PLINIO il Giovane (C. Plinius Caecilius Secundus)
Nacque a Como, Novum Comum, antica colonia di Cesare, nell'anno 61 o 62 d. C., sotto il regno di Nerone. All'epoca dell'eruzione del Vesuvio (24 agosto 79) aveva 18 anni. Appartenente alla tribù Ufentina, ebbe per genitori L. Cecilio Cilone, della famiglia dei Cecilii, che fu quattuorvir aedilicia potestate, e Plinia, sorella minore del grande naturalista, Plinio il Vecchio. Mortogli presto il padre (nel 70?) e dopo essere stato per un biennio sotto la tutela di Verginio Rufo, uomo di alto sentire, di costumi integerrimi e schivo di qualsiasi ambizione, fu adottato e preso subito ad amare dallo zio materno che gli diede un'educazione e un'istruzione confacenti al suo grado sociale.
Molte notizie della vita giovanile di P. le desumiamo dal suo stesso epistolario. Così sappiamo, ad esempio, che, quattordicenne appena, scrisse una tragedia in greco. Fu scolaro di Quintiliano e di Nicete Sacerdote che gli appresero le prime cognizioni di retorica e ai quali fu affidato dalla madre perché ne formassero ed elevassero l'animo. Ebbe cordiali rapporti di amicizia con i più ragguardevoli cittadini del suo tempo, letterati e filosofi, quali Cornelio Tacito, Pompeo Saturnino, Voconio Romano, Svetonio Tranquillo, Corellio Rufo, ecc. Pur non occupandosi mai di filosofia né rivolgendo mai la mente alle disquisizioni filosofiche, godette l'amicizia di Eufrate, che ricordò con parole di gratitudine e di ammirazione, di Musonio e di altri filosofi. Ricoprì molte cariche pubbliche, quali quelle di flamen divi Augusti, di tribunus militum, di quaestor Caesaris, di tribunus plebis, ecc., finché, eletto imperatore Traiano e migliorate le condizioni dell'erario, non pervenne al consolato nell'anno 100. Nel 90 rimasto vedovo d'una giovane dell'alta borghesia romana, si sposò con la figlia di Pompeia Celerina, Calpurnia, donna di esemplari costumi, che rese felice l'esistenza del marito. Tra il 111 e il 112 fu mandato dalla fiducia dell'imperatore quale legatus pro praetore consulari potestate a governare la Bitinia, e di quel suo governo è testimonio fedele e documento la corrispondenza avuta con Traiano.
Non si sa quando sia morto; è probabile, però, che egli si spegnesse o quand'era ancora in provincia, o poco dopo tornato dalla Bitinia, nel 114, perché la sua corrispondenza si arresta all'anno 113. La carriera politica, o cursus honorum, di P. il Giovane si ricava facilmente dall'iscrizione apposta a Como dai suoi concittadini all'ingresso delle terme da lui costruite. Pure essendosi sposato più d'una volta e pure avendo goduto dello ius trium liberorum conferitogli da Traiano, non ebbe figli. Godette una discreta agiatezza e possedeva varie ville, tra cui due sul Lago di Como, note con i nomi di "Tragedia" e di "Commedia".
Esercitò dapprima la professione di avvocato, perorando ogni specie di cause nel foro e sollevando l'arte del dire dal livello piuttosto basso in cui era precipitata per colpa dei declamatori. Studioso di Cicerone, più che mirare al facile successo oratorio, si preoccupò di scendere in difesa della giustizia conculcata e mise volentieri la sua parola al servizio di parenti e di amici che in lui trovavano il sostenitore autorevole ed efficace. Dovettero avere una larga risonanza, in Roma e fuori, le sue arringhe in favore di Attia Viriola, di Giunio Pastore, ecc., come pure le sue accuse contro quel Bebio Massa che si distinse per il suo malgoverno dei Betici, contro Mario Prisco, reo di concussione, ed altri.
Per quanto, però, Plinio si fosse proposto a modello Cicerone, e vagheggiasse in lui l'ideale più alto di eloquenza che si studiava in tutti i modi di raggiungere, pur tuttavia fra l'uno e l'altro vi è un abisso incolmabile. A parte il notevole divario d'ingegno e di temperamento, sta il fatto che Plinio visse in un'epoca in cui la vera e soda eloquenza era tramontata per sempre, e i tentativi di richiamarla in vita erano destinati miseramente a fallire. Ché P. è sempre figlio del suo tempo e risente di quel decadimento di gusto che già comincia a caratterizzare quell'epoca: anche in lui sono tracce cospicue dei dulcia vitia rimproverati a Seneca da Quintiliano; anche in lui spesseggiano le metafore, le antitesi, le iperboli, e il vigore ciceroniano cede il posto a un'eloquenza più molle e sentimentale, anche se più varia; anche in lui non mancano frasi piene di bello spirito, tratti abbaglianti, parole vivaci, che però invano cercano di mascherare l'assenza d'un forte pensiero, di un'argomentazione sostenuta.
Sappiamo da S. Girolamo che P. scrisse varie opere. Di tutta questa complessa e svariata produzione ci rimane soltanto l'epistolario in X libri e il Panegirico a Traiano: non troppo, in verità, rispetto alla perdita di tanta e sì cospicua parte della sua attività letteraria, ma abbastanza per poter giudicare dell'autore e della sua opera. Ché per buona fortuna l'Epistolario è una delle cose più notevoli di P., per il suo valore storico e letterario. I primi 9 libri sono indirizzati a varî amici; l'ultimo ha carattere diplomatico, ufficiale, contenendo la corrispondenza con Traiano.
La corrispondenza privata consta di 247 epistole, le quali non furono affatto pubblicate in ordine cronologico, come ce ne avverte lo stesso autore. La materia è abbastanza svariata: sfoghi o confidenze con amici, notizie di letteratura, frivolaggini, vanità, richieste di favori, descrizioni di paesaggi e via di seguito. Se la lettera è una "conversazione a cuore aperto e franco", s'ingannerebbe assai chi volesse a questa stregua giudicare l'epistolario di P. "Pingue e fiorito" fu giudicato da Q. Aurelio Simmaco lo stile pliniano, onde si spiega perché sia stato preso a modello dagli scrittori che fiorirono nei sec. III e IV d. C., tra i quali principalmente Sidonio Apollinare. Con ciò non s'intende affatto di gettare il discredito sullo stile di P. e di condannarlo senz'altro come manierato e corrotto; perché se porta l'impronta di certi difetti proprî dell'epoca, ha pure taluni innegabili pregi di novità e di semplicità insieme che lo rendono caratteristico e simpatico. L'epistolario pliniano è una guida eccellente per la conoscenza dell'epoca in cui visse lo scrittore. I più insigni cittadini romani, tenuti lontani dalla politica per essere tutti i poteri accentrati nelle mani dell'imperatore, passavano il loro tempo nelle recitationes e in vane discussioni letterarie. Il popolo era torpido e apatico: avvezzo ormai a subire in rassegnazione la politica imperante, non aveva alcun fremito di libertà. Il Senato s'era fatto piaggiatore e s'inchinava alla volontà del principe, adulandolo. Un osservatore cauto e un moralista integro come P. non poteva restare indifferente a certi spettacoli di turpe abiezione morale; quindi le sue rampogne, il suo rammarico e disgusto, che si riflettono in varî luoghi dell'Epistolario.
Nel libro X P., per quanto messo a capo d'una provincia, quale riorganizzatore del pubblico erario, fa l'impressione di un funzionario abbastanza esitante e impacciato di fronte alla risolutezza ferma ed energica del suo principe. Ma anche qui traspaiono le belle doti dell'amministratore con la sua clemenza e mitezza d'animo.
Al genere epidittico appartiene il Panegirico a Traiano che non sempre è stato giudicato con serena obiettività. Dapprima più breve e contenuto nell'ambito di un discorso ufficiale, fu poi accresciuto e rimaneggiato e ripulito fino ad assumere le proporzioni di una vera e propria laudatio, con tutte le sue ampollosità e iperboli. Ma se si prescinde dal tono ampolloso ed enfatico, non si può disconoscere l'onestà e sincerità delle intenzioni, ché P. volle presentarci in tutta la loro luce le splendide qualità morali e intellettuali di Traiano. E fa meraviglia che non pochi e autorevoli critici abbiano considerato pesante e fastidiosa la lettura di quella oratio panegyrica, come se da una lettura attenta e serena di essa non si potesse ricavare abbastanza per la conoscenza di quell'epoca, ricca di avvenimenti, e del successore di Nerva. Basti ricordare il giudizio sfavorevole dell'Alfieri.
Questa l'attività, diremo così, maggiore di P. Forme di attività secondaria sono le orazioni, le storie e le varie specie di versi che egli si dilettava di comporre fino dagli anni giovanili, e di cui qualche tentativo, non troppo felice in verità, sopravvive nelle epistole.
P. è il rappresentante tipico di una tendenza o indirizzo in voga ai suoi tempi: il dilettantismo poetico e letterario. La nota più saliente in lui è una certa virtuosità per cui passa facilmente e senza il minimo sforzo da un genere letterario all'altro. D'ingegno indubbiamente versatile, ama alternare gli ozî poetici con la pratica forense, facendo risuonare la sua voce in mezzo alla folla tumultuante, a difesa degl'innocenti e degli oppressi. Vissuto in mezzo alla società civile del suo tempo, ritrae nell'epistolario non solo il suo animo e i suoi costumi, ma anche le abitudini di quella società in ogni loro sfumatura. Sotto questo rispetto l'epistolario pliniano ha un valore, oltre che letterario, anche storico e psicologico. Non solo, infatti, impariamo a conoscere l'uso delle letture pubbliche, della recitazione dei versi o delle arringhe tenute nel foro, ma anche tanti e tanti altri aspetti della vita pubblica e privata di Roma intorno al 100 d. C., che altrimenti ci sarebbero sfuggiti. A parte il letterato che se anche talvolta può sembrare intinto di retorica, malgrado si professi amico della semplicità, finisce col riuscire sempre simpatico, P. ci appare dotato di un animo capace dei più nobili e schietti sentimenti. Egli, infatti, ha un cuore che, assetato di carità e di bene, soffre dei dolori altrui, come gode delle altrui gioie. Lo diresti fornito di sentimenti quasi cristiani, in un'epoca in cui il paganesimo era ancora dominante e la nuova religione di Cristo era ostinatamente malvista e perseguitata. Si parla spesso dell'umanità di P., ma qui bisogna intendersi. Per P. la pratica del bene, più che essere un dovere supremo e imprescindibile della vita, una legge morale superiore alla nostra volontà e tale da richiedere il nostro pieno consenso e la nostra incondizionata adesione, è un mezzo per raggiungere la gloria. Così ci si sottrae alla morte più che con le buone azioni, con le opere dell'ingegno. Ma pure chi non si affida ciecamente al criterio della ragione, ma accoglie la voce del cuore e fa largo posto alle esigenze del sentimento, contrariamente alla dottrina stoica; chi tratta umanamente gli schiavi, si commuove al loro destino, e li piange se morti, si distacca assai da tutti i contemporanei e merita perciò una particolare segnalazione per i suoi principî di bontà e di giustizia.
Ediz.: 1ª ed. delle Epistole, I-VII e IX, Venezia 1471; 1ª ed. completa delle Epistole e del Panegirico, Venezia 1508; la più recente, completa, a cura di M. Schuster, Lipsia 1933.
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