Innocenzo X
Giovanni Battista Pamphili nasce a Roma il 7 maggio 1574 da Camillo e da Flaminia del Bufalo.
Originaria di Gubbio, la famiglia Pamphili nel corso dei secc. XIV e XV divise le sue attività fra la medicina e gli incarichi militari: l'antenato diretto di I., Mandino, è menzionato come gonfaloniere della città nel 1422. L'esercizio delle professioni giuridiche, accompagnato dalla sistemazione a Roma, consente ai Pamphili di trascendere l'orizzonte limitato della piccola località umbra. Il capostipite del ramo romano, Antonio, fa il suo ingresso nella Curia nella seconda metà del XV secolo e il 10 novembre 1460 ottiene la carica di procuratore fiscale della Camera apostolica. Nel 1479 si stabilisce in piazza del Pasquino, nel palazzo dove un secolo più tardi vedrà la luce il futuro Innocenzo X. Il rapido inserimento dei Pamphili nei migliori ambienti romani è inoltre agevolato da alleanze abilmente strette fin dai primi decenni successivi al loro trasferimento. In effetti, se lo stesso Antonio ha sposato una figlia di Niccolò Bentivoglio, luogotenente di Gubbio, i suoi discendenti sceglieranno le loro spose anche nelle famiglie dei pontefici. Il nonno di I., Pamphilo Pamphili, è figlio di un pronipote di Innocenzo VIII e sua moglie è pronipote di Alessandro VI. Queste alleanze, a cui si aggiungono quelle concluse con i Porcari, i Mattei, i Serlupi, i del Bufalo, permettono ai Pamphili di consolidare la loro appartenenza alla nobiltà romana, di porsi al riparo dai rovesci della sorte e di beneficiare delle relazioni necessarie ad una fortunata ascesa negli ambienti curiali, che avviene in modo graduale, secondo il classico e ben noto modello dei Borghese.
Mentre uno dei figli, promosso al ruolo di capofamiglia, si limita agli incarichi d'avvocato e agli onori municipali, un altro, entrato nella prelatura, si forma in cerchie sempre più vicine al pontefice. Sarà Girolamo Pamphili, zio di I., a compiere il passo decisivo: dopo essere stato luogotenente della Camera apostolica, il 4 giugno 1584 viene nominato auditore di Rota, carica alla quale dal 1° ottobre 1593 associerà la reggenza della Cancelleria. Questo zio, molto vicino al pari del fratello all'Oratorio di s. Filippo Neri, vigila sulla formazione del nipote e, per così dire, ne predispone la carriera.
Giovanni Battista, il cui fratello Pamphilo, maggiore di undici anni, è destinato ad assicurare la trasmissione del nome e del patrimonio familiare, riceve la prima tonsura il 4 agosto 1592 e fa così il suo ingresso nel mondo del clero, dove sa di poter contare su appoggi efficaci, come quello del cugino germano del padre, il potente cardinale Girolamo Mattei. Provvisto di un dottorato "in utroque jure" conseguito alla Sapienza di Roma, Giovanni Battista esercita per qualche tempo la professione d'avvocato nella cerchia dello zio, prima di essere nominato con "motu proprio" di Clemente VIII, il 25 gennaio 1601, avvocato concistoriale, carica nella quale si insedia il 24 maggio 1602. Divenuto ormai membro del Collegio che riunisce gli avvocati della Rota, perfeziona sia le sue competenze di canonista che la gestione di una rete di relazioni assai utili nella Curia. Lo zio Girolamo, decano della Rota dal 26 agosto, è elevato alla dignità cardinalizia il 9 giugno 1604 e in breve viene nominato vicario del papa a Roma. Questa promozione, che segna un'affermazione personale, non basta a garantire al nipote una carriera di spicco nella Curia. I Pamphili riescono allora ad ottenere ciò che solo due famiglie, tra cui gli Aldobrandini, si sono assicurate nel XVI secolo: Giovanni Battista Pamphili subentra allo zio Girolamo come auditore di Rota e presta giuramento il 15 dicembre 1604. Questa successione, che fa di lui uno degli auditori più giovani dell'epoca, insieme alle qualità personali riconosciute al giovane prelato suggellano l'influenza dei Pamphili e dei loro alleati presso il pontefice sovrano e all'interno della stessa Rota: lo zio materno di Giovanni Battista, Marcello del Bufalo, non era stato auditore dal 1577 al 1591?
La scomparsa di Clemente VIII nel marzo del 1605 e la morte di Girolamo Pamphili, l'11 agosto 1610, non favoriscono comunque Giovanni Battista, che durante l'intero pontificato di Paolo V continua a svolgere il suo incarico di auditore, al quale tuttavia si aggiunge il 14 settembre 1612 la carica di luogotenente della Sapienza, ossia responsabile del conferimento dei dottorati, lasciata vacante dalla partenza dell'auditore Alessandro Ludovisi, futuro Gregorio XV, alla volta dell'arcivescovato di Bologna; inoltre, il 20 settembre, è nominato consultore canonico della Penitenzieria. Parallelamente conferma in modo definitivo la sua appartenenza alla Chiesa, ricevendo in successione gli ordini di suddiacono (4 gennaio 1617), diacono (20 febbraio 1618) e infine sacerdote, in data non precisata, ma anteriore al gennaio 1626. Due fattori spiegano l'impegno irrevocabile nella carriera ecclesiastica: in primo luogo, questi ordini sono indispensabili per poter accedere alle pensioni ecclesiastiche che gli si prospettano, in particolare quelle gravanti su benefici portoghesi. Inoltre, elemento forse ancora più decisivo, ha atteso che il fratello maggiore si sposasse nel novembre del 1612 con Olimpia Maidalchini, vedova in prime nozze di un Nini, e che nascesse un erede, Camillo, il 2 febbraio 1622. Questo ingresso molto tardivo nel sacerdozio - almeno a quarantaquattro anni - non è affatto indizio di scarso fervore religioso: è solo il riflesso di comportamenti consueti nell'aristocrazia, che mirano a conciliare al meglio il servizio curiale e la riproduzione sociale delle famiglie. Anche altri, ad esempio Ippolito Aldobrandini, ordinato pure lui sacerdote a quarantaquattro anni, hanno dato prova di analoga prudenza, al fine di poter succedere ad un fratello laico in caso di decesso prematuro di quest'ultimo. La carriera di Giovanni Battista, del resto, non ebbe a soffrire per questa scelta. In veste di canonista, che tra l'11 febbraio 1605 e il 25 gennaio 1621 emette più di settecento decisioni, dà il suo contributo anche alla causa di canonizzazione di s. Francesco Saverio, avviata nel 1617, di cui è uno dei relatori insieme ai colleghi Coccini e Sacrati. Quando la causa si conclude con la canonizzazione dell'evangelizzatore delle Indie, il 5 marzo 1622, Giovanni Battista ha abbandonato già da alcuni mesi gli uffici della Rota.
In effetti, l'ascesa al soglio pontificio del suo antico collega Ludovisi con il nome di Gregorio XV, il 9 febbraio 1621, segna una nuova tappa nella carriera del prelato Pamphili. Il 26 marzo un breve lo nomina nunzio a Napoli. Il papa sa quel che fa designando un auditore di Rota: questa Nunziatura, così vicina a Roma, più che talento diplomatico richiede competenze di canonista e di amministratore, nel quadro di una fiscalità beneficiale che contribuisce in modo non trascurabile alle finanze della Santa Sede. Sul piano strettamente diplomatico, l'unica questione seria con cui deve misurarsi Giovanni Battista nei quattro anni della sua nunziatura è l'arresto, sulle galere pontificie in rada a Napoli, di soldati napoletani accusati di tentato omicidio nei confronti del viceré Zapata. La soluzione dell'incidente, rapidamente soffocato in ambito locale (luglio 1622), in seguito sfugge di mano a Pamphili perché viene affidata al nunzio di Madrid.
Soddisfatto dei suoi servizi, Urbano VIII nel 1623 conferma Giovanni Battista nella sua carica, per richiamarlo solo nel marzo 1625 con l'intento di assegnarlo al servizio del nipote, il cardinale Francesco Barberini, nominato legato "de latere" in Francia allo scopo di giungere ad una pace tra Francesi e Spagnoli in Valtellina. Ancora una volta le sue competenze di esperto in diritto canonico gli assicurano la fiducia del pontefice. L'incarico di datario che gli viene affidato, prettamente tecnico, non deve tuttavia dissimulare il ruolo di consigliere che il papa intende fargli svolgere presso il giovane legato. Il Barberini, in effetti, lo manda ad incontrare il duca di Savoia a Savona, il 29 marzo 1625, per sondare i propositi di quest'ultimo. La legazione, durante la quale Giovanni Battista si guadagna il soprannome di "Monsignore-non-si-può" a causa del suo rigore formale e dell'intransigenza con cui dispensa le concessioni che gli competono, si conclude in autunno con un totale fallimento. Di ritorno a Roma il 17 dicembre 1625, Pamphili non viene sconfessato per l'insuccesso, poiché il 21 gennaio 1626 è nominato patriarca di Costantinopoli. Questa dignità, che non comporta ovviamente residenza, non è in realtà che il preludio ad una nuova partenza, il 30 gennaio, a fianco di Francesco Barberini, nominato legato "de latere" in Spagna. Questa legazione, che persegue gli stessi obiettivi della precedente, non si rivelerà più fruttuosa per la Santa Sede, in quanto Francia e Spagna hanno firmato a sua insaputa il trattato di Monzón il 5 marzo 1626.
In questo contesto delicato e incerto Giovanni Battista viene scelto per svolgere la sua prima grande missione diplomatica: la nomina alla Nunziatura di Spagna, il 31 maggio 1626 (i brevi sono del 13 giugno), all'età di cinquantadue anni, non esprime un favore tardivo, ma, al contrario, si iscrive nella norma del "cursus" curiale della prima metà del XVII secolo. A questa missione prestigiosa che in genere assicura al suo titolare il cardinalato, e inoltre ben retribuita dall'esercizio del suo tribunale, Giovanni Battista è adeguatamente preparato grazie ai suoi incarichi alla Rota e a Napoli. Sul piano diplomatico, il margine di manovra del nunzio Pamphili è ridotto e talvolta nullo. Dopo il trattato di Monzón la Santa Sede è di fatto esclusa da una soluzione globale nelle Alpi, mentre il nunzio assiste impotente alle vicende della successione nel Ducato di Mantova, apertasi il 26 dicembre 1627, che ben presto infiamma il settentrione d'Italia e semina la discordia tra Francesi, Spagnoli e Imperiali. Giovanni Battista non può far altro che perorare la causa della pace con Filippo IV. Come nel conflitto che scuote l'Impero, i suoi interventi non impediscono l'insorgere di crisi, che costringono il papa ad agire per il tramite di una diplomazia straordinaria affidata, fra gli altri, al nipote Antonio Barberini, legato in Italia, e a Giovanni Battista Pallotta, nunzio straordinario presso l'Impero. Pamphili, troppo lontano dal teatro delle operazioni, è maggiormente sollecitato a vigilare sui lavori dell'Inquisizione, sulla scorta di voci che segnalano una rinascita del giudaismo in Portogallo, e a regolare questioni giurisdizionali sollevate, talvolta con toni aggressivi, dal conte-duca d'Olivares, che non esita a riesumare argomenti usati a più riprese contro la Santa Sede, come il cosiddetto privilegio della Monarchia Sicula, grazie al quale i sovrani di Sicilia vantavano la facoltà di disporre liberamente dei benefici dell'isola. Le lunghe discussioni a proposito dei diversi sussidi reclamati da Filippo IV sulle rendite ecclesiastiche (bolla della crociata, il dono dei "18 milioni" a partire dal gennaio 1629) e i conflitti provocati a Roma da Spagnoli intransigenti (questioni di cerimoniale, scontro con guardie pontificie nel luglio 1627, visita di S. Giacomo degli Spagnoli nell'ottobre 1628) costellano una nunziatura durante la quale, per ammissione dello stesso ambasciatore veneziano, Pamphili si è procurato molti fastidi e la Santa Sede ha subìto seri danni. Queste difficoltà non impediscono ad Urbano VIII di nominare cardinale Giovanni Battista, seguendo una consuetudine ormai consolidata, dapprima "in pectore" il 30 agosto 1627, sembra contro la volontà di Olivares, e in seguito di rendere pubblica la sua promozione il 19 novembre 1629. Dopo aver lasciato Madrid il 25 marzo 1630, alcuni mesi prima dell'inizio della lunga controversia sugli "abusi della nunziatura", il neocardinale Pamphili riguadagna Roma, dove il papa il 6 luglio 1630 gli consegna la berretta cardinalizia e il 12 agosto gli attribuisce il titolo presbiterale di S. Eusebio.
Cardinale della Curia e, in principio, sempre auditore di Rota (si dimetterà ufficialmente solo nel 1633), Pamphili viene rapidamente inserito in numerose Congregazioni, laddove la sua esperienza appare utile al pontefice. Dal 17 agosto 1630 prende parte alla Congregazione del Concilio, incaricata di enunciare la giurisprudenza dei decreti tridentini, e il 19 agosto presiede per la prima volta la Congregazione dell'Immunità ecclesiastica, istituita da Urbano VIII nel 1626 per dibattere questioni giurisdizionali riguardanti lo statuto dei beni e delle persone in ambito ecclesiastico. È consigliere privilegiato di Francesco Barberini, allorché si tratta di dirimere problemi che interessano la Spagna, in particolare nel quadro della denuncia da parte del clero iberico degli "abusi della nunziatura". Nel 1630 è associato anche alla Congregazione "de Propaganda Fide", che si occupa delle missioni cattoliche nel mondo, e viene designato per presiedere un certo numero di Congregazioni speciali istituite per discutere i conflitti di competenza sorti fra Propaganda Fide e il Sant'Uffizio (Congregazione di Persia nel 1631, "commissione teologica" dopo il 1635).
Pamphili non si discosta dal modello del cardinale romano della Riforma cattolica. Mentre va accumulando benefici situati essenzialmente nel Mezzogiorno (diocesi di Nicastro e di Mileto), seppure in proporzioni misurate, nonché pensioni su arcivescovati e vescovati (Mileto, Ferrara), Giovanni Battista Pamphili integra il patrimonio familiare con operazioni immobiliari che in prospettiva appaiono promettenti: il 23 ottobre 1630 acquista una vigna fuori della porta S. Pancrazio, futura sede della villa Bel Respiro, e dalla metà degli anni Trenta avvia i lavori nel palazzo di famiglia in piazza del Pasquino, che ha suddiviso con il fratello nel 1615. Le sue scelte spirituali di quel periodo sono poco note, ma alla luce di un testamento redatto prima del 1639 sembra aver mantenuto la sua predilezione per gli Oratoriani, avendo indicato la loro Chiesa Nuova come suo luogo di sepoltura. I parenti più prossimi rappresentano la maggiore preoccupazione del cardinale Pamphili. Mentre due delle sorelle hanno preso i voti e altre due hanno contratto matrimoni relativamente modesti, il fratello maggiore, Pamphilo, ha avuto tre figli dalla moglie Olimpia, più giovane di lui di trent'anni: dapprima una figlia, Maria, nata nel 1619, poi un figlio, Camillo, nato a Napoli nel 1622 durante la nunziatura dello zio. La nascita di un'altra figlia, Costanza, il 1° gennaio 1629, è vissuta da tutti, compreso Giovanni Battista, come un dramma: viene a mancare quel figlio maschio tanto desiderato, a cui era destinato il nome di Girolamo - in memoria del cardinale - privando crudelmente i Pamphili della possibilità di assicurare, com'era accaduto fino a quel momento, la duplice ascesa sociale indispensabile alla permanenza ai massimi livelli nella Roma moderna, che consisteva nell'associare il successo curiale alla perpetuazione della discendenza. La scomparsa di Pamphilo Pamphili a settantasei anni, nel 1639, pone il cardinale Giovanni Battista Pamphili nella posizione di un vero e proprio capofamiglia, anziano (ha sessantacinque anni), ma al culmine del suo potere.
Il suo ruolo, ancora limitato a questioni di ordine tecnico nei primi anni dopo il ritorno a Roma, alla fine degli anni Trenta assume un'ampiezza rilevante. Nel 1636, alla protezione dell'Ordine dei Basiliani si aggiunge la comprotezione del Regno di Polonia che gli viene conferita da Ladislao IV fino al 1639, sostegno non trascurabile nella reciproca competizione che impegna i cardinali vicini al papa. Il 4 febbraio 1639, in seguito alla scomparsa del cardinale Verospi, viene nominato prefetto della Congregazione del Concilio. Inoltre, già da alcuni anni è membro delle Congregazioni dei Riti e del Cerimoniale e partecipa alle Congregazioni di Stato convocate dal papa per esaminare le nomine dei nunzi e discutere alcuni orientamenti della politica estera della Santa Sede. L'ampiezza dell'appartenenza a numerose Congregazioni cardinalizie consacra la vera influenza alla Corte di Roma e l'ambasciatore veneziano Nani non sbaglia quando nel 1640 lo annovera tra i papabili. Quando Urbano VIII, nel novembre 1642, designa Giovanni Battista perché diventi uno dei due cardinali inquisitori del Sant'Uffizio, non fa altro che sancire una posizione ormai di rilievo in seno al Sacro Collegio, dove il Pamphili dà prova di una certa autonomia, che l'avrebbe indotto - si dice - a sconsigliare di intraprendere la sfortunata spedizione di Castro contro Odoardo Farnese.
Comunque Giovanni Battista si è conquistato la fiducia del papa e ben presto è chiamato a dare il suo contributo nel quadro della lotta contro il giansenismo. La bolla In eminenti, redatta il 6 marzo 1642 da Albizzi, assessore al Sant'Uffizio, è stata pubblicata il 16 giugno 1643 per condannare l'Augustinus del vescovo di Ypres Cornelius Jansen (Giansenio). Più tardi, in seguito al turbamento e alla sorpresa suscitati in Fiandra dalla pubblicazione della bolla, il papa crea una commissione speciale, della quale chiama a far parte Pamphili, insieme ai cardinali Spada e Falconieri, e in qualità di segretario l'attivo Albizzi, che Pamphili ha conosciuto in Spagna nel 1628, quando accompagnava il nunzio straordinario Monti. La commissione è incaricata di preparare il decreto che conferma la bolla con l'intento di rafforzarne il valore. Il compito è assolto il 16 giugno 1644, senza aspettare i risultati dell'inchiesta avviata nei Paesi Bassi spagnoli, e alcune settimane più tardi, il 26 luglio 1644, Albizzi consegna solennemente il decreto in presenza dei tre cardinali.
Alla fine di luglio, in seguito al decesso di Urbano VIII, i cardinali entrano in conclave. Durerà trentasette giorni - è il più lungo dal tempo di quello che elesse Gregorio XIV nel 1591 - e vede il Sacro Collegio diviso, secondo le fonti, in tre o quattro fazioni, tra cui emergono quella degli austro-spagnoli, guidata dai cardinali Albornoz e Harrach, e un partito francese capeggiato dal nipote del defunto papa, Antonio Barberini. Francesco Barberini influenza un altro gruppo di cardinali più giovani, provenienti dalla clientela vicina alla sua famiglia, e a questo titolo può figurare come arbitro tra formazioni antagonistiche. Il personaggio più appropriato a raccogliere i voti dei francofili e della fazione barberiniana, il cardinale Sacchetti, è colpito dal veto opposto nei suoi confronti dagli spagnoli. Questi ultimi non riescono comunque ad imporre loro candidati, come il cardinale Cennini. Ognuno dei due campi dovrà rinunciare alle pretese iniziali: è inevitabile la ricerca di una soluzione di compromesso. Francesco Barberini finisce per convincere il fratello Antonio, la cui iniziativa travalica i limiti delle istruzioni ricevute, a trovare un accordo sulla persona di Giovanni Battista Pamphili, al quale gli spagnoli non sono ostili, ma che era stato oggetto del veto francese. Mazzarino, primo ministro di Luigi XIV, viene avvertito in ritardo dal suo ambasciatore in merito alle intenzioni del Sacro Collegio e il 19 settembre dichiara la sua assoluta opposizione a questa candidatura. Ma è troppo tardi: il conclave, il 15 settembre 1644, elegge senza indugi con una schiacciante maggioranza (quarantotto suffragi) colui che assume il nome di Innocenzo X, senza dubbio in memoria di Innocenzo VIII, il quale aveva favorito il trasferimento a Roma dei Pamphili con cui era imparentato.
Le circostanze della sua elezione ebbero un peso rilevante sulla politica di I., almeno quanto la sua età - settanta anni, che ne fanno il pontefice più anziano al momento dell'elezione dal periodo di Gregorio XIII, a parte l'effimero Innocenzo IX - e le vicissitudini familiari dei Pamphili che i contemporanei amavano rimarcare per farsene beffe. La questione della forma da attribuire al governo si impose in modo cruciale fin dai primi giorni del pontificato. Il modello del cardinal nipote, o come si diceva già allora "padrone", divenuto una vera e propria istituzione nella seconda metà del XVI secolo, dal tempo di Pio IV con Carlo Borromeo, e soprattutto con Urbano VIII e il nipote Francesco Barberini, rappresenta all'epoca un metodo abituale di direzione dello Stato pontificio e della politica estera della Santa Sede e, in una certa misura, offre al papa il distacco necessario al mantenimento della sua autorità mediante l'azione di patrocinio. L'esempio dei Borghese e dei Barberini ha reso quest'espressione originale del potere pontificio estremamente pregnante agli occhi di chi, come I., ha assiduamente frequentato per mezzo secolo gli ambienti curiali. Quando il 14 novembre 1644 I. conferisce al nipote Camillo la porpora cardinalizia e il 18 novembre lo nomina soprintendente dello Stato pontificio, senza contare le cariche e i benefici che accumula numerosi sulla propria persona, sembra riprodurre schemi già noti. In seguito cerca di assicurarsi l'alleanza delle grandi famiglie romane, caldeggiando il matrimonio della nipote Costanza con Niccolò Ludovisi principe di Piombino, celebrato il 21 dicembre 1644, e blocca i principali ruoli militari dello Stato affidandoli allo stesso Ludovisi e all'altro nipote acquisito, il marchese Andrea Giustiniani, nominato principe di Bassano nel 1644. Infine, oltre agli innumerevoli doni alla cognata donna Olimpia, il 14 novembre 1645 emette un breve in virtù del quale la proprietà di San Martino al Cimino di quest'ultima viene eretta a principato, con la concessione di alzare delle mura. Tuttavia, l'evento saliente agli esordi del pontificato è la nomina, nel settembre 1644, del cardinale Giovanni Giacomo Panciroli alla carica di segretario di Stato. Con la designazione di Panciroli, che era stato auditore alla Nunziatura di Madrid al tempo di Pamphili, I. separa di fatto e forse senza premeditazione alcuna, assai più di quanto non abbiano fatto i suoi predecessori, quei poteri che il cardinal padrone fino ad allora era stato incline ad accentrare su di sé, malgrado l'esistenza di un segretario di Stato: all'esperto Panciroli, primo cardinale ad assumere una tale funzione e privo di legami di parentela con il pontefice regnante, spetta la responsabilità degli affari esterni; al giovane nipote Pamphili sono attribuiti gli incarichi e le rendite più direttamente connessi alla gestione del potere temporale.
Questa coppia, a dispetto degli inevitabili conflitti di competenza, funziona molto bene fin quando Camillo, che ha rifiutato di abbracciare in via definitiva lo stato ecclesiastico, decide di sposare Olimpia Aldobrandini, principessa di Rossano, il 10 febbraio 1647. Il papa, senza dubbio avverso a quest'unione che sottrae un suo parente ad una carica che un laico non può esercitare con le medesime prerogative, acconsente all'abbandono del cardinalato da parte del nipote, il 21 gennaio 1647, ma da quel momento lo terrà in una condizione di semidisgrazia. Per la prima volta dal XVI secolo la carica di cardinal padrone resta vacante, poiché l'elevazione alla dignità cardinalizia, il 7 ottobre 1647, di Francesco Maidalchini, giovane nipote (diciassette anni) di donna Olimpia incapace di governare, più che un sistema di governo salvaguarda la presenza tradizionale di parenti del papa nel Sacro Collegio. Sotto l'autorità del pontefice, Panciroli conserva così la sostanza del potere, che tuttavia condivide con donna Olimpia, la cui influenza presso I. è giudicata preponderante dai suoi contemporanei, i quali criticano anche l'intromissione di una donna negli affari della Chiesa. Ben presto si apre un periodo di energica reazione da parte del papa, le cui conseguenze saranno avvertite non solo sul piano strettamente familiare, ma anche sull'apparato governativo. I., stanco sia delle critiche di cui è oggetto la cognata sia di quest'ultima, allontana donna Olimpia dalla sua cerchia nell'autunno del 1649 e nell'ottobre 1650 le viene interdetto il Palazzo apostolico. Pertanto, intorno al pontefice viene a crearsi un vuoto familiare. Per colmarlo, relativamente al governo degli affari del papato, I. è costretto a chiamare un lontano parente di Olimpia, Camillo Astalli, che diviene cardinale il 19 settembre 1650 e al quale vengono concessi il nome e le insegne dei Pamphili. Il 5 ottobre 1650 lo nomina ufficialmente soprintendente dello Stato pontificio, con tutte le prerogative ordinarie della sua funzione. Peraltro, il principe Camillo Pamphili, non più in disgrazia, ridiviene oggetto delle premure dello zio. Come I. sa bene dalla morte del fratello nel 1639 e dopo la nascita di un erede maschio, il 24 giugno 1648, è sul nipote che poggia l'avvenire della famiglia. Il 26 settembre 1644, prova più che sufficiente a dimostrare che in quel momento non crede in una carriera ecclesiastica del nipote, I. delinea in un primo chirografo il progetto di una primogenitura, che viene istituita il 1° aprile 1651 nella famiglia Pamphili, proprio come Urbano VIII aveva provveduto a fare dopo molti anni di innumerevoli doni a favore dei suoi congiunti. Per il suo potere accentratore - i doni concessi a donna Olimpia entrano a far parte quasi interamente della primogenitura - essa rappresenta il prolungamento e la remuneratività a lungo termine degli effetti di un nepotismo necessariamente limitato all'esercizio del potere pontificio.
Nella gestione degli affari, la scomparsa di Panciroli nel settembre del 1651 non accresce affatto il potere di Astalli-Pamphili, poiché I. sostituisce immediatamente il defunto segretario di Stato con il nunzio straordinario Fabio Chigi, dopo un "interim" di tre mesi assicurato da Decio Azzolini (settembre-dicembre 1651). Il papa provvede a garantire gli attributi del potere a Chigi, del quale ha bisogno per tenere testa al clan Pamphili, e lo crea cardinale il 19 febbraio 1652. La posizione dei parenti e dei fedeli del pontefice è comunque violentemente compromessa dall'affare Mascambruno. Questo sottodatario, che I. ha scelto anche come auditore, deve al papa la sua intera carriera: alla fine del 1651 viene accusato di aver redatto dei brevi di dispensa falsi nel quadro di una vicenda di malcostume. Ben presto i giudici del governatore di Roma smascherano un vero e proprio sistema di falsari e di corruzione annidato all'interno della stessa Dataria. I., molto turbato da queste rivelazioni, ordina un'azione giudiziaria e punizioni esemplari: Mascambruno viene decapitato il 15 aprile 1652, ma l'autorità del papa subisce un contraccolpo che anche col tempo sarà difficile cancellare. Gli ultimi anni del pontificato di I. vedono un'alternanza di ritorni in auge (donna Olimpia, nel marzo 1653) e di esili (Astalli, privato degli incarichi e del nome dei Pamphili nel febbraio 1654; Niccolò Ludovisi, anch'egli esautorato nell'agosto successivo). Pur mettendo in luce le palesi irresolutezze di un pontefice che sta invecchiando, quest'ultimo periodo consente di consolidare in modo definitivo, anche se involontariamente, l'istituzione e il potere del cardinale segretario di Stato. Avendo scoperto, suo malgrado, le contraddizioni del sistema di governo indotto dal ricorso al nepotismo, I. cerca di esercitare un controllo più rigido sui cardinali. Questa politica si inserisce nel quadro di conflitti particolari, che non sempre consentono di distinguere le motivazioni propriamente congiunturali da ciò che rientra in una visione più a lungo termine di I. riguardo all'istituzione cardinalizia. Mazzarino, furioso per essere stato raggirato da Antonio Barberini durante il conclave, gli revoca la protezione della Francia (25 ottobre 1644), richiama l'ambasciatore del re ed esige che suo fratello Michele sia creato cardinale in segno di buona intesa con la Francia. I. si mostra sordo a queste ingiunzioni, allorché il 6 marzo 1645 procede ad una promozione cardinalizia nettamente sfavorevole alla Francia, in cui non compare il fratello del primo ministro di Luigi XIV. Nello stesso periodo (primavera-estate del 1645) il pontefice intensifica le pressioni sui Barberini, dando ascolto alle numerose voci che li accusano di concussione: deplora apertamente il modo in cui hanno dilapidato il Tesoro pontificio e comincia a prendere una serie di provvedimenti di ritorsione, al punto da far temere ai Barberini per la loro vita. Antonio è il primo a fuggire clandestinamente in Francia il 28 settembre. La risposta di I. non tarda a venire: il 20 novembre 1645 istituisce una Congregazione affinché riveda i conti di coloro che hanno gestito le finanze durante la guerra di Castro ed intima ai Barberini di presentarsi per dare spiegazioni. Le accuse sono grossolane e giuridicamente infondate, a detta degli esperti, senza contare che pongono al centro del dibattito l'arricchimento dei parenti del papa, di cui i Pamphili dall'avvento di I. hanno fornito un esempio assai dispendioso per le finanze della Santa Sede. Malgrado le probabili impasses giuridiche di queste azioni giudiziarie, i due fratelli Francesco e Taddeo sono sufficientemente convinti della determinazione del papa da prendere la decisione che s'impone: nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 1646 fuggono a loro volta in direzione di Parigi, dove sono accolti con tutti gli onori dalla corte e da Mazzarino. Il 3 febbraio I. fa sequestrare i loro beni e il 19 febbraio 1646 emana un famoso breve (non una bolla) con cui obbliga tutti i cardinali non titolari di un beneficio che li vincoli alla residenza, e non autorizzati esplicitamente dal pontefice ad assentarsi, a rientrare a Roma entro sei mesi, pena la destituzione dal cardinalato.
Il provvedimento prende di mira frontalmente i Barberini e Mazzarino. Quest'ultimo reagisce con protervia: decide di intimorire il papa inviando un corpo di spedizione ad attaccare i presidi spagnoli in Toscana, manovra che gli consente di minacciare la città di Roma senza aggredire direttamente lo Stato pontificio e di colpire I. nella persona del nipote, Niccolò Ludovisi, principe di Piombino sotto il dominio spagnolo. Dopo due spedizioni (giugno-luglio e settembre 1646) I., alla fine di settembre, si dichiara disposto a soddisfare le richieste francesi. Successivamente al ritorno di un ambasciatore francese a Roma (24 maggio 1647), il papa nomina cardinale Michele Mazzarino (7 ottobre 1647) e il 27 febbraio 1648 riaccoglie Francesco Barberini, al quale vengono restituite cariche e dignità. Il ritorno di Antonio Barberini segna la vera riconciliazione di I. con il potente clan al quale lega abilmente gli interessi della sua famiglia: mentre un nipote dei Barberini, Carlo, viene creato cardinale il 23 giugno 1653, un altro, Maffeo, sposa Olimpia Giustiniani, pronipote del pontefice. Al di là di queste peripezie, dove gli antagonismi personali si intrecciano agli imperativi della geopolitica, I. prende altri provvedimenti riguardanti il Sacro Collegio, tutti orientati verso una più rigida sottomissione al papa.
Nei Concistori, il cui numero annuale di sedute cala a livelli eccezionalmente bassi per il secolo (undici all'anno nel 1648-1649), I. si fa assistere dal suo auditore personale, che in virtù di un decreto della Congregazione concistoriale del 1650 riesamina tutti i processi d'informazione dei vescovi, attività un tempo di esclusiva competenza dei cardinali a capo di un Ordine. La costituzione Militantis ecclesiae (19 dicembre 1644), che conferma un decreto della Congregazione cerimoniale, proibisce ai cardinali di far apparire nelle loro insegne qualsiasi simbolo secolare, come ad esempio le corone. Questa decisione, avvertita come un sopruso dagli eredi di lignaggi principeschi (Savoia, Este, Medici), va ad aggiungersi alla soppressione del titolo di Altezza nel Sacro Collegio, stabilita da Urbano VIII e sancita da I. in questa stessa costituzione. Inoltre, nell'aprile 1654, tutte le Congregazioni, a eccezione del Sant'Uffizio e di Propaganda Fide, sono ormai vincolate all'obbligo di riunirsi nei palazzi apostolici e non più nel domicilio del rispettivo cardinale decano. Il provvedimento è vessatorio nei confronti dei cardinali più agguerriti e mira a rinsaldare il legame organico fra il pontefice e i cardinali riuniti regolarmente dietro suo ordine.
I. rinnova profondamente il Sacro Collegio con le quaranta nomine effettuate durante il suo pontificato; con l'ultima promozione, il 2 marzo 1654, lo porta alla cifra massima di settanta: dei sessantasei cardinali del conclave che eleggerà Alessandro VII trentadue sono stati creati da Innocenzo. Le scelte del pontefice, alle quali si aggiunge l'assenza di un vero cardinal nipote di fazione, consentono inoltre il formarsi del famoso "squadrone volante", composto in maggioranza da creature di I. e dove le figure di spicco (Azzolini, Albizzi, Ottoboni) sono legate al papa Pamphili. Così l'influenza di I. sui destini del papato si estende a tutta la seconda metà del XVII secolo, poiché tre futuri papi (Alessandro VII, Innocenzo XI, Alessandro VIII) vengono creati cardinali durante il suo pontificato.
Al momento della sua ascesa al soglio nel 1644, I. trova una città abbellita dal mecenatismo dei Barberini, ma le casse svuotate a causa della disastrosa spedizione di Castro. Il nuovo pontefice riesce comunque a sostenere un notevole sforzo edilizio e urbanistico. Il progetto più significativo, che lo fa annoverare tra i papi costruttori dell'età barocca, è un'impresa privata, di spirito pamphiliano fin nei minimi dettagli. La risistemazione di piazza Navona è in effetti un esempio unico, nella storia di Roma, di rappresentazione totale, nel cuore della città, sul luogo stesso del suo insediamento - e non in una villa situata in collina - di una famiglia il cui successo viene in tal modo pubblicamente celebrato. Dal suo avvento sul trono di s. Pietro, I. incrementa i suoi possedimenti di piazza del Pasquino e di piazza Navona, fino a controllare ben presto l'imponente quadrilatero in cui decide di edificare un palazzo destinato ad esaltare la gloria dei Pamphili. I lavori, affidati in particolare all'architetto Borromini, appoggiato da I. a scapito del Bernini che subisce un'eclissi durante i primi anni del pontificato, sono seguiti da vicino dal papa, il quale discute e impone personalmente numerose scelte architettoniche. La bellezza dell'edificio culmina nella realizzazione della grande galleria di Pietro da Cortona, dove l'artista rievoca in un celebre affresco, sul tema dell'Eneide, le presunte origini antiche della "gens Pamphilia". Abbattendo un certo numero di botteghe, I. decide di annettere piazza Navona e vi fa costruire tre fontane monumentali le cui acque sono raccolte deviando (1647) una parte dell'Acqua Vergine che arrivava al Pincio. Dopo essersi rivolto in un primo tempo al Borromini, è con Bernini che alla fine I. stipula il contratto per la costruzione della fontana dei Fiumi, il 16 luglio 1648. La fontana, conclusa nel 1651, è coronata il 14 agosto 1649 da una piramide che si innalza di fronte al cantiere in costruzione della chiesa di S. Agnese in Agone. Il pontefice non ha esitato a "privatizzare" la chiesa, tenuta da Chierici Regolari Minori, i quali vengono invitati ad abbandonare quei luoghi il 13 agosto 1653. Destinata a diventare la cappella del Pamphili, la chiesa, la cui prima pietra è posta il 15 agosto 1652, viene iniziata dai Rainaldi e continuata da Borromini a partire dal giugno 1653; tuttavia i lavori non sono stati ancora ultimati alla morte di Innocenzo.
Dopo un cinquantennio di intensa attività edilizia precedente alla sua ascesa al soglio, sia nelle basiliche romane che nei Palazzi Apostolici, I. si è limitato a completare progetti già in corso. A S. Pietro, su fondato consiglio di padre Virgilio Spada, il papa decide di far abbattere il 26 febbraio 1646 il campanile eretto dal Bernini, le cui basi erano state giudicate troppo fragili. Inoltre I. fa portare a termine la decorazione della basilica realizzando la tomba monumentale di Leone XI, affidata al suo scultore prediletto, Alessandro Algardi, e l'applicazione di marmi e stucchi nella navata centrale: la presenza ricorrente degli stemmi Pamphili (la colomba che tiene un ramoscello d'olivo nel becco) rappresenta l'ultima imponente operazione di promozione di una famiglia pontificia in questa sede. In S. Giovanni in Laterano l'intervento di I. è più modesto, limitandosi al rifacimento delle navate della basilica di cui incarica Borromini. Sebbene I. dal 1647 risieda quasi esclusivamente al Quirinale, non vi intraprende lavori di ampia portata. Se si prescinde dal completamento di piazza del Campidoglio nella quale viene edificato Palazzo Nuovo ad opera di Rainaldi - i cui costi sono abilmente addebitati dal pontefice alle finanze municipali - l'impresa edilizia più impegnativa è il risanamento di un sistema carcerario ereditato direttamente dal Medioevo. Le condizioni dei vetusti locali adibiti a carcere (Tor di Nona, Curia Savelli) e l'afflusso di numerosi prigionieri in concomitanza con l'affare Mascambruno sono all'origine del chirografo del 21 marzo 1652 indirizzato al governatore di Roma. Recuperando un vecchio progetto di Paolo III (1548), I. delibera la costruzione, lungo la via Giulia, delle Carceri Nuove in grado di accogliere seicento persone fra uomini e donne, secondo criteri conformi ad una notevole funzionalità. Costruite in un lasso di tempo piuttosto breve, ma completate soltanto nel 1657, queste carceri rappresentano una consistente eredità lasciata dal pontificato Pamphili alla città di Roma.
Lo Stato pontificio, da parte sua, deve ad I. un accrescimento più simbolico che effettivo. Il papa si attiene scrupolosamente alla pace conclusa con i Farnese nel marzo del 1644, che pone fine alla guerra di Castro, ed elevando alla dignità cardinalizia Francesco Maria Farnese, fratello del duca di Parma Odoardo, il 4 dicembre 1645 ("in pectore" il 14 novembre 1644), dimostra di appoggiare gli interessi della famiglia. I debiti dei Farnese nei confronti di chi deteneva i luoghi di Monte basati sulle rendite di Castro e di Ronciglione non vengono peraltro estinti. A questi crediti Ranuccio II, divenuto duca alla morte del padre nel 1646, aggiunge anche un crimine politico: il 18 marzo 1649 viene assassinato il vescovo barnabita Cristoforo Giarda, nominato di recente da I. nella sede di Castro. Il 24 marzo il papa scomunica gli autori dell'attentato, di cui è sospettato il duca di Parma con la sua cerchia, in particolare il suo favorito d'origine francese Gaufredo. Il 19 luglio 1649 I. decide di intervenire e invia una spedizione di circa cinquemila uomini alla volta dei ducati. Dopo un breve assedio la guarnigione di Castro capitola il 2 settembre, la città è rasa al suolo, la sede episcopale viene trasferita ad Acquapendente e le campane della cattedrale sono destinate ad essere collocate ben presto nel campanile di S. Agnese a Roma. Ranuccio II è costretto a cedere i suoi feudi, a meno di far valere un diritto di riconquista entro otto anni dietro pagamento unico dell'enorme somma di 1.700.000 scudi. Incorporando per devoluzione anche i feudi dei due rami dei Malatesta, I. liquida l'ultimo grande residuo di autonomia feudale all'interno dei confini dello Stato pontificio.
Alla morte del papa il disavanzo dello Stato pontificio sembra ammontare a 48.000.000 di scudi, una cifra mai raggiunta nel XVII secolo. Gli effetti del nepotismo a favore dei Pamphili, che secondo i calcoli della Curia eseguiti nel 1691 sarebbero costati allo Stato 1.400.000 scudi (contro i 900.000 dei Barberini), non devono senz'altro essere sottovalutati. Tuttavia la crisi economica, già tangibile durante gli ultimi anni del pontificato di Urbano VIII, perdura sotto quello di I. traducendosi, in particolare a partire dal 1646, in un rialzo inconsueto del prezzo dell'oro. A questo si aggiungono le crisi frumentarie, ricorrenti e di notevole portata. La più grave risale al 1648: in seguito a un cattivo raccolto nel 1647, le rese del grano registrano il livello più basso del secolo. I. è costretto a far affidamento sulle importazioni di grano dall'Olanda, deve prendere provvedimenti per controllare i prezzi e sollecitare il sostegno finanziario dei più abbienti. Ma non riesce ad impedire il rincaro del prezzo del pane e talvolta la sua mancanza: corollario di questa situazione sono i gravi tumulti scoppiati in alcune località dello Stato pontificio. Di tutti i focolai di rivolta, circoscritti essenzialmente alle Marche, al meridione del Lazio e alle città di Todi, Perugia e Viterbo, il più preoccupante per il potere centrale è quello di Fermo. Dopo l'assassinio del vicegovernatore della città, Uberto Maria Visconti, per mano del popolino, il 6 luglio 1648, I. convoca con urgenza una Congregazione cardinalizia e decide di inviare truppe al comando di Lorenzo Imperiale, che ristabilisce rapidamente l'ordine limitandosi a qualche esecuzione esemplare. Questa rivolta, breve e circoscritta, mette in luce le debolezze congiunturali dell'approvvigionamento dello Stato pontificio, evidenziando anche lo squilibrio strutturale provocato dall'"annessionismo frumentario" (Y.-M. Bercé, Troubles frumentaires, 1962) delle province alla città di Roma. Quest'ultima grande carestia che colpisce l'Italia centrale - una nuova crisi, nel 1653, è limitata al solo Lazio - fa sì che il pontefice, nell'immaginario popolare, venga associato ad un periodo difficile nella sfera della vita quotidiana: I. è anche il papa del pane rincarato.
I., pur mostrandosi talvolta combattivo e risoluto nella gestione dello Stato, più ancora del suo predecessore Urbano VIII si attiene alla politica di neutralità e di mantenimento degli equilibri che è prerogativa del papato in Italia. Alla sua ascesa al soglio chiude il conflitto con Venezia, innescato sotto Urbano VIII dall'eliminazione, nel 1640, di un'iscrizione favorevole alla città lagunare nella sala Regia del Palazzo apostolico: nel novembre 1644 I. dispone affinché venga ripristinata l'iscrizione e in dicembre allontana Felice Cantelori, prefetto degli Archivi, ritenuto dai Veneziani responsabile del sopruso. Tuttavia questo scambio di favori non è incondizionato. Mentre le discussioni e i diverbi in materia di giurisdizione ecclesiastica continuano ad avvelenare i rapporti tra le due potenze, la guerra di Candia iniziata nel 1645 procurerà alla Repubblica di San Marco solo un sostegno modesto da parte dello Stato pontificio. Dopo aver inviato delle truppe e armato cinque galere nella primavera del 1645, I. si limita a rinnovare l'offerta l'anno successivo e ad accordare ai Veneziani dei sussidi nel 1649 e, di nuovo, nel 1653, ogni volta per un ammontare di 100.000 scudi da prelevare sulle rendite ecclesiastiche dello Stato veneziano. Con questa parsimonia, in parte giustificata senz'altro dalla preoccupazione di amministrare finanze già compromesse, I. separa il sogno di una crociata contro i Turchi, sempre vagheggiata dai papi del XVII secolo, dalla realtà imposta dal suo potere temporale.
Queste stesse esigenze spiegano l'atteggiamento del pontefice nei confronti della rivolta napoletana capeggiata da Masaniello, che divampa il 7 luglio 1647. L'incertezza dimostrata da I. nel corso di eventi che scuotono l'autorità spagnola a sud di Roma protraendosi per oltre un anno è palese. Malgrado il papa sia avverso ad un'insurrezione che condanna per principio, cerca rapidamente di imporre la sua mediazione appoggiandosi al cardinale-arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino, con il quale si congratula il 20 luglio per gli sforzi profusi al fine di ristabilire la pace. I. fa grande assegnamento anche sul nunzio che ha nominato nell'autunno del 1644, Emilio Altieri, il futuro Clemente X, nel quale ripone un'assoluta fiducia: la carriera di giurista di Altieri era peraltro cominciata nel 1611, come aiutante di studio dell'auditore di Rota Pamphili. Il papa lo esorta ad adoperarsi perché si giunga ad una riconciliazione tra le parti, soluzione respinta risolutamente dalla Spagna, decisa a reprimere militarmente i tumulti. La posizione di I. diviene allora assai disagevole, perché non intende far nulla che dia adito alle accuse degli Spagnoli, i quali gli rimproverano di favorire i Francesi, intervenuti a fianco degli insorti nell'autunno del 1647, mettendo così in discussione il loro potere sulla regione. Il papa opta quindi per un accanito immobilismo, che di fatto vanifica ogni sua azione e avvantaggia chi può contare sulla forza delle armi. Da un lato I. ignora gli appelli dei manifesti popolari che gli offrono di diventare senza indugio il sovrano di Napoli (settembre 1647), dall'altro deplora pubblicamente il bombardamento che colpisce la città nell'ottobre 1647. Inoltre è infastidito dalle imprudenze di Filomarino e di Altieri, il cui operato appare troppo favorevole ai tumulti che I. teme peraltro di veder dilagare nello Stato pontificio, in particolare nel meridione del Lazio. Nel corso dell'inverno 1647-1648 decide quindi di redarguire severamente il nunzio, attraverso il segretario di Stato, per il suo coinvolgimento troppo palese a sostegno della causa napoletana che trascende i limiti della rigida neutralità pontificia. Quando gli Spagnoli, nella primavera del 1648, riusciranno a domare gli ultimi tentativi di resistenza, nel papa, irresoluto e diviso tra il desiderio di pace ed evidenti preoccupazioni geopolitiche, prevarrà il sollievo.
La debolezza della diplomazia pontificia culmina, per altre ragioni, nella conclusione dei negoziati di pace in Vestfalia, avviati all'inizio degli anni Quaranta. All'epoca della sua ascesa al soglio I. resta insensibile alle pressioni degli Spagnoli, i quali esigono che venga richiamato il nunzio Fabio Chigi, rappresentante del papa al congresso di Münster, al quale partecipano le potenze interessate a regolare i conflitti nell'Impero. Il ruolo di mediatore del nunzio, condiviso con l'ambasciatore veneziano Contarini, in un primo tempo non si discosta dalla linea tracciata dalla diplomazia di Urbano VIII attraverso il breve di credenziali e l'istruzione del 1643. In realtà Chigi intuisce rapidamente che la pace si orienta verso soluzioni molto sfavorevoli agli interessi del cattolicesimo. Pertanto, nell'autunno 1645, in accordo con rappresentanti degli ambienti cattolici più intransigenti dell'Impero, elabora un documento di protesta ufficiale che invia per conoscenza a Roma il 6 ottobre 1645, seguito da una bozza di breve di credenziali il 15 dicembre 1645. Il pontefice dà immediato seguito a questa iniziativa riunendo una Congregazione di cardinali per stabilire quale condotta tenere. Il 19 maggio 1646, quando manda a Chigi il breve di credenziali antedatato al 5 ottobre 1644, si è risolto a favore di una nuova linea politica: laddove Urbano VIII e suo nipote Francesco Barberini si erano attenuti ad un tono formale che mirava innanzitutto a garantire la partecipazione della Santa Sede al congresso di pace, il breve di I. non contiene che condizioni e restrizioni. Il papa ordina anche al suo nunzio di abbandonare il congresso piuttosto che accettare un trattato lesivo degli interessi cattolici. Chigi, consapevole del cambiamento d'indirizzo avvenuto nella diplomazia romana, e nell'intento di salvaguardare le proprie opportunità di influire sul negoziato, presenta il breve soltanto nel novembre 1647. A questa data, in effetti, le trattative sono già in una fase avanzata e la partecipazione del nunzio non è più veramente attiva. Uniformandosi alle istruzioni ricevute dalla Segreteria di Stato, il 14 ottobre 1648 Chigi inoltra una prima protesta ufficiale contro l'accordo di Osnabrück, suggellato da una stretta di mano fra Svedesi e rappresentanti dell'Impero il 6 agosto 1648. Il 26 ottobre protesta di nuovo, questa volta contro il trattato di Münster, "infame pace" secondo le sue parole, che ha rifiutato di sottoscrivere con gli altri plenipotenziari il 24 ottobre. La terza ed ultima protesta, del 19 febbraio 1649, riguarda la ratifica del complesso dei trattati risalente al 18 febbraio.
Per dare un seguito a queste note di protesta e con l'intento di accentuarne la portata, I. riunisce a Roma all'inizio del 1649 una Congregazione di cardinali che presiede personalmente: viene deliberato che la Santa Sede esprimerà ufficialmente la sua protesta tramite una bolla solenne. Tuttavia, temendo che un simile documento, se pubblicato troppo in anticipo, possa far scoppiare tumulti nell'Impero mentre Chigi ancora presenzia alle conferenze di Norimberga, in cui si preparano i recessi esecutivi dei trattati conclusi il 26 giugno e il 2 luglio 1650, I. temporeggia ancora un anno prima di promulgare il testo. Il 20 agosto 1651, il breve (invece della bolla) Zelo domus Dei, antedatato al 26 novembre 1648 e stampato sotto forma di manifesto dalla Tipografia della Camera apostolica, è indirizzato a tutti i nunzi affinché ne prendano visione prima di diffonderlo. La protesta pontificia, in realtà, consiste in una "declaratio nullitatis" di tutto quanto è stato negoziato in Vestfalia: I. pone l'accento sia sulle perdite significative subite dal cattolicesimo (due arcivescovati, tredici vescovati, senza contare la secolarizzazione di migliaia di conventi regolari ed opere pie) e sui deplorevoli compromessi raggiunti - come nel caso dell'amministrazione del vescovato di Osnabrück, affidato alternativamente a protestanti e cattolici ("scellerata alternativa", secondo Chigi) - sia sull'istituzione di un ottavo elettorato a favore del Palatinato, concepita da Mazzarino come un risarcimento per i cattolici, ma effettuata senza il consenso del papato. La protesta non ebbe alcuna ripercussione nell'Impero, dove Ferdinando III rifiutò categoricamente e con tenacia di pubblicare il breve. Questo atto, che è eccessivo qualificare come "un momento cruciale nella storia della Chiesa", rappresenta nondimeno un'estromissione volontaria del papato dalla scena internazionale e altera profondamente le risorse diplomatiche e politiche della Chiesa. È stato dimostrato che le posizioni adottate nel 1643 non sono legate da una logica lineare alla risoluzione del 1648. "Il 'no' del 1648 non è stato né evidente, né inevitabile, né necessario" (K. Repgen, Der päpstliche Protest). Sotto quest'aspetto la responsabilità di I., seppur non esclusiva, è stata determinante. Nel pontefice è prevalsa l'ottica del canonista, qual era, piuttosto che quella del diplomatico: "Si trattò di un atto perfettamente coerente sotto il punto di vista giuridico-canonistico e teologico, ma sul piano politico assolutamente inutile e autolesionista" (G. Lutz).
Come già era accaduto con Urbano VIII, anche la diplomazia di I. è stata notevolmente ostacolata dall'interminabile conflitto tra Francia e Spagna iniziato nel 1635. I contendenti, in un primo tempo, non chiedono al papato una mediazione di pace, ma un giudizio sui rispettivi diritti. La Santa Sede viene quindi coinvolta come testimone delle conquiste effettuate dai Francesi a discapito degli Spagnoli nell'Artois e in Catalogna: questi ultimi rivendicano dal papa il diritto di nomina nei benefici maggiori di queste regioni, una pretesa che per I. equivale ad avallare un trasferimento di sovranità. Inoltre, dal dicembre 1640, il Portogallo ha proclamato l'indipendenza e riconosciuto un nuovo sovrano, Giovanni IV di Braganza, che auspica il riconoscimento a proprio vantaggio delle stesse prerogative. Se Urbano VIII, al termine del suo pontificato, si era avviato verso una soluzione politica che prendeva atto del perdurare dell'occupazione francese, I. esibisce una prudenza che sconfina, una volta di più, nell'immobilismo. Ansioso di contenere la diminuzione del numero di vescovi in Portogallo e nell'Impero portoghese, I. accetta con un breve del 20 aprile 1645 di nominare vescovi "motu proprio": così facendo, ammette implicitamente la perdita della sovranità spagnola pur senza riconoscere ufficialmente quella di Braganza, con il risultato di scontentare tutti. Ad ogni richiesta del clero nazionale dei diversi paesi, I. oppone il rigido rispetto del diritto di ciascuna delle due parti, che non può legittimamente pregiudicare, e dichiara di attendere un regolamento internazionale per potersi pronunciare a favore degli occupanti di fatto dei territori contestati. L'obiettivo prioritario perseguito da I. dopo i trattati di Vestfalia è il ristabilimento della pace tra le due massime potenze cattoliche. Mazzarino, in un primo tempo, auspica l'intervento pontificio e Chigi è invitato a recarsi ad Aquisgrana nel dicembre 1649 per presenziare ai preliminari di pace. Tuttavia le trattative, avviate in un periodo di gravi disordini politici in Francia (la Fronda), non hanno seguito e Chigi, nel dicembre 1651, rientra a Roma senza aver ottenuto nulla. Tutti i tentativi intrapresi da I. per ristabilire il dialogo tra Francia e Spagna si dimostrano infruttuosi. Le due potenze fanno addirittura al papa l'affronto di respingere, nel luglio 1652, l'invio dei nuovi nunzi destinati ai loro paesi, arrivando a confinare il nunzio Corsini appena sbarcato in un convento di Marsiglia per iniziativa di Mazzarino. La fine del pontificato è contrassegnata, parallelamente, da una maggior apertura alle richieste dei Francesi e dei Portoghesi: I. medita sempre più seriamente di soddisfare le loro rivendicazioni. Ma i molteplici capovolgimenti della situazione militare (riconquista di Barcellona da parte degli Spagnoli nel 1654) e le minacce del viceré di Napoli relative all'approvvigionamento di grano a Roma costringono I. all'attendismo e all'inazione. Quest'immobilismo diplomatico, che segna l'intero pontificato di I., si traduce anche in una inconsueta stabilità del personale delle Nunziature. Su undici cariche permanenti, solo quattro sono state ricoperte da più di due nunzi nel corso dei dieci anni di pontificato, mentre il nunzio in Francia, Niccolò Guidi di Bagno, nominato da Urbano VIII nel 1643, è rimasto nella sede assegnata fino al 1656. Un solo movimento di ampia portata investe il corpo dei nunzi, ad eccezione di quello in carica a Torino, fra il maggio e il novembre 1652, ovvero otto anni dopo l'ascesa al soglio di I.: la nomina di Chigi a segretario di Stato non è senz'altro estranea a questa tardiva consapevolezza della necessità di rinnovare i protagonisti della diplomazia pontificia. I. eredita senza dubbio un personale diplomatico sottoposto da Urbano VIII ad un radicale riassetto alla vigilia della morte nel 1643. Inoltre la durata del congresso di Münster non era certamente favorevole ad un avvicendamento degli uomini e gli Stati escludevano inequivocabilmente la Chiesa, ogni giorno di più, dalle nuove logiche politiche dell'Europa moderna. Ma non è eccessivo affermare che I. non ha confidato pienamente nelle potenzialità di una diplomazia condannata all'inerzia dai suoi scrupoli di canonista, dalla sua connaturata prudenza e dal suo ritegno di sovrano temporale.
In questo contesto l'organizzazione e la conduzione del giubileo del 1650 contrastano nettamente con l'inerzia mostrata in campo diplomatico. La bolla d'indizione Appropinquat dilectissimi filii, del 4 maggio 1649, dà l'avvio alla preparazione dell'anno giubilare che il papa vuol celebrare sotto il segno della pace, una pace fortemente auspicata in antitesi a quella respinta dal suo rappresentante a Münster nell'autunno del 1648. Questo giubileo, definito l'ultimo grande giubileo dell'epoca moderna, rappresenta per I. un indiscusso successo: i settecentomila pellegrini affluiti a Roma durante l'Anno santo rivelano fino a che punto il papato della Riforma cattolica, in un'Europa ancora sconvolta dalle guerre, continui ad essere un punto di riferimento privilegiato per i cattolici.
In tema di politica religiosa I. si muove con la scioltezza che gli conferisce il suo magistero spirituale e che i sovrani gli negano nella sfera politica: ciò traspare con particolare evidenza dalle decisioni prese dal pontefice nei confronti del clero regolare. Il papa è innanzitutto ansioso di porre fine ai conflitti che dilaniano alcuni Ordini, talvolta da molti decenni. Mediante atti diversi, brevi o bolle, I. regola le successioni abbaziali nelle case madri degli Antoniani, dei Cistercensi, dei Premonstratensi e degli Eremitani di S. Agostino. Inoltre ridisegna lo scenario degli Ordini religiosi deliberando, per esempio, lo scioglimento dell'unione istituita tra la Congregazione della Dottrina Cristiana e quella dei Somaschi (10 luglio 1647) e sopprimendo l'Ordine di S. Basilio degli Armeni (29 ottobre 1650). Ma il nome di I. è legato soprattutto alla grande riforma dei regolari in Italia, il cui principale artefice, sotto l'autorità del papa, è l'insigne canonista Prospero Fagnani, da tre decenni segretario della Congregazione del Concilio. Accantonata ogni esitazione di natura diplomatica, questa riforma viene condotta con rapidità e determinazione rimarchevoli.
Se I. non è il solo pontefice postridentino ad occuparsi dello statuto dei regolari e delle loro case (decreti di Clemente VIII e Urbano VIII), è tuttavia il primo ad affrontare la questione con una sistematicità che colpì in modo profondo e durevole la sensibilità e gli interessi delle comunità religiose. Nel marzo 1649 il papa istituisce una Congregazione composta da cinque cardinali, due prelati e un prete, affinché studi la riforma dei religiosi in Italia. Il risultato delle riunioni, alle quali I. partecipa assiduamente, è il breve Inter caetera del 17 dicembre 1649, in cui si prescrive di documentare la situazione dei monasteri, per appurare se sono in condizione di ospitare adeguatamente il numero richiesto di religiosi e di fare osservare la disciplina. Contrariamente a quanto suggeriscono le parole introduttive del breve, I. non si propone in un primo tempo di porre fine ai disordini della vita monastica. Il papa, animato soprattutto da preoccupazioni di natura giuridica, cerca ancora una volta di far coincidere realtà e diritto. Anche l'ampio questionario che tutti gli Ordini della penisola sono vincolati a priori a compilare concerne unicamente gli aspetti strettamente economici. Il breve Inter caetera istituisce una Congregazione "sopra lo stato dei Regolari", che esamina le risposte emerse dall'indagine e prepara la bolla Instaurandae regularis disciplinae, promulgata dal pontefice il 15 ottobre 1652.
Dei seimiladuecentotrentotto conventi censiti nel 1650, millecinquecentotredici (24-25%) vengono soppressi, essenzialmente fra gli Ordini mendicanti, ad eccezione dei Cappuccini. I. si ripropone di estendere il suo sforzo riformatore fuori dei confini d'Italia: il nunzio di Catalogna e il primate di Polonia si mostrano favorevoli al progetto. Tuttavia, l'opposizione degli stessi religiosi e degli Stati - Napoli e soprattutto Venezia, che rifiuta di dare attuazione alle decisioni di I. fino alla sua morte - inducono il pontefice e Fagnani a fare qualche passo indietro: è questo il senso del decreto Ut in parvis, del 10 febbraio 1654, in cui sono previste misure provvisorie per un certo numero di piccoli conventi resi ai rispettivi Ordini. Questa vasta impresa di razionalizzazione dei mezzi concessi ai regolari, senza dubbio necessaria, mostra tuttavia i limiti di un approccio eccessivamente giuridico ai problemi della vita della Chiesa, laddove ostacola un eventuale ulteriore sviluppo degli Ordini religiosi e distacca i regolari, che garantivano i servizi religiosi in numerose parrocchie, dalle strutture diocesane.
In un'Europa che rifiuta di accordare alla Chiesa uno spazio politico, I. si erge a difensore del cattolicesimo minacciato ai suoi confini. Nell'Impero, dopo i trattati di Vestfalia, la Santa Sede attribuisce alla sua azione un significato nuovo: abbandonato l'obiettivo della riconquista, l'operato pontificale mira piuttosto a proteggere gli interessi dei cattolici a fronte delle pressioni di luterani e calvinisti. Il 4 aprile 1652 I. invia a tutti i vescovi tedeschi una lettera circolare con la quale ingiunge ai prelati di organizzare sinodi e far applicare i decreti tridentini. Spettacolari conversioni di alcuni principi, come il langravio Ernesto d'Assia-Rheinfels (6 gennaio 1652), mal dissimulano le difficoltà incontrate dal papa, che non può contare sull'appoggio dell'imperatore poiché continua a negargli il diritto di nomina per il vescovato che Ferdinando III vuol erigere in Boemia a Leitmeritz. Ma il pontefice registra la sua sconfitta più grave nelle isole britanniche. La rivoluzione inglese riduce notevolmente il potere d'intervento del papato, che assiste all'esecuzione di Carlo I, nel 1649, e alle persecuzioni scatenate contro i cattolici d'Inghilterra. In compenso l'impegno di I. cresce in Irlanda, dove nell'aprile 1645 invia un nunzio speciale, Giovanni Battista Rinuccini, con la missione di perseguire l'unione delle diverse correnti cattoliche dell'isola, e in particolare di ricomporre il violento contrasto che oppone Irlandesi e sostenitori di Carlo I. Il papa decide inoltre di ridare consistenza al corpo episcopale irlandese con la nomina di undici vescovi l'11 marzo 1647. A conclusione dell'intesa, nel gennaio 1649, i cattolici, malgrado l'appoggio di Rinuccini, devono cedere su numerosi punti a Ormond, luogotenente del re. Tuttavia il 15 agosto 1649 l'arrivo delle truppe di Cromwell seguito dalla disfatta militare di quelle realiste e, nel 1652, il voto sulle leggi di colonizzazione infliggono un colpo ben più decisivo al cattolicesimo irlandese e segnano un ulteriore ridimensionamento dell'influenza del papato.
Il pontefice sostiene l'attività della Congregazione "de Propaganda Fide", di cui conosce i "negozi" essenziali essendosene occupato all'epoca di Urbano VIII. Tuttavia gli scrupoli formali e la preoccupazione di salvaguardare l'autorità pontificia lo inducono a contenere il suo appoggio. Se incoraggia l'insediamento dei Cappuccini nel Congo e in Angola, nel 1652 si oppone alla richiesta dei missionari che lo invitano ad istituire una vera e propria gerarchia ecclesiastica in Cocincina e nel Tonchino. Inoltre, con una decisione che innesca forti polemiche piuttosto che sedarle, I. approva il decreto che Propaganda ha emesso il 12 settembre 1645 facendo seguito ad una memoria presentata dal domenicano Juan de Morales contro i riti cinesi attribuiti ai Gesuiti. Questi ultimi, che non hanno potuto far valere le loro ragioni, ribattono inviando a Roma nel 1652 padre Martini, che otterrà soddisfazione solo dopo la morte del pontefice nel 1656. Questa tendenza alle decisioni affrettate consente inoltre ad I. di ottenere solo successi assai modesti nel conflitto che oppone il vescovo di Puebla, Juan de Palafox y Mendoza, ai Francescani (1640-1645) e, in seguito, soprattutto ai Gesuiti (1647-1652). Questa disputa, maldestramente gestita dalla Santa Sede, si conclude nel 1652 con reprimende rivolte ad entrambe le parti contendenti, lasciando in Messico segni profondi.
Sul piano dogmatico, la lotta contro il giansenismo è la questione cruciale con cui deve confrontarsi il pontificato di Innocenzo. Il primo compito che lo attende è la pubblicazione della bolla In eminenti (documento privo di carattere teologico) di cui aveva peraltro seguito l'elaborazione senza coltivare alcun pregiudizio nei confronti dei giansenisti. In Fiandra, patria di Giansenio, I. si scontra con le resistenze più dure, che fanno capo all'Università di Lovanio, la prima nel 1643 a richiedere chiarimenti sulla bolla, e a personaggi quali Jacques Boonen, arcivescovo di Malines, e Pierre Roose, presidente del Consiglio di Stato. Per fronteggiare queste opposizioni, I. è costretto a ricorrere alla coercizione del potere reale, allo scopo di garantire la ricezione della bolla. Mentre Roma condanna con un decreto del Sant'Uffizio del 6 ottobre 1650 le risposte fornite da Boonen e dal vescovo di Gand, Triest, il 20 marzo 1647 a proposito della pubblicazione della bolla, è Filippo IV ad offrire l'appoggio del braccio secolare. I. deve comunque evitare che la richiesta d'aiuto pregiudichi la sua autorità e quindi rifiuta categoricamente il decreto dell'arciduca Leopoldo-Guglielmo, che il 28 febbraio 1651 concede il "placet" reale alla bolla In eminenti. Dopo una protesta del pontefice e alcuni mesi di gelo diplomatico, Filippo IV accetta di non appoggiarsi al decreto assicurando ugualmente assistenza all'internunzio. Quando alla fine Boonen e Triest si sottomettono, nell'estate del 1653, I. ha già preso nuovi provvedimenti contro i giansenisti.
In Francia la diffusione del libro De la fréquente communion, del giansenista Antoine Arnauld, pubblicato nel 1643, rilancia le polemiche che si accentrano intorno alla Sorbona. Ben presto in città cominciano a circolare liste di proposizioni relative al problema della grazia, una delle quali viene sottoposta il 1° luglio 1649 all'esame della Sorbona dal suo sindaco Nicolas Cornet. Una lettera del vescovo di Vabres, Isaac Habert, coinvolge il pontefice nella vicenda. I giansenisti, temendo che Giansenio venga incluso in un'eventuale condanna papale, a loro volta si rivolgono a Roma. Allora I., il 12 aprile 1651, crea una commissione di cardinali, nella quale inserisce il fedele datario Cecchini, ma dove non compaiono i teologi Maculano e Lugo. Il pontefice segue da vicino i lavori della commissione, che si riunisce due volte a settimana ed è ancora guidata dall'assessore Albizzi. Nell'aprile 1652 I. coinvolge anche Chigi, che insieme ad Albizzi è il vero autore della bolla Cum occasione, del 31 maggio 1653, pubblicata il 9 giugno seguente. In questo testo molto dogmatico, che sembra voler liquidare il giansenismo, I. condanna cinque proposizioni giudicate eretiche in quanto compendiano gli errori dell'Augustinus e riafferma l'autorità della Santa Sede. Il pontefice ottiene - questa volta molto celermente - l'appoggio incondizionato di tutti gli Stati, sia in Francia sia in Spagna e sia nell'Impero: il papa, che nomina Albizzi cardinale il 2 marzo 1654, finalmente trionfa. In realtà, lungi dall'aver annientato il giansenismo, la bolla Cum occasione, al contrario, apre la strada a futuri conflitti. Arnauld, nel marzo 1654, si appiglia al difetto del testo pontificale, fondato su affermazioni dogmatiche e non su citazioni precise: le proposizioni sono eretiche, ma la prima è estrapolata dal contesto che la rende ortodossa; quanto alle altre quattro, non figurano nell'Augustinus. Malgrado un nuovo decreto del Sant'Uffizio del 23 aprile 1654, che condanna una cinquantina di scritti giansenisti, questa distinzione prelude ad un lungo periodo di resistenza passiva e di "rispettoso silenzio".
I. muore il 7 gennaio 1655 all'età di ottantuno anni. Il suo ritratto dipinto da Velázquez, in una sorta di sintesi singolare e geniale di una vita e di un carattere, mette in risalto il severo rigore e l'inquieto affanno con cui Giovanni Battista Pamphili ha affrontato il suo passaggio sul trono di s. Pietro. La straordinaria affermazione sociale dei Pamphili, in seguito imparentati con oltre quattordici famiglie di papi, non deve dissimulare la gravità degli sviluppi cui è soggetto il potere papale negli anni 1644-1654. Il pontificato di I., che non può essere definito transitorio, esaspera sotto vari aspetti il conflitto apertosi già da diversi secoli tra le due nature del pontefice: quella di guida spirituale e di sovrano temporale. Malgrado alcuni successi simbolici (Castro), I. si è visto precludere, suo malgrado, la strada della politica internazionale (Vestfalia), mentre ha sperimentato le ambiguità e le affermazioni connesse all'esercizio del magistero spirituale.
fonti e bibliografia
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Per il periodo del pontificato, si vedrà ogni serie degli anni 1644-55, sia all'A.S.V. (Congregazioni cardinalizie, registri di bolle e brevi, carteggi di nunzi e di diversi), sia nei fondi particolari di Congregazioni (Propaganda Fide, Sant'Uffizio) e all'Archivio di Stato di Roma (Camera apostolica e Congregazioni dedicate agli aspetti temporali dello Stato ecclesiastico).
La leggenda nera d'I. è nata, in partic., daA. Gualdi [G. Leti], La Vita di Donna Olimpia, Ragusa 1657 (rist. Roma 1849).
Apologisti si trovano tuttavia già all'indomani della morte del pontefice, come A. Bagatta, Le vite d'Innocenzo X e d'Alessandro VII regnante fino all'anno MDCLXIII, in Le vite de' Pontefici del Platina et altri, Venezia 1663, pp. 851-80.
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Non esiste una biografia completa d'I. e mancano innanzitutto dati sulla sua carriera prima del 1644. Il vecchio libro di I. Ciampi, Innocenzo X Pamfili e la sua corte, Roma 1878, non è del tutto inutile perché è fondato sia su diari dell'epoca, sia direttamente su documenti d'archivio, ma si limita espressamente agli anni 1644-1655, come ancheL. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XIV, 2, ivi 1961, pp. 1-307.
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Le vicende familiari e patrimoniali dei Pamphili nel Cinque e Seicento, se fossero meglio conosciute, renderebbero ad I. il suo vero ruolo nella loro saga romana; sarebbe, in partic., essenziale rivalutare il personaggio di Olimpia Maidalchini su basi critiche e renderle il suo esatto posto nella Roma curiale del Seicento.
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Traduzione di Maria Paola Arena.