Pistoia
La città toscana fu sottomessa da Firenze tra il 1321 e il 1328 e, definitivamente, nel 1351 con la creazione di nuove magistrature e l’imposizione di un capitano fiorentino. Il passaggio dalla libertà comunale all’egemonia fiorentina non risolse l’endemica conflittualità tra fazioni, tratto caratteristico – poi ripreso dallo stesso M. – che alimentò un pressoché costante clima di violenza. I conflitti e le contrapposizioni, più o meno latenti, sfociarono spesso in episodi di efferatezza che videro protagonisti i membri delle due «parti», quella dei Panciatichi, tendenzialmente filomedicea, e quella dei Cancellieri (Herlihy 1967, trad. it. 1972, pp. 22237). Sotto Lorenzo il Magnifico le alleanze con le famiglie legate alla fazione panciatica si consolidarono, mentre venne meno il sostegno in passato accordato ai Cancellieri (Connell 2000, p. 242). Nel 1492, alla morte del Magnifico, e soprattutto con la fuga nel 1494 del figlio Piero, il sistema clientelare consolidato nel corso del Quattrocento entrò in crisi. Dopo l’esilio di Piero il governo della Repubblica riconobbe l’importanza di garantire la fedeltà di P. e nel 1496 furono concesse alla città significative esenzioni, che contemplavano, per es., il divieto per i fiorentini di acquisire terre del contado pistoiese. Notizie di una possibile ribellione della città giunsero a Firenze nei mesi seguenti, e si può ricordare l’efficace descrizione delle forze in campo, nonché delle dinamiche politiche e sociali sottese al conflitto, offerta da Francesco Guicciardini nelle sue Storie fiorentine (Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di R. Palmarocchi, 1931, pp. 202-06).
M. fu inviato a P. come «commissario con amplissima autorità» all’inizio di febbraio del 1501 (Ridolfi 1954, 1978, p. 72). Il 6 di quel mese scrisse ai due rettori della città, lamentando che ogni tentativo di quietare i conflitti tra le parti fosse costantemente interrotto da qualche «inconveniente», e informandoli che da più giorni erano state raccolte truppe per rimediare alla situazione (M. a Antonio del Vigna e Antonio Giugni, 6 febbr. 1501, LCSG, 2° t., pp. 3435). In una missiva del 27 marzo al nuovo commissario della città, Filippo Carducci, diede anche conto degli «incendi, ruberie e arsioni che ciascun dì nuovamente si fanno per cotesto contado» (M. a Filippo Carducci, 27 marzo 1501, LCSG, 2° t., p. 58). La corrispondenza con Carducci proseguì nei giorni seguenti, e ad aprile l’intervento militare fiorentino riuscì a ristabilire i Panciatichi a Pistoia. Tuttavia il ritiro delle truppe della Signoria, dovuto alla minaccia dell’esercito di Cesare Borgia nell’estate di quell’anno, rischiò di compromettere la pace, e M. fu nuovamente inviato in città il 23 luglio e poi di nuovo in ottobre (Ridolfi 1954, 1978, p. 74). La medesima situazione si presentò nel febbraio del 1502, e il 22 e 23 marzo furono convocati in Consulta alcuni cittadini esperti della situazione pistoiese per discutere le misure da adottare (Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1498-1505, a cura di D. Fachard, 2° vol., 1993, pp. 755-62). Si colloca in questo contesto la redazione del De rebus pistoriensibus (→), scritto fra il 17 e il 24 marzo, nel quale M. ricapitolò le fasi della guerra tra fazioni, a partire dall’agosto del 1500, e indicò il momento propizio per «riformare la città [...] posta nello arbitrio vostro [scilicet della Signoria], per essere fuora tutti e’ Panciatichi e de’ Cancellieri più che 150» (De rebus pistoriensibus, § 21). Si tratta, com’è stato osservato, di un «tipico rapporto di cancelleria» (Marchand 1975, p. 50), che propone una sintesi di episodi senza offrire un’analisi politica approfondita, anche se nel marzo dello stesso anno Firenze occupò militarmente P., tentando di imporre una nuova pacificazione. Nel primo trentennio del Cinquecento sono da ricordare altri tumulti che videro la fazione cancelliera e quella panciatica contendersi il controllo della città: nel 1515 i Cancellieri si sollevarono a causa dell’omicidio di un loro sodale, mentre nel 1524 furono i principali esponenti di questa fazione a essere allontanati dalla città (Dedola 1992), né i mutati rapporti politici dopo il 1527, con il ritorno del governo popolare a Firenze, favorirono il tentativo di alterare il predominio dei Panciatichi (Connell 2000, p. 239).
Nel Principe s’incontrano riferimenti a P. in due capitoli. In apertura del xvii, dedicato al tema della pietà e della crudeltà del principe, un cenno a Cesare Borgia offre lo spunto per confrontare il suo atteggiamento in Romagna con quello tenuto nel governo di P. dai fiorentini. Se il duca Valentino aveva fatto ricorso a metodi feroci e sanguinari per assoggettare i piccoli potentati romagnoli, riscuotendo un successo notevole nel ricondurre «in pace e in fede» quelle terre, non altrettanto aveva fatto il popolo fiorentino, che si rifiutò di intervenire con sufficiente decisione nei conflitti fazionari, condannando la città a un caos perpetuo (Principe xvii 2-3). Più oltre M. riferì invece il celebre proverbio, attribuito ai politici fiorentini delle generazioni precedenti, che ricordava la necessità di «tenere Pistoia con le parte e Pisa con le fortezze» (Principe xx 10).
P. è menzionata anche in due capitoli del secondo libro dei Discorsi (xxi 16-18 e xxv 11): fu la divisione tra le «parti» a far sì che i fiorentini appoggiassero ora l’una ora l’altra fazione, e in tal modo la disunione e il «vivere tumultuoso» aprirono la strada al dominio da parte di Firenze. M. distingue tra le città di Lucca, Pisa e Siena, con le quali i fiorentini erano stati in un lungo rapporto di «inimicizia», e P., che costituiva un caso a parte dal momento che, nella sua interpretazione, «i Pistolesi sono corsi volontari sotto lo imperio» di Firenze (Discorsi II xxi 18), mossi dai pur effimeri benefici che avevano tratto dagli accordi prima con i Medici e poi con la Repubblica. Nel terzo libro M. rovescia invece l’assunto per il quale sarebbe necessario governare una città mantenendo in vita le divisioni interne (III xxvii 6-9, 14, 20). Si trova qui contestata l’idea per cui sia giusto e utile pacificare i capi dei tumulti, quando invece essi devono essere o uccisi (il modo «sanza dubbio più sicuro») o allontanati dalla città. L’antico adagio che consigliava di «tenere Pistoia con le parte e Pisa con le fortezze» era criticato alla radice e ricondotto tra quelle «moderne opinioni» che dovevano essere abbandonate, sulla scorta dell’esempio degli antichi (Discorsi III xxvii 14).
Bibliografia: Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1498-1505, a cura di D. Fachard, 2 voll., Genève 1993; F. Guicciardini, Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931.
Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 1978; D. Herlihy, Medieval and Renaissance Pistoia: the social history of an Italian town, 1200-1430, New Haven 1967 (trad. it. Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento, 1200-1430, Firenze 1972); J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli: i primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975, pp. 42-51; M. Dedola, “Tener Pistoia con le parti”. Governo fiorentino e fazioni pistoiesi all’inizio del ’500, «Ricerche storiche», 1992, 22, pp. 238-59; W.J. Connell, La città dei crucci. Fazioni e clientele in uno Stato repubblicano del ’400, Firenze 2000.