MOLMENTI, Pompeo Gherardo
– Secondo di cinque figli, nacque a Venezia il 1° sett. 1852 da Ettore, di origini friulane che all'inizio degli anni Quaranta si era trasferito nel capoluogo lagunare, e Lucietta Regazzi, sua seconda moglie (da Maria Anna Locatelli era nato Francesco, morto durante i tumulti del 1848-49).
Il M. si laureò il 5 ag. 1874 in giurisprudenza a Padova, dove insegnava diritto costituzionale Luigi Luzzatti, in quegli anni punto di aggregazione del movimento moderato veneto e con il quale il M. avrebbe intrattenuto duraturi rapporti, testimoniati da un fitto carteggio. Due anni dopo fu ammesso all'esercizio della professione di avvocato a Venezia; tuttavia, l’influenza dello zio Pompeo Marino, fratello minore del padre (che lavorava come amministratore presso i Papadopoli, mecenati dello zio), dovette essere decisiva perché il M. seguisse le proprie reali inclinazioni, orientate precocemente verso la critica d’arte e le lettere: ciò grazie anche a don Francesco Pantaleo, che il padre volle come precettore del M. fin da giovanissima età, e che, uomo dottissimo, lo introdusse alla lettura dei classici latini e greci, della letteratura tre-quattrocentesca e di A. Manzoni, seguendo la formazione del M. negli anni del ginnasio (il ginnasio-liceo Ss. Gervasio e Protasio, di lì a poco rinominato Marco Polo, dove insegnava Rinaldo Fulin).
Il M. intraprese a scrivere alcuni romanzi già a partire dall’età di 14 anni – al romanzo storico Il Castello di Zumelle (Verona 1866), seguirono il bucolico Maria. Bozzetti della campagna veneta (Milano 1873), e Clara (ibid. 1875), che nella prefazione lo stesso M. definì qual «storia di un’anima» – cui si aggiunsero le due edizioni delle Impressioni letterarie (rispett. Venezia 1873; Torino 1879) e lo studio, dal chiaro intento divulgativo, su Carlo Goldoni (Milano 1875); molto più tarda, e frutto di un diverso contesto culturale, è la monografia su Antonio Fogazzaro (ibid. 1900), con il quale il M. ebbe un’assidua frequentazione. Nei primi anni del Novecento in particolare si impegnò nell’edizione di testi e documenti noti e meno noti della storia letteraria veneziana: i L'arte di vivere a lungo: discorsi della vita sobria di Luigi Cornaro (Milano 1905), gli Epistolari veneziani del secolo XVIII, che comparvero nel 1915 nella «Collezione settecentesca» dell’editore Sandron a Palermo, i Carteggi casanoviani (I-II, Milano 1916-18). A tale produzione se ne affiancò anche una più propriamente narrativa, tra il letterario e lo storico-artistico: a cominciare da Vecchie storie (Venezia 1882), per i tipi di Ongania, o dalle composizioni per il Bollettino d’arte, industrie e curiosità veneziane, dal Moro di Venezia (1878) all’Abate Brandolini (1879); a queste si devono accostare almeno La dogaressa di Venezia – ch'ebbe due edizioni italiane (Tirno 1884 e 1887) e fu tradotta in iglese (London 1887) – e I banditi della Repubblica veneta (Firenze 1896) che, come negli altri casi, ripercorre la storia veneziana da un punto di vista affatto originale, consentendo dunque di rivisitarla.
Il M. insegnò lettere italiane presso il R. Istituto tecnico (1880) – nel 1874 si era candidato per la cattedra di economia politica – poi al liceo ginnasio Marco Foscarini (1881-90; Ventura, pp. 54 s. n. 4). E avviò giovanissimo alcune collaborazioni a riviste e giornali: al Fanfulla, che dal 1875 ospitò una rubrica fissa del M., «sior Momolo» («Chiacchiere veneziane» o «Da Venezia»); ma in particolare, dal 1877, alla rivista milanese Perseveranza che, grazie ai suoi scritti scalati nell’arco di una decina d’anni, mise in dialogo la pittura contemporanea veneziana con le altre scuole regionali. Nelle pagine della Perseveranza il M. scrisse di Silvio Rotta, Giacomo Favretto, Guglielmo Ciardi, Luigi Nono, Ermolao Paoletti: pittori con i quali egli intrattenne rapporti non solo personali ma anche di lavoro. Il suo primo articolo sulla pittura contemporanea è tuttavia ben più precoce: risale al 1869 e comparve sul quotidiano veneziano Il Rinnovamento. Aveva come oggetto un dipinto di Antonio Zona che ebbe forte rinomanza soprattutto per il suo committente, il principe Giuseppe Giovanelli: era un dipinto di storia, Le donne veneziane che portano i propri ori e gemme alla Repubblica di Venezia per la guerra di Chioggia (perduto), ma soprattutto di storia veneziana, ciò che dovette destare l’attenzione del giovane M. come pure la ricchezza dei dettagli della composizione. Pubblicando recensioni e saggi nelle principali riviste (Stringa, in L’enigma della modernità, pp. 97-117), per cinquant’anni almeno il M. si interessò alla pittura contemporanea, esaltando il ruolo della fotografia, esprimendo giudizi contrastanti e a volte assai critici nei confronti della pittura dei suoi tempi di cui seguì i passi alle esposizioni nazionali: la Mostra nazionale di Milano (1881), la prima mostra del Circolo artistico veneziano (1881), la grande Esposizione nazionale artistica che si tenne ai Giardini nella primavera del 1887, la Biennale, che nel 1897, presidente del Comitato ordinatore, lo vide direttamente impegnato, per poi tornarvi solo nel 1901, a seguito di polemiche, per presentare la mostra personale di Luigi Nono (cui il M. dedicò un commosso scritto in morte nel 1919).
Nel 1879 vinse il concorso bandito dall’Istituto veneto di scienze lettere ed arti per conto della Fondazione Querini Stampalia sul tema «Della vita privata dei Veneziani fino al cadere della Repubblica, con ispeciale riguardo all’influenza scambievole del governo e del popolo»: un tema che avrebbe caratterizzato gran parte della sua attività a venire, e soprattutto dato luogo alla Storia di Venezia nella vita privata che, a parere di C. Ricci, come ebbe a dire nella commemorazione del M. pronunciata nella seduta del 18 nov. 1928 all’Accademia nazionale dei Lincei, rappresentava «il perno intorno al quale s’aggira tutta o quasi l’opera sua» (p. 508).
Il concorso dell’Istituto veneto nasceva nell’ambito di una più generale attenzione alla storiografia lagunare che in quegli anni si stava affermando a Venezia: nel 1861 Samuele Romanin aveva completato la Storia documentata di Venezia che in dieci volumi apriva le porte, fornendo solide fondamenta, a un nuovo modo di studiare la storia locale sulla base dei documenti e delle fonti primarie (di lì a poco, nel 1879, si sarebbe avviata anche la pubblicazione dei Diarii di Marin Sanudo); e a dare sostanza a questo clima culturale, «del culto del vero racchiuso nel documento» (v. Gullino, in L'enigma della modernità, p. 4), nel 1871 Fulin fondava con Adolfo Bartoli l'Archivio veneto e poco dopo, nel 1874, nasceva la Deputazione veneta di storia patria della quale il M. sarebbe stato nominato rispettivamente socio corrispondente interno nel 1885 ed effettivo nel 1889: fu quello anche l’anno della nomina a socio corrispondente dell’Istituto Veneto. Della Deputazione fu anche presidente dal 1913 al 1917 e presidente onorario dal maggio del 1926 alla morte.
La storia di Venezia nella vita privata del M. (Torino 1880), se trae linfa da un tale contesto, aggiunge tuttavia una visione più ampia. Un’appendice racchiude i documenti, riletti nel testo con uno sguardo attento al costume – «non si limitò a narrare, a descrivere; volle rievocare gli istituti e i costumi, gli aspetti laboriosi e festosi della città, la vita delle case e delle strade» (Fradeletto, p. 70) – e in particolare alla produzione dei manufatti più diversi, dal mobilio alle suppellettili, dagli abiti ai gioielli, contemporanei alle vicende narrate e considerati dal M. come documento storico alla stessa stregua dei lasciti scritti: da ciò l'utilizzo da parte del M. di nuove fonti per la ricerca (inventari privati, archivi notarili, epistolari) per poter entrare nelle pieghe della vita quotidiana; ma anche e soprattutto l'interesse per l'iconografia di tali oggetti, scovata per lo più nei dipinti antichi, che più tardi si sarebbe tradotta nella scelta di pubblicare le sue opere in una veste tipografica ricchissima di illustrazioni. Incontrando un gusto molto diffuso in quel momento, e che trovava luogo nel rapporto tra arte e industria (si vedano anche gli interventi nella stampa periodica dello stesso M.: Rinnovamento, 1872; Fanfulla, 1878), il lavoro del M., tra erudizione e narratività, risulta di agevole lettura anche per un pubblico di non specialisti. L'opera ebbe un duraturo successo annoverando ben sette edizioni, in cui progressivamente il testo si trasformò: le prime due nello stesso 1880, poi nel 1885 per lo stesso editore; seguirono quelle in tre volumi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo – che, fondato nel 1893 da Paolo Gaffuri, aveva visto collaborare il M. già nel 1900 con il terzo volumetto dedicato a Venezia della collezione «Italia artistica» diretta da Ricci – nel 1905-08 (per la prima volta corredata da un ricco apparato iconografico con riproduzioni fotografiche per la maggior parte tratte dagli archivi Naya, Anderson e Alinari), nel 1910-12, 1922-26 e nel 1927-29 (rivista dal M. in bozze solo nei primi due volumi); e le traduzioni in lingua francese (1882; I-III, 1895-97), tedesca (1886), croata (1888), e infine inglese (I-VI, 1906-08) a cura di Horatio F. Brown per l’Istituto di arti grafiche.
Il 22 apr. 1885 il M. sposò Amalia Brunati, di circa undici anni più giovane, esponente di una ricca famiglia di Salò che gli portò in dote la villa di Moniga sul Garda, dotata di parco e podere coltivato a vite – il M. fu, secondo la tradizione, il primo a vinificare il Chiaretto, un rinomato vino locale, intorno al 1896 – alla quale sarebbe stato sempre legatissimo: del piccolo borgo, a partire dal 1885, fu consigliere comunale, per poi passare a revisore dei conti, e sindaco (v. Lang, in L’enigma della modernità, p. 240). Nel 1889 ottenne a Padova la libera docenza in Storia della Repubblica di Venezia presso la facoltà di lettere e filosofia. Abbandonò l’insegnamento l’anno successivo, quando fu eletto deputato al Parlamento per il primo collegio di Brescia. Prese così avvio una lunga carriera politica che lo condusse in Senato nel 1909.
La vicenda politica del M. si svolse all’interno di un’epoca di grandi trasformazioni. Il nuovo Stato unitario stava assumendo i connotati di uno Stato liberale – in via di organizzazione, anche dal sostanziale punto di vista del progetto educativo, e nonostante i delicati rapporti con la Chiesa – nell’ambito del quale gli schieramenti politici stavano giungendo a un assetto che avrebbe dovuto guidare il processo di modernizzazione del Paese. Le scelte del M., tra un anticlericalismo iniziale e una posizione più mediatrice nelle fasi successive, risentirono di questo clima: il suo può infatti definirsi «il liberalismo di un cattolico, basato su una concezione laica e non teocratica dello Stato, ma anche sul convincimento della funzione coesiva svolta dalla religione e dalla morale in una società in rapida trasformazione» (Donaglio, in L’enigma della modernità, p. 130). Già dal 1876 il M. figurava nell’Associazione costituzionale di Venezia, sorta per la riorganizzazione delle forze moderate, di cui sarebbe stato presidente Lorenzo Tiepolo, primo sindaco veneziano non di nomina governativa, eletto nel 1889. Fu quello l’anno in cui il M. entrò per la prima volta nel Consiglio comunale di Venezia. L’anno successivo si colloca dunque la sua elezione a deputato, in rappresentanza di un Collegio, quello che comprendeva anche la zona del Garda, vasto e articolato da un punto di vista politico; due anni dopo, il M. si presentò per quello di Salò, ridotto nelle dimensioni ma più omogeneo, per il quale disponeva già di una fitta, fondamentale rete di relazioni. Fu questo, certo, a decidere dell’allargamento del suo consenso, al quale però contribuì senza dubbio l’idea del M. che il deputato fosse il punto di raccordo tra il Parlamento e la società civile, di cui si faceva portavoce: lo dimostrano le attività parlamentari del M. di questi anni, su questioni che toccano da vicino i propri elettori. Nel 1892 perse tuttavia il seggio, osteggiato dagli avversari politici che misero in campo una campagna aggressiva e denigratoria; rientrò alla Camera all’interno di un’alleanza clerico-moderata nel 1895. Quell’anno fu anche, di nuovo, consigliere comunale di Venezia e poi assessore alla Pubblica Istruzione della giunta presieduta dal sindaco Filippo Grimani: fino al 1897, quando si dimise in polemica con alcune scelte politiche non condivise e fu rieletto alla Camera, sostenuto da una base moderata e orientato ormai verso posizioni prossime a quelle conciliatoriste.
Nel 1909 fu nominato dunque senatore, e in tale veste poté continuare a interessarsi, ma senza preoccupazioni di consenso e di natura elettorale, a ciò che in realtà più gli premeva: la sorte del patrimonio culturale, artistico e paesaggistico del Paese.
Fu tra i sostenitori della necessità di una legge nazionale sulle antichità e belle arti, in netto contrasto con l’ideologia liberista che, ritenendo improponibile qualsiasi limitazione alla proprietà privata, di fatto rese impossibile una presa di posizione netta dello Stato in tal senso per circa quarant’anni, e fino al 1902, anno della prima legge nazionale di tutela.
L’impegno maggiore fu speso per contrastare l’esportazione incontrollata delle opere d’arte e per salvaguardare l’ambiente urbano della sua città: un problema che gli era stato da sempre a cuore. Già nel 1887 era comparso nella Nuova Antologia (s. 3, VII, pp. 413-428) un rumoroso e malinconico articolo del M., Delendae Venetiae, rivolto all’amministrazione comunale che si stava apprestando a «sanificare» la città attraverso quaranta interventi urbanistici, poi, a seguito dell’effetto dirompente di questo scritto, ridottisi a ventitré e quindi azzerati, anche se nel corso degli anni successivi si sarebbero in gran parte e in forme diverse ripresi e realizzati in silenzio. Caratterizzandosi come un vero e proprio sventramento, tali interventi avrebbero reso, era questa la convinzione del M., Venezia uguale alle altre città, distruggendone il fascino e la sua peculiarità artistica: «Certo i nuovi tempi muovono guerra alla vecchia poesia» (p. 416), ma lo sforzo doveva potersi indirizzare nel conciliare le esigenze della modernità – l’apertura del ponte ferroviario nel 1846 aveva introdotto un mutamento epocale, chiedendo a Venezia di votarsi al nuovo sistema di produzione capitalistico-industriale – con il valore intrinseco del tessuto urbano cittadino, «patrimonio artistico di tutto il mondo» (p. 417). Non era solo un atteggiamento decadente a muovere queste riflessioni, ma la chiara convinzione che la perdita di identità dei luoghi fosse un pericolo: a ciò si legano tutte le sue battaglie sul patrimonio nazionale e gli interventi, anche precoci, sui restauri dei monumenti veneziani. Ne danno testimonianza ancora gli articoli apparsi in giornali e riviste (cfr., ad esempio, il Fanfulla, dal 1876, sui restauri di S. Marco e del palazzo ducale) ma anche gli interventi a proposito dei restauri avviati in alcuni edifici celebri (S. Salvador, S. Maria dei Miracoli, i Frari, il Fondaco dei Turchi). Anche una delle prime interrogazioni parlamentari, nel marzo del 1891, si concentrò «sulle forme e sui modi con i quali si tutelano i monumenti nazionali, specialmente in relazione alle opere di risanamento edilizio» (Ventura, p. 24; cfr. inoltre le interrogazioni del febbraio 1892, giugno 1896, febbraio 1898: ibid., pp. 26, 31). Con il crollo del campanile di S. Marco, la mattina del 14 luglio 1902, si aprì una ferita insanabile nel tessuto urbano di Venezia e nell'orgoglio dei suoi cittadini. Il M. si spese moltissimo per la sua ricostruzione com'era e dov'era, contrastando in Parlamento l'«indirizzo irrazionale e irragionevole nella tutela del patrimonio artistico d'Italia» (ibid., p. 32), la mancanza di fondi per la tutela dei beni artistici del Paese, le scelte superficiali della politica, generate spesso dai contrasti tra amministrazioni locali e governo centrale, alla base dei quali sta anche la vicenda dei dipinti appartenenti alla collezione Contarini e il caso del restauro della Madonna degli alberetti di Giovanni Bellini. La vicenda, sollevata dal sindaco Grimani nel maggio del 1902, si incentrò sugli interventi conservativi che avevano interessato il dipinto, affidato dal lascito Contarini del 1838 alle cure espositive dell’Accademia di belle arti, dunque alle Gallerie, ma alla proprietà del Comune il quale, non interpellato, non aveva mai autorizzato tali interventi: sullo sfondo, c’era con ogni probabilità il tentativo di trasferire i dipinti già Contarini al Museo Correr, ma stava certamente l’ennesima rivendicazione di una autonomia decisionale locale rispetto alle malsopportate ingerenze centrali. Come si evince dagli interventi nei quotidiani e dalla fitta corrispondenza intrattenuta con l’allora direttore delle Gallerie G. Cantalamessa, il M., che faceva allora anche parte del Consiglio comunale ma era anche presidente dell’Accademia, fu parte in causa di tale contrasto (Sarti, pp. 367-373) risolto solo nella primavera del 1904 con un compromesso. Al raggiungimento dell’accordo non fu inutile il «vibrato discorso» (lettera di Cantalamessa al M. del 4 giugno 1903: in Sarti, p. 371 n. 172) tenuto in Parlamento dal M. in risposta all’interrogazione di R. Galli, che sosteneva le posizioni del Comune di Venezia, e a favore dell’integrità delle collezioni dell’Accademia.
L'altro grande problema era la straziante e continuata depredazione del patrimonio artistico cittadino, cui certo avevano contribuito le leggi eversive del 1866-67 che avevano reso disponibile sul mercato un numero incredibile di beni di proprietà degli enti religiosi. A colmare il vuoto di una legge di tutela nazionale, che sarebbe giunta nei primissimi anni del nuovo secolo, e per contrastare l'esportazione all'estero, a Venezia – che come il resto d'Italia aveva mantenuto la propria legislazione preunitaria – esisteva unicamente il diritto di prelazione, e solo per le opere di pregevole interesse artistico, le uniche per le quali il proprietario era tenuto a farne denuncia. La cronica mancanza di fondi non poteva far fronte alle continue richieste di vendita, tantomeno porre argine al sommerso e al clandestino; né contrastare la vendita e l'esportazione all'estero degli oggetti d'arte cosiddetti di minore importanza artistica, ad esempio dei diversi elementi scultorei collocati all'esterno di palazzi privati, di grande valore tuttavia se rapportati al loro contesto, la città e la sua storia. A denunciare questa situazione, e a favore di una rapida approvazione di una legge di tutela nazionale che la potesse quantomeno arginare, si pongono non solo il discorso tenuto dal M. all’Istituto veneto di scienze lettere ed arti nel 1897, pubblicato negli Atti (Gli spogliatori di Venezia artistica e della necessità di una legge sulla conservazione degli oggetti d’arte, 1896-97: in esso si citano in particolare le vendite all’estero di opere di proprietà privata di grandissimo valore artistico), ma anche gli scritti nei giornali (lo scambio di opinioni con G. Stella, direttore della Scuola veneta di arte applicata all'industria, del gennaio 1892 nella Gazzetta di Venezia: Sarti, p. 145 n. 37), e gli interventi alla Camera: nel 1902, quando si trattò di approvare la cosiddetta legge Nasi (n. 185, del 12 giugno), se il M. ne condivideva l'opportunità d'altro canto non poteva non rilevarne le carenze proprio contro «l'esodo di ciò che di bello ancora ci rimane» (Ventura, p. 27); sul tema sarebbe tornato poi in maniera più incalzante nell'interrogazione del giugno 1907, nella quale si chiedeva al ministro di giungere a una nuova legislazione sulla conservazione del patrimonio, che di fatto impedisse l'ulteriore proroga delle norme di esportazione (ibid., p. 28).
Parallela e strettamente legata all’attività politica, fu quella di esponente di spicco dell’Istituto veneto di scienze lettere arti, di cui fu socio effettivo dal febbraio del 1896 e presidente dal 1914 al 1916. La sua cooptazione all’interno dell’istituzione veneziana si concretizzò in un momento particolare della storia artistica locale: nel 1895 si era inaugurata con grande successo la prima esposizione biennale d’arte, e Venezia, e le istituzioni cittadine, vivevano l’esigenza di un rilancio dell’arte. L’uomo giusto sembrò il M., che aveva proprio a quella data ottenuto, in virtù di un largo consenso elettorale, l’assessorato alla pubblica istruzione nella giunta Grimani. Nel 1896 divenne anche presidente dell'Accademia di belle arti, in un momento molto delicato circa il ruolo e le competenze di una delle più potenti istituzioni veneziane.
Su decisione ministeriale – della quale furono più che suggeritori A. Venturi, allora funzionario a Roma presso la Direzione generale di antichità e belle arti, e G. Cantalamessa, incaricato di un'ispezione governativa presso le Gallerie veneziane – alla fine del 1895 si era istituita una commissione deputata a decidere del restauro dei dipinti della pinacoteca (e non solo), da sempre prerogativa dell'Accademia di belle arti. Un carteggio del M., neoeletto presidente, con il ministero testimonia la decisa opposizione dell'istituzione veneziana che non si risolse in tempi brevi, e neppure all’indomani del regolamento emanato nel 1904 in applicazione della legge di tutela del 1902, portando persino alle temporanee dimissioni del M. dalla presidenza dell’Accademia nel 1905 (Sarti, pp. 239-250, 258-268): una vicenda che, in un momento di grandi trasformazioni in cui sembrava finita l’epoca dell’urgenza, della scarsità di forze, dell’approssimazione delle competenze, e professionisti della tutela andavano sostituendo i professionisti della pittura, non poté non concludersi con l’abolizione della Commissione di pittura dell’Accademia.
Nell'ambito della storia dell'arte il M. fu attratto da molteplici passioni, e la duratura esperienza della Storia di Venezia nella vita privata, d’altro canto, non poté che accentuare in lui quella curiosità, che lo spinse a cercare e ricercare nelle pieghe della storia più minuta della sua Venezia. Numerosissimi sono a tal proposito gli interventi comparsi nelle principali riviste nazionali, come si evince agevolmente dalla bibliografia degli scritti curata da Mioni (in Ricci; cfr. anche Pavanello, in L’enigma della modernità, pp. 57-59; e Favetta, ibid., pp. 89-96) e nei quotidiani, analizzando i quali sembra difficile individuare precisi filoni di ricerca. Tuttavia, tenendo conto della produzione complessiva del M., si possono tracciare i confini di una prevalenza di interessi: Tiepolo e Carpaccio, sui quali il M., nella stessa rivista francese, l’Art, pubblicò due saggi a distanza di poco più di un anno l’uno dall’altro, sugli affreschi alla villa Valmarana, con incisioni che ne riproducevano alcuni, nel 1879, e sul ciclo di S. Giorgio degli Schiavoni nel 1880. Nel 1885 usciva poi un volume, Il Carpaccio e il Tiepolo, che vedeva accomunati, non senza riserve da parte della critica contemporanea (Sarti, p. 280), i due pittori.
L’attenzione nei riguardi di Tiepolo da parte del M., che ben si inserisce anche nel clima di generale «recupero» critico della figura del pittore veneziano, si concretizzò, oltre che nel Fanfulla, dove uscì nello stesso 1879 un sunto del saggio francese, soprattutto nello splendido volume sulla villa Valmarana. Edito a Venezia nel 1880 da Ferdinando Ongania – che in quegli anni si andava specializzando nella grande editoria illustrata: pubblicò una breve guida intitolata Calli e canali (Venezia 1893), scritta dal M. in collaborazione con D. Mantovani e corredata di un centinaio di riproduzioni fotografiche dagli archivi di Naya e Alinari; nel 1928 una seconda edizione del volume del M. – presenta soprattutto un pregevole corredo di immagini, con un numero consistente di riproduzioni in eliotipia, tratte da fotografia, e con il contributo di Giacomo Favretto che, legato da amicizia al M., illustrò, tra l’altro, il frontespizio, il ritratto di Tiepolo, la tavola conclusiva. Di Tiepolo, il M. celebrava la grandiosità come frescante fino a ritenerlo nel genere della decorazione superiore al Veronese per la sua spontaneità e fantasia, in grado di riscattare la «decadenza» della pittura settecentesca. Passando per un paio di interventi del 1896 in occasione della mostra tiepolesca di palazzo Reale – il M., allora presidente dell'Accademia di belle arti, fu a capo del comitato promotore della mostra (Sarti, p. 89 n. 99) – il M. giunse all’elaborazione di una monografia. G.B. Tiepolo, la sua vita e le sue opere uscì per i tipi dell’editore Hoepli (Milano 1909) con 79 tavole, ed ebbe due anni dopo una traduzione inglese; in essa il M., che si avvalse della collaborazione dell'austriaco H. Modern, autore di una biografia su Tiepolo uscita nel 1902 a Vienna, assume un principio topografico, seguendo le tappe artistiche del pittore che da Venezia si muove verso importanti centri europei, e presenta un interessante capitolo sui giudizi «dei contemporanei e dei posteri».
Chiedersi perché Carpaccio abbia suscitato l'interesse del M. è perfino retorico: è l’artista che più di ogni altro nel suo tempo seppe rendere la vita e la vitalità di Venezia, un perfetto cronista dei suoi tempi. Le ragioni stavano però anche altrove. Carpaccio infatti, come Tiepolo, fu proprio in quegli anni oggetto di una rivisitazione critica ai cui estremi cronologici si possono porre da un lato gli scritti di J. Ruskin del 1876-77 e dall’altro il progetto e la realizzazione del nuovo allestimento di una sala dedicata al pittore all’interno delle Gallerie dell’Accademia (1895): un’iniziativa sostenuta fin dai primi tempi della sua ispezione dal direttore Cantalamessa – che come il M., con il quale intrattenne per lungo tempo un fitto carteggio, riconosceva a Carpaccio «quella sua mirabile vaghezza di desumere tutto dalla vita contemporanea e di grandeggiar negli sfondi ariosi della sua Venezia» (Sarti, p. 271) – e ideato in buona sostanza da A. Conti, futuro autore della Beata riva, che in quei mesi si stava dedicando a uno studio su Carpaccio ed era a Venezia dall’agosto 1894 come «adiutore straordinario» presso le Gallerie (ibid., pp. 199-202). La quasi epidermica passione di Ruskin per i dipinti di Carpaccio «scoperti» durante il soggiorno veneziano di quegli anni – se ne trova testimonianza nella sua corrispondenza con Joan Severne e in St. Mark’s Rest (1877) ma soprattutto nella Guide to the principal pictures in the Academy (1877), nella quale, suddividendo la pittura lagunare in tre epoche, Ruskin definisce l’età di Carpaccio «classica e mitica», il vertice di una parabola destinata al declino e alla morte – non poté non destare attenzione nel Molmenti. Dopo averne scritto in l’Art, infatti, proprio su Carpaccio, riprendendo quasi letteralmente alcuni giudizi sul pittore di Camillo Boito (recensione al volume del M. sulla villa Valmarana comparsa in marzo fra le pagine della Nuova Antologia), il 7 ag. 1881 pronunciava all’Accademia di belle arti il discorso in occasione della consegna dei premi annuali (Sarti, p. 279), pubblicava Il Carpaccio e il Tiepolo (Torino 1885), firmava sul primo numero di Arte decorativa e industriale (1890-91, pp. 55 s.) – la rivista veneziana fondata e diretta dallo stesso Boito ed edita da Ongania – un articolo sui partiti decorativi realizzati a corredo del Martirio e del Sogno di s. Orsola, interveniva sugli Atti dell’Istituto veneto con La patria del Carpaccio (estr. Venezia 1892), e nel 1893 dava alle stampe in francese Carpaccio, son temps et son oeuvre (Venezia: praticamente una nuova edizione della parte relativa all’artista del volume del 1885. Seguirono una prima edizione italiana nel 1906 per Hoepli, curata per la prima parte con l’amico G. Ludwig, il medico tedesco, collaboratore di W. Bode, appassionato di storia veneziana, che fu responsabile delle ricerche d’archivio, e in tempi brevi una inglese (1907, curata da J. Murray) e una francese (1907 per Hachette). Il M., che non poté esimersi dal citare, e più volte, proprio Ruskin, il primo, autorevole fautore della fortuna di Carpaccio, offriva dunque a un pubblico più vasto e internazionale la sua visione dell’opera del pittore – oltre al ciclo degli Schiavoni, per il quale il M. riprese quanto già scritto nel 1880, i dipinti per la Scuola di s. Orsola, che sarebbero stati oggetto di una pubblicazione autonoma, Vittore Carpaccio et la Confrérie de Sainte Ursule à Venise (Firenze 1903), curata insieme con Ludwig – indugiando sui dettagli, mettendoli in risalto per il lettore, al quale fornì anche un vaglio documentario e alcune osservazioni persino sulla visibilità dei teleri, deprecata ancora da Ruskin, nella sala delle Gallerie in cui si trovavano, prima, dunque, del nuovo allestimento di Cantalamessa.
Alla morte di Amalia, avvenuta nel febbraio del 1911, il 18 ag. 1913 il M. si unì in seconde nozze con Lodovica Palazzi, che gli sopravvisse (morì a Venezia nel 1958). Con l'ingresso dell'Italia in guerra, il M. fu impegnato soprattutto in una polemica, non condivisa, circa la messa in sicurezza degli edifici monumentali, in particolare di Venezia, giudicando inopportuni e dannosi – deprecava l'«immane peso di colossali rafforzamenti in mattoni e muratura» addossato a palazzo Ducale (Donaglio, 2004, p. 253) – gli interventi programmati da U. Ojetti, in collaborazione con i soprintendenti e in rappresentanza dell'autorità militare, il Comando supremo e per Venezia il Comando della Piazza marittima, che gli aveva affidato tale compito.
Con decreto del 24 nov. 1919, il M. fu nominato sottosegretario alle belle arti, una carica di recentissima istituzione (3 ottobre) voluta per «procedere al riordinamento e allo sviluppo del patrimonio artistico nazionale» (Id., in L’enigma della modernità, p. 161 n. 89) e anche per decidere circa la destinazione a uso pubblico degli edifici monumentali ceduti al Demanio dalla Corona, nonché per vigilare, a guerra finita, sulla restituzione ai luoghi d'origine delle opere allontanate e trasferite al sicuro durante il conflitto (Ventura, pp. 50 s.).
In questa veste fu il fautore decisivo per la sistemazione sia del Museo Correr dalla sede originaria del Fondaco dei Turchi a quella, poi definitiva, di palazzo Reale (Procuratie Nuove) – contrastando, anche in quanto presidente del Comitato direttivo del Correr, le intenzioni del Comune di occupare gli ambienti destinati al museo con i propri uffici – sia della biblioteca Marciana, di cui aveva auspicato il trasferimento da palazzo ducale al palazzo della ex Zecca e aveva sostenuto il progetto di copertura del cortile per la migliore fruizione dei lettori: «Il contrasto, inevitabile in tutti gli adattamenti di vecchi edifizi a nuovo uso, si risolve di necessità in un compromesso fra il vecchio e il nuovo» (Donaglio, 2004, p. 242). Alla questione della biblioteca Marciana aveva dedicato un'interrogazione parlamentare nel febbraio del 1899 (ibid., p. 31) e diversi scritti fin dal 1900 (Corriere della sera, 3 e 4 ag. 1900; seguito da Nuova Antologia, 16 dic. 1902; Rivista delle biblioteche e degli archivi, 1903 fino agli interventi nel 1906 in Emporium, Varietas, e Archivio storico italiano: cfr. Mioni, in Ricci). Immediato fu poi l'interessamento per la cessione della Libreria Sansoviniana al Demanio: nel gennaio del 1924 il M. vide tornare la biblioteca nella sua antica sede, dopo che una commissione, nominata dallo stesso M. e presieduta da G. Biagi, aveva definito l'organizzazione delle nuove sale. Nel breve tempo di questo incarico, durato circa sei mesi dato che si dimise nel maggio 1920 a seguito della crisi del governo Nitti, il M. si rese anche responsabile dei controlli, effettuati attraverso le Soprintendenze locali, sui danni e sui furti subiti nel corso della guerra dal patrimonio artistico nazionale, con particolare riguardo alle aree di Verona, Vicenza, Venezia e del Mantovano (Donaglio, in L’enigma della modernità, p. 161 n. 89).
Il forte senso dello Stato, maturato negli anni di attività politica, le convinzioni culturali, la salda natura del proprio essere liberale e tenace sostenitore dell’istituto parlamentare, non gli avevano consentito di appoggiare le istanze interventiste della nuova destra nazionalistica; e gli avrebbero impedito, dopo un primo momento di fiducia legata alla speranza di una restaurazione dell’ordine, di aderire al fascismo da cui prese gradualmente le distanze giungendo, dopo il delitto Matteotti, a sottoscrivere nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce.
Il M. morì a Roma il 24 genn. 1928.
Non ebbe figli e con il testamento, redatto qualche mese prima (28 giugno 1927), destinò al Comune di Venezia quanto era conservato nella dimora di Moniga sul Garda: oltre agli arredi, la cospicua biblioteca, e le opere d’arte, principalmente dipinti della scuola veneziana del secondo Ottocento, testimonianza dei rapporti spesso personali che il M. aveva intrattenuto con più di una generazione di artisti suoi conterranei.
Fonti e Bibl: Fonte essenziale per la biografia del M. è il suo epistolario, conservato a Venezia, in dieci buste, presso la biblioteca del Museo civico Correr; mentre per la bibliografia degli scritti è ancora oggi imprescindibile il lavoro di G. Mioni, in appendice a C. Ricci, Commemorazione di P. M., in Atti della R. Accademia dei Lincei. Rendiconti, cl. di scienze morali, storiche e filologiche, s. 6, IV (1928), pp. 507-509 e bibliogr., pp. 510-573. Sulla sua biografia e sull'attività politica in particolare, punti di riferimento fondamentali sono: M. Donaglio, Un esponente dell’élite liberale: P. M. politico e storico di Venezia, Venezia 2004 (con ampia bibliogr.); e L’enigma della modernità. Venezia nell’età di P. M., Atti… 2002, a cura di G. Pavanello, Venezia 2006. Si vedano, inoltre: A. Fradeletto, Commemorazione del m.e. P. M., in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, LXXXVIII (1928-29), pp. 57-84; P. M. (1852-1928). Arti e passioni di un senatore veneziano in Valtenesi, Moniga del Garda 1998; L. Ventura, P. M. deputato e senatore del Regno, ibid., pp. 23-79; M.G. Sarti, La tutela degli oggetti d'arte a Venezia (1866-1907), tesi di dottorato, Università degli studi di Roma «La Sapienza», a.a. 2001-02, ad indicem.