Innocenzo XII
Antonio Pignatelli nacque nel 1615, secondogenito di Francesco, marchese di Spinazzola, dei Pignatelli di Cerchiaro, e di Porzia di Fabrizio Carafa. Come tante altre donne del suo ambiente, anche Porzia Carafa aveva contribuito in maniera incisiva al prestigio della famiglia d'acquisto, tra l'altro comprando il feudo di Minervino, che dava il titolo di principe a Francesco Pignatelli, padre di Antonio. E come tante altre madri aristocratiche, anche Porzia svolse un ruolo importante nei confronti dei suoi figli, soprattutto di quelli cadetti. Avviato alla carriera di Curia, Antonio fu infatti affidato alle cure dello zio materno, Vincenzo Carafa, generale della Compagnia di Gesù dal 1646 al 1649. Il ragazzo compì quindi i suoi studi presso il Collegio Romano, fino ad addottorarsi "in utroque iure". Dopo di che, la carriera romana del giovane Pignatelli seguì le tappe consuete: dopo aver ricoperto per alcuni anni la carica di referendario delle Segnature di Grazia e di Giustizia, nel 1643 fu nominato vicelegato di Urbino e tale rimase fino al 1645. La sua corrispondenza dalla vicelegazione ce lo fa immaginare funzionario solerte e ossequioso, che rende "divotissime gratie per l'honor fattomi con l'impiego" e che cerca di anticipare i desideri dei suoi superiori.
Nel 1646 il giovane è promosso inquisitore di Malta, carica che viene considerata equivalente a una Nunziatura, e lì rimane per tre anni, scalpitando alquanto per la pesantezza del clima e la sgradevolezza della sede. Il 12 agosto del 1646, ad esempio, egli scrive alla Segreteria di Stato: "Per gli inditij, che ne porgono le instanti congionture, si va probabilmente argomentando, che N.S. sia per risolversi di mandar Nunzio in Fiandra. Io considero molto bene, che potrà sembrare forse intempestiva la mia pretensione di far passaggio da questa alla suddetta carica ma però non dubito d'esserne tacciato, in riguardo alla scarsezza notissima d'impieghi, a cui hoggi vengono ristretti i sudditi di Spagna, e del posto in che mi trovo". E in varie altre lettere Pignatelli si lamenta del clima e sollecita il trasferimento ad altra sede. I suoi superiori non si lasciano però commuovere, ed egli resta a Malta. Nel 1649 muore lo zio Vincenzo Carafa e da quel momento la carriera di Antonio tende a farsi più lenta e incerta. Nonostante i suoi appelli sembra proprio che a Roma si siano dimenticati di lui: egli deve infatti aspettare fino al 1652 prima di essere trasferito alla Nunziatura di Firenze. Fino a quel momento ha però egli stesso manifestato qualche indecisione rispetto alle proprie scelte, perché ha aspettato il 1652 prima di prendere gli ordini sacri e ha quindi bisogno della dispensa apostolica per essere nominato vescovo di Larissa.
Se a Roma sembrano essersi dimenticati di lui, ciò deriva anche dal fatto che, con la morte dello zio, Antonio non ha in Curia parenti prossimi che possano curare i suoi interessi e agevolare la sua carriera. L'unico suo consanguineo è un altro Carafa, Carlo, nunzio a Vienna dal 1658 al 1664, ma il grado di parentela (il nono) è così remoto da non avere probabilmente alcun valore. Dopo aver passato tre anni a Malta, Pignatelli resta ben otto anni a Firenze, ma dalla sua corrispondenza non trapela impazienza e nemmeno alcunché d'altro di personale. Il tono continua ad essere quello del funzionario devoto e scrupoloso - "Dal qui aggiunto foglio di numeri [scrive per esempio nel 1653] V.Em.za resterà servita di vedere quello che da me richiedeva il debito della divotissima mia servitù".
Dalla corte del granduca, Antonio passa poi a Varsavia, dove resta per altri otto anni. I nunzi in Polonia avevano spesso forti contrasti con i vescovi locali: uno dei successori di Pignatelli, Francesco Buonvisi, viene per esempio accusato di voler introdurre "innovazioni" che apporterebbero pregiudizi insopportabili a quella Chiesa. Niente di simile trapela invece dalla corrispondenza dei vescovi polacchi con la Segreteria di Stato nel periodo della nunziatura Pignatelli - i rapporti con il rappresentante della Santa Sede sembrano svolgersi nel più tranquillo dei modi. Da Varsavia, nel 1668 Pignatelli passa a Vienna, dove svolge le sue mansioni con la consueta solerzia e soddisfazione dei suoi superiori. Tre anni dopo ne viene però richiamato e, da vescovo di Larissa quale era, il papa lo nomina vescovo di Lecce. Il rientro dalla capitale asburgica avviene quindi senza alcuna promozione, alcun progresso di carriera, mentre di solito i nunzi a Vienna, Parigi e Madrid terminano il loro mandato ottenendo la porpora cardinalizia. E dal momento che sia gli interessati sia le corti ospitanti si aspettano tali promozioni, considerandole la conclusione naturale di missioni diplomatiche presso sovrani di "primaria importanza", il fatto che Pignatelli ne sia stato escluso viene da tutti interpretato come un segno di disfavore: ben presto si diffonde la voce che sia stato richiamato "con la sola chiesa di Lecce" per "punirlo" dei suoi stretti rapporti con la fazione che nel conclave del 1670 si è opposta all'elezione di Emilio Altieri. In realtà la spiegazione è probabilmente da cercarsi altrove.
Nel 1671 si è aperta a Roma una controversia giurisdizionale tra le autorità pontificie e il cardinale Federico d'Hassia, ambasciatore dell'imperatore, destinata a protrarsi nel tempo e ad alimentare le rivendicazioni del partito zelante per l'indipendenza della Santa Sede. Oltre a rifiutarsi di lasciare ispezionare i suoi bagagli dai doganieri di Roma, pretendendo di godere di franchigie che invece non gli spettano, il cardinale d'Hassia esercita infatti continue pesanti pressioni perché si arrivi rapidamente alla nomina di nuovi cardinali e perché tra questi siano inclusi alcuni soggetti indicati da Vienna. Il più accanito oppositore del cardinale d'Hassia è il cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri, "nipote" del papa, lo stesso che quattro anni dopo entrerà in un conflitto molto più violento, ma esattamente sulle stesse materie, con tutti gli ambasciatori stranieri a Roma e in particolare con d'Estrées, rappresentante di Luigi XIV. Anche in quella occasione, Paluzzi Altieri si mostrerà molto deciso nel rivendicare i diritti doganali dello Stato pontificio contro le franchigie pretese dagli ambasciatori e nel difendere la piena autonomia del papa in materia di nomine cardinalizie (e il fatto che la documentazione relativa alle due controversie sia sempre raccolta insieme, nonostante il lasso di tempo che le separa, dimostra che anche i contemporanei mettevano i due casi uno in relazione con l'altro). Per contrastare le pressioni dei sovrani cattolici, nel 1675 egli farà quindi promuovere in tutta fretta i nunzi di primo grado e alcuni altri personaggi, come il maggiordomo dei Sacri Palazzi Apostolici, pur di coprire tutti i posti vacanti e vanificare ogni pretesa dei principi stranieri. È probabile dunque che il cardinal nipote volesse dare un segnale di fermezza al cardinale d'Hassia, che si era reso "insoffribile" per le sue "maniere imperiose" alla Corte di Roma, e all'imperatore, che pretendeva il cappello cardinalizio per un prelato nominato da lui. E richiamare il nunzio senza promuoverlo era senz'altro un segnale forte, visto che i sovrani tenevano molto a che i nunzi presso di loro ottenessero il titolo cardinalizio, considerandolo un omaggio fatto alla loro persona per il tramite di un funzionario che aveva servito alla loro corte. Ottenuto lo scopo di dimostrare fermezza nei confronti dell'imperatore, Paluzzi Altieri avrebbe poi potuto promuovere il povero Pignatelli. E invece la sua carriera continua a segnare il passo. Nel 1673 viene nominato segretario della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, e nel 1675 maestro di camera. Quest'ultima è una carica molto ambita, perché mette il prelato che la occupa a diretto e quotidiano contatto con il papa e con i personaggi che si possono incontrare nella sua anticamera, e offre quindi la possibilità di perorare la propria causa senza dare nell'occhio e perciò senza suscitare l'opposizione dei concorrenti. Ma Pignatelli deve aspettare altri sei anni prima di essere finalmente promosso al cardinalato nel 1681.
Come tanti altri prelati di Curia, prima e dopo di lui, Pignatelli aveva intrapreso la carriera perché animato da interessi politici, diplomatici, di governo. Per la cura d'anime, che pure gli toccò in sorte per ben undici anni, non sembra per il momento manifestare una grande vocazione. Nominato vescovo di Lecce nel gennaio del 1671, lascia passare sei mesi prima di recarsi a prendere possesso della sua diocesi, che abbandona peraltro dopo pochi giorni. Nei due anni successivi torna a più riprese alla sua sede, ma sempre per brevi periodi, finché, a partire dal giugno del 1673, quando Clemente X lo nomina segretario della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, non l'abbandona definitivamente, delegando formalmente le sue funzioni a vicari episcopali, mentre di fatto è il Capitolo della cattedrale che si assume il ruolo di direzione pastorale della città e dell'intera diocesi. Mentre il suo predecessore aveva duramente lottato per affermare l'indiscussa autorità del vescovo, Pignatelli lascia mano libera al clero locale, nominando vicari di scarso prestigio e accettando che le visite pastorali vengano effettuate da visitatori graditi al Capitolo della cattedrale di Lecce.
Ben altro impegno emerge dall'operato di Pignatelli durante la Legazione di Bologna, dove il prelato arrivò nel 1684, dopo aver retto per alcuni mesi la diocesi di Faenza. Qui, lungi dal lasciare mano libera ai poteri locali, egli non esita a dissociarsi dalle scelte del reggimento cittadino su questioni connesse con l'approvvigionamento della città, il commercio del grano, il diritto di battere moneta, l'ordine pubblico, le feste. Le diverse linee della sua azione di governo convergono nel testimoniare la sua fedeltà al pontefice e la sua accettazione di un proprio ruolo subordinato rispetto alle direttive del potere centrale, nonché la sua adesione a una politica di confronto tra Roma e Bologna che si traduce in un rapporto dialettico, di sfida ma anche di accettazione e legittimazione reciproca, tra il rappresentante del governo centrale e l'oligarchia cittadina. Nel settembre del 1686 Pignatelli riceve infine il suo ultimo incarico da porporato, con la designazione alla Curia arcivescovile di Napoli, ma è solo alla fine del 1687 che la nomina del suo successore, nella persona del cardinal Giovan Francesco Negroni, gli consente di lasciare Bologna. La sua azione a capo della Chiesa napoletana è segnata da molti dei tratti che si erano già manifestati durante la legazione di Bologna: "senza tentazioni episcopaliste, garante dell'autonomia della diocesi nell'obbedienza al papa, l'Arcivescovo napoletano rivendica in più occasioni la sua autorità sia contro le forze ecclesiastiche locali, ferme nel difendere e ampliare le loro competenze e i privilegi, sia contro il potere politico, sia contro la stessa curia romana" (E. Chiosi, p. 101). Arrivato a Napoli al momento dell'apertura del processo agli ateisti e dell'attacco aperto al quietismo, non può dimenticare di essere uomo di Curia, e tuttavia il suo atteggiamento rimane essenzialmente moderato e persino amichevole nei confronti di alcuni religiosi accusati di simpatie quietiste.
All'inizio del 1691, la morte di Alessandro VIII lo richiama improvvisamente a Roma, dove entra in conclave per partecipare all'elezione del nuovo pontefice. I sessantuno cardinali, che tra il febbraio e il luglio del 1691 si riunirono per scegliere il successore di papa Ottoboni, costituivano un gruppo piuttosto eterogeneo. Quindici di loro erano stati "creati" dal defunto pontefice, che tuttavia aveva regnato troppo poco per influire in maniera determinante sulla composizione del Sacro Collegio. Il gruppo più numeroso di porporati (ventisette) era perciò ancora costituito dalle "creature" di Innocenzo XI. Alcuni di questi erano confluiti nel partito ispano-imperiale guidato dai cardinali Francesco Maria de' Medici e Flavio Chigi, ma un buon numero di loro si riconosceva piuttosto nel partito degli zelanti, guidati dal cardinale Leandro Colloredo, cui si opponeva il partito francese, capeggiato dai cardinali Carlo Barberini, Pietro Ottoboni jr e Paluzzi Altieri. Gli zelanti - tra i quali si stava facendo strada l'idea che una riforma della Curia fosse ormai improrogabile, e che la pratica del nepotismo non fosse proprio più difendibile - caldeggiavano l'elezione del cardinale Gregorio Barbarigo, sostenuto da Chigi e fieramente osteggiato da Paluzzi Altieri e Ottoboni. Ma la fama di francofilo di Barbarigo suscitava l'ostilità di Leopoldo d'Asburgo, tanto che in marzo giunse da Vienna l'esclusiva contro di lui. Alla fine di aprile, dopo più di due mesi di conclave, la situazione di stallo cui si era giunti fece sì che si cominciassero a proporre nuovi nomi e verso la fine di maggio quello di Antonio Pignatelli prese a circolare con sempre maggiore insistenza. Pignatelli ebbe quasi subito dalla sua "li Ottoboniani e Alteriani, come anco li zelanti, che hanno tirato gl'Innocentiani, Imperiali e Spagnoli". Al contrario "li Francesi e Chigi si mostrarono alquanto duri a concludere" e bisognò letteralmente attendere l'ultimo minuto perché cadessero le loro residue resistenze. In ogni caso il 12 luglio Antonio Pignatelli fu elevato alla cattedra di s. Pietro, assumendo il nome di Innocenzo XII. Nei giorni immediatamente successivi, il nuovo papa passò a nominare i suoi nuovi collaboratori: alla Segreteria di Stato andò il cardinale Fabrizio Spada, alla Dataria il cardinale Bernardino Panciatichi, che già ricopriva quell'incarico, alla Segreteria dei Brevi privati il cardinale Gian Francesco Albani, a quella dei Brevi ai principi Mario Spinola. Segretario della Cifra fu nominato Vincenzo Ricci, auditore Ansaldo Ansaldi, segretario dei Memoriali Agostino Fabroni, sottodatario Giuseppe Sagripanti, maggiordomo Ercole Visconti, maestro di camera Baldassarre Cenci: come tutti subito notarono, nessuno degli incarichi più importanti era stato attribuito ai suoi parenti.
Il provvedimento sicuramente più noto e celebrato di tutto il pontificato di I. è costituito dalla bolla contro il nepotismo Romanum decet Pontificem, emanata il 22 giugno del 1692. Con questo provvedimento papa Pignatelli dava finalmente attuazione a un progetto a cui avevano a lungo lavorato papa Odescalchi e il suo auditore Giovanni Battista de Luca, e che entrambi avevano dovuto accantonare per l'opposizione irriducibile della Curia. All'origine del progetto presentato nel 1680 c'era sicuramente più di una motivazione. Il desiderio di porre finalmente termine a una pratica altamente sospetta di simonia, riformando i costumi del clero, conviveva con la volontà di difendere l'onore della Curia romana, eliminando alla radice quegli abusi che più facilmente potevano dare corpo alla polemica anticattolica e antiromana (la bolla di abolizione della venalità degli uffici camerali, del 10 novembre 1692, dichiarava testualmente di voler togliere ogni occasione "contra Romanam Curiam obloquendi et oblatrandi invidis et infensis eius detractoribus"). Ai motivi morali e religiosi si aggiungevano però, molto probabilmente, anche motivi politici. L'allontanamento dei parenti del papa dalle cariche di governo presenta infatti molti punti di contatto con i provvedimenti adottati da Mazzarino e Luigi XIV nel riformare il Consiglio del re, e l'argomentazione addotta per giustificare la bolla del 23 ottobre 1692 contro la venalità dei chiericati di Camera si richiama apertamente alla necessità di promuovere solo "quelli che hanno la marca del merito" riservando tali uffici a persone dotate di "vitae et morum integritate", "literarum scientia" e "rerum humanarum experientia" cioè a magistrati savi e prudenti in grado di gestire al meglio la cosa pubblica. Sono evidenti in questo testo le ascendenze ciceroniane, che rimandano immediatamente alla cultura politica di de Luca e, attraverso di lui, ai Six livres de la République di Jean Bodin. In due scritti del 1680, La Nemicitia tra la Corte e il Principato e Il Principe cristiano pratico, de Luca aveva delineato in maniera molto chiara il programma di governo che riteneva il più adatto a un sovrano cattolico: "la politica buona, da vero e buon Principe, quale in ciò si distingue dal tiranno perché principalmente riflette al bene pubblico de sudditi, che antepone al proprio e privato" consiste anche nel "sopprim[ere] le cariche inutili, e non necessarie, aboli[re] l'uso de donativi, delle corruttele e delle venalità, e to[gliere] le abusive introduzioni di tante franchiggie". Il principe deve mettere molta cura nella scelta dei suoi magistrati - scrive ancora de Luca - e osservare la "dovuta graduazione, deputando i giovani, e gli inesperti [...] alle cariche minori, dalle quali gradatamente facciano il passaggio alle maggiori [...] è anche necessario, che il Principe come condottiero [...] gli tenga disciplinati, havendo le redini nelle mani". Inoltre il sovrano deve "astenersi affatto dalla venalità, e dal ricevere perciò donativi, o permettere che da suoi familiari si ricevano [...] e quello il quale non aborre la corruttela attiva, non aborrirà la passiva, e facilmente ammetterà che gl'interessati camminino seco per quell'istessa via fangosa, e sporca, per la quale egli ha proceduto". Infine, anche quando non è a ciò obbligato da una qualche forma di governo misto, è bene che il principe si regoli "con consiglio di quei ministri, & officiali, i quali sono a ciò destinati, e sono informati degl'interessi del Principato, e non operi di propria testa, overo col consiglio de' suoi inesperti familiari".
Ma non era solo da de Luca che potevano venire le sollecitazioni a prendere provvedimenti contro la pratica di associare i parenti del papa al governo della cosa pubblica. Il segretario di Stato di I., cardinale Spada, era stato nunzio a Parigi tra il 1674 e il 1675 e aveva potuto constatare personalmente quale fosse lo stile di governo di Luigi XIV. Dal canto loro, a testimonianza di quanto fosse attiva la circolazione delle notizie tra le corti europee, i provvedimenti adottati da I. suscitarono un vivo interesse nei diversi paesi a nord delle Alpi, come testimonia un dispaccio dell'ambasciatore Domenico Contarini, il quale scrive: "Ogn'uno sta con apprensione, che [...] non s'acquieti l'animo della Santità Sua ricevendo gl'applausi delle sue attioni da buoni, e risonando dalle parti più remote; ultimamente essendosi rallegrato d'intendere tradotte le Bolle del Nepotismo e della soppressione della venalità delle cariche in più lingue oltramontane".
Alle ragioni morali e politiche, che militavano a favore dell'abolizione del nepotismo, si aggiungevano infine i motivi finanziari. La bozza di bolla presentata da Innocenzo XI ai cardinali nel 1680 faceva esplicito riferimento allo stato disastroso delle finanze pontificie e de Luca, ne La Nemicitia tra la Corte e il Principato, paragonava la prima a una "sanguisuga, che per ingrassarsi, e mantenersi succhia e tira a se tutto il sangue del corpo". Dieci anni dopo, le condizioni dell'erario pontificio non erano certo migliorate e anzi, nel breve pontificato di Alessandro VIII, gli eccessi nepotistici avevano raggiunto livelli tali che nel 1692 il provvedimento poté finalmente essere approvato, anche se con molte resistenze e sotto un "titolo" sufficientemente ambiguo, il quale più che vietare in maniera assoluta sembrava prescrivere "moderazione" ("Praescribitur moderatio servanda a Pontefice"). E pochi mesi dopo, fu pure possibile emanare una bolla che non solo aboliva la venalità dei chiericati di Camera ma impegnava il pontefice a restituire agli acquirenti le somme che avevano sborsato per aggiudicarseli.
Oltre alla bolla contro il nepotismo, l'interesse per il buon funzionamento della giustizia e l'attenzione per l'ordinata amministrazione della carità sono i tratti che probabilmente meglio caratterizzano il pontificato di Antonio Pignatelli. Intorno al problema della giustizia le autorità pontificie e i giuristi loro consiglieri stavano lavorando da tempo. Una bolla di riforma dei tribunali era stata emanata nel 1612, ad opera di Paolo V, deciso a migliorare l'efficienza della giustizia attraverso una più esatta definizione delle mansioni e delle competenze di tutto il personale dei tribunali, di ogni ordine e grado, dai giudici fino ai cancellieri e ai cursori. A questo provvedimento era seguito un lungo periodo di relativa disattenzione, finché, nel 1676, Innocenzo XI non aveva manifestato la volontà di riprendere in mano la materia, nominando una nuova Congregazione per la Riforma dei Tribunali e affidandone la guida a de Luca. L'attività della Congregazione, che di nuovo interveniva a disciplinare i compiti e le pretese del personale di ogni ordine e grado dei tribunali, non rimase confinata al piano teorico, ma trovò applicazione pratica, andando ad incidere concretamente sulla procedura adottata dalle varie corti di giustizia (lo testimoniano gli archivi del Tribunale dell'"Auditor Camerae", che mostrano sostanziali innovazioni a partire dal 1677). Il 28 luglio del 1691, a due settimane dall'elezione, anche I. mostrò di volersi occupare della questione. In quella data fu infatti "affissa una notificazione che chi voleva udienza da Nostro Signore si portasse il lunedì avanti Sua Santità, che l'haverebbe havuta". Da quel momento, e per un lasso di tempo di circa quattro anni, il papa tenne effettivamente udienza pubblica ogni quindici giorni, ricevendo e ascoltando i sudditi che chiedevano giustizia. In questa maniera egli si presentava al popolo nelle vesti del "sovrano giustiziere", che siede personalmente a rendere giustizia, in maniera "immediata", vale a dire rapida e contemporaneamente svincolata dalle consuete mediazioni procedurali di avvocati, giudici, cancellieri, imposte dal ricorso a un tribunale. Così egli incarnava e rendeva visibile quello che era forse l'attributo fondamentale della sovranità medievale e moderna, e il valore della sua azione andava ben al di là degli effetti pratici della medesima, come emerge chiaramente dai commenti di alcuni osservatori. La disponibilità del papa - scrive l'ambasciatore veneziano Contarini - aveva suscitato grandi speranze in coloro che avevano cause pendenti e non riuscivano a vederne la fine; ben presto, però, quegli stessi che si erano rivolti a lui si erano accorti a proprie spese che "non se conseguiva l'intento, mentre non si poteva ottenere alcuna gratia, né mai si spediva alcuna causa, ma tutto si rimetteva alle congregationi et ai tribunali". E tuttavia "questo pubblico ricorso portava un gran freno a tutti li ministri e giudici, et anco alli baroni e nobili, mentre era troppo facile la strada d'avvicinarsi all'orecchio del Pontefice e di scuoprirli quello che in altri tempi era impedito o dall'autorità o dall'astuzia di chi s'approssima al pontefice, in questa guisa vivendo ognuno con moderatione et esercitandosi dai tribunali la più severa giustizia".
Per il resto, la politica giudiziaria di I. si presentava come una continuazione di quella adottata dal suo predecessore. Così nell'agosto del 1692 il papa fece pubblicare nuovi decreti della Congregazione per la Riforma dei Tribunali, che questa volta miravano a stabilire le precise competenze di ogni corte, per mettere fine ai conflitti di giurisdizione. Come le precedenti, anche questa Congregazione degli anni Novanta era composta da "esperti", cioè da magistrati dei principali tribunali romani, il "cursus honorum" dei quali prevedeva in genere il passaggio da una magistratura all'altra: tutti erano quindi bene al corrente dei problemi che ogni singolo tribunale doveva affrontare. Ne facevano parte Prospero Bottini, avvocato fiscale, Jacques Emerix, avvocato di Rota, Mathieu Ysoré de Hérault, Federico Caccia e Giuseppe Molines, auditori di Rota, Giovan Domenico Tomato, luogotenente dell'"Auditor Camerae", Curzio Origo, votante della Segnatura di Giustizia, Giuseppe Sagripanti, sottodatario, Ferdinando Nuzzi, commissario della Reverenda Camera apostolica, Ansaldo Ansaldi, "auditor Sanctissimi", Fatinello Fatinelli, primo collaterale del Tribunale del Senatore, e Giovan Domenico Rainaldi, luogotenente criminale del cardinale vicario: tutti i tribunali primari, quelli che non sarebbero stati colpiti dal decreto di soppressione, vi erano rappresentati. E pochi giorni dopo, la Congregazione suggerì appunto l'emanazione di un decreto per la soppressione di quella pletora di corti minori su cui si erano fino allora fondati i privilegi giurisdizionali di vari corpi sociali, a cominciare dalle "nazioni" e dalle arti, suggerimento che il papa accolse nella bolla Romanus Pontifex del 17 settembre 1692.
"Doppo havere suppresso novanta sette Tribunali inferiori [commenta un altro contemporaneo], che non servivano ad altro che a eternare le cause, facendole vagare da uno in un altro foro con gran danno de' poveri interessati, ridusse questo glorioso pontefice all'uso della Gran Corte della Vicaria di Napoli, tutti li altri Tribunali Supremi (toltone il Governo) nella gran mole fabricata in Monte Citorio, oggi chiamata la Gran Curia Innocenziana, dove stando tutti li Ministri et Officii superiori, rendesi un utile troppo considerevole per li litiganti, li quali dove prima erano astretti girare da Ponente a Levante continuamente con tanto loro scommodo e lunghezza, ora ritrovano subbito e tutti in un luogo sparammiando tre quarti di spesa per li viatici de Procuratori, Agenti e Sollecitatori" (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 4016, cc. 10v-12).
La concentrazione di tutti i tribunali in un solo luogo, la semplificazione delle magistrature con la soppressione dei fori privilegiati, per non parlare della simbologia del "sovrano giustiziere" esaltata dalle udienze pubbliche del papa, erano gli strumenti e i "segni" cui si affidava la legittimazione e la credibilità di una politica di riforme fondata sull'amministrazione corretta ed efficiente della giustizia. Gli stessi strumenti e gli stessi contrassegni vengono usati per promuovere l'altro grande settore di intervento sociale di I., quello della carità. Anche in questo campo l'intervento del papa fu pressoché immediato: nel novembre del 1692 egli si era già assicurato la presenza a Roma del padre Giovanni Maria Baldigiani, della Compagnia di Gesù, cui era seguito, poco tempo dopo, l'arrivo dei due gesuiti francesi Honoré Chaurand e André Guevarre, considerati le massime autorità dell'epoca in materia di assistenza ai poveri e ai mendicanti. Chaurand soprattutto arrivava a Roma forte dell'esperienza che gli veniva dal caso di Avignone. Qui egli era stato chiamato nel 1683 dal vicelegato Francesco Niccolini, a curare la fondazione di un ospedale generale sul modello di quelli che aveva già fondato in Bretagna. Il nodo cruciale della questione era costituito dall'accettazione di queste iniziative da parte delle popolazioni, che per un verso dovevano finanziare l'operazione con le proprie elemosine, per l'altro dovevano accettare senza ribellarsi l'internamento di poveri e mendicanti. E proprio ad Avignone Chaurand aveva messo a punto un sistema di pubblicizzazione delle sue iniziative - attraverso la predicazione, ma anche la pubblicazione di opuscoli esplicativi e l'organizzazione di questue - che mirava precisamente a vincere la resistenza della popolazione e a stimolare il consenso e la carità dei privati. I Reglemens des hospitaux generaux, contenenti istruzioni molto dettagliate sull'organizzazione interna degli istituti di assistenza, pubblicati ad Avignone nel 1683, servirono così da modello per le Istruzioni e regole degli ospizi generali, dati alle stampe a Roma dieci anni dopo. Considerazioni analoghe si possono fare per l'opuscolo La mendicità provveduta coll'ospizio pubblico, scritto probabilmente a due mani da Chaurand e Guevarre e pubblicato a Roma nel 1693. Vi è sostenuta la tesi di una maggiore efficacia della carità pubblica, in grado di raccogliere in un unico grande bacino i mille rivoli della carità privata e quindi di utilizzarli in maniera al tempo stesso più selettiva e più efficace. Vi è ribadita anche l'idea della "malizia" dei poveri, inclini all'ozio e ai vizi e dunque da trattare con oculata severità. Il papa, che seguiva con attenzione il lavoro dei due gesuiti francesi, mostrò di condividere ambedue le tesi dei suoi consiglieri, ma fu a due italiani, l'oratoriano Francesco Marchesi e il gesuita Baldigiani, che egli affidò il concreto compito di allestire il nuovo grande ospizio apostolico di S. Giovanni in Laterano. Secondo i piani, il nuovo istituto doveva basarsi in gran parte sulle elemosine dei privati e tuttavia il papa dimostrò il suo attaccamento all'iniziativa, assegnando all'ospedale un'entrata fissa di quasi 28.000 scudi l'anno e continuando a seguirne personalmente le vicende. Tuttavia nel giro di soli due anni il progetto iniziale venne rivisto. Le resistenze contro un vero e proprio provvedimento di reclusione dei poveri e dei mendicanti, che si erano apertamente manifestate durante il pontificato di Innocenzo XI, bloccando un primo tentativo di allestire un ospedale generale, non tardarono a manifestarsi di nuovo. L'opposizione alla reclusione e al divieto assoluto di mendicare non veniva solo dai diretti interessati, ma coinvolgeva diversi settori dell'élite ecclesiastica e laica, traducendosi in un addolcimento delle misure repressive. In breve, l'ospizio apostolico smise di essere un luogo di segregazione per poveri recalcitranti e si trasformò in un istituto di assistenza per giovani e vecchi dei due sessi.
Il progetto iniziale di razionalizzare l'assistenza, centralizzandola, chiaramente ispirato alla stessa cultura di governo che aveva portato all'accorpamento di tutti i tribunali all'interno della Curia Innocenziana, venne dunque rapidamente ridimensionato, e la carità continuò a essere esercitata in una miriade di forme diverse, pubbliche e private, così come, nonostante tutto, l'organizzazione della giustizia continuò a dover fare i conti con la molteplicità delle giurisdizioni, a scontrarsi con i continui conflitti di competenza, e ad essere disciplinata da una pluralità di sistemi giuridici spesso in contraddizione tra loro. Una cultura politica di stampo "assolutistico", che puntava sull'accentramento quale mezzo per armonizzare e uniformare le regole, in modo da conferire il suo vero senso all'esercizio della sovranità, conviveva in maniera contraddittoria, ma non impossibile, con una cultura di governo fondata sulla metafora organicistica della società quale corpo, a sua volta costituito non da individui ma da un insieme, organico appunto, di corpi minori. L'immagine del sovrano regnante su sudditi tutti immediatamente a lui soggetti doveva fare i conti con l'immagine concorrente di un sovrano insediato al vertice di una piramide, in cui ogni segmento riceveva riconoscimento politico. Così i pellegrini, o più semplicemente gli immigrati, di ogni nazione, continuavano a godere di proprie istituzioni non solo di assistenza, ma anche di controllo e soluzione dei conflitti, e così i diversi gruppi all'interno della società, quali le donne, gli ebrei, o per l'appunto i poveri, seguitavano a godere di statuti speciali, irriducibili a un modello unico e uniforme. E lo stesso valeva per tutto l'insieme dei corpi, laici ed ecclesiastici, che costituiva la società: corporazioni, confraternite, luoghi pii, Ordini religiosi, associazioni rionali, compagnie della milizia, lignaggi e altri ancora. La politica di I. non appare quindi tanto caratterizzabile nei termini di un "moderno" tentativo di centralizzazione della giustizia o dell'assistenza, costretto a ripiegare di fronte al particolarismo tradizionalistico della società romana, quanto come il frutto di una cultura politica e sociale segnata da una duplicità di fondo, che sarebbe tuttavia anacronistico tacciare di incoerenza. Limiti ancora più importanti alla politica di unificazione e accentramento, sia della giustizia sia dell'assistenza, vanno poi ricercati nelle condizioni dell'erario pubblico e nella consapevolezza della sua situazione: una centralizzazione totale avrebbe comportato un onere finanziario insostenibile per le casse dello Stato, mentre, in un campo come nell'altro, il mantenimento di una delega parziale delle funzioni ai diversi corpi particolari, di volta in volta interessati, consentiva perlomeno di alleggerire i costi di gestione.
Ispirato allo stesso desiderio di difendere l'onore e il prestigio della Chiesa, che aveva animato la bolla contro il nepotismo, appare l'editto per il clero secolare emanato nel 1691 e poi ripreso nel 1696 e nel 1699. Con questo provvedimento I. si rivolgeva alle varie figure di chierici - "li sacerdoti e li promossi agli ordini sacri e li chierici di prima tonsura che tengono benefitii ecclesiastici" - dettando loro con minuziosa precisione regole relative non solo alle celebrazioni liturgiche, ma anche all'abbigliamento, al contegno in pubblico, allo stile e al tenore di vita. Vengono pertanto reiterati i tradizionali divieti a tenere donne in casa, ma vengono anche ribadite le prescrizioni tridentine relative alla "distinzione" degli ecclesiastici rispetto ai laici: i chierici non possono dunque indossare altro abito che quello talare, "lungo fino al collo del piede", e la loro tonsura clericale deve essere sempre ben evidente.
Lo scopo che l'editto si prefiggeva era una più netta distinzione tra ecclesiastici e laici. Il vistoso aumento del numero dei chierici, che aveva appunto caratterizzato la seconda metà del XVII secolo, aveva infatti comportato un rilassamento generale della disciplina, moltiplicando le occasioni di scandalo. La trattatistica sul clero si mostrava d'altronde pienamente consapevole del fatto che molti giovani prendevano gli ordini più per ragioni di famiglia che per vera vocazione. Di fronte a questo stato di cose, le gerarchie ecclesiastiche furono in qualche modo costrette a porsi, con rinnovata sensibilità, il problema della formazione del clero e della qualità dei suoi servizi. L'insieme degli interventi innocenziani mirava appunto a migliorare entrambe, allentando i vincoli che legavano i chierici al mondo dei laici, elevando il livello culturale degli ordinandi e rendendo più incisiva l'opera di controllo dei vescovi.
L'azione riformatrice di I. non si ferma a questi editti, ma prosegue con la costituzione, nel 1694, di una Congregazione della Disciplina Regolare che, dopo un anno circa di incontri e discussioni, nel 1695 emana il decreto Sanctissimus, il cui obiettivo è il ritorno dei frati a quella "esatta vita comune" indicata dalle Regole. Questi provvedimenti sono seguiti, nel 1696, dall'istituzione di una Congregazione straordinaria "sopra la disciplina ecclesiastica, riforma de costumi e correttione degl'abusi in Roma e suburbi". Tale Congregazione si riunisce a più riprese tra il 1696 e il 1697, affrontando tutta una serie di problemi riguardanti i doveri dei sacerdoti, e le sue deliberazioni si traducono poi in concreti provvedimenti, attuati vuoi direttamente, attraverso la Congregazione del Concilio, vuoi mediante l'azione del cardinale vicario di Roma. Anche questo insieme di disposizioni converge nel delineare una "riforma" del clero incentrata sulla moralità, la vita esemplare e, naturalmente, la "distinzione" dal mondo laico. Così vanno infatti intesi i divieti di svolgere attività di avvocatura o procura presso tribunali laici, oppure di esercitare il commercio. In questa stessa ottica rientrano anche i provvedimenti presi dalla Congregazione per disciplinare gli impieghi dei chierici: preso atto che il crescente numero delle ordinazioni sacerdotali eccede le effettive necessità della Chiesa, costringendo molti ecclesiastici a procurarsi da vivere con "impieghi abietti e indecenti", essa concede infatti ai sacerdoti di porsi al servizio di nobili casate "come cappellani o come segretari o come maestri o in altro ministerio" non proibito dai sacri canoni, ma vieta nella maniera più assoluta "il dare il braccio alle donne, il servire a tavola o far altri esercitii più vili". L'immagine ideale del sacerdote "ministro dell'altare", destinato al servizio di una chiesa, e quindi a una vita separata da quella dei laici doveva venire a patti con le reali condizioni di esistenza di tanti membri del clero e quindi con le eccezioni e le deroghe che queste ultime legittimavano. Un'analoga attenzione per la sacralità del ministero sacerdotale, nella sua connessione diretta con il sacrificio eucaristico, emerge dalle numerose disposizioni concernenti in particolare la diocesi di Roma, quali, per esempio, quelle riguardanti il trasporto solenne del viatico ai moribondi, o la celebrazione della messa (Roma stessa è oggetto di una visita apostolica indetta nel gennaio del 1693). A queste si aggiungono le prescrizioni riguardanti la "cura d'anime" o l'attenzione per un'adeguata preparazione dei chierici investiti di questo compito. Su suggerimento della Congregazione sulla Disciplina ecclesiastica, infatti, nel 1697 il vicario di Roma emanò una notifica con la quale si sollecitavano tutti gli ecclesiastici a frequentare gli esercizi spirituali presso i Padri della Missione in Montecitorio e, tre anni dopo, la Congregazione dei Vescovi e Regolari raccomandò a tutti gli ordinari d'Italia di adottare le stesse risoluzioni. E infine si devono ricordare le disposizioni riguardanti i seminari e più in generale la formazione del clero. È appunto in questo contesto che si situa il progetto di istituire anche a Roma - dove la formazione dei sacerdoti avveniva per lo più al di fuori di istituzioni come quella progettata, nei collegi dei vari Ordini religiosi - un seminario diocesano.
Il progetto non va in porto, ma è comunque indicativo delle intenzioni che animano I. e i suoi più stretti collaboratori. I loro propositi risultano d'altronde ancora più chiari quando si analizzino le posizioni e gli orientamenti dottrinali di alcuni tra i membri più influenti della Congregazione per la Disciplina del Clero, come Giovanni Casimiro Denhoff o Leandro Colloredo. Del primo sono note le conferenze spirituali tenute nella diocesi di Cesena per tutto l'anno 1696, dalle quali emerge chiaramente l'ideale di un ecclesiastico ascetico e consapevole della propria vocazione, alla ricerca di una via di distinzione dal mondo da perseguirsi anche nei più minuti aspetti della vita quotidiana. Nei suoi scritti si delinea inoltre la figura di un sacerdote che pone la cura d'anime al centro della propria attenzione, in linea con una pastorale antiprobabilista e contrizionista. Un'analoga attenzione per i costumi del clero emerge da alcune pagine di consigli su come effettuare le visite apostoliche, dedicate dall'oratoriano Colloredo a Clemente XI, nelle quali si auspica che, ove possibile, i preti secolari si riuniscano a vivere in convitti di vita comune, in modo che sia assolutamente garantita la loro separazione dalle donne. Tuttavia questo non implica una svalutazione del clero secolare rispetto a quello regolare, dal momento che lo stesso Colloredo dichiara di considerare i secolari "più atti alla cura e santificazione dell'anime ne' luoghi piccoli di qualunque frate".
Nel complesso quindi l'azione di I. nei confronti del clero si mostra da un lato ispirata a una morale rigorista, dall'altro favorevole al potenziamento delle strutture parrocchiali e al rafforzamento del rapporto vescovi-parroci in vista della cura d'anime, in accordo con quella linea pubblicistica ed episcopale di politica ecclesiastica, che si era già affermata a Roma con Innocenzo XI. Non è chiaro tuttavia quale ruolo il papa e i suoi più stretti collaboratori riservassero, in un'idea generale di riforma della disciplina ecclesiastica, al clero regolare, vale a dire a quella che è stata definita la "struttura portante della Chiesa della Controriforma". L'atteggiamento di I. nei confronti di quest'ultimo appare, infatti, abbastanza indeciso: da un lato si richiamano i religiosi al rispetto della Regola, in materia di povertà ed esatta vita comune, dall'altro si abolisce il "numerus clausus" per le professioni religiose, introdotto da Innocenzo X a metà Seicento, e ci si mostra comunque incapaci di resistere alle pressioni esercitate dagli Ordini all'interno della Curia. Anche in questo caso la politica di papa Pignatelli appare dunque caratterizzata da quella duplicità culturale che si è segnalata a proposito delle riforme della giustizia e dell'assistenza, duplicità determinata da quella compresenza di serie istanze pubblicistiche, e dunque astratte e impersonali, e di altrettanto radicate convinzioni organicistiche, e dunque altamente personalizzate, che caratterizza la sua epoca e il suo ambiente.
Nei rapporti con le potenze cattoliche, come tutti i suoi immediati predecessori, anche I. dovette presto confrontarsi con il problema del giansenismo. La bolla contro Giansenio, emanata da Alessandro VII nel 1656, e il formulario sul quale dovevano giurare gli ordinandi al sacerdozio, approvato dallo stesso papa nel 1665, imponevano il riconoscimento di "fede divina" del "duplice fatto", cioè della falsità delle proposizioni di Giansenio e della loro presenza nell'Augustinus, e quindi il loro ripudio non solo in senso generale eretico, ma anche specificamente, vale a dire come presenti nel libro e secondo le intenzioni dell'autore. La forte opposizione che tale testo non aveva mancato di suscitare, aveva tuttavia fatto sì che il formulario effettivamente da sottoscrivere contenesse significative restrizioni. La questione poteva dirsi sopita, ma non certo risolta. Essa si riaccese all'inizio del 1692, quando l'arcivescovo antigiansenista di Malines, nei Paesi Bassi spagnoli, provò a forzare la mano, non solo riproponendo il testo integrale del formulario di Alessandro VII, ma addirittura ritoccandolo, in modo da rendere ancora più feroce la condanna contro il giansenismo. Di fronte alle proteste dell'Università di Lovanio, il papa chiese consiglio ai suoi teologi. Né gli assessori del Sant'Uffizio, la cui composizione era radicalmente cambiata rispetto ai tempi di Alessandro VII, né i cardinali romani risultavano essere compattamente schierati su posizioni oltranziste. Il parere moderato del cardinale Girolamo Casanate finì quindi col prevalere e un decreto del 1694 prescrisse il ritorno al più prudente testo originario e il giuramento del formulario alessandrino nel suo solo "senso ovvio", imponendo al contempo alle parti di osservare il silenzio perpetuo sulla questione.
L'entourage del papa era d'altronde attraversato da correnti rigoriste che coinvolgevano la stessa Compagnia di Gesù. Già da alcuni anni il generale della Compagnia, Tyrso González, aveva permesso a tutti i suoi padri di prendere posizione a favore di una morale più severa e, di fronte all'inerzia da essi dimostrata, aveva deciso di prendere personalmente in mano la penna e di scrivere un trattato in materia. Il predicatore dei Palazzi Apostolici, Paolo Segneri sr, aveva cercato di opporsi a questa iniziativa del suo generale, che suscitava freddezza se non ostilità tra la maggioranza dei confratelli. Ma una Congregazione di cinque cardinali, nominata nel 1694 proprio per esaminare il suo caso, si pronunciò a favore di González, il quale godeva tra l'altro dell'appoggio di Vienna e di Madrid.
Un processo analogo si delineò a proposito della questione dei "riti cinesi". Nel 1693 la denuncia contro il sincretismo del culto di Confucio e degli antenati defunti, inviata a Roma da Charles Maigrot, membro del Seminario delle Missioni di Parigi e vicario apostolico di Fukien, riaprì la controversia (che era stata temporaneamente risolta, in senso permissivo, da Alessandro VII) sullo stile dell'attività missionaria svolta in Cina dalla Compagnia di Gesù, cui si imputava di operare un'indebita confusione tra cristianesimo e monoteismo confuciano. Dietro la controversia dottrinaria si celavano rivalità sulle missioni tra i Gesuiti e gli Ordini mendicanti, nonché tensioni giurisdizionali tra i vicari apostolici e il "padroado" portoghese e, anche in questo caso, I. evitò di schierarsi apertamente: il breve di risposta che venne inviato a Maigrot era estremamente elogiativo nei suoi confronti, e tuttavia il papa non mancava di esortare alla concordia, mentre tentava di trovare una soluzione alla controversia affidandone l'esame a una Congregazione. Quando quest'ultima si sciolse, senza essere riuscita a trovare una soluzione, I. ne nominò un'altra, che tuttavia si spaccò subito in due. Di lì a poco lo schieramento antigesuitico segnò un punto a proprio favore, ottenendo la condanna dei "riti cinesi" da parte della Sorbona. Ma poiché questo avvenne nel 1700, proprio alla morte del papa, il problema rimase aperto e furono i successori di I. a dovergli trovare una soluzione.
L'ostilità più forte all'elezione di Antonio Pignatelli era venuta dal "partito francese", che vedeva in lui un suddito del re di Spagna e dunque un potenziale nemico. Ma, smentendo i timori dei Francesi, uno dei primi atti compiuti dal nuovo papa fu quello di rivolgersi allo stesso Luigi XIV, annunciandogli che avrebbe volentieri affrontato e risolto la questione dei vescovati di Francia, vacanti in seguito alle tensioni causate dall'affare della "régale" e soprattutto dalla Dichiarazione dei Quattro articoli del clero gallicano, approvati nel 1682. Dopo le asprezze di Innocenzo XI, l'atteggiamento di papa Pignatelli appariva molto conciliante: la Santa Sede non arrivava a chiedere una ritrattazione della Dichiarazione, ma si sarebbe accontentata di una presa di distanza dalla medesima, vale a dire di un ordine del re che imponesse di non dare esecuzione all'editto del 1682. Di fronte all'atteggiamento altrettanto conciliante della corte di Francia, tra il 1692 e il 1693 il papa spedì le bolle di nomina a tutti i vescovi che ne avevano fatto domanda, compresi coloro che erano stati tra i sottoscrittori dei Quattro articoli, ponendo così fine a questo motivo di attrito. Ma se tale questione era chiusa, restava da risolvere l'affare della "régale". Tuttavia quest'ultima faccenda sollevava spinosi problemi internazionali, perché i maggiori poteri giurisdizionali che conferiva al re di Francia erano percepiti come un indebito favoritismo della Santa Sede nei confronti di una delle potenze cattoliche in guerra. L'indulto di nomina all'arcivescovato di Cambrai, città conquistata dalla Francia nel corso della guerra d'Olanda, suscitò così le risentite proteste dell'imperatore e costrinse il papa a rinviare ogni ulteriore iniziativa, senza tuttavia che questo alterasse le buone relazioni tra Parigi e Roma. In questo contesto di pacificazione con Luigi XIV vanno dunque letti i contrasti con l'imperatore, dovuti anche alle intemperanze degli ambasciatori cesarei a Roma. Nel 1692, quando tra Roma e Madrid si erano avuti dissapori a proposito dell'Inquisizione di Napoli, l'ambasciatore Anton Liechtenstein si era infatti schierato con la Spagna e nel 1699, per una questione di precedenze, il suo successore Georg Adam Martinitz aveva scatenato una vera e propria crisi diplomatica tra la Santa Sede e la corte di Vienna. Ma la divergenza più profonda si ebbe sulla questione della successione spagnola. Quando il Consiglio di Stato spagnolo suggerì a Carlo II d'Asburgo di indicare il suo successore in Filippo d'Angiò, I., al quale il re si era rivolto in cerca di approvazione, si dichiarò d'accordo con quella scelta. E tuttavia non assistette alla successione, perché morì il 27 settembre 1700, precedendo di poco il re di Spagna. Dopo gli aspri conflitti con la Francia, che avevano caratterizzato il pontificato di Innocenzo XI, la politica di papa Pignatelli si rivelava così di segno opposto. Forse non aveva visto male quell'inviato di Luigi XIV che poco prima dell'elezione del 1691 aveva commentato: "Ho appreso che mentre era in Polonia è stato sempre ben unito con la Francia e che a Vienna stessa non ha testimoniato asprezza né parzialità contro di noi. Si dice che si potrebbe fare di lui quello che si vuole perché ha sentito in parecchie occasioni il peso del giogo di Spagna". L'età della preponderanza spagnola era davvero finita.
fonti e bibliografia
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J. Donsì Gentile, L'archivio Aragona, Pignatelli Cortes, "Rassegna degli Archivi di Stato", 17, 1957, pp. 79-86.
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su Porzia Carafa cfr. M.A. Visceglia, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli 1988.
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Sui primi passi in carriera cfr. la corrispondenza con i Barberini in B.A.V., Barb. lat. 9224, 7353, 7585.
Per la carriera diplomatica cfr. gli archivi delle Nunziature e della corrispondenza dei vescovi in A.S.V., Segr. Stato, Malta, b. 7; Segr. Stato, Germania, b. 188; Segr. Stato, Nunz. diverse, b. 29; Segr. Stato, Vescovi e Prelati, bb. 34, 52.
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Sulle diverse controversie teologiche che agitano questo decennio tutto sommato tranquillo cfr. B. Neveu, Érudition et religion aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris 1994;
L. Ceyssens, Innocent XII et le Jansénisme, in Riforme, religione e politica, pp. 307-34.
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Sulla questione dei "riti cinesi" cfr. i documenti pubblicati in Sinica Franciscana, V, Roma 1954.
K.S. Latourette, A History of Christian Missions in China, New York 1929.
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F. Margiotti, L'atteggiamento dei francescani spagnoli nella questione dei "riti cinesi", ibid., pp. 125-80.
Sui rapporti con le potenze cattoliche, oltre a L. von Pastor, Storia dei papi, cfr. P. Blet, Innocent XII et Louis XIV, in Riforme, religione e politica, pp. 335-52.