posizione confiscando le scorte private di grano. Attriti violenti con fazioni del patriziato bolognese diedero luogo a situazioni che implicarono interventi della polizia e simili tanto che Camillo, stufo della "sbirraria", chiese con sempre maggiore insistenza di essere rimosso; come alternativa immaginava un vescovato per continuare la sua carriera nella diplomazia papale in un settore più adatto a lui. Tuttavia i rapporti di Camillo con le più importanti famiglie di Bologna non dovettero essere stati così ostili come invece appare dalla sua corrispondenza, atteso che il prelato creò nella città sul Reno una serie di rapporti clientelari che durarono tutta la vita, amicizie che attraverso il suo pontificato, e al di là di esso, si riverberarono sulla famiglia Borghese. Tornato nuovamente a Roma, a partire dalla primavera del 1591, come auditore della Camera, Camillo ottenne anche dopo il quarto conclave nel giro di due anni i favori del nuovo papa Clemente VIII, che lo inviò, nell'autunno del 1593, come nunzio particolare alla corte di Filippo II di Spagna per spingerlo a partecipare attivamente alla guerra contro i Turchi; come è proprio dei costumi dell'epoca, nella quale non si distingueva fra "pubblico" e "privato", era collegato a questa missione "ufficiale", che Camillo svolse solo relativamente bene - riportò a Roma poco più che promesse -, il compito di risolvere numerose questioni concernenti importanti famiglie romane, in primo luogo i parenti degli Aldobrandini, compito che mise il Borghese in stretto contatto con protagonisti della nobiltà spagnola. Anche in questo ambiente sociale si rivelò la sua capacità di apparire nello stesso momento persona "umile", capace di ispirare fiducia, e competente, e di ripagarsi con una rete di conoscenze utili in una situazione nella quale aveva un effetto promozionale di particolare importanza per la carriera il fatto che l'orientamento spagnolo, da quel momento in poi non più trascurabile, fosse considerato e recepito senza polemiche antifrancesi. La quasi-aspettativa di un cardinalato, collegata con l'Auditorato di Camera, venne soddisfatta dopo la scadenza del termine normale, il 22 maggio 1596, con il conferimento a Camillo del cappello purpureo; come indicato eloquentemente dallo stesso Camillo, nei primi tempi la dotazione economica non era ancora adeguata al nuovo status. Ma Clemente VIII rimediò mediante il conferimento di entrate, fra l'altro dal vescovato di Jesi, finché Camillo fu in grado di richiedere la "facultas testandi" e il consenso per un fedecommesso. Nel periodo successivo proseguirono con modalità relativamente veloci il risanamento e l'espansione economica della famiglia, in passato fortemente indebitata, senza peraltro che Camillo, con entrate annuali di 15.000 scudi intorno all'anno 1600, diventasse uno dei cardinali "ricchi". Per questo motivo una residenza adeguata al rango di principe della Chiesa fu acquistata relativamente tardi, all'inizio del 1605, ottenendo un prestito bancario di oltre 40.000 scudi. Il palazzo, acquistato per 42.000 scudi e di proprietà della famiglia Deza residente in Spagna, verrà successivamente ampliato fino a raggiungere dimensioni colossali, nel vero senso della parola, durante il suo pontificato. Dei numerosi incarichi che Camillo ricoprì in veste di cardinale, quello di cardinale vicario, che rappresentava il papa come vescovo di Roma, e quello di capo dell'Inquisizione romana, sempre nel nome del sovrano, furono i più importanti e costituirono nello stesso tempo l'esercizio e l'ampliamento del patronage.
Così, anche quando nel marzo 1605 Clemente VIII morì, è documentata l'esistenza di una notevole rete di protezioni praticate nei confronti di altri oppure ricevute e di una buona reputazione acquisita grazie ad attività amministrative svolte in modo diligente e competente, dovendosi considerare questo elemento "meritocratico" in modo corretto dal punto di vista pragmatico, senza sopravvalutarlo in modo apologetico e senza sottovalutarlo unilateralmente: nei complessi e labili rapporti di forza della Curia, mai privi di significato, il suddetto elemento meritocratico venne superato, quanto a importanza, come si dimostrò in entrambi i successivi conclavi dell'anno 1605, proprio nell'intreccio multiforme dei gruppi di interessi, attraverso il fattore costituito dai legami clientelari e dai rapporti di fedeltà. Nei conclavi del 1605 si fronteggiavano cinque raggruppamenti, quello dei cosiddetti zelanti, che privilegiavano gli interessi della Chiesa, i cardinali in obbligo verso la Spagna oppure la Francia, e, numericamente più consistenti, i sostenitori riuniti intorno ai cardinali nipoti delle famiglie Peretti e Aldobrandini quali "amministratori di eredità" degli ultimi più duraturi pontificati. Rispetto a questi raggruppamenti Camillo veniva considerato da alcuni osservatori senz'altro come papabile, però questa valutazione valeva per non meno di un terzo dei sessantuno cardinali riuniti. Quindi nel primo conclave, che si concluse nella notte tra il 1° e il 2 aprile con l'elezione di Leone XI, discendente di un ramo secondario della famiglia dei Medici, Camillo non svolse un ruolo importante. Anche nel secondo conclave, resosi necessario al termine del pontificato del neoeletto papa, durato solo quattro settimane, e caratterizzato in modo ancora più accentuato dal contrasto Montalto-Aldobrandini, l'attenzione si concentrò all'inizio su altri candidati, i cardinali Tosco e, come in precedenza, Baronio. L'ora del Borghese giunse significativamente solo quando si arrivò ad una situazione di stallo; fra i candidati di compromesso inseriti ora nelle discussioni egli dovette ottenere la preferenza soprattutto grazie ai suoi rapporti clientelari ad ampio raggio, che gli consentirono di evitare inimicizie e che, in quel momento decisivo per la futura storia della famiglia Borghese, furono posti tutti insieme sul piatto della bilancia: l'antica protezione degli Sfondrati, l'obbligo - derivante dall'acquisto della carica dell'Auditorato di Camera - nei confronti dei Montalto loro alleati, il suo legame con gli Aldobrandini in quanto creatura di Clemente VIII, l'appoggio da parte di Firenze e Madrid che ancora una volta non provocò alcuna opposizione da parte della Francia. In realtà sussistevano in sfavore di Camillo soltanto due considerazioni, strettamente collegate fra loro da un punto di vista causale: la sua giovane età di cinquantadue anni (fino ad oggi nei tempi moderni solo Clemente XI è stato eletto papa più giovane) e la sua buona salute. Il lungo pontificato, che tali circostanze lasciavano prevedere, poteva causare problemi sociali, culturali ed anche economici, soprattutto a causa del blocco dei processi di ricambio e delle carriere e per gli eccessivi privilegi a favore dei parenti del papa. Peraltro in proposito vi erano notizie tranquillizzanti da considerare: da una parte i parenti stretti di sangue del nuovo papa erano pochi; dall'altra i suoi rapporti con i singoli parenti romani acquisiti per matrimonio erano piuttosto freddi e i contatti con Siena erano allentati - ancor più perché il primo cardinale della famiglia aveva sempre sottolineato la sua origine romana (come appare in modo evidentissimo nella iscrizione di consacrazione della facciata di S. Pietro). E infatti il nepotismo del papa Borghese, eletto il 16 maggio 1605, e che, per rispetto nei confronti degli ultimi due papi che avevano sostenuto l'ascesa della sua famiglia, aveva scelto il nome di Paolo V, si distinse per le seguenti caratteristiche, che furono ricorrenti nel corso del suo intero pontificato: concentrazione, riflessione, garanzie giuridiche, scrupolosità, intensità e una chiara distribuzione dei compiti ovvero ripartizione dei ruoli, che si formarono all'interno della famiglia inizialmente solo in modo lento, fino al 1607 circa, e non senza i quasi normali conflitti. Comunque apparvero ben presto evidenti uno spostamento degli equilibri del potere verso la generazione più giovane e con esso una implicita strategia in tema di ascesa sociale. Al centro di questi programmi, diretti a favore del futuro status della famiglia Borghese, programmi dei quali non esiste documentazione scritta, ma che è possibile ricostruire con una certa precisione studiando la distribuzione di favori e mezzi nei successivi quindici anni, si trovavano Marcantonio, figlio del fratello Giovanni Battista, nato nel 1601, inizialmente quale beneficiario del tutto passivo di titoli e di beni materiali, e soprattutto il nipote di Camillo, Scipione Caffarelli Borghese (1579-1633), figlio della sorella Ortensia e di Francesco Caffarelli, al quale venne conferito un ruolo non molto più autonomo ma ben più attivo. Indossato il 21 luglio 1605 il cappello cardinalizio, Scipione acquisì il titolo di cardinale nipote, e quindi, secondo la tradizione, divenne sopraintendente ufficiale dello Stato ecclesiastico, responsabile altresì per la corrispondenza con i nunzi, e soprattutto per l'accoglienza a Roma di diplomatici e dignitari stranieri. Se la letteratura del tempo favorevole al nepotismo giustifica la sistemazione dei parenti dei papi in posizioni di comando e l'innalzamento del loro status sociale soprattutto in senso funzionale e cioè con la necessità del monarca neoeletto di appoggiarsi su collaboratori assolutamente fidati e fedeli, disponibili, secondo i criteri del tempo, solo nella cerchia dei parenti di sangue più stretti, collaboratori che per adempiere i compiti loro assegnati in modo efficiente dovevano godere di un corrispondente peso sociale e prestigio, è anche vero che a tale impostazione si contrappone innegabilmente, in una obiettiva considerazione storica d'insieme del fenomeno del nepotismo, un altro criterio di priorità che viene dimostrato in modo evidente grazie all'esempio di Scipione Borghese. Una "raison d'être" prioritaria del cardinale nipote era costituita dalla funzione di arricchimento della famiglia - garantita dalla "facultas testandi" - per la quale il nipote con il rango ecclesiastico più alto agiva come una sorta di stazione di cambio finanziaria che trasformava le entrate provenienti da prebende ecclesiastiche in proprietà della famiglia; inoltre il cardinale nipote era anche una specie di sostituto del pontefice sotto due profili: con l'assunzione su di sé di una gran parte dei compiti di rappresentanza ufficiale presso la Corte di Roma egli alleggeriva il sovrano dagli obblighi mondani che, dopo Trento, erano ritenuti quasi non più conciliabili con la concezione spiritualizzata dell'incarico e con l'immagine dei papi nel Seicento, e allacciava nello stesso tempo con i protagonisti e le élites d'Italia, come pure d'Europa, relazioni sociali utili per lui nel suo ruolo di capo della famiglia e addirittura indispensabili dopo la morte del papa. In questo modo Scipione non svolse mai un ruolo indipendente a livello politico-diplomatico. Se la sua importanza come persona di fiducia del papa deve essere molto ridimensionata, è anche vero, d'altra parte, che il principio della "pietas" come obbligo di far partecipare al proprio innalzamento di rango parenti e clientele, principio dedotto dalle norme del tempo in base alle ricerche più recenti, riguardò nel caso di Scipione, come dei suoi successori, ma anche dei parenti laici, soltanto una piccola parte del patrimonio complessivo, pur fortemente aumentato. La dotazione patrimoniale di Scipione con le sue prebende si accrebbe inizialmente in modo lento, corrispondente all'età ed allo stato di salute del papa, e alla strategia nepotistica dei Borghese programmata nel lungo periodo, concepita in termini mercantilistici in base ai principi della logica e del minimo rischio, e guidata dall'osservanza di norme fondamentali giuridico-morali e quindi - un importante motivo per un pontificato potenzialmente assai lungo - dalla rinuncia ad animosità troppo forti. La suddetta dotazione patrimoniale raggiunse, dopo cinque anni, con circa 100.000 scudi all'anno, livelli non inusuali anche nel passato, e vide aumentare nel decennio successivo le entrate correnti fino a 180.000 scudi, e con esse vide anche la fissazione di nuovi criteri. Coerentemente con le fonti di guadagno consentite dal concilio di Trento, queste entrate provenivano per metà da circa cinquanta abbazie commendatarie, l'usufrutto delle quali veniva trasmesso al nipote temporaneamente o a vita, mentre un'ulteriore notevole fonte di finanziamento - anche se già a Trento riconosciuta, allo stesso modo delle commende, come un onere per la Chiesa - era costituita dalle pensioni provenienti dai vescovati, per circa un sesto, e da vari incarichi e stipendi ecclesiastici, per un ulteriore decimo, che contribuirono al bilancio complessivo nel corso di ventotto anni scarsi. Secondo il modo tipico di procedere dei Borghese, teso ad evitare pubblici scandali, non ebbero molto rilievo donazioni dirette del papa che ammontarono a meno del cinque per cento. In questa maniera vennero trasferiti a favore della famiglia, cioè di Marcantonio, oltre 4.000.000 di scudi, dei quali 2.000.000 scarsi sotto forma di proprietà fondiarie e quasi 700.000 sotto forma di immobili a Roma e dintorni. Per lui P. acquistò il Principato di Sulmona nel Regno di Napoli che sarà trasferito per fedecommesso ad ogni primogenito della famiglia; seguirono ulteriori promozioni di rango, fra l'altro tramite il re di Spagna. Se all'inizio le strategie matrimoniali dei Borghese si indirizzarono verso i Medici, ossia verso un obiettivo troppo elevato, l'ascesa della famiglia dal punto di vista storico-sociale si realizzò nel 1619 con il matrimonio di Marcantonio con Camilla Orsini, discendente della più antica nobiltà dei baroni romani: l'integrazione nell'alta aristocrazia romana, che doveva essere espressa con quel matrimonio, divenne per i parenti del papa, dopo la fine del nepotismo territoriale nella prima metà del XVI secolo, l'obiettivo più importante da raggiungere. Tuttavia, allo stato delle conoscenze, sarebbe prematuro trarre la conclusione di un'accettazione a pieno titolo della nobiltà nepotistica da parte della tradizionale élite di nascita: la maggior parte delle famiglie nepotistiche del Cinquecento e del Seicento riuscì ad imparentarsi per matrimonio con la nobiltà più antica e prestigiosa soltanto durante il "pontificato della famiglia" e d'altra parte le diverse dinastie romane si fecero sempre risarcire per queste mésalliances. Ma all'interno della nobiltà nepotistica, relativamente chiusa a causa della frequente endogamia, i Borghese assunsero un ruolo guida fino al XIX secolo avanzato. Qualora si cerchi su questa base di comprendere l'importanza del nepotismo nel pontificato di P., si dovrà da una parte valutarlo, rispetto al passato, come dinamico, perché ampliò, ed anzi superò le regole, con ciò addirittura stabilendo nuovi standards, e dall'altra giudicarlo, rispetto al futuro, come relativamente moderato. La promozione sociale dei parenti fu intimamente connessa all'esercizio dei poteri papali e, intrecciando il "privato" e il "pubblico" in modo inseparabile, giocò anche un ruolo nella "grande" politica papale, pur non costituendo un elemento centrale e decisivo come avvenne poi nel periodo tardo del pontificato di Barberini o sotto Innocenzo X.
In fin dei conti il nepotismo di P., pur esercitato in modo così intensivo, rimase subordinato alle priorità istituzionali; un'adeguata manifestazione di ciò è data dal fatto che, nonostante le critiche anche accese, dopo quasi sedici anni di pontificato, ai Borghese, quali ex parenti del papa, il passaggio ad una condizione sociale più povera di privilegi riuscì sostanzialmente senza problemi. Molto più che come guida della clientela dei Borghese nel conclave successivo, ruolo svolto con relativamente scarso successo, il cardinale Scipione, pensando al periodo "post pontificatum" potenzialmente critico, aveva provveduto per mezzo di accorte strategie di investimenti. Lo stato delle sue finanze, infatti, dimostra chiaramente che, dopo l'accumulo di beni, realizzato anche tramite l'accensione di crediti negli anni 1613 e 1614, trovarono gradualmente applicazione strategie che sembrano finalizzate a delineare un'immagine del cardinale, come anche della famiglia, fortemente impegnata al servizio del bene comune, ed in primo luogo della Chiesa e della religione; significativo in proposito è il fatto che, negli anni che si collocano verso la fine del pontificato, progetti edilizi concernenti la Chiesa vennero presi in considerazione con maggiore intensità. Pur intrecciata con l'ascesa dei suoi parenti in molti posti di rilievo, l'attività di P. a favore dello Stato pontificio ed in particolare a favore della capitale, rimase, come si deve nuovamente sottolineare, prioritaria rispetto a quella, e presentò comunque le stesse caratteristiche. Qui l'approvvigionamento di cereali e di pane costituiva l'attività di gran lunga più importante, addirittura nevralgica. Questo vale in generale per l'Europa del tardo Medioevo e del primo periodo dell'Età moderna, in particolare a partire dalla seconda metà del XVI secolo, quando lo sviluppo demografico e la produzione agricola portarono a una situazione di squilibrio sempre più precaria, e ciò accadde in modo ancora più evidente a Roma. Perché qui, all'epoca del passaggio al nuovo secolo, erano state evitate, anche al culmine delle crisi più gravi, le più pesanti catastrofi alimentari rispetto ad altre città mediterranee, anche italiane. Al contrario, erano insoddisfatte esigenze articolate nel nome di una "moral economy" che costituiva il punto finale di una lunga tradizione paternalistica specificamente romana e che aveva reso un dovere politico-sacrale per il vicario di Cristo quello di fissare un peso della pagnotta accettabile anche nei tempi più difficili. In termini più puntuali, costituiva elemento decisivo per la popolarità dei papi, sia quando erano ancora in vita, sia nella memoria collettiva delle masse romane, la misura in cui essi riuscivano a soddisfare la richiesta di abbondanza. Il fatto che P. abbia rappresentato per le generazioni successive il simbolo supremo del sovrano buono e consapevole dei propri doveri, e che il suo regno, ancora alla fine del XVIII secolo, sia stato considerato come il periodo d'oro dei poveri, è da attribuire ad un misto di congiuntura e previdenza. Con riferimento all'evoluzione del prezzo del grano nei dintorni di Roma e nelle province annonarie, il pontificato Borghese si suddivise in tre fasi. Dopo un raccolto relativamente favorevole nell'estate del 1605, i due anni successivi vennero interessati dalle ultime propaggini di un ciclo ascensionale del prezzo che portò, in conseguenza di costi di mercato mediamente un poco al di sopra o al di sotto dei 10 scudi per rubbio di grano, ad una diminuzione del peso della pagnotta sotto la soglia minima tollerabile di 8 once, e conseguentemente ad una notevole insoddisfazione a Roma. In entrambi gli anni di rincaro 1606 e 1607, peraltro, assicurò buoni risultati una gestione specificamente romana della crisi, la quale, grazie alla rete diplomatica ampiamente ramificata della Santa Sede, e grazie altresì alle risorse finanziarie della Camera apostolica, di molto superiori alle normali risorse cittadine, fu in grado di far fronte alla situazione con importazioni di grano in grande stile in periodi di tempo relativamente brevi. In questo modo nel periodo 1606-1607, come anche in quello 1607-1608, grazie a importazioni di grano francese ed olandese, venne garantita una copertura quantitativa del fabbisogno corrente. Tuttavia con l'inizio dell'anno di raccolta 1608-1609 cominciò per Roma un accentuato ciclo di ribasso, decisamente rafforzato dalle misure amministrative ordinate da Paolo V. Se negli anni 1608-1610, 1612, 1614, 1619 e 1620 il raccolto favorevole portò ad una produzione di grano di gran lunga superiore al consumo della Città Eterna, la politica di esportazione estremamente restrittiva voluta da P., che nonostante il guadagno per le casse dello Stato che ne sarebbe derivato, non vendette quasi alcuna tratta, facilitò la discesa del prezzo che, nelle quotazioni, arrivò addirittura al di sotto dei 5 scudi per rubbio e cioè al livello al quale era attestato prima della crisi dell'anno 1590. Questa politica del grano espressamente protezionista e finalizzata a favorire il consumatore permise quasi di annullare i risultati dei raccolti considerevolmente meno favorevoli o al massimo mediocri degli anni 1611, 1613, 1615 e 1616. Sebbene in questi anni la quantità di grano, proveniente dalle province annonarie, fosse evidentemente inferiore alle esigenze di consumo di Roma, le talvolta ingenti quantità rimaste nei magazzini grazie al divieto legale di esportazione evitarono il rialzo del prezzo nella misura corrispondente ai risultati del raccolto, obiettivo questo che si raggiunse anche grazie all'importazione di piccoli quantitativi; una parte considerevole di queste riserve venne raccolta dall'Annona grazie ad una propria politica delle scorte. In questo modo si riuscì ad elevare al livello massimo di 12 once, mai più superato nel secolo, il quantitativo di pane ottenibile pro-baiocco per un periodo di otto anni, più precisamente dal 15 agosto 1609 fino al 22 agosto 1617, in sostanza il periodo centrale di quello che, come già detto, fu successivamente considerato come il leggendario paese della cuccagna dei poveri sotto il papa Borghese. Esso ebbe termine con il raccolto dell'anno 1617 che peraltro risultò magro solo nei dintorni di Roma e non invece nel resto dell'Italia centrale e meridionale, per cui fu possibile organizzare facilmente importazioni di grano da quelle regioni. Le condizioni di nuovo favorevoli degli anni 1619 e 1620 permisero di aumentare il peso del pane, sceso nel frattempo anche ad 8 once, fino a 10 once, tanto che, sempre visto in prospettiva, il governo di P. si chiuse con un periodo assai positivo. In certo qual modo appena in tempo: i cattivi raccolti degli anni 1621 e 1622 caratterizzarono infatti il breve pontificato del suo successore Gregorio XV Ludovisi, la cui fama, anche in tal caso per generazioni, sembra corrispondentemente tinta di colori cupi. Nel pontificato di P. ebbe un ulteriore effetto positivo un'amministrazione cauta e previdente del settore chiave dell'Annona - una priorità verosimilmente indotta dall'esperienza traumatica fatta dal Borghese come vicelegato durante il periodo di crisi a Bologna dal 1589 al 1591. Per questo motivo, per favorire la produzione domestica di pane fra la popolazione di livello medio-basso, venne aperto un magazzino presso il quale poteva essere acquistata farina a prezzo conveniente. Inoltre, con la cosiddetta tariffa paolina del 20 novembre 1606, venne eliminato un motivo di scontro continuo fra l'Annona e i fornai, disponendo che, per il futuro, i costi del grano acquistato dall'autorità addetta ai cereali dovessero trovare corrispondenza nel peso della pagnotta prescritto in quel momento - un regolamento in certi periodi non rispettato (ad esempio sotto Innocenzo XI), ma rimasto però in vigore, nella sua parte essenziale, fino alla fine del XVIII secolo. Nella posizione chiave di prefetto dell'Annona furono chiamati, dopo la cessazione dall'incarico per malattia di Innocenzo Malvasia, uomini competenti come Ludovico Rucellai (1609-1614) e Lelio Biscia (1614-1622); i documenti contabili di questi ultimi e di altre autorità denotano efficienza amministrativa sotto il pontificato Borghese (in forte contrasto con quanto avvenne nel secondo terzo del Seicento). Il pontefice diede ordine di raccogliere il materiale d'archivio, fino a quel momento sparso in varie sedi, nell'ala del Palazzo papale che si trova di fronte ai giardini vaticani; anche questa concentrazione spaziale di raccolte di atti importanti, sia pure non interamente realizzata, faceva già intendere sviluppi futuri in base ai quali la conservazione e ricostruzione dell'eredità storico-ecclesiastica, fosse essa di natura sia architettonica che documentaria, ebbe una crescente importanza per la pretesa di primato del papato. Il fatto che in quel periodo, da parte delle autorità dello Stato pontificio, si sia arrivati ad uno dei livelli più alti di competenza raggiungibili nella prima Età moderna, viene dimostrato non da ultimo dalla circostanza che i curiali del tardo XVII secolo si servirono dei documenti diplomatici preparati sotto P., in primo luogo della corrispondenza con i nunzi, come di una vera e propria raccolta di modelli. Anche dal punto di vista politico-sociale il pontificato Borghese si colloca in un momento cruciale della storia di Roma, cioè al passaggio verso un sistema che, dopo l'anno 1660 circa, portò ad un vero e proprio immobilismo assumendo caratteristiche sempre più marcate di protezionismo e paternalismo, favorendo unilateralmente le esigenze di approvvigionamento dei ceti inferiori della capitale, e con ciò mettendo in pericolo i settori produttivi. Inoltre i privilegi goduti in città gravavano necessariamente sui ceti inferiori nelle campagne. Qui esisteva il fenomeno del banditismo che, contrariamente a ciò che sosteneva una ormai superata tradizione, continuava ad essere così vivo da preoccupare fortemente l'amministrazione dello Stato pontificio, come si dimostrò nei bandi rispettivamente del 25 aprile e del 26 giugno 1608; il tentativo con ciò intrapreso di combattere questa forma di protesta non organizzata di antica origine popolare mediante l'erogazione di premi per denunce ecc. non poté avere effettivamente buon esito già per il fatto che questa forma di resistenza, soprattutto nel XVII secolo, è da considerarsi una manifestazione dell'impoverimento dei ceti inferiori delle campagne nei periodi di crisi, ceti che, contrariamente a quanto avveniva nel Cinquecento, erano ormai privi del sostegno della nobiltà. I tentativi del papa Borghese, intrapresi fin dall'inizio, di unificare e di portare chiarezza nell'amministrazione si estesero in primo luogo alle finanze nelle quali, a causa di rilevanti aumenti dell'indebitamento pubblico, si creò un forte bisogno di intervento, o meglio di risanamento; ed infatti all'inizio del XVII secolo l'indebitamento ammontava ad un capitale di circa 10.000.000 di scudi per luoghi di Monte e di circa 4.500.000 per uffici; l'incidenza sul normale bilancio degli oneri derivanti dai debiti era considerevole, corrispondendo più o meno alla metà delle entrate correnti, ma al tempo stesso non così opprimente come invece era stata occasionalmente valutata da osservatori forestieri come gli ambasciatori veneziani. Per creare dei margini finanziari di manovra più ampi si aprivano potenzialmente, in quella situazione, quattro strade, che sotto il pontificato di P. vennero percorse tutte, anche se in misura differente: realizzazione di economie mediante la diminuzione delle spese, utilizzazione di nuove fonti di entrate, riduzione degli oneri debitori mediante l'abbassamento dei tassi di interesse ed infine estinzione dei debiti. A causa del carattere ancora prevalentemente patrimoniale dell'organizzazione e della struttura degli uffici pubblici, i risparmi nel settore del personale della Curia e dello Stato pontificio si dimostrarono difficili; risultarono più facili i risparmi realizzati sulle spese ordinarie relative alla gestione della Corte papale, risparmi che, inoltre, ad esempio attraverso la limitazione del lusso nell'abbigliamento e degli sprechi nella tavola, sottolinearono gli specifici tratti spirituali della Corte di Roma e con ciò dovettero raggiungere effetti potenzialmente positivi. Se le spese di palazzo sotto il pontificato di Clemente VIII ammontavano in media a più di 130.000 scudi all'anno, dopo l'anno 1607 P. riuscì a comprimere in modo duraturo questa somma, grazie ai tagli sopra indicati, sotto il livello medio di 100.000 scudi all'anno. Nuove entrate regolari furono ottenute tramite ulteriori imposizioni fiscali dello Stato della Chiesa e ciò a prezzo di una estrema impopolarità; tra l'altro la pressione fiscale nei territori papali era già aumentata nel corso del XVI secolo in misura tale da non permettere in pratica grandi possibilità di manovra. Solo al culmine del conflitto con Venezia vennero introdotte ulteriori imposte indirette, fra l'altro sulla carne, che, con la fine delle spese straordinarie per l'armamento, scomparvero immediatamente. Per limitare l'onerosità del debito il prefetto dell'Annona Innocenzo Malvasia aveva sottoposto al papa già nel 1606, in un parere tecnico, ampie proposte che, per fronteggiare la crescita selvaggia dei prestiti pubblici, miravano alla costituzione di un unico Monte ad un tasso d'interesse, chiaramente ridotto, del 4-5% - un progetto avveniristico rispetto all'epoca in cui fu proposto, e che verrà realizzato nei suoi tratti principali solo sotto Innocenzo XI. Comunque, a partire dal maggio del 1614, la rendita per luoghi di Monte non vacabili venne abbassata dal 6% al 5%, una misura che non determinò, come temuto, una diminuzione dell'attrattività del mercato finanziario di Roma, all'epoca uno dei più attivi di tutta l'area mediterranea. L'estinzione complessiva del debito, pure prevista nel progetto di Malvasia, rimase in gran parte un'illusione non solo nella Roma del primo periodo dell'Età moderna; comunque, con il riscatto di poco più di 1.000.000 di scudi, sono documentabili, sotto il pontificato Borghese, accenni più marcati del solito alle conseguenti misure di risanamento. Tali accenni tuttavia vennero superati visibilmente dalla inevitabile, anche per un papa marcatamente "economo" come P., nuova accensione di debiti per quasi 3.000.000 di scudi, in modo che "summa summarum" alla fine risultano documentalmente debiti ulteriori per un ammontare di circa 2 o (forse, se gli elenchi accessibili sono incompleti) 3.000.000 di scudi: un bilancio molto rispettabile, per un pontificato durato quasi sedici anni, caratterizzato da attività ampie ed onerose, bilancio che ancora una volta dimostra l'esistenza di una programmazione meticolosa, di competenza amministrativa e di non meno spiccata prudenza, e che verrà superato solo dal pontificato di Innocenzo XI, dal 1676 al 1689, il più decisamente riformatore del Seicento. Analogamente a ciò è possibile documentare, con riferimento al tema delle spese del pontificato, una marcata priorità attribuita al settore pubblico prima che a quello dinastico, a progetti utili prima che a quelli puramente di rappresentanza, pur non escludendo del tutto, come dimostra una strumentalizzazione propagandistica e sistematica di tali edifici ostentatamente dedicati al benessere pubblico della capitale, una parziale commistione dei due settori. La distribuzione delle spese straordinarie durante il pontificato Borghese - spese che superarono il bilancio annuale consolidato di quasi 2.000.000 di scudi -, per quanto ostacolata pesantemente dalla gestione di cassa estremamente decentrata, può essere ricostruita, almeno per grandi linee. In rapporto con le spese di Clemente VIII e tenendo conto dei tempi di guerra, a partire dal 1618, furono particolarmente bassi gli importi dei sussidi pagati agli Stati cattolici per un ammontare di un terzo di milione di scudi, del quale solo meno della metà, per giunta ottenuto mediante una decima imposta sulle dodici Congregazioni, era diretta allo schieramento cattolico nella guerra dei Trent'anni. La parte principale di questa spesa era costituita da somme stanziate per costruzioni all'interno dello Stato pontificio ed in particolare a Roma: più di mezzo milione di scudi, come conseguenza del conflitto con Venezia, per la fortificazione di Ferrara rientrata in possesso del papato nel 1598, oltre 165.000 scudi per opere portuali sulle coste tirrenica e adriatica, ed infine più di 1.700.000 scudi per interventi edilizi nella Città Eterna. Indicata come continuazione coerente, addirittura in parte come perfezionamento degli estesi interventi urbanistici di Sisto V - un giudizio eccessivo probabilmente da ridimensionare -, la politica urbanistica di P. si distinse innegabilmente per consistenza e monumentalità. L'effetto generale perseguito, fino ad oggi non completamente interpretato nella sua totalità quanto al programma ispiratore, per tacere dei leitmotive iconografici, sembra orientato chiaramente a favore del benessere pubblico e della cura dei sudditi, e con ciò a formulare messaggi paternalistici che, nell'ulteriore corso del Seicento, aumenteranno addirittura fino a diventare una sorta di corteggiamento del sovrano verso i suoi sudditi. Guidato dall'idea di ottenere il prestigio del sovrano e del suo regno attraverso un esercizio del potere ostentatamente disinteressato ed in certo qual modo da amministratore fiduciario nell'interesse dei sudditi, il pontificato Borghese introdusse anche un'epoca di autoraffigurazione papale che, alla fine del XVII secolo, culminerà nell'immagine, accuratamente delineata, della gravosa assunzione della funzione di pastore esclusivamente nell'interesse del gregge da accudire. Per soddisfare le esigenze di approvvigionamento della capitale furono necessari due grandi progetti realizzati fuori le mura, ciascuno finanziato con 80.000 scudi, come risulta dai documenti: l'ampliamento del porto di Civitavecchia significativamente iniziato già nei primi anni del pontificato, nel quale arrivavano - nell'ultimo decennio e mezzo, salvando spesso la città dalla morte per fame - le importazioni di cereali dai Paesi Bassi e dalla Francia, cereali che venivano poi trasbordati su navi più piccole le quali venivano poi trainate lungo il Tevere controcorrente. Per rendere loro più facile l'ingresso nel fiume, P. rese nuovamente navigabile la seconda bocca del Tevere vicino a Fiumicino. Allo stesso scopo servivano l'ampliamento e la riparazione della rete stradale di grande comunicazione, soprattutto fra Roma e le Marche. Quella di gran lunga più dispendiosa fra le grandi opere, anch'essa commissionata da P. subito dopo l'inizio del suo pontificato, e destinata all'uso pubblico, fu l'impianto dell'Acqua Paola che riforniva il quartiere di Trastevere, trascurato dai grandi acquedotti di Sisto V, con acqua proveniente dalla zona di Bracciano dove P. aveva comprato, nel 1608, delle fonti dagli Orsini. Dopo il completamento delle condutture il papa fece costruire da Giovanni Fontana e Flaminio Ponzio, sul Gianicolo, l'imponente fontana, in risposta all'Acqua Felice di Sisto V. La decorazione scultorea di quest'ultimo monumento, con in cima uno stemma dei Borghese, colpisce l'occhio dell'osservatore; la facciata del "castello d'acqua", realizzato nel 1612, può essere considerata come esibizione complessa ed equilibrata della fama del papa Borghese e del suo pontificato, con un messaggio facilmente comprensibile sia per i destinatari in grado di leggere sia per gli illetterati. Gli stessi motivi sono espressi dagli interventi nella rete stradale romana eseguiti durante il pontificato Borghese, i quali furono ostentatamente finalizzati al duplice benessere, fisico e spirituale, di sudditi e visitatori e con ciò si riallacciarono ai progetti sistini del periodo 1585-1590 senza raggiungere però la loro monumentalità e compiutezza. Anche in queste imprese urbanistiche in senso stretto balza all'occhio un'attenzione particolare per Trastevere. Così una nuova strada rese più accessibile al pubblico l'Acqua Paola, mentre un'altra provvide a collegare le due chiese principali del quartiere, S. Maria in Trastevere e S. Francesco a Ripa. La realizzazione di nuove vie nella periferia opposta della città migliorò l'infrastruttura nella zona di Capo le Case. La cura dell'immagine di un papato in trasformazione ebbe però la sua espressione più monumentale, all'inizio del XVII secolo, nei lavori ordinati in S. Pietro. Qui papa Borghese si trovò di fronte ad un dilemma lasciatogli dal suo predecessore, perché un decennio e mezzo dopo il completamento della cupola il complesso continuava ad essere altamente eterogeneo, addirittura impossibile da mantenere in quello stato. Se la nuova chiesa, concepita secondo i progetti di Michelangelo come costruzione centrale, aveva gradualmente sostituito la vecchia S. Pietro, nel 1605, peraltro, rimaneva ancora in piedi una parte considerevole della navata originale, compreso il famoso atrio. Nell'ambito della Congregazione competente le opinioni su che cosa si dovesse fare di questi reperti del passato, venerati e ricchi di storia, erano diverse. Il "votum" dello storico della Chiesa cardinale Baronio in favore della conservazione, senza toccare nulla delle parti più antiche della costruzione, non riuscì a imporsi a causa delle pessime condizioni di manutenzione e della eterogeneità di quanto rimasto. Lo smantellamento venne eseguito, però, contrariamente alla disattenzione per il passato che aveva caratterizzato un secolo prima la nuova costruzione, secondo i principi tridentini, con un ossequio ostentato nei confronti delle tradizioni paleocristiane. Detto in termini meno rispettosi, S. Pietro diventò una specie di magazzino per la decorazione di varie chiese romane ma anche di edifici profani. La priorità, ovunque constatabile, delle considerazioni liturgiche rispetto al punto di vista estetico, fu decisiva anche per la soluzione del problema, diventato urgente dopo la fine della fase di smantellamento, di come portare a compimento il progetto di costruzione secolare e come utilizzare il terreno resosi libero. Nell'occasione prevalse l'idea favorevole all'aggiunta della navata e della facciata, idea contraria a quella dei cardinali (fra cui Maffeo Barberini, il futuro papa Urbano VIII) che si opponevano ad ogni modifica rispetto al progetto di Michelangelo. Ebbero carattere decisivo ragioni pratiche, pastorali e teologiche: spazio sufficiente per le attività di culto, la croce latina come forma della pianta della chiesa consigliata dal concilio di Trento, l'inopportunità di lasciare inutilizzato lo spazio prima coperto dalla precedente basilica, la necessità di un portico, di una sacrestia e di una loggia per le benedizioni. Carlo Maderno vinse il concorso conseguentemente bandito, al quale parteciparono architetti di fama. Secondo i suoi progetti e sotto la sua guida i lavori furono accelerati al massimo, tanto che la facciata venne completata già nel 1612 e la navata due anni più tardi. L'iscrizione, visibile da lontano, diventò oggetto di pasquinate perché poneva in secondo piano la consacrazione al principe degli apostoli ed evidenziava sulla parte frontale il nome di famiglia e il luogo di origine del papa committente dell'opera. Nel 1612 P. affidò l'incarico per la costruzione di due campanili; alla sua morte nessuno dei due era ancora terminato. Il loro smantellamento, eseguito due decenni più tardi, nuoceva però in modo rilevante all'aspetto complessivo della facciata rimasta esageratamente estesa in larghezza. Quasi altrettanto costosi rispetto ai lavori relativi alla basilica del principe degli apostoli, che, secondo un conteggio risalente alla fine del pontificato ammontarono a 300.000 scudi, risultarono i lavori concernenti il Palazzo Vaticano commissionati da P.: ma con 364.000 scudi di spesa furono più costosi di un buon terzo i lavori, diretti da Ponzio e Maderno, di ristrutturazione del palazzo del Quirinale trasformato in residenza monumentale del papa; la cappella di questo palazzo, costruita in analogia con la cappella Sistina, venne inaugurata nel 1617. Nello stesso ordine di grandezza di spese è da collocare un altro gigantesco progetto di costruzione, che, in contrasto con quelli fino ad allora realizzati, rispondeva non già all'interesse pubblico o della Chiesa, bensì ad interessi dinastici: la costruzione della cappella Borghese in S. Maria Maggiore, luogo di sepoltura del pontefice, del cardinale nipote e della sua famiglia. In quanto tale essa completava il patrimonio immobiliare dei Borghese costituito altresì da un palazzo di città, ampliato enormemente rispetto alle dimensioni che aveva nel 1605, da una villa suburbana costruita sul Pincio dal cardinale nipote Scipione Borghese, nella quale era sistemata una raccolta di opere d'arte, e da altre eleganti residenze a Frascati per villeggiature adeguate al rango. Inoltre la cappella Borghese è di particolare interesse iconografico per il fatto che consentiva di sfruttare la fama del pontificato come fonte perpetua di prestigio per le generazioni dei Borghese contemporanee e successive. Tenuto conto della mancanza di una analisi iconografico-funzionale complessiva, si dovrebbe far riferimento soltanto ai leitmotive; su entrambe le tombe papali - in analogia con la cappella Sistina P. fece collocare il monumento del suo predecessore Clemente VIII di fronte al proprio, terminato nel 1615 - i suddetti leitmotive mostrano in modo fortemente accentuato l'elemento della "pietas" e l'inesausto adempimento del dovere "in temporalibus et spiritualibus". Dal punto di vista della storia dell'arte, il grande progetto della cappella del pontefice e della sua famiglia, da collocare nella fase di passaggio fra un manierismo rigidamente convenzionale ed il primo barocco, offrì lavoro per anni ad un'ampia gamma di artisti - per la maggior parte di medio livello -, soprattutto scultori: fra di loro si distingue Pietro Bernini. Fra i pittori emergono Ludovico Cigoli, il quale nel suo affresco colloca la Madonna non già sulla solita sottile falce lunare ma su una luna piena di crateri, osservata per mezzo del telescopio del suo amico Galilei, e soprattutto Guido Reni i cui affreschi tematizzano l'intercessione salvifica della madre di Dio e con ciò costituiscono con una nota mariologica un motivo centrale delle commesse artistiche dei pontefici a partire dal XV secolo, e cioè la salvezza del papato grazie al soccorso della Vergine da poter invocare in qualsiasi momento in tutte le situazioni che sembrano senza via d'uscita. Non è sbagliato trovare in questa iconografia accenni alla movimentata storia sia politica che ecclesiastica del papato nel contesto europeo. Le turbolenze più forti si verificarono all'inizio del pontificato e non a caso riguardarono la Repubblica di Venezia con la quale tradizionalmente la Santa Sede aveva rapporti freddi se non tesi. L'occasione che fece esplodere il conflitto fu costituita dalle leggi con le quali la Repubblica intendeva ottenere un controllo maggiore sullo sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche, ed in particolare sul loro patrimonio, come anche dalle questioni concernenti la giurisdizione nel caso di delitti commessi da ecclesiastici. Il fatto che questi problemi, solo marginali se considerati singolarmente, assumessero rapidamente, in quel momento, il carattere di una cruciale questione di Stato, e spingessero entrambe le parti sulla soglia della guerra vera e propria, trova origine nelle contrapposte posizioni di principio esistenti sia a Roma che a Venezia; in particolare, per quanto concerne la posizione di Roma, esse riguardarono, dopo il concilio di Trento, più insistenti pretese circa la rivendicazione e la restituzione di titoli giuridici e immunità della Chiesa. A queste tendenze, considerate da Venezia come tentativi di dominio teocratico, risposero, alla fine del XVI secolo, alcuni autori veneziani con un'apologia, diffusa in molte parti dell'Europa, della repubblica aristocratica, considerata come la migliore forma di Stato in quanto fondata sul controllo di gruppo e sul reclutamento meritocratico. Per Roma l'intransigenza nel conflitto politico-ecclesiastico con la Repubblica di San Marco assunse un significato simbolico di irrigidimento rispetto ai principi tridentini, tanto più che ambienti favorevoli alla riforma, nell'ambito della Curia, lamentavano un graduale affievolimento dello spirito di rinnovamento. Invece Venezia si fece portavoce di una ragione di Stato moderata che considerava la Chiesa come un'organizzazione subordinata rispetto alle responsabilità della politica. Il conflitto ottenne attenzione a livello europeo grazie agli scritti del frate servita Paolo Sarpi, nominato dalla Serenissima consultore "in iure", il quale giustificò le rivendicazioni di competenze avanzate dalla Repubblica di San Marco, da una parte, con il carattere sacrale della stessa e con i privilegi ad essa attribuiti sulla base di antichi documenti e, dall'altra, con considerazioni di diritto naturale. Parallelamente a questa guerra fredda fatta di memoranda e pamphlets, si verificò un rapido aggravarsi degli eventi. Fidando sull'efficacia delle misure applicate con successo durante la riconquista di Ferrara nel periodo 1597-1598, P. minacciò, nel dicembre 1605, di adottare le più gravi sanzioni ecclesiastiche a seguito del rifiuto del Senato veneziano di ritirare alcune leggi e di consegnare alla giustizia ecclesiastica due chierici passibili di punizione. Dopo un irrigidimento temporaneo delle posizioni - per esempio sulla questione se al nuovo patriarca di Venezia si dovesse concedere un'esenzione dall'esame a Roma, come anche su problemi territoriali e fiscali - la rottura definitiva, nell'aprile del 1606, venne contrassegnata dalla scomunica del Senato veneziano e dall'interdetto valido su tutto il territorio della Repubblica - misure la cui applicazione la Serenissima sanzionò con le punizioni più severe e che, ancora una volta, causarono gravi conflitti di lealtà tra il clero veneziano; fra l'altro, una delle conseguenze fu l'espulsione dei Gesuiti. Caratterizzati dalla tipica commistione di punti controversi di natura religiosa e politica - a Roma si temeva, al culmine della propaganda e delle ostilità, l'apostasia di Venezia verso il protestantesimo - i contrasti diventarono in breve tempo una questione che coinvolse non solo gli Stati italiani ma anche le grandi potenze della Spagna e della Francia. Dopo il fallimento dei primi tentativi di conciliazione, la suddetta questione minacciò di diventare il focolaio di una guerra europea allorché non solo i due contendenti, ma anche la Spagna e la Francia organizzarono il riarmo. Infine una tale escalation, alla quale, in fin dei conti, non potevano avere interesse né Venezia né Roma, fu evitata grazie alla mediazione francese che, con complesse trattative, rese possibile un compromesso che permise ad entrambe le parti di salvare la faccia pur senza soddisfarle pienamente. In primo luogo, peraltro, l'accordo garantito da entrambe le grandi potenze chiarì definitivamente che i tempi degli efficaci interventi papali nella politica europea erano del tutto superati e che, anche nella sfera cattolica, si era ormai realizzato uno sviluppo irreversibile verso l'autonomia della politica; sotto questo aspetto l'accordo della primavera del 1607 fra la Santa Sede e la Repubblica di Venezia anticipò, in certo qual modo, gli eventi ed i risultati della guerra dei Trent'anni. Peraltro nemmeno Venezia poté considerarsi vincitrice, atteso che anche la sua libertà di azione era stata innegabilmente limitata nell'ambito di una costellazione di potenze guidate dalla Francia e dalla Spagna. Il non previsto inasprimento del conflitto e la sua deludente conclusione ebbero un effetto marcato sul futuro comportamento di papa Borghese a livello diplomatico-politico, rafforzando ulteriormente la sua tendenza innata ad agire in modo cauto e difensivo. Nonostante il fatto che nel conflitto con la Repubblica di San Marco sembrò a tratti delinearsi un patto romano-spagnolo, P., costantemente corteggiato da entrambe le grandi potenze, cercò di mantenere una rotta neutrale fra la Spagna, il cui declino egli riconobbe chiaramente, e la Francia di Enrico IV che si trovava in fase ascendente. Sotto altro profilo, durante la disputa per la successione dei Ducati di Jülich e di Kleve, in relazione al tentativo, che costituì uno dei temi centrali del pontificato, di recuperare terreno al cattolicesimo nell'Impero, Roma sviluppò, attraverso Antonio Albergati, il suo nunzio a Colonia, un'attività diplomatica intensa per la protezione degli interessi cattolici in questa regione nevralgica dal punto di vista confessionale. Tuttavia nell'antefatto e nella prima fase della guerra dei Trent'anni la Santa Sede ebbe un ruolo meno attivo, considerato da un punto di vista complessivo, rispetto a quello svolto dai pontificati successivi. Così P. rifiutò decisamente ogni coinvolgimento nei disordini politico-confessionali nei Grigioni e nella Valtellina, territorio sottomesso ai Grigioni - un atteggiamento di non ingerenza che caratterizzò il ruolo di Roma nei conflitti che si stavano gradualmente estendendo nell'Impero. Nel perseguimento di questa politica il papa non concesse, in fin dei conti, il sostegno finanziario e militare richiesto dalla Lega cattolica poco dopo la sua fondazione avvenuta nel 1609, per timore di rafforzare ulteriormente il predominio della Spagna in Italia, di provocare la Francia, ma soprattutto di fomentare una guerra fra schieramenti politico-confessionali il cui esito doveva sembrare molto incerto dati i rapporti di forza nell'Impero. Se Roma aveva cercato di mediare nella lite asburgica fra fratelli covata per anni, e soprattutto aveva esercitato pressioni a favore dell'elezione di un re dei Romani come successore di Rodolfo II, P., dopo la morte di quest'ultimo all'inizio del 1612, sostenne con grande intensità, nel corso della successiva elezione imperiale, la candidatura del fratello Matteo, come esplicitamente documentato dalla ricca corrispondenza dei nunzi. In questa situazione vennero trascurate forti perplessità concernenti la dipendenza di Matteo dai protestanti e la sua condiscendenza in materie confessionali per evitare un male più grande, dal punto di vista di Roma, cioè lo sfruttamento, da parte del movimento calvinista, del periodo di vuoto di potere causato dalla mancanza di un imperatore. La stessa strategia di evitare, per quanto possibile, inasprimenti bellici, che potevano rivelarsi esiziali, all'interno dei domini imperiali, di spingere verso il mantenimento della pace religiosa di Augusta, non per se stessa, ma come male minore, e nello stesso momento di opporsi alla politica di mediazione realizzata da Melchior Klesl, onnipotente ministro di Matteo, promosso nel 1615 da vescovo a cardinale di Vienna, caratterizzò la diplomazia papale nell'Impero anche negli anni immediatamente precedenti l'inizio della guerra. Per questo motivo non si può parlare di un ruolo guida di Roma, come occasionalmente sostenuto in passato, nell'unificazione del partito cattolico nell'Impero; in sostanza, anche dopo il 1618, Roma si limitò a reagire agli eventi. L'indicatore di questo comportamento piuttosto attendista è costituito dall'ammontare degli aiuti decisi dal papa a favore dello schieramento cattolico. Così negli anni 1619-1620 venne concesso al neoeletto imperatore Ferdinando II, la cui elezione nel 1619 era stata accolta dalla Curia con la più grande gioia a causa della sua politica in favore dei cattolici, un sussidio mensile temporaneo di 10.000 scudi; però P. rifiutò, con la scusa dell'indebitamento delle finanze papali, un ulteriore impegno finanziario che avrebbe imposto di intaccare le riserve di denaro conservate in Castel S. Angelo (v. Sisto V).
Se l'importo complessivo delle somme pagate all'imperatore e alla Lega in quel momento e nei mesi successivi è destinato a rimanere non del tutto precisabile, a causa di indicazioni contraddittorie e di mancanza di documenti chiari, deve comunque notarsi anche qui - soprattutto in confronto con le spese effettuate da Clemente VIII per il sostegno nelle lotte contro i Turchi - la palese ricerca di una forma di moderazione che può essere spiegata in modi diversi. Può darsi che a Roma fosse stata parzialmente sottovalutata la gravità della situazione nell'Impero, ma emergono tuttavia, ove si consideri l'ammontare complessivo delle spese straordinarie effettuate nel corso dei quindici anni del pontificato Borghese, delle priorità che dimostrano un impegno estremo sulle questioni di politica interna, in particolare in campo sociale e urbanistico, in parte anche nel sostegno ai parenti del papa - un assetto di priorità che continuerà ad accentuarsi sotto il pontificato Barberini. La prima svolta nella guerra dei Trent'anni, cioè la vittoria decisiva dei cattolici nel conflitto boemo presso la Montagna Bianca, l'8 novembre 1620, venne a lungo festeggiata da P., il cui stato di salute peggiorò visibilmente in quell'anno. Le conseguenze politiche derivanti da questo successo si sentirono durante il pontificato del suo successore Gregorio XV. Il fatto che la diplomazia curiale abbia agito in modo attendista fino alla passività, nei conflitti di grande portata, è dimostrato dal ruolo che la stessa svolse in occasione dell'ascesa al trono russo del cosiddetto falso Demetrio, presunto figlio di Ivan IV, un evento che venne seguito in Europa con grandissima attenzione. Infatti in questa situazione, già nell'ultimo periodo di governo di Clemente VIII, la Curia romana decise per la non ingerenza, ponendosi in evidente contrasto con i rapporti entusiastici inviati dal nunzio Rangone che lasciavano intravedere l'unione della Russia con la Chiesa cattolica ove si fosse dato sostegno al pretendente al trono. È vero che P., guidato dai rapporti unilaterali, addirittura ingenui, del nunzio, a partire dall'estate del 1605 abbandonò questo originario scetticismo, passando ad un atteggiamento di più deciso sostegno a favore di Demetrio, nella speranza di poter presto ricondurre la Russia nell'alveo della Chiesa cattolica: tuttavia Roma, ignorando le vere intenzioni del nuovo zar, fu strumentalizzata dai piani di quest'ultimo, e non già il contrario, come sostengono leggende dure a morire ancora alimentate dalla storiografia sovietica ufficiale, che fanno riferimento ad una congiura romano-gesuitica. Significativamente il nunzio Rangone, troppo zelante, pagò con la fine della sua carriera l'esito deludente della vicenda, cioè l'assassinio di Demetrio. All'interno della Chiesa il pontificato di P. segnò una tappa importante nella cosiddetta disputa della grazia che dominava le discussioni teologiche del tempo e che ebbe molteplici effetti politici fino al XVIII secolo avanzato, una disputa nella quale si contrapponevano i Domenicani ed i Gesuiti con posizioni differenti concernenti la predestinazione, il libero arbitrio e l'effetto della grazia. La materia molto complessa acquistò una particolare forza dirompente, in quell'epoca caratterizzata dal conflitto fra confessioni religiose, per il fatto che il partito dei Domenicani, che si appellava a s. Agostino, veniva sospettato dai Gesuiti di essere vicino a posizioni eretiche, o meglio protestanti, con particolare riferimento al concetto di predestinazione di Calvino, mentre i Gesuiti stessi venivano collocati dagli avversari in prossimità delle eresie di Pelagio, che sopravvalutavano la libertà della volontà dell'uomo. Sulla controversa materia, che stava diventando sempre più incandescente a causa dell'opera del gesuita spagnolo Molina, P. sollecitò vari pareri, fra l'altro chiedendo a nove cardinali di esprimere il loro pensiero, per poi, infine, emanare un ordine che vietava ogni discussione sulla materia all'interno della Chiesa, mentre entrambe le parti contendenti furono giustificate contro i rispettivi sospetti. Questa decisione venne rafforzata da un decreto dell'Inquisizione del 1° dicembre 1611 che sottopose ad autorizzazione del Sant'Uffizio le pubblicazioni concernenti il tema della grazia. Neanche in seguito P., incurante della pressione politica esercitata dalla Spagna, si lasciò convincere a prendere una decisione sulla questione, affrontata da entrambi gli schieramenti con grande passione e divenuta sotto molti aspetti un problema politico - una posizione che sottolineava ancora una volta quell'atteggiamento di non ingerenza nei conflitti di portata imprevedibile che caratterizzò tutto il pontificato. Il fatto che i lunghi pontificati di Clemente VIII e P. siano stati decisivi per il destino futuro delle misure riformatrici adottate dal concilio di Trento e, ancor più, per lo spirito nel quale esse avrebbero dovuto trovare attuazione, fu notato anche da contemporanei come i cardinali Paleotti e Bellarmino. In particolare questi ultimi criticarono apertamente il ruolo del papato perché esso non solo non fu in grado di produrre ulteriori impulsi di rinnovamento, ma addirittura causò l'indebolimento di quelli esistenti. Se si considerano i quindici anni del pontificato Borghese da questo punto di vista, si constata una continuità con l'indirizzo adottato sotto Clemente VIII, e cioè con la strategia di attenersi formalmente alle decisioni del concilio e di ricorrere poi nella pratica a compromessi di vario genere. Come già a Trento, i tentativi di realizzare una severa politica di riforme - espressi nel Collegio dei cardinali da Baronio e Bellarmino - si concentrarono su una applicazione conseguente dell'obbligo di residenza dei vescovi. Dopo l'inizio del pontificato Borghese tale obbligo fu ribadito con un decreto in modo severissimo e anche controllato, quanto alla sua attuazione, dal papa - a causa dell'influenza di Bellarmino, come si presumeva a Roma. Tuttavia quest'ultimo non riuscì ad impedire l'assegnazione di vescovati a cardinali. Lo stesso avvenne anche per una serie di ulteriori misure riformatrici decise durante il concilio. Dopo la severa fase di riforme che durò approssimativamente dal 1560 al 1590, nel primo e secondo decennio del XVII secolo poté riflettersi a vari livelli in Curia un clima improntato ad una maggiore disponibilità al compromesso, pur con un contemporaneo ostentato atteggiamento di rispetto dei principi fondamentali fissati dal concilio, nonché un mutamento del codice di valori della Curia stessa, che abbinava uno stile di vita sobrio della Corte, la rivalutazione della cultura classica ed il gusto per un'arte sensuale ed elegante all'ostentato rigore morale. Sintomatica, addirittura programmatica per l'immagine interna ed esterna del papato in questo periodo di transizione, fu, sotto questo profilo, la canonizzazione, celebrata da P. il 1° novembre 1610, di Carlo Borromeo quale simbolo per eccellenza della riforma cattolica, ma anche di una sintesi di santità e cardinalato che ben si adattava, perciò, a proiettare un'immagine positiva del ruolo curiale. Ambivalenze e limiti della riforma si dimostrarono in modo più evidente quando - tenuto conto della ancora mancante edizione delle istruzioni generali di P. - si cercò di determinare il ruolo giocato dal papato all'inizio del XVII secolo in tema di disciplinamento della società attraverso gli strumenti di controllo e di omogeneizzazione della confessione. Guardando i documenti della Segreteria di Stato relativi ai tempi di P., tutto lascia intendere che rimase allora valido lo stesso giudizio formulato in materia rispetto al pontificato di Clemente VIII: si deve cioè constatare un'ampia assenza di strategie della Curia per ottenere un controllo più efficace sul pensiero, lo studio e la vita quotidiana, e invece una chiara prevalenza di fattori politici. Questo disinteresse è stato spiegato, sicuramente in modo corretto, con il fatto che a Roma, in mancanza di strumenti idonei alla realizzazione della riforma della Chiesa nella vita quotidiana, l'esecuzione delle riforme da parte dei principi era considerata con sentimenti discordanti, tanto più che il processo di confessionalizzazione nella maggior parte degli Stati europei del tempo serviva come mezzo di ampliamento delle competenze sovrane e quindi di una statalità più forte. Questo però contrastava decisamente con i tentativi della Chiesa di garantirsi autonomia. Tuttavia questa rinuncia a una penetrazione in ampi settori della scena internazionale è da constatare anche là dove un tale intervento non sarebbe stato ostacolato da istituzioni antagoniste, e cioè a Roma e nello stesso Stato della Chiesa. Con riferimento all'attività dell'Inquisizione, tenuto conto della mancanza di atti processuali e del fatto che l'elaborazione delle fonti a disposizione è sostanzialmente agli inizi, è possibile configurare un bilancio analogo e cioè un comportamento ampiamente moderato. Gli avvisi disponibili per il pontificato di P. narrano solo molto raramente di esecuzioni di eretici; pure l'attività dell'Inquisizione nella vita quotidiana della gran parte della popolazione sembra essere stata sostanzialmente scarsa, meno che mai da organo di repressione vero e proprio - un giudizio che non è da intendere come assoluzione o addirittura apologia, ma piuttosto con la grande distanza rispetto ai prevalenti fenomeni della cultura e della mentalità popolare. Si potrebbe spiegare con questa estraneità verso il mondo delle credenze popolari anche la mancanza, che è possibile constatare grazie agli avvisi, di processi alle streghe sul territorio papale. In questo modo l'Inquisizione dovrebbe essere stata intesa soprattutto come un cordone sanitario contro la penetrazione di dogmi e di libri protestanti e dovrebbe aver agito in modo conseguente. È un fatto innegabile che intellettuali, soprattutto filosofi e teologi, si trovarono sotto censura e controlli, ma anche in tal caso l'Inquisizione, il cui ruolo diminuì fortemente dopo la fine del conflitto con Venezia, poté permettersi un comportamento relativamente moderato. Queste tendenze si rispecchiarono anche nel rapporto fra gli organi ecclesiastici di vigilanza e Galilei, i cui contrasti con la Chiesa, relativi alla visione copernicana del mondo, subirono, sotto il pontificato Borghese, una prima evoluzione, per ora ancora senza dirette conseguenze, ma che fu rilevante per l'ulteriore sviluppo del "caso". Così, nel febbraio 1616, lo scienziato venne invitato ad un colloquio con il cardinale Bellarmino nel corso del quale gli vennero imposti limiti vincolanti concernenti la dottrina del sistema eliocentrico del mondo; però, sulla portata di tali limiti, i modi di concepirli e di applicarli da parte di Galilei e dell'Inquisizione furono divergenti, come sarebbe emerso nel processo del 1632. È peraltro da ricordare che in questa fase non si arrivò alla proibizione formale degli scritti galileiani, e tanto meno al loro rinnegamento o condanna; in via precauzionale Galilei si fece garantire per iscritto la suddetta situazione. Lo status e il prestigio dello scienziato, sostenuto da una adeguata protezione, trovarono al contrario riscontro nel fatto che in questa occasione Galilei venne ricevuto per un lungo colloquio da P. e ricevette da quest'ultimo delle garanzie tranquillizzanti. Come somma di questi sviluppi si può constatare che la tesi, per tanto tempo predominante nella storiografia concernente il Seicento, di un'egemonia della Chiesa nella cultura e nella vita quotidiana può essere confutata nei suoi elementi essenziali; per una tale egemonia mancavano alla Curia del XVII secolo sia la volontà che i mezzi - una conclusione che sembra trovare espressione, soprattutto nel pontificato Borghese, nella rinuncia del papa a prendere posizioni troppo decise. Anche la misura, che sembra corrispondere al controllo sociale e morale esercitato nelle Chiese riformate, e cioè la stesura di libri sullo "status animarum", prescritta ai preti nel Rituale Romanum del 20 giugno 1614, non fu utilizzata nella pratica come uno strumento radicale di disciplina, nonostante il fatto che le finalità connesse alla sua introduzione tendessero senza dubbio in questa direzione. Con riferimento a Roma i parroci dovevano ora presentare annualmente alla Segreteria del cardinale vicario, in base ad una sintesi e nuova formulazione di norme precedenti, elenchi dettagliati sulle persone che ricevevano la comunione pasquale. Questa elencazione ormai obbligatoria doveva non solo realizzare, mediante la registrazione dei poveri bisognosi di aiuto, un più efficiente sostegno caritativo-socio-politico, come pure, in conformità con i principi generali del concilio di Trento, un'assistenza pastorale più intensa e con ciò un legame più stretto del singolo con la propria parrocchia, ma nello stesso modo promuovere prioritariamente, attraverso la segnalazione di coloro che non praticavano la comunione pasquale, come pure delle prostitute, delle concubine ecc., l'individuazione ed il contenimento di comportamenti non conformi da un punto di vista religioso e sociale. Tuttavia, il fatto che, tra l'altro, solo a partire dalla metà del XVII secolo tali elenchi vennero istituiti in tutte le parrocchie romane, come pure la loro incompletezza e inesattezza, non di rado successivamente constatate, ci dice che per lo meno l'ultimo scopo non venne perseguito troppo seriamente. A parte ciò, i Registri degli stati delle anime rappresentano una fonte incomparabilmente complessa per quanto concerne la storia demografica e sociale di Roma. Un indicatore significativo concernente la continuazione ovvero l'indebolimento del clima riformistico della Curia è costituito dai criteri in base ai quali veniva effettuato il reclutamento del personale dirigente e cioè soprattutto la nomina di nuovi cardinali. P. procedette a più numerose promozioni di cardinali in sette distinti momenti, e cioè nelle seguenti date: 11 settembre 1606, 10 dicembre 1607, 24 novembre 1608, 17 agosto 1611, 2 settembre 1615, 19 settembre 1616 e 11 gennaio 1621, poco prima della sua morte, avvenuta il 28 gennaio; in tutto furono nominati, durante il pontificato Borghese, sessanta nuovi membri del Collegio dei cardinali. È noto che, nel primo periodo dell'Età moderna, al successo nel "cursus honorum" presso la Curia concorsero normalmente più fattori, la cui ponderazione in dettaglio sembra essere di regola problematica, ove non vengano prese in considerazione le promozioni avvenute per desiderio ovvero su pressione dei principi europei. Anche tenendo conto di questa molteplicità di fattori, fra il 1605 e il 1621 si profilò con evidenza un gruppo di persone appartenenti alla nobiltà cittadina come pure all'alta aristocrazia di Roma, le cui nomine possono essere ricondotte in misura considerevole alla parentela con i Borghese, come anche un certo numero di prelati che dovrebbe aver ottenuto la promozione grazie a legami clientelari più stretti con la famiglia del papa. Al primo gruppo appartennero i cardinali Lante, Millino, Torres, Maffei, Verallo, Leni, Lancellotti e Muti, i quali, già appartenenti, da un punto di vista genealogico, alla nobiltà cittadina, acquisirono per ragioni di matrimonio rapporti di parentela più o meno stretti con i Borghese. Per due di loro, Leni e Lancellotti, questa parentela fu fondamentale, essendo addirittura rispettivamente cugino e nipote del cardinale nipote Scipione Borghese. La strategia familiare, sia pure in un'accezione più ampia, fu inoltre alla base della promozione di Alessandro Orsini, discendente dei duchi di Bracciano, con il quale i Borghese conclusero un contratto di matrimonio nel 1612. Almeno altri sei porporati, cioè Bichi e Cennini, entrambi provenienti da Siena, nonché Tonti, Campori, Gherardi e Pignatelli, appartenevano alla clientela più stretta dei Borghese, in particolare a quella del cardinale nipote Scipione. Ha un significato chiaramente funzionale il fatto che l'accumulo di tali promozioni si verificò all'inizio e alla fine del pontificato. All'inizio si pose in primo piano la creazione di un centro di potere nel Senato della Chiesa; allo stesso modo le ultime promozioni decise nell'ambito di un gruppo di persone appartenenti alla clientela più stretta sono da considerare chiaramente collegate al conclave ormai prossimo, tenuto conto delle condizioni di salute del papa, conclave nel quale il cardinal nipote avrebbe avuto bisogno di un corrispondente sostegno. Le nomine nell'ambito dei parenti e della clientela, le quali ammontarono complessivamente ad un quarto del totale delle promozioni, non si posero sostanzialmente in contrasto con il proseguimento della riforma interna, ove si consideri lo stile di vita e le modalità di gestione dell'incarico della maggior parte dei nuovi porporati, ma d'altra parte rendono molto trasparenti ambivalenze e graduali spostamenti del centro di gravità verso lo status della famiglia e la politica dinastica. In conclusione, cercando di valutare il pontificato di P. da un punto di vista globale, esso sembra essere, per molti aspetti, un periodo di transizione e di mantenuto equilibrio. Non classificabile come ancora collegato alla fase della severa riforma interna, attuata con più forza sotto Pio V e poi Sisto V, e nemmeno classificabile come facente già parte di un tipo di papato come quello di Urbano VIII e di Innocenzo X, che si pone al culmine della cultura barocca, caratterizzato da uno spostamento sempre più forte verso interessi e strategie alla fine non più essenzialmente rivolti alle istituzioni, il governo di P. si distinse, come sopra dettagliatamente mostrato, per una serie di qualità che andranno gradualmente perdute nei decenni successivi: l'adempimento, attuato con cura straordinaria, dei compiti d'ufficio in campo politico, sociale ed urbanistico, generalmente nel rispetto di un notevole standard di qualità amministrativa, riguardo al contesto dell'epoca, negli uffici centrali dello Stato della Chiesa; la nomina di uomini capaci, in posizioni chiave, dal punto di vista funzionale, come, ad esempio, nella Segretaria di Stato, E. Valenti, L. Margotti, M. Malacrida, P. Feliciani, F. Perugino, G.B. Agucchi; la separazione, attuata con solo limitate eccezioni, fra nepotismo e grande politica, relativamente alla quale gli interessi dei parenti del papa, pur sostenuti generalmente con vigore, non ebbero alcuna influenza; il riserbo nella diplomazia europea e nella politica della Chiesa. Proprio questa evidente cautela, anche se potrebbe farsi risalire alle esperienze individuali dell'inizio del pontificato, riflette il riconoscimento del fatto che, pur nella continuità di rivendicazioni e di ruoli fondati sulla tradizione, l'epoca del ruolo più attivo, per non dire dominante, del papato sulla scena europea era ormai trascorsa; ex negativo il pontificato Barberini dovrebbe dimostrare tale verità. Sebbene manchino al pontificato Borghese gli splendori culturali del periodo di Urbano VIII, e le spinte innovative come la fondazione della Congregazione "de Propaganda Fide" sotto Gregorio XV, tuttavia i quindici anni del regno di P. sono di grande significato per il carattere esemplare del governo dello Stato della Chiesa, ed in primo luogo della sua capitale e per il rafforzamento degli accenti paternalistici ed il conseguente nuovo modo di proporsi e di giustificarsi del papato, grazie ad elementi che daranno frutti nei decenni successivi, nella politica interna e nella promozione della cultura.
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(traduzione di Susanne Menz Di Cerbo)