Innocenzo XI, beato
Benedetto nacque in Como il 19 maggio 1611 da Livio Odescalchi e Livia Castelli di Gandino. La sua antica famiglia, dedita proficuamente al commercio - la Società Odescalchi aveva ramificazioni estese in Italia e nell'Europa centrale e orientale - vantava anche uomini di Chiesa, tra cui Pietro Giorgio Odescalchi (morto nel 1620) che fu vescovo di Alessandria e, in seguito, di Vigevano e che venne poi canonizzato santo. Ebbe sei fratelli: Lucrezia, che sposò Alessandro Erba; Carlo; Costantino, che morì nel 1619 a ventiquattro anni; Nicola; Paolo (morto nel 1622) e Giulio, che entrò tra i Benedettini e fu poi vescovo di Novara.
Benedetto studiò presso il Collegio gesuitico di Como, e lì fu chiamato a far parte della Congregazione Mariana, in cui confluivano gli studenti che dimostravano un animo particolarmente devoto. La morte del padre, nel dicembre 1622, mutò drasticamente, anche se non repentinamente, il corso della sua vita: segnò anzitutto l'ineluttabilità del suo distacco dalla città natale. Nel 1626, all'età di quindici anni, fu infatti mandato a Genova, dove la famiglia, i cui affari erano gestiti dallo zio Papirio, aveva recentemente aperto un Banco d'affari. Lì rimase a far pratica tre anni, perché nel 1629 lo si ritrova, almeno per un po', in Milano, sempre a seguire gli affari degli Odescalchi. Il dilagare dell'epidemia di peste lo portò a rifugiarsi in Mandrisio da suoi parenti: la piaga lo privò però della madre, che morì nel settembre od ottobre 1630.
Rimasto orfano a diciannove anni di età, Benedetto fu affidato allo zio Papirio finché anche questi, nel 1632, morì, lasciando la cura dell'impresa familiare a detto nipote e ai suoi fratelli Nicola, Carlo e Giulio. Ciò lo obbligò più stabilmente a Como ove si trovò a ricoprire anche funzioni pubbliche, quale quella, puramente onorifica, di comandante di una coorte di milizia urbana (la nomina data 20 ottobre 1635).
Non è chiaro quali fossero allora i suoi progetti: sembra però sicuro che non pensasse alla possibilità di una carriera ecclesiastica. Nel 1636 decise di muoversi da Como, incerto se la sua destinazione dovesse essere Roma, dove pare volesse impiantare un Banco, oppure Napoli ove, secondo altra notizia, avrebbe voluto acquistare il comando di una compagnia di cavalli. Giunto nella capitale del cattolicesimo insieme al fratello Carlo, Benedetto fu introdotto al cospetto del cardinale A. de la Cueva, accompagnato dalle lettere di presentazione di G. de Guzmán, governatore di Milano. Il porporato ne apprezzò le qualità e lo convinse a distogliere la mente dai suoi ancora confusi progetti e a riprendere gli studi.
Così Odescalchi, presa casa alla salita S. Onofrio, sulle pendici del Gianicolo, si iscrisse alla Sapienza e qui seguì per due anni i corsi di diritto civile e canonico. Quindi, nel 1638, optò per lo Studio napoletano, forse per le facilitazioni di cui avrebbe potuto godere, lui suddito spagnolo con qualche protezione alle spalle, in quella città. A Napoli si recò col fratello Carlo: per via ebbe a verificarsi un episodio cui il medesimo Benedetto attribuì successivamente un significato profetico. I fratelli Odescalchi vennero infatti affiancati da due frati cappuccini e questi avrebbero suggerito a Benedetto di riprendere la via di Roma, perché quella città, e non Napoli, sarebbe stata la sua "stanza". I frati sarebbero quindi svaniti nel nulla. La vicenda fu poi propagata dallo stesso Odescalchi. È singolare che tutti i biografi siano stati costretti ad amplificare la portata della notizia in assenza di indicazioni più sostanziose sugli intendimenti di Odescalchi. Benedetto aveva allora ventisette anni e non sapeva ancora immaginare nulla del proprio futuro.
Stabilitosi a Napoli, e lasciato solo poco dopo da Carlo che agli inizi del 1639 tornò al nord a seguire gli affari di famiglia (di cui lui avrebbe sempre continuato a rimanere al corrente, anche da pontefice), Benedetto si laureò "in utroque iure" il 21 novembre di quello stesso anno, al termine di un percorso di studi singolarmente rapido (che dovette essere perciò favorito da qualche dispensa). Sempre in Napoli, il 18 febbraio 1640, il vicario generale del locale arcivescovo gli conferì la prima tonsura: una scelta, questa, che dimostrerebbe una sentita fede, un desiderio di avvicinamento alla Chiesa, più che l'intenzione definita di compiere un ufficiale percorso religioso. Favorì forse la scelta una grave malattia da cui scampò della quale si sa solo che lo colpì alla gola.
Dopo la laurea e la tonsura Benedetto rientrò in Roma, contando sull'appoggio economico che gli avrebbe garantito il fratello Carlo, e soprattutto tornò dal cardinale de la Cueva, che proseguì ad interessarsi della vicenda del comasco e lo introdusse ai cardinali F. Barberini, nipote di Urbano VIII, e G.B. Pamphili, che di lì a poco sarebbe divenuto pontefice col nome di Innocenzo X. Fu forse proprio l'acquisita familiarità di Benedetto con i più alti ambienti di Curia a spingere il fratello Carlo a combinare per lui nel 1640 l'acquisto, grazie all'amico Francesco Parravicini, di un "Presidentato" e di "due segretariati di cancelleria prelatizii; con che papa Urbano dichiarollo protonotario apostolico partecipante" (M.G. Lippi, p. 9). Di quale "Presidentato" si trattasse non è dato sapere, anche se il biografo ci informa che per il suo acquisto furono sborsati 12.000 scudi; dal luglio 1643, almeno, troviamo Benedetto presidente della Camera apostolica, ufficio venale il cui prezzo si aggirava intorno ai 40.000 scudi (è assai probabile che Lippi, il quale si applicò alla biografia di Odescalchi poco dopo la di lui morte, confonda questo presidentato con l'altro, e che si sbagli pure sulla cifra dell'acquisto, che pare troppo esigua nella sua versione). Benedetto prese ora casa al Pantheon e testimoni descrivono le sue frequenti passeggiate verso il Quirinale, per raggiungere poi porta Pia.
Scoppiava intanto la guerra tra la Santa Sede e i Farnese. Le accresciute esigenze finanziarie dello Stato obbligarono a prelievi fiscali straordinari e a tal fine Benedetto venne nominato commissario generale per le tasse nella Marca. Il suo operato fu fermo quanto accorto e ciò gli garantì, per la seconda metà del 1644, il ruolo di governatore di Macerata (nel frattempo moriva Urbano VIII e gli succedeva Innocenzo X con cui Benedetto, lo si è visto, aveva già avuto frequentazioni).
Benedetto rivelò già in questi suoi primi incarichi ufficiali di rilievo quelli che sarebbero divenuti aspetti caratteristici del suo futuro operare. Ridusse all'essenziale la sua famiglia, visse in modo austero, rifiutò regali e favori, applicò le norme in modo rigoroso, senza distinzioni di ceto o condizioni. Le testimonianze relative a questi suoi primi mandati sono concordi nel rilevare come la sua condotta imparziale e coerente gli garantì sempre il favore degli amministrati.
Tornato nel 1645 a Roma, Benedetto rinunciò al suo presidentato di Camera in favore del veneziano Paolo Antonio Labia il quale contraccambiò cedendogli il suo chiericato di Camera (nel borsino degli uffici venali le due cariche avevano la stessa stima).
Tali movimenti, trattandosi di uffici venali di "primo ordine", non potevano avvenire senza l'assenso del papa, che certo vi fu; non è però opportuno convenire col Lippi che testimonia di una precisa volontà del pontefice di avanzare Odescalchi nella carriera prelatizia in virtù di questo conferimento (per il biografo il ruolo di chierico di Camera sarebbe poi risultato vacante per la morte di Labia nel 1645, ma ciò non fu perché il veneziano morì in realtà nel 1649). Non solo lo scambio di ufficio dovette avvenire dopo una trattativa privata solo legittimata da Innocenzo X, ma formalmente l'ufficio di presidente della Camera era più importante di quello di chierico di Camera. Ciò porta a supporre che Odescalchi preferì ricoprire un ruolo che gli garantiva maggior operatività e influenza anche se minor prestigio formale (oppure, più semplicemente, solo un ruolo che sentiva più omogeneo per sé); esclude invece del tutto l'intervento del papa per favorirlo.
Un intervento determinante di Innocenzo X a favore di Benedetto vi fu certamente poco dopo, il 6 marzo 1645, quando il papa gli conferì la porpora col titolo diaconale dei SS. Cosma e Damiano. Il designato dovette per ciò affrettarsi a ricevere gli ordini da diacono; ancora non pensava, in questo tempo, al sacerdozio. Voci maligne (amplificate poi, come si vedrà oltre, da P. Bayle nel suo Dictionnaire) insinuarono un ruolo in questa nomina della potente cognata del papa, donna Olimpia, che allora di tutto o quasi in Corte sembrava potesse disporre (v. Innocenzo X). Addirittura si insinuò volgarmente che la promozione seguisse una provvidenziale e strumentale sconfitta di Odescalchi al gioco di carte della primiera. La familiarità del comasco col papa e le buone prove di servizio fornite sembrano poter in realtà giustificare da sole la determinazione pontificia. Il cardinale prese casa a palazzo Patrizi, ora Lovatelli, che si affaccia su piazza Campitelli, ai confini del ghetto romano. Come al solito improntò la propria esistenza a principi di assoluta austerità.
Odescalchi era in questo tempo arciprete di S. Maria Maggiore, si applicava in molte delle protettorie vacate in seguito alla frettolosa partenza del cardinale Francesco Barberini, e si impegnava nell'attività di diverse primarie Congregazioni: tra queste in quella dei Vescovi e Regolari, della Consulta e del Buon Governo.
Nell'estate del 1648 fu nominato legato di Ferrara. Prima di raggiungere la nuova sede si fermò ad Assisi per consultarsi con fra Giuseppe da Copertino di cui si celebrava già allora la santità; poi passò per Loreto. Soprattutto, Benedetto, prima di partire, aveva disposto l'acquisto nelle Puglie di grano al fine di contribuire con immediatezza ad alleviare i gravi effetti della carestia che affliggeva la città emiliana. A combattere tale carestia dedicò tutte le proprie energie: censì i depositi di grano, combatté le frodi e punì gli speculatori, reprimendo tra l'altro i tentativi di esportare nella vicina Repubblica veneta grandi quantità di cereale accumulato. Fissò poi un prezzo del grano e ne ordinò libere distribuzioni. Il suo operato fu molto apprezzato, dai più poveri in primo luogo.
Pure Benedetto si sforzò di pacificare la litigiosa nobiltà locale, invitandone a rotazione gli esponenti alla sua mensa, a gruppi di dodici, per obbligarli al dialogo. Rigorosa fu la sua opera nella difesa dell'ordine pubblico. Riformò il costume di eseguire in singole occasioni più sentenze capitali e dispose che esse venissero invece applicate singolarmente con cadenza settimanale, sì da ampliarne la esemplarità, e ciò avvenne per sette o nove settimane di seguito. Ma ancora, nel 1649 dispose l'utilizzo della tortura per accertare chi di due sbirri avesse sparato sulla barca dell'ambasciatore spagnolo a Venezia, che navigava sul Po, uccidendo un uomo (la disposizione sarebbe stata poi duramente criticata. Pio V, di cui si sollevò l'esempio, autorizzava la tortura non contro semplici imputati, ma solo contro rei confessi, per approfondire la verità: Romana Beatificationis [...]. Nova altera positio super virtutibus). Altro episodio clamoroso (e anche questo gli sarebbe poi costato diverse critiche nel corso del processo di canonizzazione) testimoniante il suo rigore - se non la sua rigidità - fu l'aver proibito il matrimonio di una donna ebrea erede unica di un ingente patrimonio: sua madre l'avrebbe voluta sposata con un ebreo di Mantova. Per impedire la fuoriuscita di capitali dalla città e dallo Stato Odescalchi arrivò a sottrarre la sposa alla potestà materna (A.S.V., Segr. Stato, Ferrara, 27, cc. 183, 213).
Nel marzo 1650 il segretario di Stato Giacomo Panciroli informò Benedetto della sua preconizzazione alla sede vescovile di Novara. Seguì la nomina, l'ordinazione sacerdotale nella cappella del palazzo arcivescovile ferrarese e infine, il 30 gennaio 1651, sempre in Ferrara, questa volta però in cattedrale, fu consacrato vescovo. Nel marzo di quell'anno giunse anche il "placet" spagnolo alla provvisione, ma Odescalchi dovette ancora attendere, prima di lasciare Ferrara, l'arrivo del suo successore nella Legazione Alderano Cibo. Quando gli fu possibile partire, nell'ottobre 1651, non raggiunse però ancora Novara ma Como, dove suo fratello Carlo si era unito in matrimonio a Beatrice Cusani. Qui si fermò qualche mese: finanziò parte della dipintura della cupola della cattedrale e ad essa donò arredi.
Solo il 2 febbraio 1652 entrò nella sede della sua diocesi. È difficile definire questa sua esperienza. Fu un vescovo onesto e rigoroso, ma non riuscì ad essere, anche al di là delle sue intenzioni, un vero pastore d'anime. Si comportò anzitutto da buon amministratore e non disdegnò atti di generosità. Sovvenne con un donativo lo smunto Monte di Pietà locale, ordinò che la Cancelleria spedisse gratuitamente ogni documento riferibile alla materia spirituale (attestazioni, esenzioni, privilegi, ecc.). Dispose poi l'adozione delle costituzioni sinodali di Carlo Borromeo; iniziò solo la visita della diocesi; si adoperò in alcune occasioni a contrastare interventi dei governatori spagnoli insidiosi per la giurisdizione ecclesiastica. Tentò poi di limitare i danni che le soldatesche iberiche di stanza nel territorio della diocesi, impegnate nel tentativo di sottrarre Casale ai Francesi, apportavano alla popolazione e a favore di questa elargì numerose donazioni.
Nel marzo 1654 lasciò la città per raggiungere Roma, con tutta probabilità per la visita "ad limina". A Novara non avrebbe fatto più ritorno. Presente in Roma nel Concistoro del 22 giugno, qui rimase bloccato prima dalla malattia del papa e poi dalla sua morte nel gennaio 1655. Nel conclave che seguì sostenne la candidatura vincente del Chigi e fu il nuovo pontefice, secondo alcune fonti, a volerlo tenere presso di sé. L'interessamento di Alessandro VII per Odescalchi è forse autentico, vero è però che il comasco, tornato a vivere nella sua residenza di palazzo Patrizi, iniziò a chiedere con insistenza di rinunciare il vescovato adducendo motivi di salute - l'aria di Novara gli avrebbe nuociuto - e pubblicizzando suoi problemi di coscienza nella collazione di benefici (sembra si fosse trovato in difficoltà dopo aver negato duecento benefici a pretendenti che reputava inadatti). Le fonti apologetiche, senza aggiungere altro, parlano di una sua libera rinuncia, nel 1656, al vescovato: in questo gli subentrò il fratello Giulio, che nel frattempo era entrato tra i Benedettini. È difficile se non impossibile però che queste complesse negoziazioni avvenissero per volontà della Provvidenza e senza un serrato negoziato tra gli interessati e tra questi e la Sede apostolica. È probabile che anche per questo la rinuncia alla sede novarese necessitò di tanto tempo per essere autorizzata e c'è pure da considerare che il rinunciante si riservò una pensione sulla mensa vescovile in pratica equivalente alla metà della rendita complessiva: 3.000 scudi annui sui 6-7.000 scudi che rendeva il vescovato. È effettivamente arduo accertare se la riserva dei frutti fosse solo tesa alla distribuzione di quel denaro tra i poveri: così sostennero con fermezza i suoi difensori, che pure testimoniarono come il pontefice Odescalchi, nel momento di spirare, avesse ordinato di donare ai poveri di Novara 10.000 scudi. Fatto è che la consuetudine che il rinunciante un beneficio si riservasse parte del frutto della mensa veniva allora da molti (giuristi, teologi) contestata, e che in molte occasioni (difficile però pensare in questa) dietro la riserva dei frutti si celavano pratiche simoniache. Fatto è, ancora, che se il vescovo dimissionario avesse voluto sostenere con quel denaro i poveri avrebbe anche solo potuto incaricare di ciò il fratello Giulio sulla base di una semplice, e diretta, raccomandazione a fare ciò in suo nome. Sembra perciò più legittimo pensare che Odescalchi con quella riserva pensasse in primo luogo a garantire il proprio sostentamento in Roma - ed in effetti tra i motivi che autorizzavano la concessione di pensioni sui benefici v'era proprio quello di retribuire in tal modo chi si trovasse ad operare in Curia (nel 1688, da papa, si autoridusse la pensione su Novara da 3.000 a 1.500 scudi: Romana Beatificationis [...]. Summarium, p. 636).
Gli agiografi, impegnati subito dopo la morte di Odescalchi a fornire le prove necessarie a farne procedere il processo di canonizzazione, trovarono imbarazzo nel trattare di questa pensione. M.G. Lippi, già nel 1691, sottolineò la finalità benefica di questa stessa ed affermò che di fatto Odescalchi dalla pensione non ebbe alcun vantaggio se non la successiva fatica a riscuoterla da chi gli successe alla guida della diocesi una volta spirato il fratello (p. 22). Lippi evidenziò anche, senza curarsi della contraddizione, come, nella politica beneficiaria svolta da vescovo di Novara, Odescalchi, consapevole dello scandalo costituito dal sistema delle pensioni e dagli abusi che ne derivavano, conferì "senza alcun peso" i benefici della cui distribuzione ebbe cura (p. 19). L'interpretazione dell'agiografo appare inevitabilmente benevola e un po' forzata. Non c'è tuttavia da stupirsi nel constatare che Odescalchi dovette maturare gradatamente le proprie posizioni nei riguardi di talune delicate materie, in primo luogo quelle relative ai benefici ecclesiastici. Non si spiegherebbe altrimenti la richiesta, da lui avanzata in Segreteria di Stato il 25 novembre 1648, tesa a garantire la collazione di due benefici del valore di 300 scudi nella diocesi di Como a favore di "un mio fratello o nipote" (A.S.V., Segr. Stato, Ferrara, 24, c. 636; ibid., c. 700, con data 28 dicembre 1648, i ringraziamenti per la grazia che premiò il fratello Giulio). Ancora, non si spiegherebbero le richieste che avanzò, sempre negli anni della Legazione ferrarese, per ricevere altri benefici o pensioni (una commenda e una prepositura nel Comasco, la pensione di 400 scudi su Molfetta, ecc.: v. ibid., 25, cc. 83, 126, 136, 338; 17, c. 136). Odescalchi si comportò così come tutti in quel tempo. Certamente agì meglio di tanti altri e senza dubbio "negoziò" con misura e discrezione gli avanzamenti per sé e i suoi. Operava però in un sistema consolidato alle cui regole non avrebbe potuto pensare di sottrarsi. Gli ecclesiastici vivevano di rendite beneficiarie, di pensioni, di retribuzioni da uffici spesso costituite (almeno in parte) dagli interessi maturati sulle somme investite per acquisirli. Queste erano le regole e queste, o almeno talune di esse, Odescalchi, una volta divenuto pontefice, tentò di mutare. Da semplice ecclesiastico, o anche da cardinale, il comasco non poteva pensare di potersi tenere lontano da tutto ciò che consentiva, nel bene e nel male, alla Chiesa e ai suoi uomini di vivere e proseguire nella propria missione. Odescalchi cercò dunque di procurarsi uffici, benefici e pensioni per sé ed i suoi. Lo fece con discrezione, ma lo fece. Poi cercò, quando poté, di correggere il sistema.
Nell'aprile del 1656 Odescalchi, invitato con altri porporati ad esprimersi sull'opportunità che il papa potesse chiamare presso di sé i propri parenti e sull'entità delle risorse da destinare al proposito, rispose che la qualità degli uomini di casa Chigi autorizzava qualsiasi chiamata; quanto al denaro da impiegare, affermò di confidare nella prudenza di Alessandro VII (B.A.V., Chigi C.III.70, cc. 79r-v, 153r-v). In quello stesso anno, di fronte all'epidemia di peste scoppiata in Roma, ancora si premurò, come già aveva fatto in passato, lasciando la città e rifugiandosi per dieci mesi a Capranica e nel Cimino (per quanto invece Lippi e Pastor lo diano sempre presente in Roma). La prima traccia del suo ritorno data al luglio 1657 quando lo si ritrova impegnato in una riunione della Congregazione delle acque. In quel tempo pure partecipava alle Congregazioni del Buon Governo, della Riforma tridentina e della Consulta. Nel gennaio 1660 fu eletto camerario del Sacro Collegio, incarico da cui si dimise l'anno successivo (Romana Beatificationis [...]. Summarium, p. 663).
In questi anni di attività curiale Odescalchi continuò a distinguersi per austerità di costumi, parsimonia (pare indossasse sempre i medesimi abiti) e per gli atti di liberalità verso gli indigenti: aiutò tra l'altro l'ospizio di S. Galla fondato dal suo parente Tommaso Odescalchi per assistere i pellegrini tedeschi e fu in questo tempo protettore della chiesa di S. Maria dei Monti e dell'annesso Ospizio dei Catecumeni e Neofiti. Sostenne anche, nel medesimo periodo, con donativi i nobili polacchi impegnati a contrastare la violenta offensiva turca. Nella chiesa del Gesù, prossima alla sua abitazione, frequentava ogni venerdì la devozione della buona morte.
Nel 1666 morì il fratello Giulio. Ne avrebbe desiderato la canonizzazione a santo e ne avviò il processo che si interruppe però (per motivi di opportunità) quando fu elevato al pontificato. Nel 1673 moriva anche il fratello Carlo e Benedetto diveniva con ciò tutore dei di lui figli Livio (nato nel 1658), che fece venire in Roma e che mandò a studiare dai Gesuiti, e Giovanna Maria (nata nel 1656), che sposò poi Carlo Borromeo Arese. In quegli anni si avvicinò alla fazione cardinalizia dello "squadrone volante": il gruppo di porporati che, guidati saldamente da P. Ottoboni e D. Azzolini, sosteneva una posizione d'equidistanza per la Santa Sede dalle due grandi potenze europee, Francia e Spagna. Lo "squadrone" fu determinante nell'elezione di Clemente IX, anche se il suo predominante ruolo negli equilibri curiali parve sfumare già poco dopo questo successo. Nel conclave che solo due anni più tardi portò Clemente X al papato, Odescalchi sembrò per un po' un candidato credibile, ma lui stesso, a quanto pare, invitò i suoi sostenitori a non insistere oltre. Determinante fu però anche il veto francese nei suoi confronti, veto che sembra difficile fosse solo motivato ad impedire il successo di un suddito spagnolo (così G.V. Signorotto, Lo 'squadrone volante', p. 127), visto che il successo di Emilio Altieri fu un successo proprio della fazione di Spagna.
Nel 1676, morto papa Altieri, il conclave, riunitosi agli inizi di agosto, era più che mai frammentato. Di sessantasette porporati solo quarantaquattro furono dal principio a Roma. V'erano ancora sette cardinali creati da Urbano VIII, e fazioni cardinalizie legate agli altri quattro pontefici che erano seguiti al Barberini. Ai tradizionali partiti francese - intenzionato ad impedire il riverificarsi dell'insuccesso costituito dall'elezione di Clemente X -, e spagnolo, si aggiungevano i resti dello "squadrone volante": tre soli, eppure influenti, porporati (Azzolini, Ottoboni, Omodei). Nello scontro tra i sostenitori della posizione francese, che avversavano ogni mossa dell'Altieri, molti impegni di fedeltà vennero meno. Si giunse così ad uno stallo, caratterizzato dai continui veti francesi e dalla polverizzazione della fazione del pontefice appena defunto. Dopo cinquanta giorni di assise, e dopo la caduta di una ventina di papabili, ad assumere l'iniziativa vincente fu proprio il cardinal Altieri che riscosse consensi sul nome di Odescalchi. Dapprima trovò l'appoggio del cardinale G.E. Nidhard, capo della fazione spagnola, poi verificò come quel nome non generasse ostilità nella fazione di Francia. I porporati che si riconoscevano in essa accettavano in linea di principio la candidatura Odescalchi, ma non potevano tollerare che a proporla fosse Altieri, nemico dichiarato del sovrano transalpino. A partire dalla metà d'agosto si cominciò a ballottare Odescalchi sul quale presero via via a convergere i voti dei cardinali Barberini, Chigi e Rospigliosi e di quanto ormai rimaneva dello "squadrone volante". L'arrivo in conclave, il 30 di quel mese, dei cardinali "di Francia" Retz, Bouillon, Bonsi e Maidalchini, non sembrò ancora poter sbloccare definitivamente la situazione, la quale dipendeva peraltro dalla risposta che sulla candidatura del comasco si attendeva da Luigi XIV cui il cardinal d'Estrées il 22 agosto aveva richiesto il parere determinante (alla richiesta in tal senso del porporato francese si erano aggiunte quelle, di natura analoga, di Chigi e Rospigliosi che presentarono abilmente Odescalchi come una vittima delle manovre di Altieri). La risposta di Luigi XIV sbloccò la situazione: autorizzava l'elezione di Odescalchi a patto che essa venisse attuata in forme che non ledessero la sua regia dignità (che non la facessero dunque apparire come una netta vittoria della fazione spagnola o del cardinal Altieri). Il 21 settembre Odescalchi venne eletto e prese il nome d'Innocenzo XI in omaggio al papa Pamphili che aveva favorito la sua carriera e lo aveva onorato della porpora.
Il designato pose subito una condizione: tutti i cardinali dovevano nuovamente sottoscrivere e giurare i quattordici articoli della capitolazione elettorale che si erano già impegnati pro forma (v'era il fortissimo dubbio, insieme teologico e giuridico, che un impegno sottoscritto prima della nomina potesse effettivamente vincolare un pontefice eletto) ad osservare in una precedente fase del medesimo conclave. Di quella capitolazione era autore lo stesso Odescalchi e su quegli articoli si erano già impegnati i porporati nel corso del conclave che aveva portato all'elezione di Clemente X.
La capitolazione conteneva, di fatto, il programma di governo di Innocenzo XI. Il papa eletto avrebbe dovuto curare, "per quanto sarà possibile" di sradicare "tutti quei vizii li quali per la frequenza e pubblicità cagionano grandissimo scandalo anco nelle Nazioni straniere"; avrebbe poi dovuto ascoltare i consigli del cardinale decano e degli altri porporati nelle questioni riguardanti la Chiesa, lo Stato ecclesiastico, la Camera apostolica, e si sarebbe impegnato a mantenere il decoro dei componenti del Sacro Collegio (B.A.V., Barb. lat. 4664, cc. 77 ss.; F. De Bojani, Innocent XI, I, pp. 31-7). Il pontefice avrebbe dovuto servirsi del denaro proveniente dalla vendita di uffici solo per sanare il debito pubblico; i suoi parenti non avrebbero avuto alcuna possibilità di mettere voce in materia di appalti camerali o simili. Altri articoli della capitolazione erano dedicati al necessario rilancio delle Congregazioni del Sant'Uffizio e "de Propaganda Fide", alla disciplina del clero e alla più severa selezione di vescovi e parroci, alle riforme giuridiche e amministrative - in specie in materia di imposte e monopoli - che si riteneva indispensabile promuovere.
Veniva eletto un papa giovane, rigoroso, che era rimasto sostanzialmente estraneo ai giochi di fazioni che animavano sempre la vita della Corte, un uomo che aveva dato ottime prove delle proprie capacità amministrative nei precedenti incarichi. A differenza di molti dei suoi più immediati predecessori, non aveva mai ricoperto incarichi di nunzio e non si era mai allontanato dalla penisola italiana. Le cerimonie di nomina furono assai modeste: quella dell'incoronazione, il 4 ottobre, quella della presa di possesso del Laterano l'8 novembre 1676. I. occupò la più mediocre delle residenze disponibili all'interno del palazzo del Quirinale e non attribuì alcun ruolo né rendita ecclesiastica al nipote Livio, cui però cedette al momento della propria esaltazione al papato tutti i beni patrimoniali che facevano parte dell'asse ereditario Odescalchi. Ciò nonostante, il fatto che Livio (che chiese invano di ottenere la porpora) non venisse in altro modo premiato in seguito all'elevazione dello zio garantì al nome del nipote del papa un valore proverbiale di emarginazione e disgrazia.
I. non andò in nessuna occasione a Castel Gandolfo, e neppure scese mai nei giardini del Quirinale o del Vaticano. La sua mensa era modestissima (per la colazione spendeva 2 giulii al giorno e per il pranzo un grosso: Romana Beatificationis [...]. Summarium, pp. 740 ss.) e così pure il suo abbigliamento poteva risultare addirittura trasandato. Alto un po' più della media, magro, con un naso adunco e il mento sporgente, già nei suoi primi atti di governo sconcertò l'apparato curiale, mai troppo desideroso di novità. Pure allarmò la Curia una sorta di "obnubilamento della coscienza", così viene descritto negli atti del suo processo di canonizzazione, che lo prese nei primi sei mesi di regno: una totale inazione che i più benevoli nei suoi confronti, il cardinale Gregorio Barbarigo, ad esempio, interpretarono come desiderio di informarsi bene di tutto prima di assumere decisioni.
Al di là della sua totale austerità, I. non governò secondo lo stile tradizionale. Accentrò su di sé e su pochissimi collaboratori dal ruolo non sempre precisamente definito ogni incombenza e si sottrasse all'influenza della struttura di Corte. Lo assisteva da presso il segretario delle Lettere cifrate Agostino Favoriti, suo antico sodale, e che fu fino alla morte, nel 1682, il principale dei suoi collaboratori. A questi sarebbe succeduto, con gli stessi ampi compiti e la medesima strettissima vicinanza al papa, il cugino Lorenzo Casoni. Gli era poi accanto un "triumvirato" formato dal segretario dei Memoriali Giovan Battista de Luca (che entrò però presto in urto col Favoriti), dal segretario dei Brevi Johan Walter Slusius e dal segretario di Stato Alderano Cibo, il cui ruolo non parve però essere mai molto considerato (Cibo era tra l'altro beneficiario di una ricca pensione pagatagli dal re di Francia). Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova, ebbe, nei primi anni di pontificato, un importante ruolo di consigliere e altri suoi vicinissimi collaboratori in quel periodo furono l'oratoriano Mariano Sozzini, che tanta parte ebbe nell'ispirare propositi di riforma generale; Ludovico Marracci, suo confessore e consigliere; Sante Fiamma, suo aiutante di camera dal 1651; il procuratore generale dei Carmelitani Scalzi padre Carlo Felice da Santa Teresa; Giuseppe Tiberio Quadri, suo cerusico e barbiere e poi aiutante di camera; Camillo Muggiaschi, coppiere e poi maestro di camera; Carlo Antonio Prosperi, altro aiutante di camera, fin dal 1656. Ma si potrebbero ancora nominare Francesco Liberati, sottodatario, datario e poi segretario dei Memoriali, il suo medico, il celebre Giovanni Maria Lancisi o il parente Carlo Tommaso Odescalchi, che fu suo cameriere segreto. Attorniato da questa cerchia di uomini di fiducia, il papa, spesso bloccato da indisposizioni fisiche: mal di reni, podagra..., evitava il più possibile di mostrarsi in pubblico. Ciò creò intorno a lui un'aura di mistero e una gran varietà di interpretazioni sul modello del suo governo: per alcuni egli era quasi succube dei propri ministri, per altri, ad esempio per il cardinale Ottoboni, i suoi principali consulenti, e nominava Favoriti, Cibo e de Luca, oltre ad essere in totale disaccordo tra loro non erano reputati dal papa degni d'alcun credito e non osavano far nulla per paura d'essere ripresi da I. (B.A.V., Ottob. lat. 3281, cc. 151v, 176).
La sua attività si snodò su tre principali direttrici. Il risanamento dello Stato, che sembrava avviato verso la bancarotta; il disciplinamento della Curia e la soppressione degli abusi che con più o meno evidenza turbavano l'esistenza della Chiesa romana; i problemi proposti dalla scena internazionale, in primo luogo dall'offensiva turca e dalla politica aggressiva di Luigi XIV.
Il primo impegno, risollevare la critica situazione delle finanze pontificie, fu quello che gli assicurò le maggiori e più rapide soddisfazioni. La situazione era drammatica. Agli inizi del pontificato, nel 1677 (B.A.V., Vat. lat. 10961, cc. 145-46), le entrate camerali "certe", ossia stabili, e derivate dai tesorieri delle Province, appaltatori, affittuari, censi "che si paga[va]no nel giorno di S. Pietro", ammontavano a 2.289.804 scudi. Quelle "incerte", consistenti "in quel che si cava[va] dalla Dataria e dal frutto di spogli", equivalevano a 178.696 scudi. Il tutto assicurava entrate di poco inferiori ai 2 milioni e mezzo di scudi. Le uscite: quelle "certe" (ossia le somme che la Camera apostolica devolveva "per l'interessi che si paga[va]no alli Monti et Offizii", superiori al milione e mezzo di scudi annui); e quelle "incerte" (le spese di mantenimento delle soldatesche presenti in Palazzo, o altre "provisioni") venivano stimate in 2.582.296 scudi. Il disavanzo annuale era dunque di fatto contenuto, ma il vero problema era costituito dal debito complessivo dello Stato il cui ammontare era superiore ai 50.000.000 di scudi.
I. intervenne con decisione nel ridimensionare le spese. Passava le giornate a far conti, cercando di tagliare il possibile: risparmiò migliaia di scudi solo eliminando la distribuzione gratuita di medaglie pontificie. Il vantaggio che assicurò alla Camera apostolica sopprimendo - sia pur di fatto temporaneamente, perché il successore Alessandro VIII le avrebbe poi restaurate - le cariche che erano solite essere conferite ai congiunti del sovrano, o che venivano da questi stessi conferite ad altri a proprio arbitrio, fu stimato in 100.000 e più scudi. Tanto comportava remunerare il legato d'Avignone, 6.072 scudi; il sovrintendente dello Stato ecclesiastico, 4.140 scudi (ruoli questi che vennero però non eliminati, bensì attribuiti al segretario di Stato Cibo senza alcun stipendio); il generale di Santa Romana Chiesa, 13.725 scudi; il generale delle galere, 7.490 scudi; il castellano di Castel S. Angelo, 1.811:40 scudi; il luogotenente delle galere, 2.481 scudi; il capitano generale dell'una e dell'altra guardia, 3.600 scudi; il luogotenente delle due guardie, 2.160 scudi; il governatore di Benevento, 4.200 scudi; il maestro di campo generale delle soldatesche, 4.100 scudi; il castellano d'Ancona, 3.904 scudi; il castellano di Perugia, 312 scudi; il castellano di Ascoli, 300 scudi. Ai risparmi conseguiti intervenendo su queste cariche politico-militari si aggiunsero quelli ottenuti operando con la "riforma della compagnia di cavalli" (9.000 scudi) e agendo sulle parti di pane, vino, cera e sul mantenimento della stalla a beneficio dei parenti del papa (19.539:72 scudi); sulla spesa per i medicinali sempre per quelli stessi (3.000 scudi); sui banchetti non più pagati al cardinal nipote (5.000 scudi). Ancora, andavano considerate nel conto le somme risparmiate riformando le soldatesche romagnole e marchigiane (3.000 scudi) o tagliando i finanziamenti alla flotta delle galere (10.000 scudi) (B.A.V., Vat. lat. 10320, cc. 28 ss., 41 ss., 45-6, e Vat. lat. 10961, cc. 145 ss.). La sua costante opera di tagli, controlli, ridimensionamenti, eliminazione di privilegi e di franchigie gli consentì, già nel febbraio 1679, di dichiarare d'aver raggiunto l'equilibrio nel bilancio e la cancellazione del 10% del debito.
Nel campo della riforma dello Stato, già nel 1676 I. tentò di rivitalizzare la Congregazione per la riforma dei tribunali, all'interno della quale brillava il talento di G.B. de Luca. L'attività della Congregazione portò alla promulgazione di svariati decreti che regolavano delicate materie giurisdizionali e le competenze dei pubblici ufficiali. Le norme riguardavano la città di Roma e, nel caso delle norme per creare i notai, esse venivano estese a tutto lo Stato pontificio. Animava l'attività dell'ufficio un progetto riformatore assai ambizioso che avrebbe dovuto garantire l'elaborazione di un "unico e uniforme diritto pontificio valido in tutti i territori" dello Stato (C. Donati, "Ad radicitus submovendum", p. 172). Fu per questo che i lavori della Congregazione sollevarono resistenze e obiezioni, e si bloccarono, nel gennaio 1680, di fronte alla proposta che avanzò de Luca di estendere la costituzione egidiana alle persone e cose ecclesiastiche (ibid.).
Gli interventi del pontefice misero a dura prova la Corte. Nel 1679 I. dispose la soppressione del Collegio dei segretari apostolici, ma il Collegio poté essere effettivamente eliminato solo nel 1680 quando furono stabiliti i risarcimenti per chi si era visto privato dell'ufficio venale. Nel 1679, il cardinale Ottoboni informò il Senato veneto come il papa avesse bruscamente rimosso taluni alti prelati, "onde tutti quegli Ministri [di Corte], vedendo queste mutazioni, stanno impauriti credendo che il papa voglia farne dell'altre" (B.A.V., Ottob. lat. 3281, c. 93r-v).
Anche in città, l'entusiasmo che aveva accompagnato la sua elezione svanì presto. La realtà sociale ed economica di Roma sembrava ai più inevitabilmente compromessa a causa degli interventi pontifici. Sono numerose le testimonianze che danno conto di ciò. In tutte queste si denunciava la situazione di una città in cui i poveri erano aumentati di numero, e così i mendicanti e i ladri. Molte famiglie "civili" si trovavano in grave difficoltà per la crisi delle attività commerciali dovuta alla penuria di moneta circolante. Inoltre la mancanza di corti cardinalizie degne del nome, oppure la "strettezza" cui esse erano condannate a causa delle disposizioni pontificie, rendeva per di più mendici molti ex cortigiani. Una delle colpe maggiori che veniva addebitata ad I. era proprio quella di avere depresso il mondo della prelatura. Aveva ridotto i posti disponibili, e "dalle molte e lucrose cariche indisposte e suppresse si vede derivarne considerabili incommodi a numerose famiglie"; aveva soprattutto fortemente limitato le possibilità d'avanzamento nella carriera. Dalle riforme del papa, che pure erano ispirate a giusti principi, erano insomma "seguiti gran danni" (B.A.V., Vat. lat. 10850, cc. 31-6).
Pure scontentissimi sembravano i cardinali, che erano stati esclusi da ogni responsabilità di governo e le cui risoluzioni, espresse in sede di Congregazioni, sembravano non venir mai prese in considerazione. Ancora, i ricchi non godevano più della "munificenza" pontificia, i poveri erano disperati. Secondo alcuni il papa (si fa qui riferimento ad una scrittura anonima del tempo - ibid., cc. 39-42v - che pare esprimere con efficacia i sentimenti diffusi nel livello più alto della popolazione e che pure affianca all'analisi qualche proposta di soluzione) avrebbe dovuto cercare di rivitalizzare l'economia e soprattutto pensare a risollevare l'agricoltura incentivandone la ripresa di produttività, "sicuro di ritrarre da essa un beneficio pubblico assai più che da mille riforme con incommodo de' particolari". Anzitutto occorreva favorire il ritorno dei cardinali in città. Andava poi anche ripensata con realismo la politica degli uffici venali: "quelle considerabili rendite vacanti che possono essere destinate a promovendi, si diffonderebbono in publico benefitio ove così conservate sono più soggette alla deterioratione che alla beneficenza". Il papa doveva insomma far circolare il denaro e rivitalizzare così una società prostrata; doveva soprattutto separare la sua sovranità spirituale da quella temporale e questa doveva essere improntata alla ricerca di un benessere materiale per i sudditi. Il moralismo di I. sembrava invece incapace di distinguere ciò che era eticamente giusto da ciò che si poteva rendere utile al bene comune. "Il Principato [si diceva nella scrittura citata] deve havere un'economia diversa da quella delle case private": la via del risparmio minuto, della moderazione, non poteva garantire allo Stato nessun vantaggio e solo assicurare la permanenza nella povertà di ampi settori della società già deboli e determinare la pauperizzazione di categorie un tempo protette e privilegiate. Non andavano insomma perseguite politiche di riforma che non redistribuissero alcun utile ai sudditi.
Giudizi, insomma, severi, e neppure del tutto giustificati. I. ad esempio non aggravò il carico fiscale sui sudditi laici (tassò invece i beni ecclesiastici per finanziare la guerra al Turco), e i suoi interventi in materia di rifornimento granario e panificazione assicurarono sempre alla città il fabbisogno indispensabile per la sopravvivenza e a prezzi bassi. Pure I. operò per gli indebitatissimi Comuni dello Stato: anticipò loro quanto necessario per estinguere le loro pendenze, creando a tal fine un apposito Monte, che riscosse poi i suoi crediti all'interesse favorevolissimo del 3%. Durante il suo pontificato, però, in Curia, ma sarebbe meglio usare ora la più allargata nozione di Corte, circolò meno denaro e ciò bastò a deprimere ampi settori della città.
Ai provvedimenti restrittivi adottati in campo economico se ne affiancarono altri, di natura moralizzatrice. Se pure non smise mai di favorire opere di carità, I. s'impegnò fortemente in una lotta senza quartiere al lusso e agli eccessivi consumi. Cercò d'opporsi alla diffusione della moda francese che spingeva le donne a lasciare il collo e le braccia nude, e negò la comunione a coloro che non fossero vestite decorosamente (dispose pure venisse più convenientemente abbigliata, con qualche nuovo colpo di pennello, la Madonna di Guido Reni custodita al Quirinale). Pure cercò di limitare la diffusione del gioco, di controllare, se non reprimere, le rappresentazioni teatrali (anche quelle del tutto innocue che si tenevano nei Seminari); e vietò nel 1686 che le donne apprendessero la musica da insegnanti uomini. Nel 1684, 1688, 1689 vietò del tutto il carnevale, e negli altri anni cercò comunque di contenerlo. Abolì la tradizionale regata sul Tevere nel giorno di s. Rocco devolvendo la cifra che per essa si spendeva ad un orfanatrofio. Anche nei confronti dei cardinali fu intransigente. Accertati loro comportamenti non consoni interveniva senza esitazioni: il cardinal Ludovisi accettò gli avvertimenti papali, non Maidalchini, cui furono espressamente proibiti gli incontri con donne (L. von Pastor, p. 302).
I. dedicò pure scarsa attenzione allo sviluppo urbanistico della città e al suo abbellimento. Parve solo appassionarsi al proseguimento dei lavori di completamento di Montecitorio. Le imprese più importanti che vennero portate a termine nei suoi anni (la chiusura dei cantieri di S. Andrea al Quirinale e di S. Maria in Montesanto, la decorazione del Gesù e di S. Carlo al Corso), lo furono senza suo intervento o partecipazione. Se da cardinale aveva disposto interventi in SS. Cosma e Damiano e in S. Maria dei Monti, da pontefice solo operò per proteggere gli affreschi di Raffaello in Vaticano o per altri minori interventi quali i restauri delle fontane di S. Maria Maggiore o di piazza Madonna dei Monti. Incaricò il Fontana di verificare la stabilità della cupola di S. Pietro, che qualcuno poneva in discussione, e bloccò i progetti di questo e di altri tesi al prolungamento del colonnato berniniano. Per esemplificare quali fossero le sue priorità, basterà notare la sua decisione di trasformare il Laterano in un ospizio per poveri.
Non può quindi stupire - a fronte di tutti questi interventi di risanamento e di moralizzazione - che la città di Roma esercitasse una minore capacità d'attrazione e che la popolazione cittadina diminuisse lievemente di numero, negli anni del suo pontificato: da poco più di 127.000 abitanti nel 1676, i Romani scesero a quasi 120.000 nel 1681 e poi lentamente riarrivarono a 126.000 nel 1689 (ibid., p. 24).
Assolutamente coerente con il complesso della sua attività di risanamento economico (e non solo) fu il tentativo d'abolire la prassi nepotista. Nel 1679 I. presentò così al Collegio dei cardinali la bozza di una bolla in tal senso.
La Minuta overo abbozzo steso da Mons. Pilastri [...] della Bolla che si pensa di provedere all'indennità della Sede Apostolica che si comunica al Sacro Collegio acciò che ciascheduno dell'Em. Sig. Cardinali insinui e suggerisca quello gli paia doversi aggiungere o sminuire o vero in altro modo concepire o vero accomodare [...] (B.A.V., Vat. lat. 10961, cc. 135-39) era assai di più che una bozza contro la sola prassi nepotista. Il progetto di I. era infatti molto più ampio e tale da comportare un profondo cambiamento nei costumi generali della Curia e nella stessa concezione dell'autorità papale. Nel "Proemio" si faceva forte richiamo al deliberato tridentino (cap. VIII, sess. 25) che inibiva la possibilità per gli ecclesiastici di arricchire con le rendite da servizio ("tam secularia quam regularia") i propri consanguinei. Nel capitolo I, il pontefice si impegnava, appunto, a rispettare quella "disciplinam a Patribus constituta"; nel II, specificava invece che ciò doveva costituire un obbligo anche per chi gli fosse succeduto sul trono di Pietro e I. giustificava la posizione denunciando le angustie in cui versava il pubblico erario. Nel capitolo III si proibiva ai papi di attribuire ai nipoti (naturali o adottati) alcun ufficio o rendita spettante alla Camera apostolica; nel IV si raccomandava di rispettare criteri di "giustizia distributiva", ovvero di non eccedere, quando i papi conferivano rendite ai loro parenti ecclesiastici: le entrate beneficiarie di questi dovevano poi essere rigorosamente corrispondenti al loro merito e dignità effettivi. I congiunti poveri del papa, di cui si trattava nel capitolo V, potevano essere aiutati: ma ciò doveva essere fatto con "timorata" coscienza e senza distrarre pubbliche risorse. Se un pontefice (cap. VI) avesse però trovato eccessive le donazioni fatte ai parenti dal predecessore, avrebbe potuto intervenire, levando il troppo a suo arbitrio e anche infliggendo non precisate pene ai colpevoli. Nel capitolo VII, il papa, aderendo alla capitolazione sottoscritta dai porporati nel corso del conclave e ad un decreto approvato dal Concistoro il 26 dicembre 1676, aboliva il Generalato della Chiesa e le provvisioni del legato di Avignone, del sovrintendente dello Stato ecclesiastico e del governatore di Benevento. Sopprimeva per di più tutte le cariche militari che non si fossero rivelate necessarie tra quelle che venivano di norma riservate a parenti del papa o che erano in ogni caso nella libera disponibilità di costoro. I cardinali (cap. VIII) sarebbero stati sempre tenuti a rispettare la bolla, avrebbero dovuto impedire qualsiasi eventuale tentativo di un pontefice di aggirarla, e a nessuno doveva essere concessa l'assoluzione dopo aver infranto il giuramento che aveva prestato su di essa. Durante la sede vacante e nel conclave (cap. IX) il papa prescriveva figurassero sempre in evidenza questa bolla, nonché quella di Pio V che proibiva le infeudazioni a favore dei consanguinei e l'atto con cui Sisto V aveva proibito di intaccare le risorse conservate in Castel S. Angelo.
Come si può constatare, il progetto presentato ai porporati aveva contenuti assai forti. Pur di sconfiggere la piaga del nepotismo il pontefice arrivava ad immaginare limitazioni sostanziali alla propria sfera di sovranità e pure a prevedere di limitare quella di coloro che gli fossero succeduti nel vertice assoluto della Chiesa. Che un papa si risolvesse a ciò e che pure si sottoponesse con tanta decisione all'autorità dei concili destò certo stupore e sconcerto. E se qualcuno criticò il progetto per difendere interessi personali, in altri la reazione contraria alla bolla fu determinata dal timore delle conseguenze di una tale rivoluzione - perché di questo effettivamente si trattava più che di una riforma - sul cammino della Chiesa romana.
Ad esprimere il parere contrario più significativo fu il cardinale D. Azzolini. Il nepotismo, sosteneva, era un gran male, ma abolirlo poteva rivelarsi rischioso. Il pericolo era quello di ripetere l'esempio negativo costituito dalla bolla di Pio V Admonet nos: "il serrar quella piaga [le infeudazioni in favore dei parenti del papa] fu aprirne un'altra peggiore ch'è stata quella che hora si piange d'impinguare il nipote col sangue de' sudditi e render perpetui e insoffribili i pesi loro". Occorreva così riuscire ad "impinguar il nipote" e farlo limitando gli scandali, e le pratiche conseguenze negative per la Chiesa e per lo Stato. In primo luogo andava impedito che il nipote accettasse donativi dall'esterno e si riducesse a "vendere a Principi et a Privati le cariche, gl'onori, gl'indulti e tutto ciò che per utilità d'altri può derivare dall'autorità del Pontefice". Il problema, per di più, neppure sembrava riguardare solo i nipoti. Anche i papi avrebbero potuto trovarsi tragicamente condizionati dall'esigenza di "impinguare" i consanguinei. Chiudendo drasticamente col nepotismo, infatti, si rischiava di "finire di sterminare lo Stato ecclesiastico perché per havere cento per la sua casa dovrà il Pontefice ad un Prencipe mille e diece milla dove hora per dar cento per sé non ha bisogno che levar cento alla Camera". Azzolini faceva previsioni apocalittiche: abolito il nepotismo, il cardinal nipote si sarebbe venduto ai potentati stranieri e tutti i conclavi sarebbero risultati da ciò malamente influenzati. La Sede apostolica avrebbe potuto all'improvviso prendere a interessarsi "in Guerre e Leghe con Principi per acquistar da loro ricompense di danari, d'entrate, de' feudi e Stati". Una sola occasione in cui una situazione del genere si fosse presentata, avrebbe potuto recare più danni "che è tutto lo sconcerto presente". I parenti del papa, infatti, una volta coscienti che l'unico modo di avanzare sarebbe stato quello di vendersi a potentati stranieri avrebbero fatto sì che Roma sarebbe divenuta "tutta d'altri". Anche il Sacro Collegio non avrebbe esitato un istante a vendersi al migliore offerente. Con ciò si sarebbe rischiato anzitutto l'elezione di un papa "ultramontano" e allora la Chiesa si sarebbe ridotta in uno stato servile "e subordinato ad un re". Non che queste previsioni, diceva il cardinale, dovessero tutte per forza avverarsi: occorreva però valutare se non fosse più opportuno astenersi da un provvedimento da cui anche per sola ipotesi sarebbe potuto scaturire tutto ciò. Lui rimedi proprio non sapeva indicarne. Era però certo che non si dovesse ricorrere ad una bolla, ma che fosse semmai opportuno formare un "esempio" e fissare una "misura conveniente" per attribuire ai nipoti uffici e entrate secondo il giusto, sì da saziare i loro bisogni e non esporli alle manovre dei principi stranieri. A ciascun parente si sarebbe così potuto corrispondere annualmente almeno 20.000 scudi; solo dopo un paio di anni un parente avrebbe potuto assumere gli ordini sacri e divenire cardinale e in questa condizione venire a godere di altri 20.000 e più scudi da entrate beneficiarie.
L'intervento di Azzolini - realistico, se non cinico - fu considerato il più importante dei pareri raccolti anche in una altrettanto elaborata Relatione et esame de' voti del Sagro Collegio sopra la Bolla (B.A.V., Vat. lat. 10961, cc. 73-90v). La scrittura non è firmata, ma per qualità dei contenuti, per il piglio sicuro che la caratterizza, fu sicuramente redatta da uno dei principali collaboratori del papa: costituisce una fonte essenziale per comprendere qualcosa dell'ideologia e dell'indole di un ristretto gruppo di uomini che si riconosceva in I. e che cercò con coraggio, e anche una certa ingenuità, di rivoluzionare senza gradualismi la Curia e di correggere definitivamente il corso della Chiesa. L'estensore sintetizzava le obiezioni in sei punti: I) se fosse necessario l'appello all'autorità dei concili che si faceva nel proemio della bozza; II) se risultasse opportuna la pubblica denuncia dello stato catastrofico della finanza pubblica; III) se valesse davvero la pena sopprimere le cariche militari dello Stato pontificio; IV) quante rendite ecclesiastiche fosse lecito attribuire ai parenti del papa; V) a quanto potessero ammontare le sovvenzioni per i parenti bisognosi; VI) se fosse opportuno che un pontefice verificasse l'operato del predecessore su tali materie.
Quanto al punto I, erano pochi coloro che approvavano l'appello al concilio. Ciò avrebbe offerto il destro non solo agli eretici, ma anche ai cattolici e specialmente agli oltramontani di sostenere con maggior vigore la loro convinzione sulla superiorità dei concili generali sul papa. C'erano pure dubbi sulla fondatezza giuridica della posizione: nelle deliberazioni tridentine, infatti, si parlava di limiti posti a titolari ordinari di benefici, vescovi e cardinali, non al papa. Solo il concilio di Basilea si era espresso per correggere l'operato dei pontefici quanto ai benefici e la bolla sarebbe andata così a canonizzare una contestata deliberazione di una contestata assise. Il fatto poi che nella deliberazione tridentina non fossero state prescritte sanzioni per gli inosservanti faceva pensare i più che quella disposizione fosse "più tosto ammonitiva e consultiva" che vincolante: approvando la bolla che disciplinava, limitandolo, l'operato del papa, si rischiava di accordare al sovrano meno possibilità di quelle di cui godevano tutti gli altri ecclesiastici. L'autore della relazione superava con sicurezza le obiezioni: tutti i sovrani, diceva, erano sciolti dall'obbligo di osservare le leggi, e queste valevano solo per i sudditi, e tuttavia lo stesso principe doveva "secondo quelle vivere" (pur potendo sempre con ogni diritto derogarvi per garantire il rispetto dell'armonia e degli equilibri generali). Il sovrano non ledeva quindi affatto la propria sfera di sovranità quando si abbassava a condividere le norme che regolavano l'esistenza dei sudditi.
Sul punto II, contestato da tanti, se convenisse "discreditarsi col palesare le poche forze", ovvero le scarse sostanze pubbliche, si affermava con decisione che la Chiesa "non si [aveva] da regolare con la politica e con le false apparenze de' Prencipi secolari ordinate all'ingannare". Il Bollario era poi pieno di esagerazioni del genere, ed era in fondo positivo che si sapesse che erano "ideali e fantastici i magnificati tesori della Dataria e Cancelleria Apostolica". Qualcuno aveva anche espresso il dubbio che una volta risanate le finanze statali si potesse sostenere l'inopportunità di questo provvedimento antinepotista, ma ciò, diceva il relatore, non poteva essere giustificato in alcun modo.
Quasi unanimi erano i dubbi relativi alla soppressione del Generalato della Chiesa e degli altri ruoli militari (punto III). Chi avrebbe assicurato il comando delle truppe?, dicevano. Era meglio avere meno soldati con un capo, che tenerne molti senza guida, concludevano quasi unanimemente i cardinali. Lo scrivente concordava stavolta con le critiche, ma i ruoli, specificava, non dovevano essere attribuiti agli inesperti e occorreva inoltre sopprimere gli stipendi eccessivi che si era soliti pagare.
Anche sul punto IV, quello relativo alle rendite ecclesiastiche che potevano essere attribuite ai consanguinei del papa, le critiche non sembravano del tutto infondate. C'era chi temeva che sarebbe stato sempre possibile individuare un teologo disposto ad allargare le maglie delle concessioni: sarebbe stato dunque opportuno fissare un tetto massimo e c'era chi lo individuava in 15.000 o 20.000 scudi. L'estensore della relazione notava però che indicare una quota personale fissa massima poteva risultare negativo: se infatti un papa avesse avuto una moltitudine di parenti, si sarebbe aperta una "voragine per la molteplicità dei soggetti" cui attribuire quella somma. A rimediare ciò, qualcuno suggeriva di premiare il solo nipote, ma una tale limitazione sembrava eccessiva all'autore. Questi si dimostrava più favorevole a considerare la possibilità di fissare una quota complessiva non variabile di denaro che il papa avrebbe poi potuto distribuire come credeva tra i suoi, ecclesiastici o laici che fossero. Qualche porporato aveva però sostenuto che una deliberazione autolimitativa in una materia del genere potesse recare pregiudizio all'idea dell'assoluto predominio che "secondo l'opinione de' canonisti abbracciata e costantemente tenuta dalla Corte di Roma ha il Papa de' beni e benefici ecclesiastici, fomentandosi l'altra opinione che sia un semplice amministratore e distributore". L'osservazione, diceva il relatore, era però frutto di un equivoco perché, dando per scontato quell'assoluto predominio, non poteva certo derivare da ciò che il papa potesse fare in materia tutto quel che voleva "senza freno alcuno". Anche il pontefice doveva sentirsi soggetto a un limite imposto dal suo ruolo e... dalla decenza, il che naturalmente non bastava ad equipararlo ad un semplice amministratore. Il papa conservava infatti sempre in ogni situazione il potere di privare chi volesse di un beneficio anche "senza causa provata"; poteva poi gravare di pensione tutti i benefici e di questi cambiare la natura come e quando lo desiderasse: renderli perpetui, unirli, smembrarli, sopprimerli, attribuirli in titolo, in commenda, in amministrazione, ecc. Non ne era semplice amministratore, bensì qualcosa di più, ma non poteva davvero farne ciò che voleva: il suo dominio "non [era] libero et assoluto nella proprietà, ma si dice[va] un dominio utile e subalterno a guisa di quello che si considera[va] nel marito nelle robbe dotali al quale in senso commune di più savii v[eniva] paragonato". Anche i possessori di beni a titolo privato, che pure potevano fare della propria "robba" ciò che volevano, anche "buttarla nel mare", quando avevano figli "che per legge scritta o naturale son tenuti alimentare o dare o in altro modo congruamente provvedere, non se li permette[va] una eccessiva o sregolata inegualità che la legge dice inofficiosa".
I problemi che si annidavano nel punto V, se e quanto dare ai parenti secolari, venivano rapidamente superati. Chi si opponeva al provvedimento, tra i vari argomenti, sosteneva che sarebbe stato poco opportuno per un papa avere dei consanguinei che facessero il fabbro o lo zappatore, vivessero da mendici o in condizione plebea. Ancora, qualcuno affermava che i parenti poveri avrebbero potuto vendersi ai principi, peccare di simonia o altro per poi magari esportare i capitali illecitamente raccolti sì da non rischiarne il sequestro ad opera del pontefice successivo. Il relatore non smentiva nessuno. Riconosceva anzi la fondatezza dei pericoli e sosteneva tuttavia che il bene che poteva garantire la riforma era di gran lunga superiore ai mali che ne potevano derivare. Eretici, scismatici e pure taluni cattolici avrebbero smesso di gridare allo scandalo (e anche i teologi e giuristi sostenevano che quando una cosa pur lecita provocava reazioni contrarie essa andava "inibita"). Ne sarebbe poi risultato sollevato l'erario che non poteva più sopportare che ad ogni pontificato una o due case si facessero ricche e grandi. Ma, soprattutto, c'era da considerare che quanto alla possibilità che il papa avesse dei parenti plebei il discorso era del tutto "ideale e metafisico". Negli ultimi tre secoli erano stati infatti promossi al pontificato solo cardinali, e le rendite di cui ognuno dei porporati aveva goduto e godeva erano tali da consentire di levare i parenti dalla povertà. In ogni caso, però, il problema non era tanto quello di strappare qualche parente alla zappa "ma in che si pretende[va] costituirli nello stato magnatizio della prima riga e di farli signori e Prencipi con entrate almeno di scudi ventimila con palazzi, Ville et addobbi regi", obiettivo per cui, "stante la bassezza grande de' beni giurisdizionali, non basta[va]no i millioni". Finora i papi avevano potuto agire senza farsi troppi problemi grazie a teologi che tutto avevano loro consentito. Ma avrebbero potuto fare lo stesso "con certezza della dannazione dell'anima e con la propria infamia"? Quanto poi a chi diceva che i parenti dei pontefici avrebbero potuto cercare di vendersi c'era da valutare quanto i tempi correnti rendevano assai improbabile che ciò avvenisse. I principi non erano infatti più interessati ai consanguinei, "l'aderenza de' quali secondo lo stato presente non [era] di quelle conseguenze politiche ch'era ne' tempi passati", né lo stato delle pubbliche casse consentiva che per avere un milione se ne potessero spendere dieci (qui il riferimento è chiaramente a quanto aveva sostenuto Azzolini). Erano da considerarsi del tutto finiti i tempi in cui il papa "era di una potenza considerabile e molto maggiore di gran lunga di quel che sia di presente. Et all'incontro particolarmente nell'Italia le forze de' Prencipi erano così bilanciate che l'aderenze del Papa, overo di ogni Prencipe inferiore, anzi di un ricco negoziante, o pure di un capitano faceva traboccare la bilancia [...]. Ma oggidì lo stato delle cose è molto diverso per le due gran potenze dalle quali pende il tutto che però le parti del papa sono e devono esser solamente di mediatore per la pace tra esse e per la loro unione contro al commune inimico e acciò si renda autorevole non vi è altro modo che quello della riverenza e della stima pel motivo della pietà e della Religione perloché è necessario nonché opportuno togliere di mezzo questa gran pietra dello scandalo". Insomma, l'unica autorevolezza che il papa poteva vantare era di natura morale: la Chiesa doveva dunque adattarsi alla nuova situazione.
Per il relatore il tema doveva essere affrontato anche sotto un profilo pratico, alla luce delle congiunture politiche ed economiche. Le riflessioni astratte di teologi e giuristi si rivelavano del tutto inutili a fronte della condizione delle casse pubbliche. Non c'erano più risorse sufficienti a finanziare le normali esigenze dello Stato e pure le necessità ordinarie dei pontefici. Le entrate temporali a mala pena supplivano per metà ai bisogni generali e non era possibile ricorrere a nuove imposizioni: sarebbe risultato immorale finanziare i parenti a diretta spesa dei sudditi. Taluni spingevano perché i fondi per i nipoti fossero attinti dalla finanza spirituale, anzitutto dai proventi della Dataria. Essi alimentavano in buona parte la congrua del papa e questi, risparmiando sulle spese del proprio sostentamento, avrebbe potuto fare dell'"avanzo" ciò che voleva. Il relatore contestava con vigore tale proposta. Solo la metà, al massimo i tre quarti di queste entrate (ma un'incertezza del genere è significativa dell'aleatorietà delle norme) spettavano al papa, mentre il resto sarebbe dovuto andare a beneficio del Principato temporale. Ma sull'entità di queste entrate, assicurava il relatore, si favoleggiava: lo "sbilancio" era anzi notevole. Tutto quel che si diceva, si concludeva qui, era dunque assolutamente non fondato. E proprio in ciò stava uno dei motivi per cui la bolla era così utile. Per il nostro relatore essa infatti in queste materie non prescriveva nulla di nuovo, semplicemente pubblicizzava una verità, quella della miserevolezza della pubblica finanza, che era giusto venisse universalmente diffusa.
Quanto al punto VI, il sindacato del pontefice successore sugli atti del papa defunto, le paure sembravano derivare dal non giustificato timore che i papi che sarebbero venuti avrebbero dovuto inevitabilmente essere "ingiusti e maligni". Non c'era motivo di immaginare ciò ed anzi tale sindacato avrebbe dovuto cominciare a riguardare anche altre personalità curiali quali i cardinali che la bolla avrebbe dovuto obbligare "a rifare i danni alla Camera", nel caso di accertati abusi. Nel che stava quel che il relatore pensava di (o che sperava avvenisse con) molti esponenti del Sacro Collegio.
Alcuni zelanti avevano poi presentato proposte riformatrici alquanto estreme. Quella di non fare cardinali i parenti del papa sì da evitare la presenza nel Collegio dei capi fazione che tanti danni recavano soprattutto in occasione dei conclavi, quando, reclamando "il titolo di creatore" che era spettato allo zio, imponevano una stretta disciplina ai "loro" porporati "sotto una legge di gratitudine la di cui violazione porti l'infamia" (il nostro autore considerava la proposta valida ma prematura e preferiva che un provvedimento del genere fosse preceduto da una riforma complessiva quale quella del conclave); altra ardita idea avanzata era quella di abolire le fazioni cardinalizie "dei Principi". Utile strumento per garantire ciò sarebbe stato fare un "ammasso" di badie e benefici da cui trarre una sorta di stipendio da attribuire in parti uguali ai porporati sì da sopirne i desideri d'accrescimento e da impedire loro di "vendersi a Prencipi e farsi frazionarii" (per l'anonimo autore, nella situazione attuale, il progetto era irrealizzabile, ed il problema era poi più grave di quel che pensava chi proponeva l'idea: taluni porporati infatti si vendevano essendo già di per sé ricchi e avrebbero continuato certo a farlo; come comportarsi poi con i porporati nominati ad istanza dei sovrani? Questi comunque avrebbero formato una fazione nazionale).
L'ultima questione presa in considerazione riguardava l'opportunità del giuramento dei cardinali su questa bolla, nonché su quelle di Pio V e di Sisto V. Alcuni, contrari al provvedimento di riforma, sostenevano fosse inutile risollevare la questione se tali giuramenti obbligassero davvero il pontefice. "Questo [scriveva il nostro] è uno di quelli argomenti che per provar troppo nulla provano"; che rapporto c'era poi tra i voti che facevano i cardinali durante il conclave e il giuramento che si faceva su questa bolla che avveniva invece in Concistoro? Ciò che si votava quando si era cardinali poteva non valere per il papa, ma in questo caso si sarebbe venuta a creare una situazione ben diversa. Quando infatti ci si impegnava su temi che "riguarda[va]no il commodo et il beneficio publico della Chiesa e religione Cattolica o della Repubblica e del Principato [...] in tal caso [i giuramenti] [erano] obligatorii né il Papa vi p[oteva] dispensare, magiormente in quelle cose le quali appartengono al Principato temporale il quale accidentalmente e da tempo moderno è annesso al Pontificato mentre in queste cose la Republica de' Popoli, la quale è la vera padrona e la proprietaria delli beni e rendite publiche et in sua vece il Sagro Collegio come un Senato et un Rappresentante de' popoli può opporre al Prencipe, il quale si elegge quelle leggi che si stimano opportune per il ben publico a guisa di quei patti che si sogliono apporre nelle carte dotali per obligare a beneficio della sposa nella dote lo sposo al quale il Prencipe vien paragonato dicendosi marito della Republica la qual è proprietaria e la padrona diretta [...]". Il popolo, dunque, ma anche, in sua vece, il Collegio cardinalizio, potevano obbligare il pontefice a non utilizzare quel che era pubblico - e rientrava nella sfera della sovranità temporale, lì dove l'autorità pontificale poteva conoscere limiti costituendo detta sovranità un dono accidentale della storia - per uso privato.
Con questa singolare nota si chiudeva una relazione che costituisce in realtà un manifesto politico assai radicale, ove la nettezza - se non arditezza - delle posizioni, e di quest'ultima presentata in particolare, sembrano frutto della vis polemica di una o più personalità, sotto pressione nel corso del durissimo scontro con i prevalenti settori del conservatorismo curiale, piuttosto che di una effettiva consapevolezza ideologica.
Su queste basi venne presentato il progetto antinepotista che finì con l'arenarsi per le resistenze incontrate. La presa di posizione dei cardinali costituì un evento del tutto eccezionale. Nel 1692 Innocenzo XII, in situazioni mutate, e dopo la parentesi nepotista costituita dal pontificato d'Alessandro VIII, sarebbe riuscito nell'intento.
Sul piano della politica internazionale, l'azione di I. si sviluppò su due temi essenziali. Guerra al Turco, ispirata all'idea di rinnovare la crociata, e tentativi continui di resistere alla forte iniziativa del re di Francia Luigi XIV. I due temi si intrecciavano tra l'altro fortemente: riuscire a pacificare il continente europeo, reso instabile dai disegni del monarca francese, avrebbe per I. favorito la crociata che doveva risolvere alla radice il problema ottomano. Luigi XIV, pur di soddisfare le proprie mire egemoniche e indebolire gli Imperiali, era invece disponibile ad alleanze con i Turchi.
Il rischio che si correva per la ripresa dell'iniziativa bellica ottomana aveva sempre ossessionato I.: già da giovane aveva espresso il desiderio di combattere contro quel nemico e aveva sostenuto in più occasioni con significativi sussidi quell'impegno. Nel momento della sua nomina, poi, la situazione era più che mai allarmante. La ventennale guerra di Candia aveva visto la Repubblica di Venezia consumarsi in pratica da sola nel far fronte al pericolo. Chiusasi malamente quella dolorosa esperienza, ora l'offensiva ottomana premeva, temibile, ad est dell'Europa. L'unico modo di reagire, per il papa, era quello di organizzare una crociata: riunire in lega le forze della cristianità col fine ultimo della riconquista di Costantinopoli. Essenziale al disegno era la pace in Europa, ovvero arrivare alla fine delle ostilità tra Francesi e Asburgo di Spagna e Imperiali. I Turchi poi andavano subito attaccati, anche per evitare che fosse la Russia, ostile alla Santa Sede, ad assumere l'iniziativa, arrivando, in caso di vittoria, ad affacciarsi sul Mediterraneo.
Il progetto cozzò contro varie difficoltà: la politica francese di Luigi XIV, le discordie tra fazioni in Polonia, le diffidenze tra Polacchi e Russi, la paura dell'imperatore asburgico di impegnarsi ad oriente e di sguarnire i propri confini occidentali minacciati dalla Francia.
Non erano problemi da poco, basti accennare al fatto che Luigi XIV aveva effettivamente stretto dal 1673 relazioni amichevoli con l'Impero turco sì da condizionare il suo nemico principale, l'imperatore Leopoldo. Sempre in questa prospettiva il monarca francese aveva guadagnato l'alleanza di Giovanni III Sobieski, re di Polonia. Questi, obbligato anche da una difficile situazione militare, nell'ottobre 1676, concluse con la Porta la sfavorevole pace di ŠZurawno, che poneva fine, con la mediazione della Francia, a un'aspra fase dello scontro turco-polacco. Sobieski avrebbe potuto così volgere le proprie armi, era il desiderio di Luigi XIV, contro l'Impero asburgico. I Turchi, era l'altro aspetto della strategia, avrebbero potuto ora attaccare l'Ungheria.
In questo quadro di estrema complessità si avviavano nel gennaio 1676, a Nimega, le consultazioni per elaborare un accordo che assicurasse la pace in Europa. L. Bevilacqua fu nunzio straordinario del papa nella città eretica olandese, dove poté però arrivare solo nel giugno 1677, per le resistenze sollevate dagli Stati protestanti contrari alla partecipazione pontificia. Il mandato prevedeva che si adoperasse per la pace mostrando una assoluta neutralità tra i contendenti francesi, Asburgo di Spagna e Imperiali; dai paesi protestanti, ma senza sottoporsi ad una diretta trattativa, avrebbe dovuto invece ottenere migliori condizioni per i cattolici (fu il suo collaboratore L. Casoni a intrecciare questi rapporti, con discrezione, per conto del legato: G. Pignatelli, Casoni, Lorenzo, p. 407). Soprattutto Bevilacqua doveva assicurare un ruolo alla Santa Sede: imporre cioè l'autorità della mediazione pontificia; doveva insomma adoperarsi per rafforzare il ruolo di Roma nella scena europea, rimediando alla marginalizzazione da essa subita in occasione dei trattati di Vestfalia. La pace fu conclusa il 5 febbraio 1679 senza che però il ruolo diplomatico della Sede apostolica potesse neppure venire evidenziato nel documento conclusivo per la decisione di I. di non cedere alla pretesa di Luigi XIV di essere menzionato con una formula speciale nel breve con cui il papa designava il Bevilacqua suo plenipotenziario (G. De Caro, Bevilacqua, Luigi, p. 798). A Nimega furono sostanzialmente ribaditi gli accordi basati sulle paci del 1648, e per questo la Santa Sede elevò una vibrata protesta. Soprattutto, la pace non risolveva i nodi che determinavano la politica destabilizzante francese. Almeno però la pace, per quanto instabile, per quanto irriconoscente del ruolo rivendicato da Roma, avrebbe potuto favorire una guerra contro il Turco.
La diplomazia pontificia si adoperò da subito in questo senso nelle corti europee e fino in quelle persiana e russa, ma le difficoltà furono enormi. Ad oriente l'intesa era resa ardua dalla contrapposizione tra Russi e Polacchi e, soprattutto, tra questi ultimi e gli Asburgo; ad occidente era la politica di Luigi XIV a costituire il maggiore ostacolo. Anni di continue trattative su una lega offensiva o difensiva della cristianità contro il Turco non diedero alcun esito: Luigi XIV arrivò solo ad impegnarsi ad intervenire nel caso la Porta avesse minacciato la Polonia o la Repubblica veneta. Il dispiegamento di una forza antiturca, formata da Polacchi e Imperiali, sancita dagli accordi siglati tra il marzo e l'aprile del 1683, fu il massimo risultato che la diplomazia pontificia (il cui elemento di punta era il nunzio a Vienna F. Buonvisi) riuscì alfine a conseguire, e l'avvenimento fu festeggiato in Roma e dallo stesso papa con giubilo inusitato. Non era certo l'obiettivo prefigurato in partenza, ma l'Europa disponeva ora di una forza adeguata, sostenuta da generosi sussidi pontifici (fino alla morte di I. la Camera apostolica inviò in appoggio ai contendenti in questo conflitto la somma di 5.000.000 di fiorini), per controbattere l'offensiva turca che aveva intanto iniziato a dispiegarsi.
Il 12 settembre 1683, una coalizione formata da forze imperiali, polacche e bavaresi, capitanata dal Sobieski, allontanava la minaccia ottomana da Vienna. Era un successo importantissimo, che dovette però essere subito tutelato dalla diplomazia pontificia per evitare che l'alleanza austro-polacca potesse incrinarsi. Motivi di turbativa ve ne erano, e parecchi: la tentazione dei Polacchi di ritirarsi dall'alleanza; le iniziative ad occidente di Luigi XIV, che provava sempre ad erodere i possedimenti imperiali confinanti col suo Regno. Si temeva perciò che Leopoldo potesse cercare la pace separata col Turco per avere mani libere contro il re di Francia (che consolidava in quegli anni la propria presenza in Italia con l'acquisizione di Casale Monferrato, 1681, l'attrazione della Savoia nella sfera francese, il bombardamento e la presa di Genova, 1684). I. si adoperò per impedire che questo accadesse e cercò anzi di rafforzare ed estendere l'alleanza. Il 24 maggio 1684 ciò avvenne, col giuramento della Lega Santa antiturca che vedeva schierarsi la Repubblica di Venezia al fianco dei due principali alleati del patto del 1683, Sobieski e Leopoldo. Il coinvolgimento della Serenissima era avvenuto dopo una lunghissima ed estenuante trattativa (in cui fu protagonista a Roma il cardinal P. Ottoboni [v. Alessandro VIII] che fungeva allora da informale rappresentante diplomatico della Serenissima presso il papa). Venezia otteneva il comando delle galere papali e un sussidio di 100.000 fiorini.
A garantire l'efficacia delle forze collegate fu l'accordo di Ratisbona del 15 agosto 1684 che sanciva un armistizio di venti anni tra Francia, Impero, Spagna. Luigi XIV, in cambio di altre concessioni, otteneva in dominio transitorio Strasburgo e Lussemburgo.
Le truppe cristiane poterono ora muovere contro i Turchi in Ungheria. Nel luglio iniziò l'assedio di Buda, che costituì dapprima un insuccesso. Meglio andò per l'iniziativa militare veneziana nell'Adriatico e nello Ionio, che garantì la presa di possesso di numerose piazzeforti costiere, Ragusa in primo luogo. Era l'inizio della campagna che avrebbe consentito ai Veneti di impadronirsi del Regno di Morea (Peloponneso).
Nel 1685 riprese, generosamente finanziata da I., la campagna di terra in Ungheria, che fu stavolta ostacolata ai suoi inizi dal comportamento passivo dei Polacchi che erano soprattutto preoccupati dal minaccioso problema russo. Una volta raggiunta la pace, firmata il 6 maggio 1686, tra Polacchi e Russi, anche quest'ultimi poterono essere coinvolti nella Lega antiturca. Il 2 settembre 1686, dopo un attacco sanguinosissimo che si prolungò per un mese e mezzo, Buda turca cadeva. Era il grande successo di I., e questo veniva a verificarsi in un momento delicatissimo, caratterizzato ad occidente dal conflitto franco-spagnolo e dai continui tentativi francesi tesi a separare la Polonia dagli Imperiali. Né l'offensiva si bloccò a Buda. Il 6 settembre 1688 anche Belgrado fu ridotta al controllo delle truppe asburgiche.
In tutto questo, intanto, non si sopiva l'iniziativa francese. Luigi XIV aspettava infatti il momento giusto per approfittare degli impegni di Leopoldo ad oriente. Per questo I. tentò di risolvere la questione lorenese, rendendosi conto che, senza l'appoggio della Francia, l'azione della Lega non sarebbe mai risultata decisiva come egli sperava. Ma le questioni in ballo erano numerosissime. Quella, aperta nel maggio 1685 dalla morte dell'elettore Carlo del Palatinato, su cui Luigi XIV vantava diritti, fu chiusa, anche grazie alla mediazione papale, nel 1687 con la nomina di un elettore accetto all'imperatore Leopoldo. Quindi la crisi che si aprì dopo la sottoscrizione, nell'estate 1686, di una lega tra imperatore, alcuni principi tedeschi e Spagna. Sentendosi minacciato dall'intesa, Luigi XIV reagì erigendo fortificazioni sulla riva destra del Reno non previste dai trattati. Si rischiò lo scontro, che il papa tentò con ogni mezzo di evitare per impedire che si giungesse alla rottura definitiva tra Francia e Impero: a Vienna si facevano intanto sentire i fautori di un accordo separato con il Turco sì da far fronte alla minaccia francese.
La diplomazia parve inizialmente poter controllare la crisi, poi, negli ultimi mesi del 1688 Luigi XIV ruppe gli indugi e invase il Palatinato, Magonza e Treviri. Con soddisfazione di I. l'Impero si impegnò a continuare la guerra su entrambi i fronti: contro i Francesi e contro i Turchi. Questo sul fronte militare. Su un piano più propriamente politico il contrasto con Luigi XIV fu ugualmente acceso. I. si impegnò a contrastarne le pretese di controllo sulla Chiesa di Francia, affondanti nell'antica tradizione gallicana. Già i predecessori di I., Alessandro VII, Clemente IX e Clemente X, si erano scontrati con la forte personalità del re. A venir soprattutto discussi erano il potere di nomina dei vescovi e la questione delle "regalie", ovvero il diritto vantato dalla Corona di Francia di amministrare talune sedi vescovili vacanti, riscuoterne le rendite e conferirne talune delle prebende. Nel 1673 e nel 1675 Luigi XIV estese tale diritto a tutto il territorio del Regno. Ne derivò una disputa aspra, giuridica e teologica, che divise il clero di Francia ed impegnò fortemente la diplomazia papale soprattutto al tempo di I. (Clemente X, infatti, non comprese a fondo la gravità del conflitto e limitò i propri interventi).
Due vescovi filogiansenisti, N. Pavillon e F. Caulet, si opposero al decreto regio e l'appena eletto I. accettò il ricorso. Tale intervento, dopo la prudenza che aveva contraddistinto l'azione del pontefice predecessore, apparve agli occhi del re una provocazione e generò il conflitto.
Nel 1677 I. istituì una Congregazione speciale per affrontare la questione di cui fecero parte Ottoboni, Carpegna e Albizzi e della quale fu segretario Favoriti. Il papa voleva subito annullare i decreti regi, ma i porporati lo indussero a maggior prudenza. Ancora nel 1678, il Sacro Collegio riuscì a persuadere il papa dell'inopportunità di emanare un durissimo breve sulla questione, ma ottenne solo che la spedizione ritardasse: il gruppo dei cardinali zelanti riuscì infatti a far spedire quel documento nel gennaio 1679. Era ormai scontro aperto, alimentato, inevitabilmente, da altre questioni. Tra queste, quella del seppellimento del nunzio a Parigi monsignor P. Varese, morto nel corso della missione, le cui particolari volontà in materia di inumazione non vennero tenute in considerazione contestando il suo diritto a dare disposizioni in proposito (il papa, per protesta, non nominò un nuovo nunzio).
Un ulteriore breve sulla questione delle regalie, giustificato dal fatto che non s'era ottenuta alcuna risposta al precedente, venne spedito il 13 marzo 1680. Il testo era durissimo, ma Luigi XIV, che pure meditò di sottoporre la questione ad un concilio nazionale, decise ora di rispondere con una lettera cortese che non faceva alcun cenno alla questione.
Ciò alimentò vieppiù l'iniziativa di I. che il 13 gennaio 1681 pronunciò in Concistoro una durissima allocuzione contro il re di Francia. Mentre in Roma prendevano avvio trattative tra I. e l'inviato di Luigi XIV cardinal d'Estrées, a Parigi si riunì l'Assemblea del clero francese (la "Piccola Assemblea") che appoggiò l'operato del re e prospettò un concilio nazionale. Una nuova assise del clero promossa dal re si riunì nell'ottobre 1681. Nel febbraio-marzo dell'anno successivo in questa sede poterono essere elaborati (da J.-B. Bossuet, anche se non è certo che la versione definitiva sia sua) i quattro articoli della fede gallicana che sancivano la piena autonomia del re dal potere ecclesiastico, negavano al papa la facoltà di deporre sovrani e gli riconoscevano solo una preminenza in materia di questioni spirituali pur affermando tuttavia che nessuna deliberazione papale poteva considerarsi immutabile. Gli articoli approvati, che dovevano essere considerati assolutamente vincolanti, furono diffusi tra il clero francese nell'aprile 1682.
La reazione di I. fu ancora una volta assai dura - ma il papa non volle rischiare di giungere alla rottura per non pregiudicare le trattative in corso sull'alleanza antiturca -, e fu favorita dallo sconcerto di parte del clero di Francia. Ciò soprattutto s'evidenziò quando l'assemblea francese venne sciolta, ma il rifiuto del re di ritirare le proposizioni gallicane fece sollevare l'opposizione di molti, singoli e istituzioni. I., pur continuando a mostrarsi irritato, si dispose allora ad un significativo atto d'avvicinamento: nell'aprile 1683, un nuovo nunzio papale, Angelo Ranuzzi, partiva per Parigi. Il Sant'Uffizio esauriva intanto la propria analisi della questione delle regalie e dei quattro articoli; ma I. preferì bloccare la pubblicazione della bolla di condanna Cum primum.
È in questo quadro che Luigi XIV decise di risolvere i contrasti interni con gli ugonotti sopprimendo, nel 1685, l'editto di Nantes. I. non diede particolari cenni di soddisfazione per l'iniziativa: dal suo punto di vista il problema della Chiesa in Francia era costituito, più che dalla massiccia presenza di ugonotti, proprio dal dominio esercitato dal re sull'intera struttura ecclesiastica. Così, mostrando sorpresa per la irriconoscenza dimostrata dal papa, Luigi XIV convocò una nuova assemblea del clero di Francia, che venne presieduta dall'arcivescovo di Parigi de Harlay: ciò fece temere che il fine ultimo del sovrano fosse quello di trasformare la Chiesa nazionale in un patriarcato sotto la guida del pastore della capitale. L'assise elaborò una formula di fede che doveva consentire agli ugonotti la conversione. Quando il papa sottopose tale formula ad una apposita Congregazione incaricata di scovare le tracce di eresia, il re (che non si era peraltro mostrato affatto entusiasta della deliberazione assembleare) andò su tutte le furie.
Le conversioni di ugonotti avevano intanto preso un ritmo incalzante, ma I., malgrado le insistenze del nunzio, evitava di riconoscere al re francese il successo. Poi la situazione si sbloccò: partì un breve, cortese e piuttosto freddo, che conteneva le felicitazioni del papa ma nessuna concessione in materia di regalie; e, infine, nella primavera del 1686, si svolsero in Roma i festeggiamenti per la revoca dell'editto. L'alquanto forzata soddisfazione per il provvedimento venne però tenuta strettamente separata dalle altre materie. I. chiedeva al re di Francia di restaurare l'autorità pontificia nel suo paese, né lo convinceva peraltro il metodo forzato delle conversioni. Anche qualche vescovo francese levò la propria voce contro ciò che avveniva. Nuovo motivo di frizione col papa era intanto la questione delle libertà di quartiere in Roma. I legati esteri avevano costituito delle zone franche, immuni, intorno alle proprie residenze diplomatiche. In tali estesi quartieri, al di fuori della giurisdizione statuale, si svolgeva ogni traffico. Non solo, venivano venduti liberamente certificati che attestavano l'appartenenza di qualsiasi soggetto ai seguiti diplomatici!
Alessandro VII aveva già tentato qualcosa, ma I. si pose dall'inizio del suo pontificato l'obiettivo di eliminare lo scandalo, soprattutto servendosi della consulenza di G.B. de Luca. Le sedi maggiormente incriminate erano quelle di Venezia, di Spagna, di Francia. I. rifiutava di incontrare i diplomatici di quei paesi se non avessero prima rinunziato al loro quartiere, e, prospettandosi un turn over, faceva sapere che non avrebbe accreditato alcun ambasciatore che non rivedesse la posizione. La Spagna (nel 1682) e Venezia (1684) cedettero, non la Francia. Il 12 maggio 1687 I. dichiarò allora soppressi, con una bolla, i contestati privilegi. I cardinali Maidalchini e d'Estrées rifiutarono di sottoscriverla e Luigi XIV ordinò all'ambasciatore designato per Roma, Lavardin, di partire immediatamente per la sua nuova sede col compito di estendere al massimo il proprio quartiere. Il legato mosse con un seguito armato che andò per via ingrossandosi e a cui si pensò per un momento in Roma di opporsi militarmente. Poi si decise di far entrare il Lavardin in città e ciò avvenne, dalla porta del Popolo, il 16 novembre 1687. Palazzo Farnese fu trasformato in fortezza. Il protagonista di tale grossolana provocazione si vide rifiutare l'udienza e il monarca di Francia, in cambio, minacciò d'occupare Avignone e Castro.
La crisi si accese perciò ancor di più, e il 26 dicembre 1687 I. decretò l'interdetto contro la romana chiesa di S. Luigi, perché lì la notte di Natale si era comunicato il Lavardin, che doveva in realtà essere considerato scomunicato per aver infranto la bolla contro la libertà di quartiere. Inghilterra e Spagna presero la difesa del papa, prospettandogli addirittura la possibilità di un aiuto militare. In Francia si studiavano intanto progetti per indebolire la figura del pontefice: essendosi individuato in L. Casoni uno degli ispiratori dell'intransigenza pontificia, nell'estate 1688 si pensò addirittura di rapirlo (G. Pignatelli, Casoni, Lorenzo, p. 409).
In questo si apriva la questione della elezione del coadiutore dell'elettore di Colonia. Massimiliano Enrico di Baviera era infatti gravemente malato e un coadiutore vicino alla Francia avrebbe potuto garantire una successione che sarebbe risultata utilissima a Luigi XIV per condizionare la politica imperiale. Questi pertanto fece designare dal Capitolo della cattedrale un suo protetto quale candidato. La scelta fu sottoposta al vaglio papale, ma I. rifiutò di ratificarla e fu, conseguentemente, fatto oggetto di minacce gravissime da parte di Luigi XIV. Poi nel giugno l'elettore Massimiliano Enrico morì e ciò aggravò i termini della questione. La designazione dell'elettore, e non più del suo coadiutore, si trascinò infatti per mesi. Luigi XIV minacciò l'uso della forza e iniziò i preparativi per allestire delle truppe da spedire in Italia. I. non cedette al ricatto e il 18 settembre 1688 designò per Colonia Clemente di Baviera, personalità invisa alla Francia. Luigi XIV reagì facendo presentare al Parlamento di Parigi un appello per la convocazione di un concilio generale. Intanto, I. neppure riusciva a richiamare in Roma il Ranuzzi, trattenuto forzatamente in Francia dal re, ciò mentre sembrava si preparasse da parte francese l'occupazione di Avignone e del Contado Venassino.
In realtà, per rifarsi subito dell'umiliazione subita a Colonia, Luigi XIV occupò invece con le sue truppe il Palatinato. Oltre all'ostinazione di I., scottavano al monarca francese i successi dell'imperatore Leopoldo contro il Turco. In una situazione così intricata, in cui anche in Inghilterra Giacomo II veniva insidiato da Guglielmo d'Orange, I. fece sforzi di pace, subito respinti da Luigi XIV. Partì per la Francia Lavardin, partì per l'Italia Ranuzzi da Parigi, ma al suo arrivo in Roma trovò il papa già morto.
Gli ultimi mesi del papa furono perciò caratterizzati da una situazione convulsa, aggravata, come appena accennato, dalla crisi che si era aperta in Inghilterra. L'ascesa al trono nel 1685 del cattolico Giacomo II Stuart era sembrata poter decisamente migliorare la critica condizione del cattolicesimo in quel Regno, ma le tendenze assolutistiche del sovrano e la sua imprudente condotta politica finirono col determinare una catastrofe per lo stesso Stuart e per i seguaci inglesi della Chiesa di Roma. Dopo avere inizialmente appoggiato il re, I. cercò di evitare che Giacomo II si trasformasse in un nuovo Luigi XIV e ostacolò l'ascesa nella corte dello Stuart del gesuita E. Petre, che il re voleva prima vescovo e poi addirittura cardinale e che nominò suo segretario e membro del Consiglio privato. La reazione del popolo alla politica di restaurazione del cattolicesimo attuata dal sovrano, di cui l'ascesa del gesuita costituiva uno degli aspetti più odiosi, venne seguita con grande preoccupazione dagli osservatori pontifici. Poi la situazione precipitò. Rispondendo ad un appello, nel novembre 1688 Guglielmo d'Orange sbarcava sulle coste inglesi e il 28 dicembre entrava in Londra. Nulla poté fare il papa, impegnato nella fase più dura del conflitto con Luigi XIV, sotto minaccia di una invasione militare francese.
Ispirata ad una idea guida, quella della lotta al Turco, e ad una in parte ad essa correlata esigenza, quella di resistere e, se possibile, controbattere l'iniziativa di Luigi XIV, la politica estera di I. si caratterizzò - al di là dell'ultimo caso presentato, relativo alla crisi inglese - per dinamismo e sostanziale coerenza. Nell'opporsi all'offensiva ottomana il papa conseguì notevoli successi ed ebbe grande parte nel favorire le vittorie di Vienna e Buda, adoperandosi incessantemente per sostenere la coalizione che le favorì. Quel che sembra potersi notare nella sua azione, su questo fronte come su quello francese, è la sensazione che il suo agire deciso fosse ispirato, oltre che da una salda fede, da una forte consapevolezza di muoversi sempre per il meglio, da una certezza incrollabile che quel modo d'agire fosse l'unico adottabile. Il che, nelle trattative diplomatiche, lì dove occorre spesso dissimulare, presentava dei rischi gravissimi. I. fu spesso frenato dal Collegio cardinalizio di fronte a gesti fermi ma impulsivi; nei confronti di Luigi XIV si poté assistere ad una escalation di provvedimenti che solo la morte del papa infine bloccò. La sensazione è che il monarca francese fosse favorito nelle sue strategie dalla natura di I. e che riuscisse sostanzialmente a prevedere, controllare, sfruttare a proprio vantaggio le mosse romane. V'era poi un altro fronte, interno, quello della politica ecclesiastica, ad impegnare fortemente Innocenzo XI. Papa Odescalchi si impegnò da subito per portare disciplina nel clero e in Curia. Operò per imporre la residenza ai vescovi, intervenne con una serie di provvedimenti - in primis una Congregazione che avrebbe dovuto selezionare più scrupolosamente i candidati ai vescovati in Italia, ma anche con norme contro le troppo facili attribuzioni di ordini sacri, ecc. - tesi a formare un clero più consapevole ed affidabile. Nei confronti degli Ordini regolari si mostrò inflessibile, imponendo norme disciplinari più severe, ma anche disponendo controlli: fece ad esempio compiere a G. Barbarigo una visita nel convento d'Aracoeli (nella quale furono accertati vari abusi). Da interventi particolari di riforma vennero interessati i Domenicani di Lombardia e Toscana, i Cistercensi di Polonia.
A lungo I. non conferì alcuna porpora e solo nel 1681 si decise a farlo, designando sedici italiani. Tra questi erano taluni degli uomini che l'assistevano più da vicino nella sua attività. G.B. de Luca superò l'opposizione presentata dal cardinal P. Ottoboni; le altre nomine riguardarono il maestro di camera A. Pignatelli, il governatore G.B. Spinola, il datario S. Agostini, F. Taja decano della Rota, R. Capizzucchi maestro del Sacro Palazzo, l'auditore di Camera U. Sacchetti, il tesoriere generale G.F. Ginetti, e l'inquisitore M. Ricci. F. Buonvisi, S. Brancaccio, S. Mellini, M. Galli vantavano esperienze di nunziatura. C'erano poi il francescano L. Brancati, l'arcivescovo di Milano F. Visconti e B. Pamphili.
Nel settembre 1686 I. procedette ad una seconda promozione di cardinali. I posti vacanti nel Collegio erano diventati ventisei e il papa decise la promozione di ventisette elementi. Rischiò anche su questo fronte la crisi con Luigi XIV per la mancata nomina del candidato ufficiale francese e l'unico suddito del re promosso fu l'arcivescovo di Grenoble S. Le Camus che si era in precedenza dichiarato ostile ai quattro articoli gallicani. Entrarono poi nel Collegio due polacchi, tre rappresentanti dell'Impero, un portoghese, tre spagnoli. Tra gli italiani fu contestata la scelta del tesoriere generale G.F. Negroni, che aveva in Curia molti nemici, e quella di P.M. Petrucci, che aveva avuto parte, come si vedrà, nelle polemiche relative alla presenza in Curia di quietisti. Pure ingenerò polemica la nomina di M.A. Barbarigo, nipote di Gregorio, che era in urto con le autorità veneziane per essersi impegnato in un conflitto giurisdizionale in Corfù (della cui diocesi era titolare) col comandante F. Morosini.
I. difese ovunque la giurisdizione papale. Uno scontro deciso avvenne in Portogallo, dove l'Inquisizione era divenuta uno strumento del governo civile: nel 1681 l'inquisitore fu riportato all'obbedienza romana. Difese l'immunità ecclesiastica in Polonia e in Spagna. Qui si arrivò nel 1678 quasi alla rottura delle relazioni diplomatiche di fronte a comportamenti di consiglieri regi reputati lesivi dei diritti ecclesiastici. Ciò si ripeté nel 1687 a fronte dei ripetuti dinieghi alla soppressione del cosiddetto privilegio della Monarchia Sicula ("abuso" radicato da cinque secoli e per "altrettanti tollerato dai pontefici": così A. Cibo, in F. De Bojani, Innocent XI, II, p. 201). Il papa scomunicò i funzionari napoletani che garantivano quel contestato diritto, poi fu convinto, in Curia, a ritirare il clamoroso provvedimento (grazie a ciò poté tornare ad esigere la decima "turca" dal clero spagnolo).
Nel campo dottrinario il comportamento di I. fu meno rigido. Nei primi anni del suo pontificato parve accomodante con i giansenisti, intrecciando un significativo contatto con A. Arnauld che forse, come si potrebbe notare da una frase contenuta in una lettera del cardinale Cibo, avrebbe voluto premiare con la porpora (L. von Pastor, p. 311). Ma il nunzio Varese lo avvertì dei rischi che si correva dando credito a un giansenista e il papa fu più prudente. Certo è che tra i suoi collaboratori più stretti, Favoriti e Casoni erano assai vicini al francese e alle sue posizioni. Nel 1679 I. accolse la richiesta avanzata dall'Università di Lovanio di condannare sessantacinque proposizioni lassiste e ciò finì indirettamente col rinforzare il prestigio dei giansenisti. Sulla questione del probabilismo, nel corso del pontificato, non fu presa esplicita posizione: neppure il Sant'Uffizio provò ad intervenire nella causa tra Gesuiti probabilisti e Tirso Gonzáles che contro quella tendenza aveva scritto il Fundamentum theologiae moralis di cui il generale della Compagnia padre Oliva aveva impedito la pubblicazione. Gonzáles fu poi eletto nel 1687 superiore generale gesuita, ma il nodo non fu sciolto.
Ma fu sulla questione del quietismo che divampò, gravissima, la polemica. L'ascetica contemplazione, la preghiera, sostituivano nei quietisti i sacramenti e le opere di penitenza. Negli anni Cinquanta il cardinal P. Ottoboni aveva interrotto nel Bresciano l'esperienza dell'Oratorio di S. Pelagia, e in altri casi l'Inquisizione era intervenuta a reprimere espressioni quietiste; ma ancora all'inizio del pontificato di I. non v'era esplicita condanna del quietismo in quanto tale. In questo quadro si trovò ad operare in Curia Miguel Molinos.
Lo spagnolo si presentò in Roma negli anni Sessanta, acquisendo fama di grande maestro spirituale. Nel 1675 portò alle stampe la sua Guida spirituale che riscosse un clamoroso successo. Tra i suoi ammiratori era già il cardinal Odescalchi e vicino a Molinos era anche P.M. Petrucci. L'uomo, per Molinos, doveva abbandonarsi totalmente a Dio, lasciare ogni attività esterna, dannosa alla comunione col Signore, annientare le proprie capacità. Giungeva a prevedere la possibilità che il diavolo potesse talvolta impadronirsi dell'uomo e spingerlo al peccato "esteriore": questo non poteva considerarsi una vera colpa perché nella deviazione non poteva ravvisarsi consapevolezza. I Gesuiti presero dura posizione con P. Segneri. Il suo Concordia tra la fatica e la quiete nell'oratione venne pubblicato a Firenze nel 1680. Il saggio fu confutato dal Petrucci, che pubblicò la replica dedicandola al segretario di Stato Cibo (il medesimo Petrucci fu poco dopo, nel 1681, destinato alla sede vescovile di Jesi). L'attacco del Segneri fu addirittura posto all'Indice. Malgrado i tentativi degli avversari, la fama del Molinos ancora nel 1682 sembrava inattaccabile, poi, all'improvviso, crollò. Al Sant'Uffizio giunsero denunce sul suo comportamento immorale, e per quanto I., forse soprattutto spinto a far ciò da Casoni, avesse cercato in un primo momento d'opporsi all'arresto, questo si verificò il 18 luglio 1685 nell'abitazione privata di Molinos presso S. Lorenzo in Panisperna. Il fatto destò scalpore: tra le più turbate era la regina di Svezia Cristina. Che il pontefice continuasse a non credere alla colpevolezza del Molinos sembra poter essere testimoniato dalla promozione alla porpora di Petrucci nel 1686; anche un uomo come D. Azzolini non si dichiarò in un primo momento contrario allo spagnolo. L'istruttoria procedeva essenzialmente attraverso il lento spoglio delle migliaia di lettere che Molinos aveva negli anni indirizzato ai propri discepoli: queste parvero suggerire agli inquisitori la reale chiave interpretativa dei suoi insegnamenti. La sentenza, nell'agosto 1687, stabiliva che sessantotto proposizioni di Molinos andavano considerate eretiche. Il 3 settembre successivo, alla Minerva, lo spagnolo abiurò pubblicamente (chiuso in prigione vi morì alla fine del 1696). Una bolla di I., datata 20 novembre 1687, condannò le sue proposizioni: si apriva però ora, inevitabile, il processo al cardinal Petrucci. I. fece di tutto per salvarlo, anche dopo che l'istruttoria aveva cominciato ad accertare tracce di eresia nelle sue affermazioni. Una Congregazione di cardinali, tra i quali era Azzolini, fu deputata ad esaminare la questione, e invitò Petrucci a cercare l'assoluzione per i suoi errori. Il 17 dicembre 1687 Petrucci ritrattava (Alessandro VIII gli avrebbe poi impedito il ritorno nella sua sede episcopale, ma Innocenzo XII lo avrebbe riabilitato nel 1695).
Come giudicare tutto ciò? Si sostenne che il papa non aveva una preparazione teologica sufficiente per controllare queste materie (tale tesi di von Pastor trovò forte eco negli atti del processo di canonizzazione). Altri hanno invece sostenuto che I. fu ingannato: da Molinos stesso se non da Petrucci, e che fu mal consigliato dai suoi collaboratori, Favoriti e Casoni avanti a tutti.
Non pare neppure illegittimo ipotizzare che gli attacchi a Molinos e Petrucci, e quelli rivolti a partire dal 1680 contro il cardinal de Luca - il quale aveva elaborato diversi progetti di riforma che vennero analizzati attentamente dal Sant'Uffizio, Congregazione che veniva peraltro in essi pesantemente coinvolta -, facessero parte di una strategia condotta al fine di ridimensionare la figura di un pontefice sempre più intenzionato a riformare radicalmente la Curia. Nel periodo dell'attacco al quietismo circolò insistentemente in Roma la notizia che il Sant'Uffizio avesse istituito una commissione per esaminare lo stesso papa (G.V. Signorotto, Inquisitori e mistici, pp. 318 ss.). Nella Congregazione dell'Inquisizione erano peraltro attivi e assai influenti i maggiori avversari del papa nella scena curiale: il cardinale F. Albizzi (che morì nel 1684), e, soprattutto P. Ottoboni, che non per caso sarebbe succeduto nel pontificato ad I., e che si poté anche proporre, in questa veste di contraddittore del papa, come un fautore del riavvicinamento tra la Santa Sede e la Corona francese. Non è certo per un caso, o solo per esprimere una isolata posizione personale, che un uomo come de Luca, riformatore e giurista di vaglia, come detto vicinissimo al papa, attaccò violentemente la politica della Congregazione inquisitoriale che rivelava nel suo operare "volontà di conflitto e di oppressione", strumentale a disegni particolari e mai esigenza di reale accertamento della verità (A. Lauro, p. 577).
Anche nel campo della diffusione della fede I. cercò di affrontare di petto tutti i problemi. Incontrando, come al solito, difficoltà. Lo scontro maggiore avvenne col progetto di costringere i missionari, che fino ad allora avevano fatto capo ai superiori degli Ordini di appartenenza, a prestare giuramento di fedeltà ai vicari apostolici. Luigi XIV proibì ai missionari francesi di giurare, perché atto contrario alle libertà gallicane. Poi la protesta rientrò: quei missionari dovevano però giurare menzionando espressamente l'autorizzazione del monarca di Francia a farlo. Maggiori difficoltà si ebbero con gli Ordini operanti in alcune regioni. Francescani e Domenicani di Canton rifiutarono la prova di obbedienza; missionari spagnoli consideravano tradimento prestare giuramento a vicari apostolici francesi. Anche i Portoghesi si opposero. Propaganda fu così costretta a tornare sui propri passi e a modificare sostanzialmente le procedure del giuramento: se questo aveva creato problemi perché poneva la questione della doppia obbedienza al superiore dell'Ordine e al vicario papale, ciò fu risolto designando come vicari esponenti degli Ordini. I territori di missione vennero divisi in circoscrizioni all'interno delle quali operava solo una comunità di Regolari.
Per favorire l'attività missionaria I. cercò d'intrecciare rapporti col re del Congo, col sovrano di Persia e con i governi del Tonchino e del Siam. Da quest'ultimo Regno giunse in Roma nel 1688 una missione diplomatica ufficiale. Il papa pure tentò di ricomporre lo scisma con la Chiesa greco-ortodossa, e nel 1683 si adoperò inutilmente per estirpare la piaga della tratta degli schiavi sulla costa dell'Angola. Istituì le Università domenicane di Manila e di Guatemala; eresse nuove diocesi in Brasile e nel 1686 favorì una nuova missione per i copti d'Egitto.
Alla base di tutti questi interventi era la relazione sullo stato delle missioni che nel 1677 I. commissionò al segretario di Propaganda, U. Cerri. Significativi sono i dati che vi venivano pubblicati sulla situazione della fede in Europa (L. von Pastor, p. 342). Su centoventottomilioni di abitanti, settantaquattromilionisettecentomila erano i cattolici, ventisettemilioni gli scismatici e ventitremilioniseicentomila i protestanti. Ciò spinse I. ad operare intensamente per recuperare alla fede cattolica il Nord Europa, soprattutto la Germania. Senza concessioni, però, sul piano teologico e morale. Vegliò scrupolosamente ad evitare che l'imperatore Leopoldo I e l'Elettore di Baviera potessero unirsi in matrimonio a donne protestanti, come parve prospettarsi, e ottenne conversioni soprattutto nei settori più alti della società. La situazione dei cattolici rimase invece critica in Olanda, mentre in Inghilterra la situazione prima parve favorevole per l'ascesa al trono del cattolico Giacomo II poi degenerò rapidamente con la cacciata di quel sovrano e l'insediamento di Guglielmo d'Orange.
Salito al soglio sessantacinquenne, I. soffrì sempre di reni, e l'intensa attività colpì duramente il suo fisico sembrando pregiudicare in più momenti la sua esistenza e facendo immaginare un nuovo conclave. Dal 1682 la podagra lo teneva spesso a letto, dove lo ritrae una impietosa caricatura di G.L. Bernini; preoccupato dal freddo, negli ambienti in cui viveva la temperatura era spesso insopportabile per gli estranei che vi si recavano. Uno dei suoi ultimi atti fu quello di assicurare un sontuoso funerale alla regina Cristina che morì nell'aprile 1689. Poi toccò a lui, dopo una febbre che lo prese nel successivo giugno e che lo condusse infine a morte, il 12 agosto, malgrado il prodigarsi del celebre medico Lancisi.
Il nipote Livio dispose l'erezione di un monumento, finito nel 1700, sulla sua tomba in S. Pietro, la cui progettazione fu affidata a C. Maratta e al francese P.É. Monnot. Fu prescelta l'intuizione di quest'ultimo che prevedeva l'inserimento delle figure allegoriche della Religione e della Giustizia.
Fu un papa straordinario, anche se in molti campi risultò sconfitto e i suoi ottimi intendimenti non furono premiati. Il suo errore principale fu quello di aprire troppi fronti contemporaneamente. Il risanamento finanziario dello Stato (un successo); il nepotismo (un fallimento); un'iniziativa internazionale orientata alla lotta senza quartiere al Turco (un successo parziale, in quanto il sogno della crociata offensiva non si avverò) e al contrasto dell'iniziativa di Luigi XIV. Se non riuscì a riproporre la centralità della Santa Sede nella scena europea, migliori risultati colse nel rivendicare ad essa un ruolo di guida morale. Molte sue difficoltà furono anche originate dalla decisione se non foga con cui affrontò ogni questione, dalla sua riluttanza al compromesso. Propose l'immagine di un papa che concentrava ogni incombenza, ogni potere decisionale su di sé, e ciò provocò la forte reazione di ampi settori curiali che poté più facilmente dispiegarsi contro il medesimo I. dopo che le accuse di quietismo (che sembrarono poter riguardare anche il papa) gli avevano tolto dal fianco i principali collaboratori (anche nella sua politica rivolta a moralizzare la Curia, in primo luogo intervenendo sulla scottante materia degli uffici venali, I. preferì l'azione chirurgica ad ogni gradualismo provocando un diffuso allarme, disorientamento e gravi sconcerti).
Odescalchi riuscì almeno a condizionare fortemente il Sacro Collegio con le proprie creazioni e ciò ebbe un forte peso, come detto, nel conclave del 1691 che portò sul trono di Pietro un papa che non per caso assunse il nome di Innocenzo XII. Quest'ultimo riuscì in parte ad attuare proprio i progetti di Odescalchi e nel far ciò gli risultò assai utile l'esperienza che si era vissuta nei pontificati che avevano preceduto il suo: sia l'elaborazione teorica e giuridica delle riforme, sia la reazione che prima impedì queste stesse e poi portò alla elezione di Pietro Ottoboni.
Lo accompagnò alla morte, dopo tutte le critiche che si era attirato in vita, una fama di santità. Il processo di canonizzazione prese il via già nel 1691, quando furono ascoltati come testi i suoi principali collaboratori. Questa prima fase si esaurì nel 1698. Nel 1714 fu discussa l'introduzione formale della causa e fu Prospero Lambertini (v. Benedetto XIV) a preparare le "animadversationes". La nuova fase di indagine si svolse e a Roma e a Como tra il 1714 e il 1733, e nel 1736 tali processi apostolici vennero approvati. Poi la procedura fu bloccata dall'esigenza di confutare le osservazioni negative (simonia, filogiansenismo e ostilità preconcetta verso la Francia e i Francesi) nei confronti di I. contenute nel Dictionnaire historique et critique di P. Bayle (pubblicato nel 1695-97). Fu Benedetto XIV, nel 1744, a riproporre la questione e ad affrontare tutti i dubbi emersi nel corso del processo.
Tali obiezioni rivelavano essenzialmente che: 1) i testimoni ascoltati erano tutti stati al suo servizio ed erano perciò parziali; 2) I. aveva denotato ambizione per aver proceduto all'acquisto di uffici venali e accettando con "allegrezza" la promozione alla porpora; 3) come legato di Ferrara si era mostrato troppo rigoroso nell'applicazione della legge (la questione delle esecuzioni capitali "razionate" e il ricorso alla tortura, ma anche provvedimenti quali la scomunica da lui disposta delle donne "immodeste": cosa avrebbe dovuto ordinare, allora, si disse, di fronte a casi di adulterio o a crimini più gravi?); 4) aveva rinunciato in modo non chiaro e con riserva di frutti al vescovato di Novara; 5) aveva dimostrato odio fin eccessivo per i Turchi; 6) si era sempre mostrato troppo attento alla propria salute (ad esempio ritirandosi in occasione di epidemie); 7) non aveva celebrato la messa tutti i giorni; 8) aveva dimostrato lacune teologiche; 9) aveva in qualche occasione trattato con durezza la servitù; 10) non si era dimostrato generoso o affettuoso con i nipoti Livio e Carlo.
Si ribatté con più o meno efficacia ad ognuna di queste obiezioni, il che non impedì al processo di bloccarsi. Su ciò influì l'opposizione francese, ma a determinare il congelamento del processo furono soprattutto i dubbi che sopravvennero allo stesso pontefice: Benedetto XIV scrisse che Odescalchi più che un santo era "stato però uomo da bene" (Romana Beatificationis [...]. Disquisitio, p. 13). Pur in presenza di due eventi miracolosi (guarigioni improvvise) riconducibili ad I., il papa non riconosceva ad Odescalchi la qualità eroica della santità. La pubblicazione di documenti ad opera del domenicano Berthier rivitalizzò il processo, la cui ripresa fu disposta da Pio XII. Nel 1944, a fronte delle perplessità che erano via via emerse sulle posizioni di I. in materia di fede, anzitutto a proposito del quietismo, fu interpellato il Sant'Uffizio, che dichiarò di non voler ostacolare la causa. L'elevazione di I. a beato fu proclamata il 7 ottobre 1956. Lo si celebra come tale il 12 agosto.
fonti e bibliografia
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La principale documentazione relativa ad I. è pubblicata negli atti del suo processo di canonizzazione:
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae undecimi [...], Romae 1713.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI [...], ivi 1714-36.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI (n. 1611-Pont. 1676-1689).
Summarium. Testimonia-Documenta-Causae cursus, Città del Vaticano 1943.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI. Positio super virtutibus, ivi 1943.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI. Nova positio super virtutibus, ivi 1944.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI. Novissima positio super virtutibus, ivi 1955;
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI. Novissimae animadversationes Promotoris Generalis Fidei, ivi 1955.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI. Nova altera positio super virtutibus, ivi 1955.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI. Disquisitio Rev.mi Relatoris Generalis super causae statu et super quibusdam difficultatibus, ivi 1955.
Romana Beatificationis et canonizationis Ven. Servi Dei Innocentii papae XI. Positio super miraculis, ivi 1956.
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