Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra i più importanti poeti del suo tempo, Angelo Poliziano è senza dubbio il maggiore umanista e filologo del secondo Quattrocento. Attivo a Firenze, al servizio di Lorenzo de’Medici, e professore allo Studio cittadino, divide la sua ricca produzione tra latino, greco e volgare. Autore di epigrammi latini e greci, elegie, odi e Silvae latine, in volgare compone un poemetto encomiastico-mitologico noto con il titolo di Stanze (o Stanze per la giostra) e un dramma satiresco, la Fabula di Orfeo. Raccoglie inoltre una serie di rispetti e ballate di notevole valore (Rime). L’ispirazione di Poliziano si basa sulla cosiddetta docta varietas, ovvero procede attraverso una tecnica a intarsio in cui i diversi modelli formano una rete di rimandi, tutta giocata sull’allusione colta.
Cenni biografici
La formazione letteraria di Angelo Ambrogini da Montepulciano (1454-1494; il nome d’arte è tratto dal nome latino del paese natale, mons Politianus) avviene a Firenze, dove frequenta lo Studio sotto la guida di maestri quali Cristoforo Landino, Marsilio Ficino, Giovanni Argiropulo e Andronico Callisto. Grazie a una straordinaria precocità intellettuale diviene molto presto uno dei protagonisti della scena culturale fiorentina: dotato di un’eccezionale padronanza delle lingue classiche, a soli 16 anni inizia una traduzione latina dell’Iliade (mai conclusa) che gli varrà da parte di Marsilio Ficino il titolo di Homericus adulescens. La sua fama gli apre le porte di casa Medici, dove dal novembre 1473 il giovane è impegnato nella cancelleria dei signori e, a partire dal 1475, ricopre il ruolo di istitutore dei figli del Magnifico.
La sua posizione in seno alla cerchia medicea, insieme agli introiti derivanti dalla sua condizione di chierico, gli consentono di dedicarsi con una notevole libertà agli studi e alla produzione letteraria, che si caratterizza per il trilinguismo. Poliziano è infatti poeta eminentemente latino e greco, ma non rifiuta la vena volgare, in sintonia del resto con gli interessi della cerchia laurenziana e con il progetto del Magnifico di restituire a Firenze il primato della letteratura in volgare (a Poliziano viene attribuita fra l’altro la lettera prefatoria alla Raccolta Aragonese, silloge di poesia volgare inviata dal Magnifico a Federico d’Aragona nel 1477). Nel 1478 la congiura dei Pazzi, in cui rimane ucciso Giuliano de’Medici, fratello di Lorenzo, segna drammaticamente l’inizio di un periodo difficile per la signoria medicea, costretta a misurarsi con la crescente ostilità della nobiltà fiorentina e con la pressione degli altri Stati della penisola. Poliziano, che all’indomani della congiura si è schierato a fianco del proprio signore, nel 1479 si allontana improvvisamente da Firenze per motivi rimasti poco chiari: i biografi rimandano per lo più a dissapori con Clarice Orsini, moglie di Lorenzo, o ad un tentativo di separare le proprie sorti da quelle del potere mediceo in difficoltà. Il letterato si sposta al nord, visitando i più importanti centri culturali dell’epoca: risiede a Bologna, Padova, Venezia e Mantova, e in ciascuna città stringe importanti rapporti culturali.
Infine nell’estate del 1480, richiamato dal suo protettore, torna a Firenze, con la nuova funzione di professore di eloquenza latina e greca presso lo Studio fiorentino. Inizia così un periodo intensamente dedicato all’insegnamento e allo studio, ma anche alle missioni di rappresentanza per conto dei Medici e ai viaggi alla ricerca di rarità librarie per la biblioteca di Lorenzo e per se stesso (famosa una spedizione in Emilia e Veneto insieme all’amico Pico della Mirandola nel 1491). L’instancabile attività di Poliziano si interrompe improvvisamente nel settembre del 1494, quando, a soli quarant’anni, muore per cause mai chiarite.
La produzione poetica
Tradizionalmente la critica distingue due fasi nell’attività poetica e nell’impegno culturale di Poliziano: un primo periodo che comprende tutti gli anni Settanta in cui il giovane, fedele collaboratore di Lorenzo, si dedica principalmente alla poesia, sia classica sia volgare, e un secondo momento – a partire dal 1480 – in cui Poliziano, divenuto professore, applica la propria straordinaria erudizione e competenza classica alla filologia e alla critica letteraria. Questa visione dicotomica, contraddistinta da una svolta esistenziale oltre che culturale, risulta in parte veritiera, ma necessita di numerose precisazioni.
Già Vittore Branca, massimo studioso contemporaneo di Poliziano, notava che dopo il 1479-1480 è chiaramente ravvisabile un nuovo orientamento dello scrittore, non solo quanto a impegno e quantità, ma anche a un più profondo livello interiore e intellettuale, i cui riflessi si possono riconoscere nell’attività letteraria. Lo stesso critico metteva però in rilievo sia il perdurare della vena poetica volgare anche durante gli anni Ottanta e Novanta, sia il costante interesse critico che Poliziano dimostra nell’arco della sua vita per la produzione volgare delle tre corone (Dante, Petrarca e Boccaccio) e dei contemporanei. Del resto la pubblicazione dell’opera polizianea pare non voler sciogliere del tutto questa ambiguità. Se l’esclusione di tutte le opere volgari dalla stampa veneziana degli Omnia opera Angeli Politiani (1498), postuma ma estremamente attendibile perché curata da Alessandro Sarti, fedelissimo discepolo del poeta, sembrerebbe avvalorare una presa di distanza da una produzione forse non del tutto consona all’immagine di indiscusso maestro dell’umanesimo fiorentino, non bisogna dimenticare che lo stesso Sarti nel 1494, ancora vivo Poliziano, pubblica a Bologna le Cose vulgare del Politiano. Questo famosissimo incunabolo, in cui pure manca ogni rimando a un intervento diretto dell’autore, non può essere stato stampato all’insaputa o contro la volontà di Poliziano, il quale pertanto – si deve concludere – non ripudia la vena volgare neppure nelle estreme fasi della propria esistenza.
Accanto e parallelamente ad una copiosa produzione poetica latina (Epigrammi, Elegiae, Odi e Silvae) e greca (Epigrammi), Poliziano si dedica a diversi generi propri della tradizione volgare: compone infatti rime, con una netta predilezione per il rispetto (sia continuato, sia spicciolato) e per la canzone a ballo, un poemetto encomiastico-mitologico noto con il titolo di Stanze (o Stanze per la giostra) e un dramma satiresco, la Fabula di Orfeo. Inoltre raccoglie una serie di facezie e proverbi in prosa (Detti piacevoli).
Al centro di tutta l’opera polizianea vi è il culto della parola; parola a cui applicare il proprio raffinatissimo esercizio sia nella composizione poetica, trilingue, sia nella pratica della nuova e rivoluzionaria scienza ecdotica. Da sempre la critica cita, a proposito dello stile compositivo di Poliziano, il concetto di docta varietas: la trama del testo si compone cioè attraverso innumerevoli variazioni su modelli che comprendono l’intero ventaglio della classicità e degli auctores volgari. L’ispirazione di Poliziano si sostanzia della sua sconfinata cultura letteraria e procede attraverso una tecnica a “intarsio”: i diversi modelli formano una fittissima rete di rimandi, giocata sull’allusione colta, in cui le singole tessere si fondono e spesso si sovrappongono fino a creare una composizione assolutamente nuova e personale seppure intimamente classica. La varietas non riguarda solo la pluralità delle fonti, ma anche e soprattutto la diversità e a volte l’eterogeneità dei modelli che si stratificano senza alcuna soluzione di continuità fra tradizione classica e moderna.
La poesia latina e greca
Come ha recentemente messo in rilievo Francesco Bausi, a differenza di molti umanisti dell’epoca non esiste un canzoniere latino di Poliziano e, di conseguenza, il suo corpus poetico latino è ancora di incerta configurazione.
La produzione poetica latina di Poliziano consiste, oltre alle Silvae che meritano un discorso a parte, in una serie di componimenti occasionali (un centinaio di epigrammi, una quindicina di elegie e un numero minore di odi), legati a circostanze contingenti e svincolati da un piano complessivo. Tra i testi più significativi vanno ricordate le due grandi elegie per Bartolomeo Fonzio e per la morte di Albiera degli Albizi (entrambe del 1473), l’ode Puella e l’elegia In violas. Al di là della specificità delle singole opere, ciò che emerge anche sul fronte latino sono lo sperimentalismo, la straordinaria erudizione, la tecnica compositiva basata sulla variatio di cui Poliziano si serve pur all’interno di generi tradizionali e ben codificati.
Gli epigrammi greci, di recente ripubblicati, sono poco meno di una sessantina, composti in due fasi molto diverse: un primo gruppo risale infatti agli anni 1471-1481, un secondo al periodo 1493-1494. Modellati in buona parte sugli epigrammi dell’Antologia Planudea, i componimenti, per lo più di argomento encomiastico e occasionale, rappresentano uno dei primi tentativi occidentali – e sicuramente il più importante – di comporre in lingua greca antica.
Le Silvae
Le Silvae comprendono in un’unica opera quattro prolusioni in versi, destinate a celebrare la poesia e i poeti, che Poliziano realizza, tra il 1482 e il 1486, in occasione di alcuni suoi corsi universitari: Manto (1482, introduzione al corso sulle Bucoliche di Virgilio); Rusticus (1483, introduzione al corso esiodeo sulle Opere e i giorni); Ambra (1485, sui poemi di Omero); Nutricia (1486, probabilmente introduzione a un corso sull’epica antica). Il titolo rimanda con evidenza alle Silvae di Stazio e dunque a un genere poetico basato su complessità, varietà tematica e dimensioni contenute, perfettamente congeniale alla concezione polizianea della poesia come furor, subitus calor, da cui scaturiscono composizioni solo apparentemente “sciolte” e discontinue, in realtà intrise di quella multa et remota lectio a cui si fa riferimento proprio nella dedica dei Nutricia. Del resto già a metà degli anni Settanta, dunque precocemente rispetto al suo magistero accademico, Poliziano aveva composto la prima e più straordinaria tra le sue Silvae, la Sylva in scabiem, pirotecnica trasposizione in esametri latini di un tema orrifico di sapore quasi dantesco (la propagazione della scabbia), probabilmente ripreso dalla tradizione popolareggiante.
Le Rime
Le Rime sono composte in un arco cronologico piuttosto ampio che comprende la piena maturità di Poliziano e coincide anche con l’impegno presso lo Studio (1479-1494 ca.), ma la grande maggioranza dei componimenti è sicuramente databile a prima del 1487, come ha dimostrato la curatrice dell’edizione critica, Daniela Delcorno Branca.
Il termine è stabilito sulla base della data di stesura della prima sezione del manoscritto riccardiano 2723, un’importantissima silloge che rappresenta la più ampia raccolta antica di componimenti volgari di Poliziano (Stanze, Orfeo, rispetti e ballate, oltre ad altri testi in prosa). A eccezione di quattro componimenti, che godranno del resto di scarsissima diffusione, le rime volgari sono composte unicamente da rispetti (cioè ottave liriche) e ballate, due metri compromessi con la tradizione popolareggiante, legati alla pratica musicale e tra loro affini.
La poesia volgare di Poliziano, servendosi di metri “semplici”, attua una serie di esperimenti che mirano a recuperare, attraverso la tecnica della variatio, sia la tradizione aulica toscana delle tre corone e dello stil novo, sia forme d’intrattenimento semicolte come proverbi, cantilene e maggiolate (Daniela Delcorno Branca). Il tema dominante è l’amore, declinato nei toni tipici della poesia laurenziana: appassionato e giocoso, non di rado spregiudicatamente sensuale, il sentimento si risolve sovente in un divertito invito a godere le dolcezze della giovinezza (“El tempo fugge e tu fuggir lo lassi, / che non ha el mondo la più cara cosa; / e se tu aspetti che ’l maggio trapassi / invan cercherai poi di côr la rosa”, Rime XXVII 7; vv.1-4). Alla memoria colta dei poeti latini e della tradizione poetica volgare, in particolar modo stilnovistica, si mescolano tessere tratte dal linguaggio gergale, dalle nenie popolari e dalla tradizione proverbiale, tipiche di certa poesia laurenziana (“I’ son, dama, el porcellino / che dimena pur la coda / tutto ’l giorno e mai l’annoda: / ma tu sarai l’asinino”, Rime CXVII, vv. 1-4; “Canti ognun, ch’i’ canterò, /dondol, dondol, dondolò”, Rime CXX; vv.1-2).
Tra i componimenti più noti va ricordato il rispetto Che fa’ tu, Ecco, mentre io ti chiamo? Amo (XXXVI dell’edizione Delcorno Branca), raffinatissima ripresa della poesia ecoica di matrice alessandrina, in cui le ultime parole del verso vengono ripetute per dare risposta a una domanda (“Ami tu dua o pure un solo? Un solo. / E io te sola e non altri amo. Altri amo”, vv. 2-3); si tratta anche dell’unico componimento volgare ricordato nei Miscellanea, la straordinaria opera filologica della maturità in cui Poliziano raccoglie, sotto forma di questioni, i risultati delle poliedriche analisi ecdotiche, linguistiche ed erudite da lui condotte. Merita poi menzione almeno la ballata CII, I’mi trovai, fanciulle, un bel mattino, che declina in chiave cantabile e quasi “visionaria” un tema che ritorna in diverse opere di Poliziano: la presenza di una fanciulla sola in una natura edenica, intenta a raccogliere fiori; a questo topos si associa qui un altro motivo attinto dalla tradizione tardo-antica, caro anche a Lorenzo: i diversi gradi di fioritura della rosa, intesa come metafora della fuggevolezza della gioventù.
Le Stanze per la giostra
In ottave è anche la più nota tra le opere volgari polizianee: le Stanze (1475-1478), in due libri (rispettivamente di 125 e 46 ottave), composte per la giostra del giovane Giuliano de’Medici e rimaste interrotte, probabilmente a causa della morte del dedicatario.
Il primo libro si apre con la celebrazione di Firenze e dei Medici, per poi descrivere la giovinezza silvestre di Iulio (latinizzazione di Giuliano); questi, dedito esclusivamente alla caccia, disprezza l’amore e i suoi seguaci e per questo viene punito da Cupido che, sotto le spoglie di una candida cerva, gli fa apparire quella che si rivelerà essere Simonetta, una ninfa bellissima, di cui il giovane si innamora. A questo primo episodio segue la parte più cospicua del primo libro, dedicata alla descrizione del regno e del palazzo di Venere, dove Cupido si reca per informare la madre del successo ottenuto. Il secondo libro inizia con la decisione di Venere di far giostrare Iulio in proprio onore; la dea manda poi il Sonno ad annunciare al giovane fiorentino la sua futura vittoria nella giostra e la morte imminente di Simonetta.
È stato da più parti notato (in particolare da Mario Martelli) come le Stanze procedano secondo un percorso ascensionale: utilizzando categorie e immagini della coeva cultura neoplatonica, narrano infatti l’ascesa del protagonista Iulio dall’amore per le cose sensibili (rappresentate dalla caccia e dalla cerva) all’amore per la virtù attiva e la sapienza umana, incarnate da Simonetta, simbolo dell’anima razionale. Simonetta stessa è destinata a condurlo, gradino per gradino, secondo la teologia ficiniana e pichiana, alla contemplazione della pura bellezza di Venere celeste e del suo regno. Per quanto riguarda il metro, l’ottava – già scelta da Luigi Pulci per celebrare le glorie laurenziane nel torneo del 1469 – nelle Stanze si presta e si piega a una struttura a distici in cui sui nessi logico-narrativi prevale l’accostamento di motivi lirici e descrittivi, di immagini tratte dalla più dotta e peregrina tradizione classica (in particolare Stazio, Claudiano, Sidonio Apollinare), in una sorta di collage preziosissimo che non acquista mai un tono unitario, ma procede piuttosto per successive giustapposizioni.
La Fabula di Orfeo
La Fabula di Orfeo rappresenta il primo e più fortunato esempio di dramma satiresco volgare. Protagonista è il mitico cantore greco che, disperato per la morte dell’amata Euridice, discende agli inferi dove ottiene la restituzione della moglie a condizione di non voltarsi mai indietro a guardarla durante il cammino di ritorno. Orfeo, vinto dalla curiosità, non resiste, perdendo così per sempre la propria donna. Disperato, decide di dedicarsi agli amori omosessuali ma un corteo di Baccanti, per punire l’offesa arrecata alle donne, ne lacera il corpo, lanciandosi poi in uno sfrenato baccanale.
Nei 342 versi del testo si alternano ottave, terzine, ballate e strofe madrigalesche in una polimetria che sarà poi tipica del genere. Poliziano per questo suo esperimento guarda come modelli alle sacre rappresentazioni fiorentine, alla rinata egloga volgare e ai canti carnascialeschi ma, come per ogni sua opera, a queste suggestioni coeve si mescolano coltissimi riferimenti ai poeti classici, qui in particolare a Virgilio e Ovidio, che avevano trattato in versi lo stesso mito, a Euripide (a cui appartiene l’unico dramma satiresco rimastoci), ma anche alla tradizione argentea (Calpurnio).
La questione della datazione
La datazione dell’Orfeo oscilla tra gli anni Settanta, in generica coincidenza con le Stanze (secondo i recenti studi di Antonia Tissoni Benvenuti, che è anche editrice dell’operetta), e gli anni Ottanta, in particolare il 1480 (Giovanni Battista Picotti), anno in cui Poliziano soggiorna alla corte mantovana dei Gonzaga (cui sembrerebbe far riferimento la lettera prefatoria indirizzata a Carlo Canale). La questione della cronologia non è senza conseguenze sull’interpretazione: una stesura alta infatti porterebbe a interpretare in chiave neoplatonica la figura di Orfeo e il suo viaggio agli inferi come allegoria dell’uomo incapace di morire alle cose imperfette, e destinato dunque a sprofondare nel peccato (Mario Martelli). Se invece si sposta la composizione al decennio successivo, in cui Poliziano sembra abbandonare le suggestioni neoplatoniche, dietro la figura di Orfeo si dovrà più probabilmente leggere lo scacco della poesia che non vince la morte.
I Detti piacevoli
Composti fra il 1477 e il 1482, i Detti sono una delle opere più sperimentali e difficili del Poliziano volgare. Formati da più di 400 fra detti, proverbi, wellerismi e piccole novellette, sono rimasti adespoti fino al primo trentennio del Novecento, quando è stata convincentemente avanzata l’attribuzione all’Ambrogini (Albert Wesselski, 1929). Il testo, mai citato da Poliziano nelle altre sue opere e affidato ad un’esile tradizione, appare con ogni verosimiglianza composto per una cerchia assolutamente ristretta, rappresentata dalla brigata medicea, ossia da quei selezionati “compari” in grado di apprezzare sia i coltissimi riferimenti alla tradizione classica, sia il tono caustico e irriverente con cui vengono rappresentati Lorenzo stesso (tra i maggiori protagonisti del “libretto”) e gli amici di via Larga: particolarmente colpiti dalle arguzie polizianee sono Luigi Pulci e Matteo Franco (1447-1494).