Pirateria
«Di’ loro che si provino a sfidare i pirati nei loro covi!» (Emilio Salgari,Le tigri di Mompracem)
Pirati del 21° secolo
di Loretta Napoleoni
16 dicembre 2008
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU adotta una risoluzione che autorizza operazioni militari in Somalia, incluso lo spazio aereo, «allo scopo di interdire chi utilizza il territorio somalo per pianificare, facilitare e mettere in atto atti di pirateria o assalti armati in mare». Secondo le stime, dall’inizio del 2008 i pirati somali hanno ottenuto più di 120 milioni di dollari in riscatti, nella totale impunità.
Navi pirata
La pirateria moderna ha poco a che fare con l’immagine romanzata dei pirati, quale quella presentata dai film di cassetta come I pirati dei Caraibi. Il modello è invece quello della criminalità organizzata globalizzata, applicato al mare: questo copre l’80% della superficie della Terra e ospita circa 50.000 bastimenti che trasportano l’80% del carico commerciabile mondiale. I pirati moderni puntano a impossessarsi di gran parte di questo enorme bottino. Nell’ultimo decennio, la pirateria è cresciuta del 168% e gli attacchi sono diventati più violenti, ha ammonito la Commissione trasporti del Parlamento britannico nel luglio 2006. Questo primo rapporto sulla pirateria è stato pubblicato dopo due attacchi contro navi britanniche che trasportavano in Indonesia aiuti per le vittime dello tsunami del 2005. Da allora l’attività dei pirati è cresciuta esponenzialmente. I pirati del 21° secolo sono prevalentemente asiatici e africani, ma navigano in tutto il mondo. Fino al 2007 lo Stretto di Malacca, un corridoio di 800 km che separa l’Indonesia dalla Malaysia, era teatro del 42% degli attacchi globali di pirateria, un primato strappatogli nel 2008 dal Golfo di Aden, al largo del Corno d’Africa. Ma anche le acque della Cina meridionale e dell’Africa occidentale sono infestate dalle navi pirata. Secondo il rapporto Piracy and armed robbery against ships dell’ICC International Maritime Bureau nella prima metà del 2006 in tutto il mondo sono stati registrati 127 attacchi, 88 dei quali concentrati nelle aree di Indonesia (33), Malaysia (9), Bangladesh (22), Golfo di Aden/Mar Rosso (9), Somalia (8), Nigeria (7). I pirati moderni dispongono della tecnologia più avanzata, che usano per far perdere le loro tracce. Nell’articolo High-tech pirates ravage Asian seas (Washington Post, 5 luglio 1999) Kevin Sullivan e Mary Jordan hanno raccontato: «Una nave pirata catturata in Indonesia era attrezzata con falsi timbri d’immigrazione, strumenti per contraffare i documenti delle navi e una sofisticata strumentazione radar per le comunicazioni e la localizzazione satellitare». La cattura della superpetroliera saudita Sirius Star nel novembre 2008 è esemplare della dimestichezza che i pirati hanno con le moderne tecnologie. La nave è caduta nell’imboscata a ben 450 miglia nautiche (cioè circa 830 km) dalle coste del Kenya, a sud-est di Mombasa. Solo con una sofisticata attrezzatura si può operare così al largo. Fino a pochi giorni prima del sequestro della Sirius Star, organizzazioni internazionali e società assicurative imponevano una distanza di sicurezza di 250 miglia, ritenendo che al di là di questa fossero impossibili le azioni di pirateria. Molti esperti si sono chiesti se i 120 milioni di dollari guadagnati in questo tratto di mare dai pirati nel 2008 siano stati investiti per potenziarne le flotte. Se ciò fosse vero, vorrebbe dire che l’industria della pirateria è molto più sviluppata di quanto si pensi, che conosce insomma i vantaggi dell’investimento nelle infrastrutture marittime. In realtà i pirati moderni sono veri e propri imprenditori, dediti al commercio mondiale di articoli rubati, con un guadagno di circa 16 miliardi di dollari netti l’anno. Il grosso proviene dall’Asia. Il caso della nave da carico giapponese Tenyu illustra bene il connubio di alta tecnologia e alta finanza nella pirateria. Il bastimento, lungo 85 m, è salpato dall’Indonesia nel settembre 1998, con un carico di lingotti di alluminio del valore di 3 milioni di dollari. Diretto in Corea del Sud, non ha mai raggiunto la sua destinazione. I proprietari hanno perso i contatti radio il giorno dopo la partenza. Raccontano ancora Sullivan e Jordan: «Tre mesi dopo, il Tenyu ha attraccato in uno scalcinato porto cinese con un nome nuovo verniciato di fresco sulla prua – il quarto dalla scomparsa, come poi si è saputo –, un nuovo equipaggio indonesiano e un carico di olio di palma. Si pensa che i 14 membri dell’equipaggio originario siano morti. Secondo gli investigatori, i lingotti di alluminio sono stati scaricati e venduti in Birmania, poi destinati a compratori cinesi. Le indagini sono spiazzate dai consorzi dei pirati, che ricordano le multinazionali, con filiali e dipendenti in tutta la regione. Stando agli esperti marittimi, il caso del Tenyu ha coinvolto pianificatori sudcoreani, criminali indonesiani, manodopera portuale birmana e operatori del mercato nero, nonché almeno qualche complice in Cina, tutti parte di una rete che le autorità non hanno ancora del tutto scoperto».
Pirati del pesce
Il successo della pirateria è dovuto anche a fattori sociali. In Somalia e nel Corno d’Africa fare il pirata è un modo per sopravvivere per chi è nato pescatore e non può più fare questo lavoro. Da anni le superflotte commerciali cinesi e giapponesi dilapidano incontrastate e impunite il patrimonio ittico dell’Africa. Nel 2001, un rilevamento aereo delle acque territoriali della Guinea ha scoperto che il 60% dei 2313 pescherecci avvistati pescava di frodo. Lo stesso anno, analoghi rilevamenti sulla Sierra Leone e sulla Guinea-Bissau hanno accertato che la pesca di frodo era pari rispettivamente al 29% e al 23% del totale dell’attività ittica. In Somalia si contano circa 700 pescherecci di proprietà straniera dediti alla pesca non autorizzata di specie pregiate e talvolta a rischio estinzione, come il tonno, lo squalo, l’aragosta e i gamberi d’altura. È quindi l’Africa il teatro principale della pesca di frodo a carattere industriale, un’attività commerciale molto redditizia, perché soddisfa la voracità del villaggio globale, al quale piace mangiare pesce, e nella quale l’industria ittica locale si fonde con la pirateria.
Altre zone dove è praticata massicciamente la pesca di frodo sono il Mar Baltico e il Mare del Nord e da essa proviene un terzo del pesce consumato in Gran Bretagna, un dato destinato ad aumentare. All’inizio del 2007 la guardia costiera norvegese ha stimato che la pesca illegale in quelle acque cresce a un ritmo del 30% l’anno e ha fatto pressione sulla Gran Bretagna affinché bloccasse la vendita del pesce di provenienza illecita, ma Londra non ha reagito. Il racket del pesce del Baltico e del Mare del Nord appartiene alla mafia russa, che ha in mano questo mercato dal tempo dello smantellamento del comunismo sovietico. Quando nel 1989 l’Unione Sovietica è crollata, la criminalità organizzata ha assunto il controllo della flotta mercantile e le bande di mafiosi hanno cominciato a razziare i mari. Oggi forniscono la metà del merluzzo che viene venduto, spacciandolo per legale, nei mercati britannici tradizionali come quello di Hull e di Grimsby. L’articolo How the fish on your plate makes you an accessory to crime at sea di Lewis Smith e Valerie Elliott (Times Online, 21 giugno 2006) segnala: «La truffa coinvolge pescherecci di proprietà russa che operano dal porto di Murmansk e non rispettano le rigide quote relative alla pesca di merluzzo, salmone e halibut». Ironia vuole che questo porto fosse il fiore all’occhiello della marina mercantile sovietica. Murmansk è una delle tappe della Northern Sea Route, una rotta commerciale di circa 5000 km che, partendo dal Baltico, si spinge fino alle miniere di nickel di Norilsk: nel 1987 lungo le sue acque gelide transitavano ogni anno oltre 7 milioni di tonnellate di merci, mentre oggi vi passa solo un milione e mezzo di tonnellate. In compenso è diventata la ‘Tortuga’ dei pirati del pesce russi. Da questo covo, i gangster pescano di contrabbando nel Mare del Nord circa 100.000 tonnellate di merluzzo in più rispetto alla quota annuale di 480.000 tonnellate stabilita dalla Gran Bretagna e dalla Norvegia. In alto mare scaricano il bottino in navi diverse che operano con bandiere di convenienza, come quelle della Cambogia, del Togo, del Belize o delle Isole Cayman. È infatti uso comune tra i pescatori aggirare le misure di gestione e conservazione, ed evitare quindi le pene per la pesca illegale, registrandosi sotto una delle numerose e facilmente accessibili bandiere di convenienza offerte dai cosiddetti Stati FOC (Flags Of Convenience). Sebbene il diritto internazionale specifichi che la nazione a cui appartiene la bandiera di una nave è responsabile del controllo delle sue attività, molti paesi sono disposti a fornire la registrazione sotto la loro bandiera, cioè una copertura legittima, ai predatori dei mari, per tariffe che vanno da poche centinaia a migliaia di dollari. Gli Stati FOC sono spesso paesi in via di sviluppo a cui mancano le risorse (o la volontà) per monitorare e controllare le navi che battono la loro bandiera, soprattutto quando le zone di pesca razziate non appartengono alle loro acque territoriali. I primi sono stati Belize, Panama, Honduras e Saint Vincent e Grenadine. Un’occhiata alle marine mercantili del mondo smaschera i traffici che avvengono sotto bandiera ombra: la Mongolia e l’Uzbekistan, per esempio, sono privi di sbocchi sul mare e la Sierra Leone è uno Stato africano afflitto dalla guerra, ma hanno flotte mercantili più numerose di quella australiana. Registrarsi sotto una bandiera di convenienza è un’operazione veloce, facile ed economica e chiunque può farlo su Internet. Per non essere localizzata facilmente, la flotta della mafia russa noleggia o prende a leasing le navi per brevi periodi di tempo e cambia bandiera per confondere le autorità di sorveglianza. Infine, ‘scatole vuote’ e joint-ventures nascondono l’identità dei noleggiatori. Anche quando è possibile rintracciarli, la guardia costiera non riesce a smascherarli. L’organizzazione britannica Environmental Justice Foundation, nel rapporto Pirates and profiteers. How pirate fishing fleets are robbing people and oceans del 2005, scrive: «Le ‘scatole vuote’ che possiedono navi per la pesca non regolamentata traggono grossi benefici dalla riservatezza dei sistemi bancari esistenti in alcune zone (per esempio, i paradisi fiscali). Lo si evince chiaramente dal confronto tra i paesi dichiarati FOC dalla ITF (International Transport workers’ Federation) nel luglio 2003 e l’elenco dei paradisi fiscali prodotto dall’OCSE nel 2001. Dodici paesi FOC (cioè il 43%) appaiono anche nell’elenco dell’OCSE: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Gibilterra, Liberia, Isole Marshall, Antille olandesi, Panama, Saint Vincent e Grenadine, Tonga e Vanuatu. Inoltre, delle 28 giurisdizioni dichiarate FOC dall’ITF, il 45% è membro del Commonwealth: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Bermuda, Isole Cayman, Cipro, Gibilterra, Giamaica, Malta, Mauritius, Sri Lanka, Saint Vincent e Grenadine, Tonga e Vanuatu. Ciò significa che quasi il 25% dei paesi Commonwealth è FOC. Se il governo britannico e i governi degli altri paesi del Commonwealth vogliono davvero sconfiggere la pesca illegale, dovrebbero esercitare pressione sui 15 Stati membri del Commonwealth che non controllano le navi con la loro bandiera affinché si comportino in modo responsabile». Secondo le autorità navali norvegesi, la truffa del merluzzo del Baltico e del Mare del Nord coinvolge anche un racket di riciclaggio di sterline plurimilionario. I profitti della mafia russa sono ‘lavati’ attraverso l’industria della pesca di frodo. È di fatto impossibile stabilire la legalità di ogni carico. Un portavoce della Unilever, proprietaria di noti marchi di prodotti surgelati, ha ammesso in un’intervista a The Times di Londra: «Non sappiamo mai con certezza se qualcuno ha aggirato la legge» ovvero se ha superato la quota. Nel 2006 la televisione svedese TV4 ha denunciato numerose aziende, tra cui la Findus, che pare comprassero merluzzo pescato illegalmente nel Mare di Barents. Secondo il documentario Kalla Fakta e il rapporto di Greenpeace del 15 marzo 2006, Headed and gutted: exposing the role of European states, big business and the Russian mafia in illegal cod fishing in the Barents Sea, le navi della Findus avevano intenzionalmente superato le quote annuali consentite: l’azienda aveva infatti acquistato il merluzzo da vari agenti commerciali, compresa la compagnia danese Kangamiut. In assenza di interventi concreti del governo, ONG come WWF International e Greenpeace hanno cercato di convincere le grosse aziende alimentari, tra cui Unilever, Young’s Blue Fresh e Findus, e le catene di supermercati britannici a boicottare il pesce che arriva nei porti del Regno Unito fino a quando non ne sia stabilita l’origine lecita. Tuttavia, nell’anarchia del mare aperto, far rispettare le leggi va ben oltre il potere dei grossisti. Pattugliare i mari è economicamente proibitivo e intralcia il commercio. Come scrive ancora l’Environmental Justice Foundation nel suo rapporto: «Il costo complessivo del monitoraggio della pesca nell’Unione Europea e nei suoi Stati membri ammonta a 300 milioni di euro, il 5% circa del valore totale della produzione (sbarchi). Nel caso specifico della NAFO (North Atlantic Fisheries Organization), il monitoraggio delle navi dell’Unione Europea arriva a 4 milioni di euro, per un totale di 55 milioni di euro in sbarchi (nel 2002), cioè più del 7% del valore della produzione». La pesca illegale è un’attività plurimiliardaria. Il tonno e il merluzzo della Patagonia, a rischio di estinzione, possono arrivare rispettivamente a 10.000 e a 50.000 dollari a tonnellata, per cui a volte il pesce supera il valore della stessa nave, come rivela il vicesegretario dell’Indian Ocean Tuna Commission. «Sommando tutte le cifre a nostra disposizione, che includono il merluzzo del Mare di Barents, il tonno del Mediterraneo, l’aliotide del Sudafrica e molti altri pesci pescati illegalmente, il volume totale stimato della pesca di frodo va dai 2 ai 15 miliardi di dollari l’anno» dice David Agnew, responsabile della ricerca all’Imperial College di Londra e direttore del MRAG (Marine Resources Assessment Group), un’impresa di consulenza dedita alla promozione dell’uso sostenibile delle risorse naturali attraverso valide politiche e pratiche di gestione integrata.
Il cuore dell’attività internazionale dei pirati del pesce è Las Palmas de Gran Canaria nelle Isole Canarie: da qui passa quasi tutto il pesce illegale che arriva in Europa, almeno 400.000 tonnellate l’anno. Las Palmas è un ottimo porto, geograficamente strategico perché la costa più ricca di pesce è quella dell’Africa occidentale. È inoltre uno dei principali porti di convenienza e offre servizi e ospitalità a molte compagnie che hanno navi illegali. «Rintracciare il pesce rubato che transita da porti come Las Palmas è quasi impossibile» ammette Hélène Bours, consulente ed esperta internazionale sulla pesca illegale, «perché le partite vengono scaricate in alto mare e perché ci sono troppe rotte di contrabbando. Per fare un esempio, c’è un’enorme quantità di quello che viene comunemente chiamato pesce pelagico, come le sardine, pescato in Africa occidentale ma non contrabbandato in Europa o in America del Nord. Le navi europee razziano il pesce pelagico al largo della costa della Mauritania, lo portano a Las Palmas e poi lo vendono ad altri paesi dell’Africa occidentale come la Nigeria». I gamberoni dell’Africa occidentale e alcuni tipi di pesce piatto seguono una rotta del tutto diversa. Una volta arrivati a Las Palmas, sono spediti nel mercato asiatico, dove sono molto richiesti. Las Palmas somiglia a un grosso scalo aereo i cui voli vanno e vengono da centinaia di destinazioni diverse. L’unico modo per rintracciare il pesce è seguirlo fino al mercato finale, un compito impossibile. «I pescherecci non arrivano mai alla destinazione ultima della merce. Prima di approdare in un porto come Las Palmas, dove viene venduto e caricato su navi da trasporto, il pesce cambia imbarcazione almeno una volta» spiega la signora Bours. Gli esperti concordano che a dare impulso a questa nuova stirpe di fuorilegge sia stata la disintegrazione del sistema sovietico. «Le risorse ittiche sono sempre state vulnerabili a causa della pesca eccessiva, ma lo sfruttamento su vasta scala ebbe inizio con l’avvento delle flotte di pescherecci dell’Unione Sovietica negli anni 1950, seguito da quello di flotte simili del Giappone, di altri Stati dell’Estremo Oriente, dei paesi europei e degli Stati Uniti negli anni 1970» spiega un esperto di pesca illegale della FAO. Fino a tutta la guerra fredda, però, ciascun paese pescava nelle sue acque territoriali. La pesca illegale a livello industriale è nata con il crollo del blocco sovietico, quando la criminalità organizzata ha messo le mani sulla flotta mercantile russa e i pirati cinesi hanno iniziato a spadroneggiare sui mari, come illustra il rapporto MRAG sull’impatto della pesca illegale sui paesi in via di sviluppo, del luglio 2005. Il primo bersaglio è stato, come si è detto, il Mar Baltico, per la sua vicinanza a Murmansk, non più pattugliata dalla Marina sovietica. In quella grossa striscia d’acqua oggi si assiste alle disastrose conseguenze di oltre 15 anni di anarchia in mare: «pesca eccessiva, inquinamento, eutrofizzazione, cambiamenti climatici, fuoriuscite di petrolio, pesca a strascico e distruzione degli habitat hanno creato una situazione catastrofica, minacciando ulteriormente la sopravvivenza del merluzzo e di altre specie». La responsabilità di un simile disastro è dei governi degli Stati del Mar Baltico, indifferenti come quello britannico dinanzi agli atti di pirateria che si consumano nelle loro acque. La multa media per la pesca illegale comminata nella regione ammonta a soli 538 euro, poco di più di quella per la sosta in zona rimozione nel centro di Londra. La pirateria del pesce attira poca attenzione perché non ha l’aura di un tema ‘stimolante’ come la povertà in Africa, sostenuto dalle celebrità, o di una ‘minaccia spaventosa’ come il terrorismo islamico. Inoltre, pattugliare il mare equivale a sorvegliare Internet: è costoso e nessuno sa come farlo. Anche i dati sulla pirateria sono inaffidabili e pressoché inesistenti sia sul numero dei pescherecci dediti a quest’attività, sia sull’esatta quantità di pesce pescato illegalmente. Ma i governi sono pienamente consapevoli delle circostanze economiche, le ragioni di fondo della pirateria, e delle conseguenze di questa losca attività.
Spesso, la pirateria del pesce è lo specchio dei nuovi scenari economici e degli incentivi creati dall’avvento del mercato globale. Nel Mediterraneo i pescatori superano la quota assegnata per far quadrare i conti. «Le navi devono pescare il doppio rispetto a quanto è consentito per ripagare le spese» spiega lo spagnolo Sebastian Losada, attivista di Greenpeace. I profitti sono diminuiti a causa dell’aumento del costo del carburante e del calo del prezzo del pesce e i pescatori si trovano in difficoltà. Negli ultimi cinque anni, per esempio, il prezzo del tonno è sceso da 10 a 5 euro al kilogrammo a causa dell’overfishing, la pesca eccessiva. Per accaparrarsi una fetta maggiore del mercato del tonno giapponese, il più grosso al mondo, che acquista l’80% delle partite, i pescherecci legali e illegali hanno rastrellato il Mediterraneo e fatto abbassare i prezzi. I dati dell’ATRT (Advance Tuna Ranching Technologies), ditta spagnola che opera nell’ambito delle tecnologie per la pesca e l’allevamento sostenibili, mostrano che dal 2002 al 2006 la pesca del tonno si è triplicata per soddisfare la crescente domanda asiatica. Le tristi storie dei pescatori mediterranei si sono moltiplicate con
la diffusione dei sushi bar, ma sono vere e raccontate in molte lingue, dall’arabo all’albanese, lungo i 46.000 km delle coste mondiali. Come scrive Vivienne Walt (The Mediterranean’s tuna wars, su Sunday Times, 16 luglio 2006): «I 22 paesi del Mediterraneo si ritrovano a dover affrontare una battaglia per le risorse che solleva il seguente quesito: fino a che punto gli stili di vita e le attività economiche tradizionali possono coesistere con l’insistente richiesta globale dei prodotti della regione mediterranea?». La domanda globale alimenta il circolo vizioso creato dalla pesca eccessiva, producendo a sua volta gravissimi effetti collaterali. «La pesca del tonno nel Mediterraneo, per esempio, è stata talmente abbondante che ora il pesce è raro e prezioso. Ecco il motivo per cui chi lo pesca di frodo può arricchirsi» dice Losada. Il mercato illegale del tonno è controllato dai pescherecci-pirata italiani e francesi. «Le autorità ritengono che il racket sia nelle mani di una joint-venture tra la mafia marsigliese e quella siciliana. Ovviamente tutti lo sanno, ma nessuno può dimostrarlo. La connessione, spesso chiamata dalla polizia il ‘triangolo del tonno’, non si limita alla Francia e all’Italia: uno dei principali mercati del pesce illegale è la Spagna» aggiunge Losada. Il ‘triangolo’ del tonno è, peraltro, diventato un quadrato. La Libia, infatti, ha acquistato vecchi pescherecci francesi a prezzi stracciati per scaricare dalla sua flotta le partite illegali in alto mare. Si tratta di una interconnessione assurda: «La Francia ottiene i sussidi dell’Unione Europea per costruire nuove navi, perciò vende quelle vecchie, a prezzi stracciati, alla Libia, che a sua volta cambia bandiera. Le navi francesi vecchie e nuove, con la bandiera libica, pescano illegalmente al largo delle coste della Libia e il pesce finisce nel porto di Marsiglia».
Accanto alle implicazioni economiche, enorme problema è inoltre quello dello sfruttamento dei lavoratori. I moderni pirati del pesce dirigono fabbriche dello sfruttamento illegale in alto mare. I salari sono una grossa fetta dei costi di gestione, perciò i pirati reclutano l’equipaggio in paesi a basso reddito o semplicemente ne schiavizzano i membri. «Gli equipaggi spesso ricevono un trattamento disumano. Ho parlato con alcuni cinesi che sono stati per anni a bordo dei pescherecci in alto mare, senza mai tornare a casa. Non sono né addestrati né equipaggiati e vengono pagati malissimo» dice la signora Bours. La schiavitù è diventata un evento comune. «Al largo della Guinea abbiamo visto una nave cinese il cui equipaggio non aveva passaporto. Una volta a bordo, gli uomini erano in trappola e non potevano andare da nessuna parte». Greenpeace ed Environmental Justice Foundation hanno documentato le condizioni di lavoro di queste navi ‘dickensiane’ al largo della costa dell’Africa occidentale, la maggior parte delle quali (58 su 92) era cinese: «Gli alloggi sono estremamente sporchi, come anche le stive frigorifero, ammesso che funzionino. Spesso non c’è attrezzatura di salvataggio […]. La Five Star, una nave coreana al largo della costa della Sierra Leone durante la spedizione del 2006, aveva sul ponte una costruzione che è risultata essere l’alloggio di 200 pescatori senegalesi, presenti a bordo oltre all’equipaggio coreano. All’interno si vedevano materassi di cartone e vestiti appesi ai fili. Il soffitto era così basso che bisognava entrare carponi. La nave aveva imbarcato una quarantina di canoe più l’equipaggio a Saint Louis, nel Senegal settentrionale, per poi fermarsi tre mesi nella zona di pesca della Sierra Leone. Una volta lì, le canoe sono state messe in mare, ciascuna con a bordo 5 o 6 pescatori che pescavano tutto il giorno e tornavano a scaricare il pesce la sera. Questa pratica non è nuova e ci sono innumerevoli testimonianze di pescatori senegalesi abbandonati a centinaia di kilometri da casa in piccole canoe di legno non appena la stiva è piena».
Pirati della spazzatura
La pirateria del 21° secolo non si limita a razziare le navi, a rapire i dipendenti delle società petrolifere in cambio del riscatto e a commerciare carichi rubati in alto mare. Spesso trasporta in alto mare rifiuti pericolosi. Secondo l’UNEP, il programma ambientale delle Nazioni Unite, la produzione annua dei rifiuti elettronici, dai computer ai cellulari, va dai 20 ai 50 milioni di tonnellate. Questo materiale altamente tossico viene separato in rifiuti riciclabili e non riciclabili. I primi partono per l’India e la Cina, i secondi finiscono in Africa. Il mare resta la discarica più grande del mondo e i pirati la gestiscono. La globalizzazione ha permesso ai paesi ricchi di liberarsi facilmente dei rifiuti ‘scomodi’. I motivi sono due: costo e ambiente. Seguendo le direttive dell’Unione Europea, decontaminare e disporre dei residui tossici viene a costare più di 1000 dollari alla tonnellata, mentre i pirati della spazzatura offrono prezzi molto più bassi, fino a un decimo, incluso il trasporto fuori dai confini nazionali. Ecco spiegato perché il 47% delle scorie europee, cioè quello tossico, come i rifiuti elettronici, dai vecchi computer ai macchinari ospedalieri, viene per la quasi totalità spedito per mare ai paesi in via di sviluppo, spesso a bordo di navi pirata. Il business della spazzatura tossica dall’inizio degli anni 1990 è cresciuto a ritmi sostenutissimi. Il Giappone detiene il record dell’esportazione di materiale tossico in Asia. Le destinazioni più frequenti sono la Thailandia, l’India, la Cina e Hong Kong. Nel 2006, i pirati della spazzatura cinesi hanno gettato a mare 195 milioni di kg di polvere tossica lungo le coste della Thailandia ed esportato illegalmente in Cina 400 tonnellate di materiale tossico giapponese proveniente da ospedali, impianti chimici ed elettronici. Ma è l’Africa la destinazione più comune dei rifiuti scomodi dei paesi ricchi. L’ONG Basel Action Network rivela che il 75% del materiale elettronico che arriva in Nigeria non può essere riciclato e diventa agente inquinante. La Somalia riceve regolarmente tonnellate di rifiuti elettronici e radioattivi. Spesso, approfittando dell’assenza di un governo centrale, i pirati della spazzatura riversano in mare i loro carichi letali. Alcuni sono riaffiorati dopo lo tsunami del dicembre 2005. Da un’indagine di The Times di Londra è emerso che tra quei rifiuti c’erano scorie di uranio radioattivo, cadmio, mercurio e piombo e anche materiale chimico, industriale e ospedaliero altamente tossico proveniente dall’Europa. La spedizione risale al 1992, quando un gruppo di imprese europee assoldò la società svizzera Archair Partners e l’italiana Progresso, ambedue specializzate nell’esportazione di spazzatura scomoda. Tra il 1997 e il 1998, il settimanale Famiglia Cristiana e la sezione italiana di Greenpeace denunciarono l’accaduto in una serie di articoli. Greenpeace riuscì persino a impossessarsi della copia dell’accordo con il quale l’allora presidente somalo Ali Mahdi Mohamed accettava 10 milioni di tonnellate di rifiuti tossici in cambio di 80 milioni di dollari, il che equivale a un costo di 8 dollari la tonnellata, contro 1000 dollari la tonnellata che si sarebbero spesi in Europa per il riciclaggio e lo smantellamento.
L’Africa è la pattumiera del mondo perché è il continente più povero e i poveri hanno fame. Negli anni 1990, carne radioattiva proveniente dall’ex Unione Sovietica fu seppellita in Zambia dopo che la popolazione ne aveva mangiata una parte; affamata, la gente la riesumò. Nel 2000 la Zambia ebbe ‘in dono’ 2880 barattoli di carne contaminata dalla Repubblica Ceca; scoperta la loro tossicità, i barattoli sono stati seppelliti a 3,5 metri sottoterra e coperti con una colata di cemento nel villaggio di Chongwe, a est della capitale Lusaka. Il giornale belga Gazet van Antwerpen ha riferito che gli abitanti affamati hanno fatto di tutto per recuperarli e alla fine, dopo due anni, sono riusciti nell’intento e ne hanno mangiato il contenuto.
Conclusioni
Il legame che intercorre tra i pirati del Golfo di Aden, quelli della spazzatura, quelli del pesce e il nostro mondo è dunque molto più complesso di quanto si creda. La cattura di una superpetroliera per un valore di 100 milioni di dollari da parte di una flotta di pirati africani è stata solo un’anteprima delle razzie sui mari a venire. Alla base non c’è solo l’assenza di autorità politica in Somalia e nel Corno d’Africa, ma l’anarchia che da anni regna sui mari del villaggio globale. Sono il fallimento dell’imposizione di legislazioni internazionali, quali il divieto della pesca di frodo, specialmente in zone del mondo lontane dall’Occidente, e il fiorente contrabbando di merci false nell’economia globale, cronicamente dipendente da beni a basso costo, ad alimentare la pirateria e a renderla un’attività molto redditizia.
Pirati del passato
L’antichità
Le prime notizie sulle attività della pirateria sono testimoniate da Tucidide (Historiae, libro I). Egli scrive che i Greci e i Barbari delle coste di terraferma e delle isole, quando iniziarono ad avere contatti per mare più frequenti, si diedero alla pirateria (chiamata lesteìa «latrocinio»; il termine peiratès, derivato di peirào, «tentare, assaltare», da cui il latino pirata, è usato solo a partire dal 4° secolo); guidati da capi potenti, agivano saccheggiando le popolazioni dei villaggi sia per arricchire sé stessi, sia per dare sostentamento ai più deboli. Ciò non era considerato un’attività criminosa ma al contrario onorevole, come dimostra il fatto che, ancora al tempo di Tucidide, alcune popolazioni del continente si gloriavano di pirateggiare. La pirateria comunque era il motivo principale per cui le città più antiche erano edificate in siti posti a una certa distanza dal mare. Secondo la tradizione, il re Minosse fu il primo a costruire una flotta con la quale dominò il Mare Egeo, liberandolo dai pirati e assicurando così il trasporto dei tributi a Creta.
Nel Mediterraneo orientale, gli abitanti delle coste meridionali dell’Anatolia erano audaci pirati già nel 2° millennio a.C.: le loro scorrerie sono ricordate dai monumenti egizi; lo stesso facevano i Fenici. Secondo quanto scrive Omero, anche i principi greci pirateggiavano, tanto che l’esercito greco, all’epoca di Troia, era mantenuto soprattutto con i frutti della pirateria. Documenti assiri dell’8° e del 7° secolo a.C. ricordano pirati greci che si spingevano fino alla Siria. Nel 7° secolo le città industriali e commerciali greche, per prima Corinto, crearono flotte da guerra a protezione del commercio marittimo; ciò frenò, ma non distrusse, la pirateria, che continuò a essere esercitata in grande stile, come nel caso di Policrate, signore di Samo dal 537 a.C. circa al 522, che giunse a impiegare fino a 40 triremi per le sue sortite. All’epoca spesso il concetto di pirateria si confondeva peraltro con quello di rappresaglia, di guerra marittima, ma anche di difesa del proprio commercio.
Gli sconvolgimenti prodotti dall’avanzata dei Persiani verso l’Egeo diedero nuovi stimoli alla pirateria e solo dopo la costituzione della lega di Delo la grande flotta ateniese assicurò la libertà dei mari greci, distruggendo fra l’altro alcuni pericolosi nidi di pirati nel Nord dell’Egeo. La guerra del Peloponneso fece rinascere la prassi delle razzie marittime che fra alti e bassi continuò per tutto il 4° secolo. Alessandro ordinò energiche azioni contro i pirati, ma le guerre dei suoi successori diedero nuovo incentivo al fenomeno. Come alleati o mercenari, i pirati accorrevano in massa, al comando di famosi ‘archipirati’, per unirsi alle forze militari dei contendenti. Solo quando un nuovo equilibrio si stabilì nel Mediterraneo orientale, i Tolomei e specialmente Rodi, centro del commercio marittimo del 3° e del 2° secolo a.C., poterono ristabilire una certa sicurezza sul mare.
Se nel Mediterraneo orientale i centri maggiori dei pirati erano sulle coste della Cilicia, a Creta e nell’Etolia, nel Mediterraneo occidentale si distinsero, fin da tempi remoti, le popolazioni indigene dell’Illiria e della Liguria; a esse si aggiunsero poi Etruschi, Cartaginesi e Greci. Gli Etruschi, in particolare, si spingevano fino nei mari greci, tanto che nell’Egeo tutti i pirati venivano chiamati Tirreni. I Greci, specialmente i Siracusani, sostennero dure lotte dapprima per contenere i pirati etruschi nel Tirreno e poi per batterli nel loro stesso mare. Dal 4° secolo a.C. la difesa delle coste italiche fu assunta da Roma con le sue colonie; nel 229 una flotta romana fu costretta a entrare nell’Adriatico per combattere i pirati illirici, che avevano sempre reso insicuro quel mare, nonostante le misure adottate da Atene e Siracusa. Tuttavia la repressione totale della pirateria nell’Adriatico richiese quasi due secoli, fino alla guerra condotta da Augusto nel 35-34 a.C.
In Oriente, la decadenza o la scomparsa delle flotte ellenistiche in seguito alle grandi guerre con i Romani, e soprattutto la rovina di Rodi dopo la terza guerra macedonica, ebbero per conseguenza un rifiorire della pirateria, in proporzioni mai raggiunte prima, sulle coste meridionali dell’Asia Minore, che offrivano eccellenti basi alle navi pirata. Anche i Cretesi ripresero le loro antiche abitudini piratesche. I Romani, che non avevano una flotta permanente, fecero poco o nulla per affrontare la questione, anche perché i pirati erano importanti fornitori di schiavi. Solo nel 102 a.C. il pretore M. Antonio fu inviato sulle coste della Cilicia, dove venne fondato un comando romano stabile (provincia), ma con scarsi risultati. Mitridate, entrando nell’88 in guerra con Roma, chiamò a sé da ogni parte i pirati, che divennero suoi alleati e parte essenziale delle sue forze di mare. Dopo la guerra, i consoli romani Lucio Licinio Murena (82 a.C.) e soprattutto Publio Servilio Isaurico (77-75 a.C.) ripresero con successo le operazioni per mare e per terra nella Cilicia, nella Panfilia e sulle montagne del Tauro; ma nel 74 scoppiò la terza guerra mitridatica che ristabilì l’alleanza fra il re del Ponto e i pirati.
Furono gli anni del massimo sviluppo della pirateria: organizzati in forti squadre, che comprendevano non più solo piccoli vascelli ma anche triremi, i pirati assaltavano e assediavano le città, spargendo il terrore e impedendo i commerci. Si spinsero fino nel Mediterraneo occidentale, dove aiutarono il generale Quinto Sertorio, impadronitosi della Spagna; giunsero a distruggere una flotta consolare a Ostia, a interrompere il transito sulla via Appia, a rapire personaggi importanti: due pretori con i loro littori furono catturati e fu fatto prigioniero lo stesso giovane Giulio Cesare, in viaggio verso Rodi. L’approvvigionamento di Roma era gravemente ostacolato. Nel 74 a.C., un comando straordinario per combattere i pirati fu affidato al pretore Marco Antonio, che fallì miseramente. Finalmente nel 67, sotto la minaccia della carestia, la lex Gabinia (detta anche Lex de piratis persequendis), dal nome del suo proponente, il tribuno della plebe Aulo Gabinio, affidò poteri vastissimi su tutto il Mediterraneo a Pompeo, il quale, mediante una serie di energiche operazioni condotte con grandi mezzi, in pochi mesi liberò i mari dal flagello.
L’impero costituì quindi le due flotte di Ravenna e di Miseno; coadiuvate da squadre ausiliarie in Cirenaica, Egitto e Siria, esse esercitavano il controllo dei mari, che per quasi due secoli rimasero liberi dai pirati, confinati quasi esclusivamente nel Mar Rosso e nel Ponto Eusino. Tuttavia nei primi anni del 3° secolo d.C. la pirateria ricomparve, sintomo evidente dell’incipiente decadenza dell’impero; malgrado Severo Alessandro (222-235) prendesse severe misure per combatterla, ben presto le scorrerie marittime dei Sarmati e dei Goti, che salpavano dalle coste settentrionali del Mar Nero, infestarono tutto il Mediterraneo orientale.
Il Medioevo e l’era moderna
Nel Medioevo spesso è difficile distinguere i movimenti di conquista dagli atti pirateschi. Così i Normanni, nella loro espansione verso Ovest, e specialmente nelle incursioni sulle coste dei Paesi Bassi e nell’interno della Francia attraverso i fiumi, appaiono, almeno in un primo momento, più pirati in cerca di bottino che conquistatori alla ricerca di nuove sedi. Come già nell’antichità, intere popolazioni dedite alla pirateria si organizzavano in rudimentali forme statali: è il caso, per esempio, dei Narentani che, annidati sulla costa orientale dell’Adriatico, costituirono il primo ostacolo per la nascente potenza di Venezia. Ma dall’8° secolo in poi a razziare i mari furono soprattutto gli Arabi, per i quali, come per i Normanni, è talora impossibile distinguere le azioni di conquista dalle semplici scorrerie. Veri covi di pirati erano i nuclei di Saraceni stanziatisi per un certo periodo alle foci del Garigliano, da cui muovevano per predare i paesi vicini.
Con l’affermarsi del dominio turco nel Mediterraneo orientale (15° secolo), la pirateria venne costantemente ed efficacemente organizzata negli Stati barbareschi, cioè gli Stati musulmani vassalli dell’Impero Ottomano che nei secoli dal 16° al 19° si stabilirono in Barberia (Tripolitania, Tunisia, Algeria e Marocco), avendo come principale attività quella piratesca. Falliti i tentativi ispano-portoghesi del 16° secolo per insediarsi stabilmente sulla costa dell’Africa settentrionale, Algeri e Tunisi divennero reggenze dipendenti da Costantinopoli, a capo delle quali furono dapprima dei pascià turchi, poi capi militari locali. Accanto a essi vi erano i consiglieri di governo e la potente corporazione dei capitani delle navi pirata, che costituiva quasi uno Stato nello Stato. Le ripetute azioni navali di contrasto da parte delle potenze cristiane non condussero a risultati decisivi e gli Stati barbareschi rappresentarono una costante minaccia per il commercio nel Mediterraneo fino al 19° secolo, quando furono infine piegati dalla occupazione europea.
Fenomeno in parte differente dalla pirateria fu la guerra di corsa, diffusasi nel Mediterraneo già a partire dal 12° e 13° secolo. Con questa espressione si indicano le spedizioni marittime fatte sia con navi da guerra statali, sia da parte di privati armatori, autorizzati dallo Stato belligerante mediante speciali ‘lettere di corsa’ ad assaltare le navi nemiche, principalmente mercantili ma anche da guerra, e a impedir loro di esercitare ogni commercio. Il fatto di agire con il consenso, o per conto, di un governo era il principale elemento distintivo della guerra di corsa dalla pirateria.
Dal 13° secolo in poi si cominciò ad avere notizia certa di corsari anche fuori del Mediterraneo. Le continue guerre tra Francia e Inghilterra diedero origine a una quasi ininterrotta lotta di corsari, che raggiunse la sua epoca d’oro al tempo della regina Elisabetta I, la quale partecipava ai rischi e ai guadagni di alcuni suoi corsari celeberrimi, come John Hawkins, Francis Drake, Walter Raleigh.
Nel 17° secolo la pirateria trovò il terreno più propizio nel Mar delle Antille, in vicinanza delle ricche colonie spagnole, sulla rotta dei galeoni carichi d’oro e d’argento. A esercitarla erano principalmente i bucanieri o filibustieri, avventurieri di nazionalità europea, in origine piantatori e cacciatori nelle Antille e a Santo Domingo; dopo che le loro attività furono distrutte dagli Spagnoli (1630), essi iniziarono la guerra di corsa e allestirono una flotta mercenaria, spesso alleata dell’Inghilterra e sempre pronta ad agire contro la Spagna. Le loro basi erano Aruba, Bonaire, Tortuga e altre isole più meridionali nel Golfo del Messico; avevano parecchi capi, fra loro spesso d’accordo, talora ostili e rivali: formavano una specie di associazione, con norme severissime per la ripartizione delle prede, il compenso ai mutilati o feriti negli scontri; avevano una loro bandiera (nera, con un teschio e ossa incrociate); si servivano dell’opera di schiavi fuggiaschi, mulatti, zambos, ma li tenevano a distanza. La storia dei bucanieri può dividersi in tre periodi: fino al 1671, anno in cui, sotto la guida del loro capo Henry Morgan e con il consenso del governatore inglese della Giamaica Thomas Modyford, conquistarono Panama; dal 1671 al 1685, momento del loro maggiore potere in cui arrivarono a infestare tutto il Pacifico; dal 1685 in poi, periodo di declino. La loro attività cessò quasi completamente dopo il trattato di Utrecht (1713) che favorì il sorgere dei possedimenti inglesi, francesi e olandesi nelle Indie occidentali.
Nel 19° secolo la pirateria si ridusse a casi sporadici, salvo nell’Estremo Oriente (Malaysia, Borneo, coste della Cina), dove continuò a essere combattuta aspramente dalle flotte inglesi, senza che il fenomeno fosse mai definitivamente debellato.
Pirateria marittima e diritto
In tema di diritto internazionale, la pirateria rientra fra i cosiddetti delicta iuris gentium, cioè fra i delitti che, per la loro gravità, ripugnano alla coscienza civile di tutti i popoli. Di conseguenza, l’ordinamento internazionale autorizza tutti i propri soggetti, cioè gli Stati, a punire con i propri organi giurisdizionali e amministrativi gli individui che se ne rendano colpevoli. Si parla, in materia, di competenza universale alla repressione della pirateria.
Secondo le norme contenute nella Convenzione di Ginevra del 1958 sull’alto mare e ribadite dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, la pirateria vera e propria, definita da alcuni come ‘brigantaggio sul mare’, si sostanzia in atti illegittimi di violenza, di impossessamento o di appropriazione, commessi per scopi personali, dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave, e diretti, in alto mare, contro un’altra nave o contro persone o beni siti a bordo di essa; in atti di partecipazione volontaria all’utilizzazione di una nave pirata; in azioni aventi lo scopo di aiutare altri a commettere atti del tipo già definito o intrapresi nell’intento di facilitare atti del genere. Perché si abbia pirateria nell’accezione tradizionale del termine, gli atti in questione debbono essere commessi con l’animus furandi, cioè a dire per rapina a scopo di lucro. Dunque, la nozione di pirateria accolta dal diritto internazionale richiede da un lato che l’azione criminosa provenga da una nave differente da quella posta in pericolo e che, nella normalità dei casi, l’azione violenta venga perpetrata a bordo; dall’altro, che l’aggressione avvenga in alto mare (o in luogo non sottoposto alla sovranità di alcuno Stato) e che l’autore persegua un ‘fine personale’.
Tale nozione esclude dalla fattispecie della pirateria vera e propria altre figure quali: gli atti di violenza compiuti da individui per impadronirsi in alto mare di una nave per un intento dimostrativo, avente carattere spiccatamente politico; il caso di un equipaggio che combatta contro il proprio governo o che trasporti in un paese insorto armi o armati a scopo di guerra civile; gli atti di violenza operati in tempo di guerra da navi mercantili contro navi militari o private nemiche; l’ammutinamento e la tratta degli schiavi, figure queste ultime che differiscono nettamente dalla pirateria in quanto non arrecano, in sé considerate, pregiudizio alla sicurezza dei traffici marittimi in tempo di pace.
La pirateria, quale delitto iuris gentium, non deve nemmeno essere confusa con la cosiddetta pirateria ‘per analogia’, crimine commesso nell’ambito delle acque territoriali di uno Stato e, quindi, sanzionato non dalla norma internazionale generale sulla pirateria, ma unicamente dall’ordinamento interno statale. Tali atti, infatti, in quanto compiuti nell’ambito della sfera territoriale di un singolo Stato rientrano nella potestà punitiva e repressiva di quel determinato Stato.
Prevenzione e repressione della pirateria
Ai fini del diritto internazionale, le navi vanno distinte, con riguardo alla diversa condizione di cui esse godono e al diverso regime giuridico cui sono sottoposte, in due categorie fondamentali: navi pubbliche e navi private. Le navi pubbliche, a differenza di quelle private, sono assolutamente immuni da qualsiasi interferenza materiale o giurisdizionale da parte di ogni potere statale straniero, indipendentemente dall’ambito spaziale nel quale si trovano e cioè, mare territoriale, zona contigua, zona economica esclusiva, alto mare. Le navi private, invece, sono sottoposte, in linea di principio, all’esclusivo potere materiale dello Stato della bandiera e sono, di conseguenza, sottratte al potere coercitivo di tutti gli altri Stati in alto mare; tuttavia, quando si trovano in acque adiacenti alle coste di Stati a esse estranei, si ha, entro certi limiti, nei loro confronti un concorso di poteri tra Stato nazionale e Stato costiero.
Nel diritto internazionale generale, la pirateria vale come fatto idoneo a far cessare questa distinzione e a consentire l’estensione dei poteri di una nave di Stato nei confronti di navi straniere, siano esse pubbliche o private, al fine dell’esercizio di poteri coercitivi, anche se, quando atti di pirateria vengono compiuti da navi da guerra o di Stato, l’arresto di tali navi potrebbe determinare conseguenze più gravi, proprio a causa dell’immunità da ogni interferenza di Stati stranieri di cui esse generalmente godono. In pratica, la pirateria si presenta come un fatto idoneo a far cessare l’esclusività del potere dello Stato della bandiera, sottraendo la nave al potere di protezione del proprio Stato.
Ciò non significa, però, che essa faccia venire meno la nazionalità della nave che, cioè, come affermano alcuni, si produca il fenomeno della ‘snazionalizzazione’ della nave, in quanto la conservazione o la perdita della nazionalità dipende dalla legislazione interna dello Stato che l’aveva concessa. Ciò significa soltanto che, in presenza di atti di pirateria, viene a cessare la presunzione dell’effettività del potere dello Stato nazionale sulla nave pirata, con esclusivo riferimento al perseguimento di quegli stessi atti. Infatti, è l’interesse alla repressione del delitto di pirateria che legittima l’esercizio del potere degli altri Stati su tale nave. Siamo, quindi, in presenza (come in tutti gli altri casi di potere di intervento su navi altrui) di un’ipotesi di esercizio funzionale delle attività di governo, esercizio che incontra i suoi limiti non nel dato spaziale, bensì nella soddisfazione di un determinato interesse che, in questo caso specifico, è quello della repressione del crimine.
Al di là del limite di tale repressione, la nave pirata rimane sottoposta alla potestà di governo dello Stato della bandiera. Ma l’eccezionale libertà riconosciuta in tal caso dall’ordinamento a tutti i membri della Comunità internazionale, in deroga al principio generale dell’astensione dall’esercizio di un potere materiale di coercizione in spazi liberi su individui o beni stranieri, si inquadra pur sempre nell’esercizio del potere dello Stato, inteso cioè come potestà coercitiva statale e non come esercizio di un potere a esso delegato dalla Comunità internazionale. Lo Stato, quando interviene per punire un individuo colpevole di atti di pirateria, non agisce come organo della Comunità internazionale, bensì come un soggetto nell’esercizio della libertà che l’ordinamento internazionale riconosce a tutti i propri soggetti, in presenza di atti e di azioni che per la loro efferatezza siano idonei a turbare la coscienza di tutti i consociati e siano, quindi, idonei a interferire con l’indisturbato svolgimento della vita di ciascuna comunità territoriale: principio dell’universalità della giurisdizione penale.
Tale principio contraddistingue solo l’assenza di limiti posti dal diritto internazionale generale all’esercizio della potestà coercitiva dello Stato, in vista della repressione di determinati crimini, e non riguarda certamente l’obbligo, bensì la facoltà di reprimere. Pertanto bisogna respingere quella teoria che vede imposto allo Stato, dal diritto internazionale generale, un vero e proprio obbligo a reprimere la pirateria. Nel caso di comportamenti che diano luogo a sospetti, le navi pubbliche sono abilitate, in alto mare, ad arrestare sia le navi pubbliche sia quelle private battenti bandiera diversa dalla propria, a visitarle e a perquisirle, allo scopo di accertare se il sospetto di pirateria sia giustificato. Nel compiere gli atti di accertamento, l’autorità navale dovrà operare nel rispetto delle persone e delle proprietà site a bordo della nave sospetta. Qualora il sospetto risulti confermato, sarà possibile assoggettare la nave e le persone che si trovano a bordo alle sanzioni penali, civili e amministrative previste dall’ordinamento dello Stato cui appartiene la nave pubblica che ha operato la cattura, ovviamente dopo aver scortato la nave sospetta in un porto di tale Stato.
Come già detto, il fenomeno della pirateria è minuziosamente disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1958 sull’alto mare e dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, rispettivamente agli articoli: da 14 a 21 e da 100 a 110. La disciplina dettata dalla Convenzione di Montego Bay in materia ha lasciato in pratica inalterate le disposizioni della Convenzione di Ginevra, con pochissime aggiunte e varianti. Infatti, l’art. 103, che corrisponde all’art. 17 della Convenzione di Ginevra, attribuisce la qualifica di nave pirata a ogni nave, pubblica o privata, che compia atti di pirateria o che, comunque, venga destinata dalle persone che ne hanno l’effettivo controllo a commettere uno degli atti qualificati come tali. È questa l’unica eccezione alla regola dell’immunità delle navi pubbliche, giacché la nave di Stato che si renda colpevole di atti di pirateria viene espressamente equiparata a una nave privata (art. 16 Convenzione di Ginevra; art. 102 Convenzione di Montego Bay). Le norme fondamentali concernenti l’estensione dei poteri di una nave di Stato nei confronti di navi straniere sono poste rispettivamente agli articoli 22 Convenzione di Ginevra e 110 Convenzione di Montego Bay. Possono essere esercitate misure di coercizione nei confronti di navi straniere, oltre che nelle ipotesi previste da speciali accordi internazionali: a) qualora si abbiano fondati motivi per ritenere che la nave appartenga allo stesso Stato che adotta le misure di coercizione; b) qualora si tratti di navi dedite alla pirateria; c) qualora si tratti di navi dedite alla tratta degli schiavi. La Convenzione di Montego Bay prevede, altresì, le ipotesi: d) di una nave priva di nazionalità; e) di una nave impegnata in trasmissioni radiotelevisive non autorizzate e contrarie al diritto internazionale. Entrambe le Convenzioni ribadiscono il concetto che la cattura di navi pirata in alto mare o in altro luogo sottratto alla giurisdizione di qualsiasi Stato può essere effettuata soltanto da navi pubbliche; che qualsiasi Stato può arrestare, visitare e perquisire navi sospette di pirateria e, in caso di conferma del sospetto, assoggettarle a sanzioni a norma delle proprie disposizioni interne; infine, che se, dopo la visita a bordo, è dimostrato che i sospetti non erano fondati, lo Stato nazionale della nave sospettata avrà diritto a essere indennizzato di perdite o danni effettivamente verificatisi e subiti a causa dell’illecita cattura. L’esercizio della potestà coercitiva dello Stato in vista della repressione del fenomeno della pirateria viene configurato, quindi, anche dal diritto convenzionale, come una facoltà e non come un obbligo a reprimere, laddove agli articoli 14 e 100, rispettivamente della Convenzione di Ginevra e della Convenzione di Montego Bay, viene sancito un generico dovere di cooperazione alla repressione della pirateria in alto mare.
La Convenzione di Roma
I problemi e i quesiti giuridici determinati dalla pirateria contro la navigazione marittima hanno ricevuto un importante inquadramento in una Convenzione firmata a Roma il 10 marzo 1988 in occasione di una conferenza promossa dall’IMO (International Maritime Organization) su iniziativa italiana. Tale Convenzione per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima rappresenta infatti una significativa manifestazione della presa di coscienza della comunità internazionale rispetto a un fenomeno che fuoriesce da ogni classificazione giuridica classica e di fronte al quale, proprio per questa sua atipicità, l’ordinamento internazionale incontra difficoltà nell’individuare gli strumenti giuridici per reprimerlo. Si è già accennato, nel fornire la nozione di pirateria marittima, al fatto che indubbiamente terrorismo e pirateria sono due fenomeni distinti, anche se entrambi comportano lo stesso nocumento alla sicurezza dei traffici marittimi internazionali. In assenza di una specifica disciplina convenzionale, la cattura di una nave in mano ai terroristi, in alto mare, secondo il diritto internazionale generale resta affidata al potere coercitivo dello Stato della bandiera. La cattura da parte di uno Stato diverso resta subordinata a uno dei seguenti fattori: consenso dello Stato della bandiera; titolo di giurisdizione rappresentato dal diritto di inseguimento; esistenza di un collegamento tra la nave e la comunità territoriale cui appartiene lo Stato interveniente, nel senso che la nave deve aver compiuto una operazione in una zona sottoposta alla giurisdizione di quest’ultimo Stato; presenza a bordo di ostaggi dello Stato interveniente o anche di Stati terzi.
Al momento dell’entrata in vigore della Convenzione di Roma, la disciplina giuridica per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima ha subito alcuni mutamenti. La disciplina convenzionale si applica nei confronti di qualsiasi persona che, illecitamente e intenzionalmente, come sancisce 1’art. 3, si impossessi di una nave, se tale atto è di natura tale da compromettere la sicurezza della navigazione; distrugga una nave o causi danni a essa o al suo carico, in modo da compromettere la sicurezza della navigazione; metta o faccia mettere per qualsiasi motivo un dispositivo o una sostanza idonea a distruggere una nave o a causare a essa o al suo carico danni che ne compromettano (o possano comprometterne) la sicurezza della navigazione; distrugga o danneggi in modo grave installazioni o servizi di navigazione marittima o ne perturbi gravemente il funzionamento; comunichi un’informazione falsa che possa compromettere la navigazione dì una nave; ferisca o uccida qualche persona, quando questo fatto presenti un collegamento con uno dei reati tentati o commessi, di cui si è già detto. Commette del pari un reato penale, rilevante per la Convenzione, chiunque tenti di commettere uno degli atti illeciti sopra menzionati; chiunque inciti un’altra persona a commetterli; chiunque minacci di commettere uno qualsiasi dei suddetti atti, se tale minaccia sia in grado di compromettere la sicurezza della navigazione di una nave.
È opportuno preliminarmente ricordare che la Convenzione si applica qualora la nave navighi o se, secondo il suo piano di rotta, debba navigare, in zone di mare situate al di là dei limiti esterni del mare territoriale di uno Stato costiero, ovvero in acque internazionali. Quando non ricorra questa situazione, la Convenzione è egualmente applicabile qualora l’autore o presunto tale della violazione sia scoperto sul territorio di uno Stato parte. La Convenzione di Roma prevede poi un ampio numero di soggetti che hanno l’obbligo di esercitare la giurisdizione nei confronti dei responsabili dei fatti in esame. Essa stabilisce, addirittura, che tutti gli Stati contraenti sono tenuti a esercitare la propria giurisdizione nei confronti dei responsabili, allorché questi si trovino sul loro territorio, prescindendo dall’esistenza di qualunque altro collegamento fra lo Stato in questione e il fatto criminoso.
La Convenzione sembra in tal modo avere adottato un vero e proprio sistema di competenza giurisdizionale universale (limitato naturalmente alla sfera dei soggetti contraenti) nei confronti del responsabile di un atto illecito contro la sicurezza della navigazione marittima. Secondo l’art. 6, ogni Stato contraente prende (shall take nella versione inglese) le misure necessarie a stabilire la sua competenza giurisdizionale, quando l’azione criminosa sia stata commessa: contro, o a bordo di, una nave battente bandiera di questo Stato; sul territorio di questo Stato, compreso il suo mare territoriale; da un suo cittadino. Inoltre, uno Stato contraente può egualmente affermare la propria competenza giurisdizionale in presenza di una delle previste violazioni, nel caso in cui essa sia stata commessa da una persona apolide che ha la sua residenza abituale in questo Stato; quando, durante la sua perpetrazione, un cittadino di questo Stato sia stato trattenuto, minacciato, ferito o ucciso; quando l’azione criminosa sia stata commessa allo scopo di costringere al compimento di un qualsiasi atto o ad astenersene. In questo caso, l’elemento qualificante per la Convenzione è quello per cui, al verificarsi di certi avvenimenti, è previsto un preciso obbligo internazionale di esercitare la giurisdizione a carico di alcuni Stati contraenti. Inoltre, la Convenzione prevede che anche gli Stati privi di collegamento (rilevante per la disciplina convenzionale) con il fatto possono esercitare la giurisdizione in base a criteri conformi alla propria legislazione nazionale.
La normativa fin qui esaminata deve essere valutata alla luce del principio aut dedere aut punire, accolto dalla Convenzione nella disposizione del suo art. 10. Secondo tale articolo, lo Stato sul cui territorio viene scoperto il colpevole, o il presunto tale, se non procede all’estradizione è tenuto a sottoporre il caso, «senza eccezioni di sorta, a prescindere dal fatto che il reato sia stato commesso o meno sul suo territorio, alle proprie autorità competenti per l’esercizio dell’azione penale, secondo il procedimento previsto dalla propria legislazione. Le autorità prendono la loro decisione alle stesse condizioni che per ogni altro reato di natura grave previsto dalle leggi dello Stato». L’art. 11 stabilisce l’obbligo di considerare simili reati automaticamente ricompresi nei trattati che vincolano gli Stati contraenti. Tuttavia, gli altri Stati contraenti – sia nell’ipotesi che decidano di considerare la Convenzione come strumento per concedere l’estradizione, sia nell’ipotesi che non condizionino la concessione dell’estradizione alla esistenza di un apposito trattato – restano liberi di tenere conto delle altre condizioni previste in materia dai rispettivi ordinamenti interni. Tra queste, un posto preminente spetterà, evidentemente, alle norme (alcune volte addirittura di rango costituzionale) che proibiscono l’estradizione per reati politici. La Convenzione prevede, infine, anche un obbligo per gli Stati contraenti a collaborare al fine di prevenire le violazioni, prendendo tutte le misure possibili al fine di prevenire la preparazione, sul territorio di uno Stato parte, degli atti illeciti destinati a essere commessi all’interno o al di fuori di tale territorio.
Norme di diritto interno
Come accennato, la nave pirata e le persone che si trovano a bordo di essa, una volta scortate in un porto dello Stato nazionale della nave pubblica che ha operato la cattura, qualora il sospetto si riveli fondato, vengono assoggettate alle sanzioni penali, civili e amministrative previste per il reato di pirateria dalla legislazione interna di tale Stato. Nell’ambito dell’ordinamento italiano la pirateria è considerata un reato speciale previsto dal Codice della navigazione che, accogliendo la nozione tradizionale di pirateria, prevede le seguenti due distinte ipotesi: da un lato quella di atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico; dall’altro, quella di violenza a scopo di depredazione commessa in danno di persone imbarcate su una nave nazionale o straniera, da parte del comandante e dell’ufficiale di nave nazionale o straniera. L’ordinamento italiano, quindi, considera l’animus furandi quale elemento essenziale per la configurabilità del reato. Non essendo indicato l’ambito spaziale in cui gli atti di pirateria debbano verificarsi, se ne deduce che gli stessi possano venire compiuti sia in acque territoriali sia in alto mare; sotto questo profilo, quindi, l’ordinamento italiano non distingue tra atto di pirateria propriamente detta e pirateria ‘per analogia’. La presenza abusiva di armi a bordo o la navigazione senza carte di bordo costituiscono gli elementi necessari e sufficienti alla configurabilità di un sospetto di pirateria. Naturalmente, perché il reato si configuri, sarà necessario che le armi trasportate siano destinate ad atti di pirateria e non ad altri scopi delittuosi, e che la mancata regolarità delle carte di bordo non sia dovuta a circostanze diverse.
La sfera di applicazione degli articoli 1135 e 1136 del Codice navale risulta dunque amplissima, sì che il reato di pirateria, ai sensi dell’ordinamento italiano, dovrà essere punito, qualunque sia il luogo in cui sia commesso e qualunque sia la nazionalità degli autori o della nave su cui questi ultimi sono imbarcati. Il reato è sanzionato con la reclusione da 10 a 20 anni per il comandante o l’ufficiale di nave; tale pena è ridotta in misura non eccedente un terzo per i componenti l’equipaggio e fino alla metà per gli estranei. Per il sospetto di pirateria è, invece, ridotta della metà (da 5 a 10 anni per il comandante e l’ufficiale di nave ecc.). I successivi articoli 1137, 1138 e 1139 considerano rispettivamente le ipotesi di rapina ed estorsione commesse sul litorale nazionale, avvalendosi della nave; quella di impossessamento violento e fraudolento della nave e infine quella dell’accordo per impossessarsi della nave; tutte ipotesi che differiscono dal reato di pirateria, ma che sono a esso equiparate soltanto ai fini della pena. Per tutte e tre le ipotesi in esame è prevista una graduazione della pena a seconda che il fatto sia commesso: dal comandante o dall’ufficiale della nave, dai componenti l’equipaggio della nave o da persone a essa estranee.