Pluralismo
di Nicola Matteucci
Il termine 'pluralismo', derivato dall'aggettivo sostantivato 'plurale', esprime il concetto di molteplicità e si contrappone - in una vera e propria dicotomia - al monismo, all'unità.Questo termine entra nel linguaggio filosofico alla fine del Settecento con Christian Wolff e Immanuel Kant, che in polemica con le teorie solipsistiche, intendevano affermare la pluralità dei senzienti; torna poi nel neorealismo e nel pragmatismo americano per i quali la realtà, costituita da una pluralità di fenomeni, non può essere compresa partendo da un solo principio e non è riducibile ad una più profonda unità.Nella teoria politica, invece, il vocabolo entra assai tardi, anche se si possono trovare - come vedremo - interpretazioni pluralistiche della società e della politica in tempi precedenti. L'Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti della Treccani alla voce 'pluralismo' (il volume uscì nel 1935) riporta soltanto il suo significato filosofico; dal canto suo l'Encyclopedia of the Social Sciences, che è del 1934, si limita a riportare le teorie pluralistiche inglesi fiorite all'inizio del secolo (cfr. § 4), e anche l'International Encyclopedia of the Social Sciences, uscita nel 1968, insiste sulla teoria politica inglese dando scarso spazio al pluralismo della scienza politica americana.Nel linguaggio politico italiano la parola 'pluralismo' entra solo in questo dopoguerra: il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli la riporta nella X edizione, che è del 1970. Essa indica, in primo luogo, una società nella quale vi siano due o più partiti, la libertà di organizzazione degli interessi (dei lavoratori e dei datori di lavoro), il riconoscimento delle comunità e delle associazioni intermedie fra l'individuo e lo Stato. In secondo luogo, il termine indica il pluralismo delle fedi religiose, delle culture, dei valori etici. Il vocabolo assume subito una valenza politica contro il monismo dello statalismo e del totalitarismo, ma, insieme, contiene anche una presa di distanza dall'individualismo proprio di una certa tradizione liberale.
Le teorie pluralistiche sono un prodotto del Novecento, salvo qualche isolato precursore. Ma il processo storico di differenziazione culturale e sociale di cui il pluralismo è l'espressione è assai più antico. Pertanto per comprendere il pluralismo di oggi è necessario riconsiderare la storia europea nell'età moderna, età in cui gli Stati si erano ormai consolidati e l'idea di un Impero universale era soltanto un sogno. Tutti gli Stati avevano un comune principio: "un re, una legge, una fede". Ma questo equilibrio politico e morale venne sconvolto dal trauma della Riforma protestante con cui non finiva soltanto l'unità religiosa dell'Europa, ma, all'interno dei singoli Stati, la popolazione stessa restava coinvolta e travolta in sanguinose guerre civili. L'Europa continentale si divise tra luterani (o evangelici), calvinisti e anabattisti; l'Inghilterra tra anglicani, presbiteriani, congregazionalisti, puritani e sette separatiste.Per la mentalità di allora, dominata dal principio dell'unità, risultava quasi impossibile accettare il diverso, il non-conforme, l'a-normale: sia chi restava fedele all'antico, sia chi si era convertito al nuovo non poteva concepire l'idea di tolleranza, perché sui valori ultimi, quelli religiosi, non si poteva transigere. Di qui i roghi in Europa e le guerre civili in Francia, in Germania e in Inghilterra.
Ma vi furono anche uomini nelle classi alte - dotti o politici - che intuirono che alla lunga la vera soluzione era la tolleranza, l'accettazione del diverso: il pluralismo trasformò poi il principio della tolleranza in quello della libertà religiosa.In questa sede non ci interessa tracciare la storia - estremamente complessa e variegata - dell'idea di tolleranza, del suo lento e faticoso affermarsi per il radicale mutamento della mentalità che implicava. Basti accennare al principio da cui muove questa storia e alle due principali tendenze che si svilupparono. Il principio venne affermato, prima della Riforma, da Jan Huss in una lettera inviata ai suoi discepoli (25 giugno 1415) dal Concilio di Costanza. A chi lo invitava a sottomettersi in tutto anche se le tesi del Concilio gli sembravano in contrasto con la sua ragione, rispose "io, avendo la ragione, di cui ora faccio uso, non potrei dirlo senza la resistenza della mia coscienza". Questa valorizzazione della coscienza individuale e della sua libertà è un indizio del mutare dei tempi. A questo principio si ispirerà poi chiaramente John Locke.
La lotta per la tolleranza fu condotta su due fronti assai lontani. Da una parte ci fu l'Umanesimo cristiano - rappresentato da personalità quali Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro - che si poneva al di sopra delle confessioni in lotta in nome della dignità umana; ad esso si ispirarono correnti ecumeniche e ireniche. Dal canto suo Sebastiano Castellione (1515-1563), eretico fra gli eretici, in De Haereticis an sint perseguendi (1554) affermò: "forzare una coscienza è peggio che uccidere crudelmente un uomo", per cui "il Vangelo non deve essere imposto con le armi", ma con carità e con amore. Dall'altra parte vi fu una risposta politica. In Francia, durante le guerre di religione, si formò un terzo partito fra papisti e ugonotti, chiamato il partito dei politiques, il cui motto era "état, état; police, police", cioè Stato e politica. Dato che la religione era soltanto causa di disordini e di guerra civile, bisognava trovare il fondamento della pace e dell'ordine in una diversa e superiore istanza, lo Stato e la politica, appunto. Lo Stato può essere tollerante nella misura in cui neutralizza politicamente le diverse religioni e le confina nella sfera del privato. Il famoso editto di Nantes (1598) sulla tolleranza di Enrico IV è il risultato dell'opera dei politiques.La tolleranza stentò ad affermarsi: l'editto di Nantes venne revocato nel 1685 da Luigi XIV. A prevalere fu la tendenza verso le Chiese nazionali.
Per mettere fine alle guerre di religione nell'Impero prima la pace di Augusta (1555) poi la pace di Westfalia (1648) stabilirono il principio "cuius regio, eius religio". Mentre in Francia restava forte il gallicanesimo, in Inghilterra la Chiesa di Stato fu dominata dagli anglicani, poi dai presbiteriani (estremamente intolleranti) e in seguito - dopo la Restaurazione - dagli anglicani latitudinari. Ma la Chiesa di Stato implicava un'equiparazione estremamente pericolosa tra eresia (religiosa) e tradimento (politico). Il principio della tolleranza comincia però a farsi strada anche se non implica la separazione dello Stato dalla Chiesa nazionale. In Inghilterra si ha l'Act of toleration del 1689; in Prussia la politica ecclesiastica di Federico il Grande; nell'Impero austro-ungarico l'Editto di tolleranza del 1781 di Giuseppe II; in Francia nel 1787 un Editto che concede ai protestanti lo stato civile.
Ma si trattava sempre di concessioni dall'alto, che non riconoscevano il principio della libertà religiosa.Fu John Locke (1632-1704), nella Epistola de tolerantia (1689), a porre i fondamenti della libertà religiosa, istituendo una radicale distinzione fra lo Stato (o "governo civile" per usare il suo linguaggio) e le Chiese. Egli ritiene che "la società civile sia una associazione di uomini costituita solo per curare, difendere e migliorare i loro interessi civili", mentre una Chiesa è "una società libera e volontaria di uomini, concordi a unirsi per adorare pubblicamente Dio nel modo che essi ritengono a Lui gradito e, nello stesso tempo, efficace alla salvezza delle loro anime". Pur appartenendo alla Chiesa anglicana, la Chiesa ufficiale dell'Inghilterra, Locke non rivendica per essa alcun privilegio. La religione ha un solo fondamento, insindacabile dal magistrato civile: la "voce della coscienza", perché "la forza vitale della vera religione consiste nell'intima e piena persuasione della mente, e la fede non è fede senza convincimento". Nella sua opera Locke condensa molti motivi dei difensori religiosi della tolleranza; e non per nulla - nel lungo cammino delle idee - l'eredità di Socino era giunta, attraverso la Polonia, nei Paesi Bassi, e proprio in Olanda Locke era stato in esilio dal 1683 al 1689.In America la libertà di coscienza venne stabilita dal puritano Roger Williams (1603-1684) nei nuovi insediamenti di Providence (1636) e di Rhode Island (1647); e anche nel Maryland, un insediamento cattolico, venne concessa la tolleranza religiosa nel 1649. Ma sarà solo con la Rivoluzione americana che la libertà religiosa diventerà un principio costituzionale: "il libero esercizio della religione" venne stabilito nel 1776 nella Dichiarazione dei diritti della Virginia nell'art. 16 (il principio poi lo ritroveremo nel 1° Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti).
Anche la Francia rivoluzionaria stabilì all'art. 10 della Déclaration des droits de l'homme et du citoyen (1791), la libertà religiosa, ma in una forma assai più debole, perché l'articolo fu il risultato di un compromesso fra coloro che difendevano il cattolicesimo come religione dominante, coloro che riallacciandosi all'editto del 1787 parlavano di tolleranza e coloro che rifiutavano, come insultante, questa stessa parola in nome della piena libertà.L'affermazione del pluralismo nell'età moderna doveva infrangere un altro antichissimo principio, che i Romani definivano in termini di idem sentire de republica e che nel Medioevo era espresso dal concetto di bonum commune. Nella trattatistica politica dell'età moderna si continua a ribadire questo principio e si parla di bene comune, di commonwealth, di pubblico bene, di bene del popolo, di interesse generale, di benessere comune. Anche la filosofia politica privilegia il momento dell'unità: Hobbes condanna senza appello il partito, che è "come uno Stato nello Stato" (De cive, XIII, 13), e anche le "corporazioni", che "sono simili a vermi negli intestini di un uomo naturale" (Leviatano, II, 29). Spinoza afferma che "le cose che contribuiscono alla società comune degli uomini, ovverosia le cose che fanno sì che gli uomini vivano in buona armonia, sono utili, e viceversa sono cattive quelle che provocano la discordia nello Stato" (Etica, IV, 40). Anche Rousseau, che tanta influenza eserciterà sul pensiero democratico, vede le "associazioni parziali" come nemiche della volontà generale (Du Contrat social, II, 3).
Ne consegue che questo bene comune non ammette punti di vista diversi per interpretarlo: ciò è possibile solo nelle monarchie assolute, nelle quali il sovrano è l'esclusivo interprete. La società comune non può ammettere nel suo seno divisioni, perché sono soltanto causa di discordia: sono soltanto fazioni. Il 'partito', d'altronde, come dice la parola stessa, è una semplice parte rispetto al tutto.Il problema del riconoscimento del partito si pose in Inghilterra, dove esisteva una reale vita politica e quindi di fatto una divisione in partiti. Nella seconda metà del Seicento abbiamo in questo paese due embrionali formazioni partitiche, quella dei Whigs e quella dei Tories, che accetteranno entrambe - perché da esse promossa - la Gloriosa rivoluzione del 1688-1689. Nel Settecento, però, il pensiero politico inglese, dominato dall'antico principio del bene comune, fatica a comprendere la nuova realtà. Henry Saint-John, visconte di Bolingbroke (1678-1751), continua a condannare le fazioni, che agiscono per considerazioni di interesse personale e non pubblico, anche se poi opera una distinzione - quantitativa e non qualitativa - fra partito e fazione. Nel saggio storico Dissertation upon parties (1734) Bolingbroke arriva ad una considerazione più realistica del problema, prendendo atto che nella storia inglese i partiti si dividono su diversi principî e progetti. Infatti, sotto gli Stuart, abbiamo il country party e la Corte, il costituzionalismo e l'assolutismo. Ma le differenze non s'arrestano qui. I Tories hanno le loro radici nella Chiesa (anglicana) d'Inghilterra, i Whigs nei dissidenti non conformisti; i primi sono portavoce degli interessi terrieri, i secondi degli interessi finanziari.Anche David Hume (1711-1776) è - sul piano teorico - contrario alle fazioni, ma poiché esse esistono, ritiene che siano un male inevitabile e che abolirle non sia desiderabile in un governo libero. Egli procede ad una classificazione dei partiti: vi sono quelli basati su un interesse di classe, quelli tenuti insieme da legami affettivi e irrazionali e quelli che si ispirano a chiari principî. Questi possono essere religiosi, e sono una pura follia, oppure politici e in questo caso ci muoviamo sul piano di una comprensibilità razionale. La distinzione tra principî è necessaria, perché "in ogni governo vi è una continua lotta intestina, aperta o nascosta, tra autorità e libertà, che non riescono mai, né l'una, né l'altra, ad assicurarsi il predominio assoluto" (Essays moral and political, I, 5). Non solo l'analisi di Hume si è ormai totalmente secolarizzata, nel respingere come pura follia i partiti religiosi, ma proprio per il suo empirismo la tipologia da lui definita apre la strada allo studio scientifico dei partiti.Questa lenta rivalutazione del partito-fazione si conclude con l'americano James Madison (1751-1835), che nel famoso articolo del Federalist (n. 10) scrive: "Vi sono due metodi per curare i mali causati dalle fazioni: uno è rimuovere le cause, il secondo è controllarne gli effetti. Vi sono due modi ancora, per distruggere le cause di una faziosità: il primo è quello di distruggere la libertà che ne è la condizione indispensabile; il secondo è quello di accomunare tutti i cittadini in una unanimità di opinioni, di passioni e di interessi. Il detto che il rimedio è peggiore del male ha, nel primo caso, un'incomparabile esemplificazione. La libertà rappresenta per la faziosità quel che l'aria rappresenta per il fuoco: un alimento senza il quale essa viene senz'altro meno. Tuttavia sarebbe altrettanto folle abolire la libertà, che è essenziale alla vita politica - sol perché essa può nutrire le fazioni - quanto pensare di eliminare l'aria, che è essenziale alla vita animale, solo perché essa dona al fuoco la sua energia distruggitrice. Il secondo espediente è inattuabile, proprio come il primo è imprudente. Finché la ragione umana non diventa infallibile e fino a che l'uomo sarà libero di esercitarla, vi saranno sempre opinioni differenti". Il rimedio contro le fazioni, che prosperano soprattutto nelle piccole democrazie, è quello di controllarne gli effetti con un governo rappresentativo e con un ampliamento dell'orbita che consenta una maggiore varietà di partiti, di opinioni e di interessi: solo questo può impedire che uno di questi gruppi possa superare ed opprimere gli altri. La legittimità del partito in un governo libero trova in queste pagine la sua classica fondazione.Su queste esperienze, che furono sociali prima di essere intellettuali, fiorirono nel Novecento le teorie pluralistiche. Parliamo di teorie al plurale, proprio perché vi sono due filoni profondamente diversi, uno legato all'esperienza americana, l'altro alla storia europea: il primo si muove soprattutto sul piano descrittivo, e ha come punto di riferimento il government; il secondo privilegia il piano prescrittivo, e ha come punto di riferimento lo Stato.
Alexis de Tocqueville nella sua Démocratie en Amérique non teorizza certo il pluralismo, ma la società che descrive, senza alcun pregiudizio eurocentrico, mostra chiaramente una natura pluralistica. Basti pensare ai giudizi sugli Stati Uniti che davano - ad esempio - Hegel nelle sue Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte o Marx in Der Achtzehnte Brumaire des Louis Napoleon: per il primo, l'America del Nord non si era ancora elevata alla forma statuale, non aveva raggiunto la sua "spiritualità sostanziale"; per il secondo, non si poteva parlare di Stato, dato che le classi ivi esistenti non si erano ancora chiaramente fissate. In quella immaturità Tocqueville scopre, invece, una società libera.Nella sua descrizione del sistema politico americano, Tocqueville opera un radicale capovolgimento rispetto a canoni allora tradizionali, ma ancor oggi vigenti. Partendo dall'assioma che negli Stati Uniti è il popolo a governare, la sua analisi muove dalla società: quando parla delle istituzioni si sofferma lungamente sulle autonomie locali per concludere con il "governo dell'Unione" (non usa mai la parola Stato). Quando parla del funzionamento di questa democrazia, la sua attenzione è rivolta soprattutto alla società civile: ai partiti, alla pluralità di giornali, di associazioni con fini politici e non politici, di confessioni religiose, le quali riescono a convivere in base al principio delle libere Chiese in un libero governo.
Ma la chiave del discorso è l'associazione, la libera associazione non controllata (come in Francia) dallo Stato. Tocqueville osserva, "L'America è il solo paese al mondo in cui si è tratto il maggior profitto dall'associazione, e dove si è applicato questo potente mezzo d'azione a una maggiore varietà di situazioni" (I, II, 4). E ancora: "Dovunque, dove alla testa di una nuova iniziativa trovate, in Francia, il governo, e in Inghilterra un gran signore, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un'associazione" (II, II, 5). Per quanto riguarda la nascente società industriale europea, egli auspica un associazionismo fra gli operai, che li metta in grado di fronteggiare con più forza il potere del padronato (II, III, 7).
Chi ripercorre tutta la Démocratie en Amérique tenendo presente questa centralità dell'associazione, comprenderà la polemica sia contro quell'individualismo che vuole rinchiudere l'individuo nella vita privata, sia contro quello statalismo che vuole delegare il potere sociale ad uno Stato paternalista che provvede a tutto. Si tratta peraltro di una polemica che non coinvolge i diritti dell'individuo e il governo rappresentativo. Questi temi li ritroveremo nel moderno pluralismo americano.
La scoperta o la riscoperta del pluralismo in una società democratica non poteva darsi che in America, con il decisivo contributo delle scienze sociali. Pioniere di questo nuovo modo di guardare al governo - con un metodo non giuridico e formale, ma descrittivo ed empirico - è stato Arthur Bentley, uno dei protagonisti di quella "rivolta contro il formalismo" da cui nacquero le scienze sociali. Il titolo della sua opera - The process of government (1908) - è assai indicativo: non esiste una realtà astratta chiamata governo, perché le sue azioni sono la risultante di un processo che si dà nella vita sociale prima che in quella politica. Così egli è interessato, contro ogni visione statica della vita politica e sociale, al cambiamento e alla trasformazione per l'azione dei gruppi sociali. L'unità di analisi è il "gruppo", un insieme di individui associati volontariamente; in questo modo viene respinto il concetto marxiano di classe, perché troppo schematico e troppo rigido. Vi sono, sottostanti ai partiti, "gruppi di interesse" e "interessi di gruppo", dove la parola 'interesse' non ha un significato esclusivamente economico. Il concetto di gruppo non è rigido, perché si può appartenere a più gruppi e i gruppi possono intersecarsi fra di loro, dato che nella società essi sono sempre in relazione con altri gruppi, per cui possono benissimo darsi transazioni fra di loro. I gruppi inoltre possono essere sia informali, sia formali. Il processo di governo è proprio questa pressione che sale dal basso, passa attraverso i partiti, e giunge alla fine alla sintesi del governo. Si riallaccia a Bentley D. B. Truman, la cui opera principale porta un titolo analogo: The governmental process (1951).
Egli parte sempre dalla categoria analitica di gruppo (o associazione) contro l'individualismo, che mette l'individuo a diretto contatto con lo Stato, e l'istituzionalismo, che ignora l'effettiva realtà sociale. L'affermazione dell'individuo si dà attraverso la sua adesione a più associazioni e attraverso la possibilità di formare nuovi gruppi potenziali. La stabilità del sistema politico è dovuta proprio a queste solidarietà incrociantesi e quindi reciproche, per cui i gruppi debbono rispettare gli altri legami dei loro membri.Anche l'opera di Robert M. MacIver, The web of government (1947) è una riflessione sulla democrazia americana, anche se non manca un'indagine comparatistica con altre forme di governo. Il suo approccio al problema è essenzialmente descrittivo, ma dal testo emergono chiaramente i caratteri che contraddistinguono una vera società pluralistica. Egli vuole esaminare il rapporto fra il governo (studiato dai giuristi) e la società (studiata dai sociologi), aprendo così la strada alla scienza o sociologia politica e respingendo - come già Bentley - la definizione etimologica della democrazia, spesso adottata dalla teoria politica. I processi politici devono essere analizzati nel contesto sociale, in cui i protagonisti non sono gli individui (salvo al momento delle elezioni), ma i gruppi e le comunità. Quello di comunità è un concetto nuovo, ma MacIver ne respinge esplicitamente una definizione organica. 'Gruppi' e 'comunità' sono termini intercambiabili, perché hanno come punto di riferimento una libera associazione fra individui.
Egli osserva che noi viviamo in comunità prima di vivere in uno Stato, cioè viviamo in un'area delimitata della società, che ha proprie norme, senza essere un'organizzazione o una corporazione o una unità territoriale, anche se riconosce la funzione delle comunità locali. La vera distinzione è fra associazioni nate da comuni interessi economici o "distributivi" e associazioni nate da interessi "condivisi", ossia gli interessi culturali, religiosi, filosofici, scientifici, che in una società sono estremamente diversi, ma che non appartengono all'area della politica.MacIver è decisamente contrario all'uso del concetto di Stato, perché esso indica l'unità che tutto ingloba, perché è un concetto monistico, che sacrifica la complessità delle società: lo definisce un concetto "tolemaico" per le scienze sociali. Preferisce analizzare la tensione fra società e governo, che rappresenta la risultante e non la superiore unità, e va visto quindi nel campo di forze della società. Il ruolo del governo non viene per questo abolito: esso non deve intervenire nella vita delle comunità culturali operanti nella società, ma è suo preciso compito regolare le attività delle associazioni economiche, che non possono essere lasciate al libero arbitrio dei gruppi senza che l'ordine sociale ne soffra seriamente.In tempi più recenti a sistemare e ad articolare la concezione pluralistica è stato Robert A. Dahl con A preface to democratic theory (1956), Polyarchy (1971), Dilemmas of pluralist democracy (1982), Democracy and its critics (1989).
Pur essendosi occupato anche di sociologia politica, Dahl ha incentrato l'attenzione sui concreti assetti di potere nelle democrazie occidentali. A lui si deve la fortunata nozione di 'poliarchia', contrapposta a quella di monarchia, che è divenuta la moderna definizione di democrazia. Il punto di partenza è - ovviamente - l'esperienza americana, ma Dahl estende il discorso alle democrazie occidentali analizzate su base empirica in una prospettiva comparata e nel loro reale funzionamento: la sua teoria democratica non è inizialmente costruita su una tavola di valori. La poliarchia non è la sola forma di democrazia possibile e si oppone alla democrazia populista, la quale esalta un governo della maggioranza senza limiti, sfociando nella tirannia della maggioranza. La poliarchia presuppone il rispetto dei diritti dei cittadini, il rispetto delle regole procedurali di una costituzione, che limita i poteri della maggioranza. Protagonisti del processo politico sono, ancora una volta, non gli individui ma i gruppi, veri attori collettivi, poi le coalizioni fra i gruppi, che con le loro organizzazioni indipendenti dallo Stato riducono il potere coercitivo del governo. Ci troviamo tuttavia di fronte ad una realtà mobile, perché gli individui possono avere più appartenenze a gruppi diversi.
Sull'arena politica si dà una competizione continua fra forti minoranze, che sfocia però in una contrattazione continua: non c'è più lo Stato, come unico centro di potere onnicompetente, ma una molteplicità di centri di potere, nessuno dei quali può essere veramente sovrano. Il potere potenziale di un gruppo è bilanciato e controllato dal potere di un altro gruppo, e ciò consente di risolvere pacificamente i conflitti. La dispersione del potere trasforma il dominio in un complesso sistema di controlli reciproci.Robert Dahl, pur preferendo chiaramente la poliarchia alla democrazia populista, non si nasconde i reali problemi e i veri pericoli di una democrazia pluralista. Fra questi problemi uno è particolarmente attuale e concerne la necessità di un minimo di omogeneità culturale, senza forti sottoculture fortemente differenziate, di tipo religioso, ideologico, linguistico ed etnico. Il pericolo, d'altro canto, è che queste organizzazioni indipendenti possano violare i diritti dei cittadini, ostacolare il processo democratico, stabilizzare le ineguaglianze, insomma, creare una categoria di esclusi dalla cittadinanza. L'alternativa resta fra la totale autonomia e l'assoluto controllo, cioè fra l'assoluta poliarchia e l'assoluta monarchia; ma in realtà possono darsi forme di compromesso. Dahl poi pensa a massimizzare la partecipazione nelle organizzazioni, come le imprese e i sindacati. In definitiva, per Dahl la poliarchia non è il punto di arrivo della democrazia occidentale, ma il punto di partenza da cui muovere per affrontare i dilemmi non risolti o le deficienze della democrazia pluralistica: la democrazia resta ancora un valore che ci deve guidare per il futuro.
Partendo da una teoria descrittiva, Dahl ha posto le basi realistiche per una teoria prescrittiva.In conclusione la teoria pluralistica rifiuta una definizione etimologica del concetto di democrazia. Una posizione analoga era stata assunta da Joseph A. Schumpeter in Capitalism, socialism and democracy (1942), ma mentre questi vedeva la realtà della democrazia nella competizione sul mercato elettorale fra due o più partiti per ottenere la delega all'esercizio del potere, per i teorici del pluralismo la realtà della democrazia è assai più complessa, sia perché i protagonisti non sono i partiti ma i gruppi, sia perché i giochi non si decidono soltanto al momento delle elezioni. La democrazia è così un insieme di regole procedurali atte a consentire la libera attività dei gruppi e a garantire quindi una società aperta (questa è la vera caratteristica del pluralismo); ma nel concetto di 'gruppo' tende a prevalere - salvo, forse, in Robert MacIver - la dimensione dell'interesse su quella culturale: si guarda all'azione dei gruppi che favoriscono o ostacolano l'azione del governo, mentre scarsa attenzione è prestata al fatto che la società è assai più ampia del governo e la sua vita non tocca sempre problemi di governo. Ed è proprio in questa società che si pongono e si porranno nuovi problemi per il pluralismo.Al riguardo è di rilievo ad esempio la centralità che il tema del pluralismo assume nella recente opera di John Rawls Political liberalism (1993). Con le lezioni raccolte in questo volume Rawls prosegue la fondazione della sua teoria della giustizia come equità cercando questa volta di evidenziarne la valenza rigorosamente politica. Circoscrivendone l'applicabilità alla sfera politica dell'agire, è possibile rispettare l'effettiva pluralità dei principî morali, filosofici e religiosi.
Tale pluralità - che non rappresenta "un aspetto sfortunato della condizione umana" - deve allora poter essere compatibile con i principî di giustizia individuati da Rawls, deve essere in altre parole un "pluralismo ragionevole", cui si contrappone il cosiddetto "pluralismo in quanto tale, il quale ammette dottrine non solo irrazionali, ma folli e aggressive".
In Europa non troviamo una teoria descrittiva del pluralismo analoga a quella americana. C'era bensì stata la valorizzazione dei 'corpi intermedi' nel Settecento con Montesquieu, ma era stata condannata prima dall'Illuminismo, poi dalla Rivoluzione francese: nel preambolo della Costituzione del 1791 si affermava che "non vi sono più né giurande, né corporazioni di professioni, di arti e mestieri". Poi venne la famosa legge di Le Chapelier del 1791, la quale aboliva tutte le società intermedie o, meglio, tutte le corporazioni fondate su pretesi interessi comuni, che si contrapponevano fra l'individuo e lo Stato: la difesa dei corpi intermedi finiva per essere ricondotta ad una difesa dell'Antico regime.Il vero protagonista in Europa è lo Stato, massima espressione dell'unità politica. Aveva vinto la linea di Hobbes e - se si vuole - di Rousseau e Kant: il discorso si muove esclusivamente fra l'individuo e lo Stato, ignorando le società intermedie. La compattezza teorica di questa costruzione poté reggere finché non apparvero i partiti e i sindacati, ai quali bisognava pur dare una qualche legittimità.
Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento Otto von Gierke, con le sue famose opere Das deutsche Genossenschaftsrecht e J. Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien tentò di rivalutare i corpi intermedi, le corporazioni, lo Stato dei ceti o degli ordini dell'antico diritto germanico, intesi come corpi naturali, inseriti in una società organica. Il suo pensiero fu introdotto in Inghilterra dallo storico Frederic William Maitland, il quale però focalizzò l'attenzione sul fenomeno della corporation, per stabilire se il riconoscimento da parte dello Stato della volontà dell'associazione sia costitutivo di questo nuovo soggetto o meramente ricognitivo. Da Gierke e da Maitland derivarono due teorie simili e insieme opposte del pluralismo: quella cattolica e quella socialista. Simili, perché hanno come comune avversario l'individualismo e lo statalismo; opposte perché i nuovi soggetti che vengono presi in considerazione sono per gli uni 'naturali', per gli altri 'volontari'. Ma, in entrambi i casi, si tratta di teorie prescrittive, che servono ad ispirare e a dirigere l'azione, non a comprendere la realtà effettuale. Alla prima si ispirarono i cattolici, alla seconda i socialisti inglesi. Esse erano però un sintomo del fatto che la vecchia Staatslehre cominciava a incrinarsi.Inizialmente la dottrina sociale della Chiesa con la Rerum Novarum (1891) si richiamò chiaramente al corporativismo medievale: per essa sono corpi naturali la famiglia, il comune, l'organizzazione professionale, oltre - naturalmente - la Chiesa. I partiti non sono presi in considerazione, e lo Stato deve mirare ad un'organica rappresentanza dei contrapposti interessi che elimini il conflitto sociale in nome della solidarietà. Il momento contrattuale, che è proprio del moderno pluralismo, è del tutto assente. Se non si accetta la radicale lotta di classe marxiana, come sarà nel pluralismo americano, non si vede neppure la positività del conflitto destinato a concludersi poi in un libero contratto.
La dottrina sociale della Chiesa resta ancorata ad una soluzione organica in nome del valore della solidarietà: contro l'individuo e contro lo Stato vuole riabilitare la comunità.Il pluralismo socialista è l'espressione di un piccolo gruppo di socialisti inglesi, e nasce dalla riflessione sugli effetti degradanti dell'industrializzazione. La polemica è rivolta sia contro l'individualismo sfrenato, sia contro lo statalismo, alla ricerca di un nuovo ordine sociale fondato sui gruppi. Non si tratta tanto di una teoria della competizione politica, come quella sviluppata in America, quanto di una critica della sovranità illimitata dello Stato, che ha le sue massime espressioni in Hegel e Austin. Il gruppo, di cui fecero parte Frederic Maitland, John Neville Figgis, Harold J. Laski e R. H. Tawney, ebbe una grande influenza intellettuale nei primi decenni di questo secolo, ma poi rapidamente si dissolse.Il teorico di maggior rilievo della versione socialista del pluralismo è George Douglas Cole (18891959), protagonista del fabianesimo. Il guild socialism da lui teorizzato faceva riferimento alle gilde medievali, alle associazioni corporative delle arti e dei mestieri, ma guardava in realtà alle trade unions. Soprattutto con l'opera Guild socialism re-stated (1920), Cole muove una critica al tradizionale concetto di Stato basato su un principio fortemente monistico come quello della sovranità: lo Stato esiste soltanto come un'associazione fra le altre, un raggruppamento territoriale per il raggiungimento di determinati fini comuni, mentre il principio della moderna vita sociale è quello della specializzazione in base alle funzioni. Ciò richiede l'autonomia dei diversi gruppi e insieme la necessità di una struttura istituzionale di coordinamento fra queste associazioni. Se non vi deve più essere la facile identificazione della comunità con lo Stato, tuttavia il vero fine non è quello di generalizzare l'associazione, bensì quello di particolarizzare lo Stato.
Per dare una forma istituzionale a questa teoria indirizzata ad un autogoverno industriale, per conciliare gli interessi dei produttori e dei consumatori, gli interessi particolari e quelli generali, Cole deve affrontare - e criticare - la teoria tradizionale della rappresentanza: ci deve essere una rappresentanza specifica e funzionale degli interessi (economici e culturali) affiancata all'antica rappresentanza, la quale non può che essere generale e onnicomprensiva. Ma per Cole il problema non si limita ad un'architettura costituzionale: per realizzare la democrazia sociale bisogna estendere la partecipazione dentro la fabbrica e in ogni ambito in cui si dia un'azione sociale, anche se non strettamente politica.
Queste teorie politiche prescrittive si affermeranno parzialmente in questo dopoguerra soprattutto in Italia. Pensiamo alla Costituzione italiana, in cui l'ispirazione cattolica di molti articoli è evidente. Essa pone sullo stesso piano i diritti inviolabili dell'uomo e quelli delle "formazioni sociali" (espressione assai equivoca perché non si sa se siano naturali o volontarie) nelle quali si svolge la sua personalità (art. 2); di conseguenza viene ribadita la difesa della famiglia come "società naturale" (artt. 29-31), e la posizione privilegiata per la Chiesa cattolica rispetto alle altre confessioni religiose (artt. 7-8). Non vengono ignorati i sindacati (art. 39) e i partiti (art. 49). Poi - e qui l'ispirazione è anche fabiana - è previsto il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (art. 99) - analogo al Consiglio nazionale economico francese - come organo di consulenza delle Camere e del governo. Ma si tratta di un pluralismo debole: il vero pluralismo è l'espressione della vitalità di una società e non di una statuizione normativa proveniente dall'alto.
Nella realtà i sindacati in Italia hanno rifiutato quella registrazione, che avrebbe dato loro personalità giuridica, mentre i partiti hanno sempre rifiutato uno Statuto pubblico: entrambi hanno preferito restare nell'ambito del diritto privato, anche se svolgono funzioni pubbliche. Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro è ormai un puro nome, e non esercita alcuna funzione nella vita politica.In conclusione: si tratta di un pluralismo molto debole, dato che è sempre lo Stato di diritto a limitarsi sottraendo spazi (la religione, la cultura, l'economia) al vecchio monismo statualistico e riconoscendo funzioni pubbliche ai partiti e ai sindacati: è un pluralismo riconosciuto dall'alto.
In Europa, nel secondo dopoguerra, non si è sviluppata una compiuta teoria pluralistica. Ciò non significa che giuristi e sociologi non abbiano rivolto la loro attenzione alle realtà sociali poste fra l'individuo e lo Stato: i partiti e i sindacati, i gruppi di pressione e i gruppi di interesse. In Italia il primo ad occuparsi delle 'società intermedie' è stato un giurista cattolico, Pietro Rescigno, nel volume Persona e comunità (1966). Attentissimo alle nuove realtà sociali, egli studia la famiglia, le associazioni, il partito, il sindacato, la Chiesa, pur rimanendo sempre fermamente ancorato al diritto privato, proprio perché in esso vede la vera garanzia della libertà e dell'autonomia delle associazioni. Ma Rescigno respinge il modello pluralista americano di cui anzi denuncia la crisi e il declino. Sul versante sociologico Alessandro Pizzorno ha lungamente indagato 'i soggetti del pluralismo': le classi, i partiti e i sindacati, per vedere poi il ruolo dei ceti medi nel meccanismo del consenso. Manca tuttavia un chiaro confronto con le teorie pluralistiche americane, che emarginavano le 'classi' (in senso marxiano).In Germania a mostrare l'illusione liberale o paleoliberale di un rapporto diretto tra individuo e Stato è stato un giurista di formazione privatistica, Joseph Kaiser, con l'imponente ricerca dal titolo Die Repräsentation organisierter Interessen (1956). La sua attenzione spazia dalla Germania agli Stati Uniti, all'Inghilterra, alla Francia; esaminando non solo i gruppi di interesse economici (sindacati, imprenditori, contadini, pubblico impiego, contribuenti e consumatori), ma anche le organizzazioni di interesse religioso e culturale.
Gli interessi organizzati vogliono influenzare l'opinione pubblica, i partiti, il parlamento, il governo, l'amministrazione, la magistratura; essi sono una forza politica e una realtà costituzionale. Nella - per Kaiser radicale - distinzione fra società e Stato gli interessi organizzati si muovono nella prima sfera, mentre i partiti agiscono nella seconda; tuttavia entrambi sono portatori di funzioni politiche: sul piano sociale i primi, sul piano statuale i secondi. Nell'analisi di Kaiser si possono rilevare alcune incertezze teoriche: egli difende l'autonomia dei gruppi, che non cercano né un riconoscimento, né una protezione da parte dello Stato, ma poi afferma che essi possono violare la libertà e i diritti dell'individuo, che solo nello Stato trovano una vera protezione, una garanzia contro le oligarchie intermedie. Poi, per definire il gruppo, respingendo il concetto marxiano di classe, Kaiser usa la parola Verbände, ma si rifà anche a un termine antico, corporativo e organico, come quello di Stand (ordine, stato) che contrasta con l'idea di libere associazioni private. A prescindere da queste incertezze, la conclusione complessiva cui perviene Kaiser è che è difficile dare una 'rappresentanza' istituzionale agli interessi organizzati, perché la rappresentanza nasce da un contesto sociale omogeneo. Esiste però una 'rappresentanza di fatto' secondo le forme e gli istituti del diritto privato. La dialettica fra Stato e società è per Kaiser il problema costituzionale del XX secolo, se si vuole salvare la democrazia liberale.
Più ambizioso sul piano teorico il saggio di Rainer Eisfeld, dal titolo Pluralismus zwischen Liberalismus und Sozialismus (1972), il quale ha come punto di partenza un'affermazione condivisa da molti altri difensori del pluralismo: l'inadeguatezza delle tradizionali istituzioni rappresentative per una società industriale. Eisfeld si confronta sia con il pluralismo elaborato dalla scienza politica americana (Bentley, Truman, Dahl), sia con il guild socialism. Nei confronti del primo è assai critico, perché col suo descrittivismo rappresenta soltanto un'apologia del presente, un'apologia della società per come essa è di fatto organizzata: in questo modo il pluralismo - di cui Eisfeld è fermo assertore - viene meno alla sua promessa: un rafforzamento dell'autonomia individuale, attraverso l'associazione, contro lo Stato. In realtà Eisfeld vede nelle società capitalistiche solo l'apatia degli individui e l'organizzazione degli interessi con strutture altamente burocratizzate. Il rimedio, a suo avviso, va cercato nel guild socialism: è necessaria in tutti i campi (dall'impresa all'organizzazione degli interessi) una reale partecipazione, perché vi sia un controllo sociale dal basso e l'individuo ridiventi protagonista del processo politico. Eisfeld, influenzato da Jürgen Habermas, conclude la sua analisi (ampiamente documentata) con una teoria decisamente prescrittiva.
Per concludere, è necessario tener ben distinto il pluralismo dal neocorporativismo, al quale spesso viene indebitamente accostato. Il neocorporativismo è un fenomeno storico, verificatosi nel secondo dopoguerra in Austria, Germania e Svezia, che ha ricevuto un'ampia elaborazione teorica da parte della sociologia politica. Esso si differenzia nettamente dal corporativismo fascista, perché se i regimi autoritari hanno 'incorporato' le corporazioni, nei regimi democratico-liberali le corporazioni hanno 'scorporato' dallo Stato la facoltà decisionale relativa alla politica economica e sociale, non con soluzioni istituzionali, ma con un incontro privato ad uno stesso tavolo fra tre soli attori: il governo e le rappresentanze funzionali dei produttori, dei sindacati e degli industriali. In realtà si tratta di tre burocrazie, altamente professionalizzate, che hanno di fatto l'esclusività della rappresentanza. È, nei fatti, una concentrazione di potere, che contrasta con il pluralismo degli interessi e che preclude ad 'estranei' l'accesso al tavolo privato delle decisioni. La teoria pluralistica mira ad una situazione di equilibrio fra una pluralità di gruppi o di centri di potere, in modo che nessuno possa diventare egemone o dominante. I teorici della "società corporata" privilegiano su questo equilibrio spontaneo il momento del contratto fra i tre grandi vertici, il solo che può dare unità, stabilità e continuità alla società. I pluralisti sostengono un centro debole e una periferia forte, i neocorporativi un centro forte e una periferia debole.
L'interrogativo che possiamo porci alla fine dell'esame di questi diversi pluralismi antichi e moderni è: quanta diversità può sopportare una società al suo interno? L'ideale è ex pluribus unum; ma cosa succede se quei 'pluribus' diventano divaricanti? Aristotele, contro il monista Socrate (Platone), aveva chiaramente indicato la necessità di un equilibrio fra unità e pluralità: "È chiaro che se una polis nel suo processo di unificazione diventa sempre più una, non sarà più neppure una polis, perché la polis è per sua natura pluralità e diventando sempre più una si ridurrà da polis a famiglia [...]: chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis" (Politica, II, 1261a, ma anche 1263b).Il pluralismo implica sempre un tasso - più o meno alto - di conflittualità, non ha come fine la pace sociale, che solo un regime autoritario può garantire. Nel passato con la libertà religiosa e poi con la libertà politica - in Europa e in America - questo equilibrio è stato trovato, ma c'era - nel primo caso - la comune eredità cristiana e - nel secondo - la vittoria del liberalismo, che riteneva naturale l'esistenza di più partiti. La rivoluzione democratica porterà a compimento questa profonda trasformazione culturale, che ha inciso sulla mentalità collettiva. Ma oggi si presentano nuovi problemi. Si parla molto di società multi-culturali e di società multietniche, senza accorgersi che cultura ed etnia sono cose diverse, o meglio, non coincidenti, e senza tenere presente il fatto che l'integralismo islamico rappresenta un grave fattore perturbante per un vero pluralismo. Le diverse nazioni culturali possono benissimo coesistere, anzi lo scambio reciproco si traduce in un autentico arricchimento per tutti, ma le etnie sono società chiuse, legate ai ricordi del proprio passato e con vincoli di sangue: è la parentela e non la cittadinanza a tenerle unite. Il terzo millennio pone al pluralismo proprio questa sfida, quella delle società multiculturali e multietniche. È una sfida aperta, densa di rischi e di pericoli.Il solo pluralismo possibile è quello 'ragionevole' di Rawls, perché, dove c'è frattura sui valori ultimi, appare soltanto una irrazionalità aggressiva. Il pluralismo può darsi solo all'interno di una cultura condivisa, che abbia alcuni valori comuni, soprattutto quello della tolleranza.
(V. anche Democrazia; Minoranze, diritti delle; Poliarchia).
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