Poliziano
Angelo Ambrogini, detto il Poliziano (Montepulciano 1454 - Firenze 1494), fu uno dei maggiori umanisti e poeti del Quattrocento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’). Accolto giovanissimo in casa Medici come segretario personale di Lorenzo il Magnifico e precettore dei suoi figli, divenne subito una delle figure di spicco nel circolo di intellettuali ivi raccolto; dal 1480 fu inoltre professore di retorica e poetica presso lo Studio fiorentino.
Il Poliziano fu scrittore dottissimo e raffinato in volgare, latino e greco. La sua produzione volgare comprende un poemetto mitologico-encomiastico in ottave, le Stanze per la giostra, iniziato nel 1475 e interrotto nel 1478; un testo teatrale, la Fabula di Orfeo, risalente agli stessi anni o forse al 1480; una raccolta di Rime scritte in momenti diversi e quasi esclusivamente in metri popolareggianti e cantabili (rispetti e ballate, con un solo sonetto e una canzone). A lui si attribuiscono inoltre una raccolta di facezie, i Detti piacevoli, una breve serie di testi bilingui latino-volgare a scopo didattico, i Latini, tre sermoni e una quarantina di lettere.
Di queste opere (a eccezione delle lettere) non sono conservati gli autografi, né il Poliziano si curò mai di raccoglierle e stamparle, a differenza di quanto fece con le proprie opere latine. Anche se in questo atteggiamento è forse ravvisabile una traccia di snobismo umanistico, l’esperienza del Poliziano si inserisce in un movimento di grande rilancio della letteratura volgare e del volgare stesso come strumento capace di competere alla pari con le lingue classiche. Questo movimento aveva proprio nella cerchia di Lorenzo il Magnifico un suo centro propulsore, alimentato dal programma letterario e politico-culturale di rinnovare l’eccellenza artistica di Firenze sulla scena italiana e di affermare il carattere sovraregionale del suo idioma, ricollegandosi agli esempi della grande letteratura due-trecentesca.
Al Poliziano si deve quasi certamente la realizzazione del più esplicito manifesto di questo programma: la Raccolta aragonese, una antologia di poesia toscana allestita come dono del Magnifico per il figlio del re di Napoli nel 1476-1477. L’epistola prefatoria, scritta dal Poliziano a nome del donatore, contiene la prima organica riflessione critica sulla poesia volgare dopo Dante, e contiene uno dei suoi cardini teorici proprio nell’affermazione dell’eccellenza del volgare toscano, in continuità con le posizioni già espresse nel primo Quattrocento da ➔ Leon Battista Alberti.
La scrittura del Poliziano va dunque valutata entro questa prospettiva umanistico-volgare e alla luce di una raffinata competenza critico-filologica plurilingue. La sua posizione rispetto alla letteratura laurenziana resta tuttavia per molti versi originale. Ciò è evidente già dalle scelte di genere, che evitano le forme illustri per concentrarsi su quelle di tradizione più umile, come il poemetto in ottave, il rispetto, la ballata musicale: generi caratteristici di un gusto tra popolareggiante e cortigiano, che vengono nobilitati dall’interno grazie al rinnovamento tematico-compositivo e a un lavoro alessandrino sulle strutture formali e sull’allusività della lingua.
Dal punto di vista linguistico, le opere principali (Ghinassi 1957; Roggia 2001; Mercuri 2007) mostrano una sostanziale adesione al fiorentino contemporaneo, con ampia escursione nelle sue diverse componenti sociolinguistiche. Si tratta di una lingua per molti aspetti ormai diversa da quella cui avevano attinto ➔ Dante e ➔ Francesco Petrarca: i forti squilibri demografici conseguenti alla peste del 1348 e alla trasformazione di Firenze in capitale regionale avevano sensibilmente modificato il volgare cittadino creando una situazione di forte instabilità e concorrenza tra forme nuove e vecchie (Manni 1979; Palermo 1991-1992).
Questa situazione è rispecchiata nelle opere del Poliziano, dove si trovano quasi generalizzate forme innovative come fussi, fusti e arei, arò (ma avre’ «avrebbe» nelle Stanze), e dove più spesso coesistono forme concorrenti: è il caso dei dittonghi dopo consonante + r (il tipo innovativo preghi, breve, con riduzione, accanto a quello originario prieghi, brieve), del plurale dei femminili in -e (il tipo innovativo le nave accanto al conservativo le navi), dell’articolo determinativo maschile (el, e accanto a il, i), dei possessivi (tipi indeclinabili mie vita, mie pianti, suo bellezza, tuo parole accanto ai tipi declinabili trecenteschi), ecc.
Rispetto alla complessa polimorfia del fiorentino d’uso, tuttavia, non c’è nel Poliziano quel rispecchiamento passivo che caratterizza altre opere coeve. Emerge piuttosto una certa sensibilità per la diversità dei piani linguistici, «un desiderio di riordinare, oltre che di riabilitare il volgare» (Ghinassi 1969). È già significativo che nei casi di oscillazione sopra descritti le Stanze tendano a preferire, rispetto all’Orfeo e alle Rime, il tipo conservativo, sentito come più letterario. E, in generale, la lingua delle Stanze è più selettiva, escludendo tratti ammessi nelle Rime, dove il genere e la destinazione musicale incoraggiavano a una lingua più popolare e aperta all’oralità. La ricerca di nobilitazione linguistica è perseguita nel poemetto anche attraverso l’intarsio di latinismi o aulicismi fonomorfologici: ligno, surge, condutto; auro e restauro «ristoro»; i monottonghi in core, loco, rote; i sicilianismi sorpriso, biltà, ecc.
Se valutata nel suo insieme, d’altra parte, l’opera del Poliziano si caratterizza per la disponibilità a sfruttare stilisticamente tutta la ricca varietà della lingua. Soprattutto nelle Rime e nell’Orfeo compaiono pertanto anche forme popolari come fantasima, asima (con ➔ epentesi); logra «logora»; stormento, grillanda (con metatesi); tenello «tenerlo» (con ➔ assimilazione); corbo, imbolare «involare»; sbavigliare, ecc.
Occasionalmente compaiono forme del contado (avale «adesso», in una ballata); inserti di dialetto settentrionale (mi e ti tonici, zà per qua, ecc., nel finale dell’Orfeo, scritto per la corte mantovana); fino alle storpiature che vengono attribuite, sempre nell’Orfeo, a un «pastore schiavone» (cioè slavo, dalmata): «State tenta, bragata! Bono argurio, / ché di cievol in terra vien Marcurio».
Questo atteggiamento di sostanziale apertura si manifesta anche nel lessico, dove componenti dotte e popolari o realistiche si incontrano in omaggio a un gusto umanistico per la parola rara, stagliata su uno sfondo di lingua letteraria comune a base petrarchesca. Anche in questo caso la componente dotta è soprattutto ricercata nelle Stanze, con ➔ latinismi rari (ludi, teda, pomice, lento «flessibile»), spesso preziosamente allusivi alle fonti classiche, e aulicismi volgari non meno allusivi: parole dello Stilnovo come spiriti, spiritelli, valore, gentilezza; prestiti esibiti dalla Commedia quali punga (per pugna: Inf. IX, 7), sorpriso («offuscato»: Purg. I, 97), bobolce («coltivatrici»: Par. XXIII, 132). Più in generale, questa predilezione per una parola satura di letterarietà rappresenta uno dei tratti più caratteristici dello scrittore-umanista.
Sul versante opposto, c’è invece il ricorso al lessico realistico ed espressivo, che macula il tessuto linguistico delle Stanze (ciotola, sfragellarsi, gavazzarsi) e dell’Orfeo, e che diventa centrale nelle Rime, dove un gusto fondamentalmente pulciano-burchiellesco è portato a livelli di raffinato gioco letterario.
Il realismo lessicale emerge qui in parole estranee al canone lirico come brache, pelo, poponi; in tecnicismi, per es. della caccia come stanga, parete, zimbello; in voci decisamente volgari come peccia «pancia», poppe, sugna. A colorare la lingua concorrono anche un’insistita ricerca di sonorità risentite o bizzarre e l’inclusione di forme idiomatiche da un lato di tradizione comica dall’altro riprese direttamente dal parlato: cicale («chiacchieroni»), cilecca, stare freschi, fare dei pentolini («pentirsi»), porre in sodo («decidere»), ecc.
Sintatticamente domina invece una linearità paratattica trasversale alle varie opere. Nelle Stanze, come nei rispetti delle Rime e nell’Orfeo, la sintassi coordinativo-giustappositiva asseconda la struttura in distici o in versi isolati dell’ottava, secondo una costruzione tipica dello strambotto popolaresco. Nei rispetti e nelle ballate, a questa tendenza si accompagna una scioltezza sintattica anche maggiore, dovuta al tentativo di emulare in componimenti destinati all’esecuzione e al canto la struttura del discorso orale. Si incontrano così ➔ dislocazioni (le pene ch’i’ ho tante, non l’arei), enunciati nominali (➔ nominali, enunciati), subordinate relative con ripresa pronominale (tal cosa a te sta bene / che quell’altra ne dispare), che insieme alle frequenti indicazioni deittiche e allocutive danno ai testi un sapore di discorso in atto.
Sul piano retorico, un lavoro minuzioso sul ritmo e sulla disposizione dei costituenti interviene a riscattare questo materiale linguistico da ogni pericolo di piattezza e sciatteria: l’orditura sintattica è percorsa da frequenti parallelismi combinati con varie forme di chiasmo secondo una sottile dialettica tra repetitio e variatio (Bigi 1983).
Un tale brillante sperimentalismo, che implica una soluzione al problema linguistico basata sostanzialmente sulle capacità tecniche del poeta, sulla sua memoria e sulla sua sensibilità letteraria, oltre che sulla naturale fiducia – caratteristica questa tipicamente toscana – nel proprio strumento linguistico, non era compatibile con il classicismo bembiano ormai alle porte. Nonostante infatti l’ammirazione di letterati come ➔ Baldassarre Castiglione, Annibale Caro, ➔ Benedetto Varchi, ➔ Lionardo Salviati (nonché, in parte, dello stesso ➔ Pietro Bembo), e la conseguente inclusione nella lista degli «autori moderni citati in difetto degli antichi» nella prima Crusca, la posizione del Poliziano restò appartata e le stesse Stanze circolarono dal Cinquecento in una versione linguisticamente ripulita, in modo non diverso da quanto accadde ad altri capolavori del Quattrocento.
Poliziano (1986a), Fabula di Orpheo, in Tissoni Benvenuti, Antonia, L’«Orfeo» del Poliziano con il testo critico dell’originale e delle successive forme teatrali, Padova, Antenore.
Poliziano (1986b), Rime, edizione critica a cura di D. Delcorno Branca, Firenze, Accademia della Crusca.
Poliziano (2006), Le stanze per la giostra del magnifico Giuliano di Piero de’ Medici, in Id., Poesie, a cura di F. Bausi, Torino, UTET.
Bigi, Emilio (1983), Irregolarità e simmetrie nella poesia del Poliziano, in Miscellanea in onore di Vittore Branca, Firenze, Olschki, 5 voll., vol. 3º (Umanesimo e Rinascimento a Firenze e Venezia), pp. 353-361 (rist. in Id., Poesia latina e volgare nel Rinascimento italiano, Napoli, Morano, 1989, pp. 101-114).
Ghinassi, Ghino (1957), Il volgare letterario nel Quattrocento e le “Stanze” del Poliziano, Firenze, Le Monnier.
Ghinassi, Ghino (1969), Esperimenti di linguaggio rusticale a Firenze tra Quattro e Cinquecento, in Atti del Convegno sul tema: “La poesia rusticana nel Rinascimento” (Roma, 10-13 ottobre 1968), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, pp. 57-72.
Manni, Paola (1979), Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco, «Studi di grammatica italiana» 8, pp. 115-171.
Mercuri, Simona (2007), Appunti sulla lingua, in Poliziano, Latini, a cura di S. Mercuri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. XLIII-LIX.
Palermo, Massimo (1991-1992), Sull’evoluzione del fiorentino nel Tre-Quattrocento, «Nuovi annali della Facoltà di magistero dell’Università di Messina» 9-10, pp. 131-156.
Roggia, Carlo E. (2001), La materia e il lavoro. Studio linguistico sul Poliziano “minore”, Firenze, Accademia della Crusca.