Pop art
di Filiberto Menna
Pop art
sommario: 1. Definizione. 2. Il contesto sociale. 3. L'iconosfera urbana. 4. Le origini inglesi e la pop art americana. 5. La situazione europea. □ Bibliografia.
1. Definizione
Il Random House dictionary of the English language definisce la pop art ‟uno stile, specialmente della pittura figurativa, sviluppatosi negli Stati Uniti e che ebbe corso all'inizio degli anni sessanta, caratterizzato principalmente dall'ingrandimento di forme e immagini derivate da generi di arte commerciale come le strips di comics e i manifesti pubblicitari".
In realtà, il termine pop art è stato proposto nel contesto culturale inglese da L. Fiedler e R. Banham nel 1955 con un esplicito riferimento ai fenomeni della comunicazione di massa, quali i fumetti, i rotocalchi, la televisione, il cinema, fino ai prodotti industriali di più largo consumo. Molti titoli commerciali, regolarmente brevettati, avevano adottato il termine pop, ad esempio POPS (pinze), POP'S (biancheria intima per uomo), POP-POPS (dolciumi), POP (materiali idraulici). Intorno al 1960 il termine assume una connotazione più precisa e nello stesso tempo più circoscritta, riferendosi esclusivamente all'arte propriamente detta e indicando quelle opere che si ispiravano alla cultura popolare, intesa come cultura di massa. La definizione presenta quindi due significati diversi, anche se tra loro strettamente collegati: in un primo tempo, essa si riferisce ai prodotti dei mass media e agli oggetti di consumo corrente; in un secondo momento, si riferisce alle opere d'arte in senso proprio che prendono a modello le immagini e gli oggetti prodotti in serie. Il termine pop art può essere riferito quindi a una corrente artistica sviluppatasi soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni cinquanta e i primi anni sessanta in relazione a esperienze analoghe maturate in altri paesi d'Europa (v. Wilson, 1974).
2. Il contesto sociale
La pop art nasce e si sviluppa in un contesto sociale fortemente condizionato dalla produzione in serie e dai consumi di massa. Si tratta di un contesto socioeconomico che segna l'avvento di una ‛società opulenta' in cui alla psicologia del risparmio e del produrre si sostituisce la psicologia dello spreco e del consumo. In questo tipo di società si verifica cioè un'inversione del rapporto produzione-consumo a favore del secondo termine del binomio, nel senso che questo non si limita più a costituire un polo di riferimento della produzione, ma diventa lo scopo ultimo di tutta la struttura sociale, orientando verso la propria finalità il processo economico e le aspirazioni fondamentali dei singoli individui. Questo mutamento profondo della struttura sociale nei paesi industrialmente avanzati è stato osservato e indagato, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti, dagli scrittori, critici e saggisti newyorchesi di formazione marxista che si erano ritrovati intorno alla ‟Partisan review" o appartenevano al gruppo pacifista della rivista ‟Politics" e successivamente erano confluiti intorno a ‟Encounter" e a ‟Commentary". I più significativi esponenti di questa intellighenzia furono H. Arendt e D. Bell, O. Handlin, I. Kristol, D. Riesman e D. W. McDonald (v. Calamandrei, 1974).
Nel libro The lonely crowd, Riesman (v., 1950) analizza il passaggio da una struttura sociale composta da individui ‟a direzione interiorizzata" o ‟autodiretti", che convogliano tutte le loro energie verso la sfera della produzione di beni e portano questa mentalità di ‟produttori" anche nella sfera privata, del tempo libero e del consumo, a una struttura sociale caratterizzata da uno spostamento delle forze produttive verso la sfera delle attività terziarie e composta da individui ‟eterodiretti", che incanalano le loro energie verso le frontiere in espansione dei consumi con una tendenza sempre più marcata a essere influenzati dalle prospettive e dalle preferenze degli altri. La ‟eterodirezione", di cui parla Riesman, presuppone quindi la presenza massiccia e determinante dei mezzi di comunicazione di massa, i Soli in grado di incanalare i gusti fluttuanti e il ‟desiderio senza oggetto" del nuovo tipo di consumatore. Un'analisi altrettanto penetrante della nuova società opulenta è condotta da McDonald in due saggi apparsi prima nella ‟Partisan review" e poi nel volume Contro America. Rispetto alla situazione storica in cui esistevano due tipi di cultura, quella alta e quella popolare, nella società moderna, propria dei paesi industriali, si è sviluppata una terza cultura, la cultura di massa, le cui opere non sono il prodotto di individui creativi o della tradizione folclorica, ma il risultato di procedimenti posti in atto in vista di finalità puramente commerciali. Gli ingredienti sono attinti dalla cultura alta, ma sono confezionati in modo da non deludere le attese del pubblico e da soddisfare la domanda della grande massa di consumatori.
La midcult assimila cioè le invenzioni delle avanguardie artistiche ma le svuota della loro forza di rottura, ne trasforma l'internazionalismo in un puro e semplice cosmopolitismo linguistico, richiesto, d'altra parte, dall'estendersi dei mercati e dalle stesse tecniche produttive delle grandi concentrazioni industriali. W. W. Rostow (cfr. The stages of economic growth, Cambridge 1960) ha tracciato un modello molto plausibile di tale evoluzione, dalla fase paleoindustriale, caratterizzata da uno sviluppo tecnologico limitato a determinati settori dell'economia, fino alla fase odierna dei grandi consumi di massa, passando attraverso la fase di maturità, caratterizzata da uno sviluppo tecnologico generale e dal conseguente aumento della ricchezza collettiva. In questa fase, la direzione presa dai diversi paesi porta a risultati diversi: in alcuni, la nuova ricchezza e le nuove possibilità tecnologiche vengono impiegate in una politica di prestigio e di potenza militare (in Germania, ad esempio), in altri, invece, la ricchezza comincia a subire un processo di ridistribuzione e le nuove possibilità tecnologiche vengono impiegate soprattutto in vista del raggiungimento di uno stato di benessere, come si è verificato negli Stati Uniti a partire dalla politica roosveltiana del New Deal dopo la grande crisi economica del 1929.
In questo contesto culturale il termine popular, cui è legata la definizione di pop art, ha un significato radicalmente diverso dalla connotazione tradizionale che esso ha assunto soprattutto in Europa: come ha scritto Argan (v., 1970, p. 672), ‟la pop art non è espressiva della creatività del popolo, ma della non-creatività della massa" ed esprime ‟il disagio dell'individuo nell'uniformità della società dei consumi". Non per questo, tuttavia, la pop art sembra rinunciare al compito, affrontato da tutti i movimenti più vitali dell'arte moderna, di impegnarsi in maniera diretta e totale nei problemi dell'esistenza quotidiana; ma, a differenza delle correnti artistiche d'avanguardia della prima parte del secolo e dello stesso informale, rinuncia a porre se stessa come il punto focale in cui individuo e società sciolgono o denunciano tutte le antinomie e tutte le contraddizioni. L'artista sa di operare all'interno di un contesto sociale, come quello delineato da McDonald, non più caratterizzato dalla netta contrapposizione tra avanguardia e conservazione, ma nell'ambito di una situazione più complessa e intricata in cui coesistono diversi livelli culturali, da quello highbrow della cultura elitaria al livello infimo, lowbrow, del Kitsch, passando attraverso gli strati intermedi, middlebrow, dell'industria culturale. Porsi al di fuori di questo contesto non è possibile, né avrebbe senso, o avrebbe il senso di una nuova evasione, di un rinchiudersi nuovamente in una ristretta posizione aristocratica: l'artista pop lo sa e accetta di operare dentro il sistema abbandonando la pretesa di una redenzione totale e accettando di lavorare mediante interventi circoscritti dentro situazioni particolari e ben determinate. In definitiva, la pop art prende atto dell'avvento della società ‟eterodiretta" descritta da Riesman e accetta con spregiudicatezza il confronto con l'ambiente proprio al livello del consumo, operando una sorta di inventario critico dei prodotti terminali della produzione di massa. La produzione artistica incontra e si scontra consapevolmente con quello che è il cardine della vita moderna, il mercato: ‟di fronte a un mercato che trasforma immancabilmente ogni prodotto, compresa la stessa denuncia, testimonianza di vita, opera di opposizione, in un bene di consumo definito da una quotazione in denaro, l'artista si trova obbligato a prendere posizione" (v. Boatto, 1967, p. 12).
A. Boatto ha colto bene questo nodo centrale della pop art quando scrive, proseguendo il discorso sopra ricordato, che ‟la circolazione sociale e il mercato costituiscono già aspetti interni dell'opera, e non incresciosi incidenti che al di là di ogni attesa le capitano dal di fuori. La soluzione (obbligata) è d'accettare preventivamente la prospettiva sociale e l'inevitabile trasformazione del lavoro artistico in merce, dichiarando magari ed esibendo in partenza la qualità di merce posseduta dalla creazione stessa" (ibid. , pp. 12-13). Si tratta di una posizione che in apparenza accetta la condizione eterodiretta propria della società opulenta, ma che in realtà è sorretta da un'ideologia fortemente connotata in senso individualistico, anarchico persino, in quanto pone la possibilità di un riscatto della banalità e del cattivo gusto sul piano stesso del consumo e non al livello pianificante della produzione. Nei confronti di quest'ultimo, l'artista pop non rivela un particolare interesse, forse perché sa che si tratta di un dato sul quale l'individuo non ha nessuna possibilità di agire in una società tecnicamente specializzata e governata, nella sua dimensione economica e non soltanto economica, dalle grandi concentrazioni finanziarie e industriali e dai mezzi di comunicazione di massa. L'artista è ormai uno della folla ed è costretto ad accettare il confronto con l'ambiente, se ne ha voglia, per proprio conto. Al fondo di questo atteggiamento è possibile riscontrare una sorta di sostanziale pessimismo, che tuttavia non si traduce in una posizione contemplativa o di rifiuto (come si era verificato con i rappresentanti dell'espressionismo astratto), ma si capovolge, curiosamente, in una vitalistica aspirazione al coinvolgimento e alla compromissione, allo stare al gioco, che si spiegano forse con le radici pragmatistiche della cultura anglosassone e americana in particolare.
3. L'iconosfera urbana
La pop art si rivolge quindi al complesso e multiforme universo costituito dal panorama delle grandi metropoli moderne che può essere indicato con il termine di ‛iconosfera urbana'. Ma di quale città si tratta? Una risposta a questa domanda è già contenuta in una dichiarazione di Allan Kaprow, inventore e teorico dell'happening: ‟Una passeggiata per la quattordicesima strada è più stupefacente di qualsiasi capolavoro artistico" in quanto essa è ‟senza fine, imprevedibile, infinitamente ricca" (v. Kaprow, 1961, p. 39). La città in cui nasce la pop art non è quella vagheggiata dal razionalismo storico e dagli urbanisti, la città come progetto, come distribuzione razionale di funzioni, come previsione di possibili sviluppi futuri. Al contrario, è la città piena di incongruenze, di cose brutte, di grovigli inestricabili: è la città data e non progettata, imprevista, aggressiva, inglobante, che si vorrebbe diversa, ma che è là e non è possibile non scontrarsi quotidianamente con essa. R. Lichtenstein, uno dei protagonisti della pop art americana, ha espresso in maniera icastica questa condizione: ‟O utside is the world, it's there. Pop art looks out into the world" (v. Wilson, 1974, p. 4).
Ma per l'artista pop, nonostante il disordine, l'incongruo, la stessa bruttezza, questa città assume un aspetto familiare, una cordialità allegra e vivace, una presenza tangibile alla quale egli non sa più rinunciare. La scena urbana rappresenta l'orizzonte entro il quale l'artista si muove rinunciando a una posizione contemplativa e privilegiata in quanto si tratta di una città-evento in cui egli si sente inestricabilmente implicato. Nella città data, nella scena dominata dai mezzi di comunicazione di massa, la distanza tra soggetto e oggetto si assottiglia, perde a poco a poco la dimensione distaccata del giudizio, si trasforma in un rapporto sensoriale fondato sulla percezione visiva, sull'arco abbreviato di uno stimolo e di una risposta immediata come un riflesso. L'artista considera cioè la scena urbana come uno spettacolo visivo in cui le immagini recano con sé una molteplicità di messaggi, di significati logici, emotivi, simbolici: una realtà che non può essere elusa o negata, ma dev'essere indagata e compresa nei suoi fattori formativi e negli elementi che la costituiscono. La pop art si presenta pertanto come un'operazione di reportage, come un penetrante e spregiudicato lavoro di ricognizione. Da questo punto di vista si può definire la pop art come un'arte essenzialmente realistica, nel senso di un realismo moderno che tiene conto delle trasformazioni e dei modi stessi di rappresentazione dell'ambiente. Per questa ragione S. Wilson (ibid.), volendo indicare un precedente storico della pop art, risale fino al realismo di Courbet, che si era già dato il compito di rappresentare la vita moderna. Nel catalogo della sua mostra all'Esposizione universale del 1855 l'artista aveva infatti esplicitamente dichiarato: ‟Sapere per potere, questa fu la mia idea. Essere in grado di tradurre i costumi, le idee, l'aspetto della mia epoca, secondo la mia valutazione, essere non solo un pittore, ma un uomo; in una parola, fare dell'arte viva, questo è il mio scopo".
Non c'è dubbio che la pop art, in quanto arte di ricognizione e di reportage del panorama urbano, non rappresenta una novità nell'insieme delle esperienze artistiche del XX secolo, ma trova tutta una serie di precedenti storici, in quanto gli artisti moderni hanno costantemente mostrato un interesse grandissimo per l'ambiente urbano, ossia per questa natura seconda in cui l'uomo, volente o nolente, è ormai costretto a vivere. Ma se proprio si volesse ritrovare un così lontano antecedente del ‛realismo' pop non è a Courbet che si dovrebbe forse risalire quanto ai pittori impressionisti.
L'ideale pittorico di Courbet, così profondamente nutrito di epicità naturale, si rivela invece come proposta di un ritorno all'integrità della natura e del villaggio: un ideale popular, se si vuole, ma di carattere contadino e rurale in un mondo già profondamente trasformato dalla nuova condizione industriale. Questa presa d'atto delle mutate condizioni ambientali, legate allo sviluppo della città moderna, è alla base della pittura impressionista, che è un'arte tipicamente urbana, nel senso che essa coglie nello stesso tempo i dati oggettivi della nuova realtà e le radicali trasformazioni psichiche e percettive con questa connesse. Il pittore impressionista accetta di vivere il presente prendendo atto di una situazione mutata in cui l'orizzonte dell'esistenza quotidiana, i comportamenti, il modo stesso di guardare e di atteggiarsi nei confronti del mondo sono strettamente connessi alla vita urbana, anche quando il soggetto della rappresentazione è fornito da un paesaggio naturale. La modernità degli impressionisti, l'attualità del loro ‛realismo' consistono appunto in questo, nel fatto cioè che essi sanno di vivere nella città, in mezzo alla folla, e di conseguenza non possono più conservare un atteggiamento di distacco contemplativo, non possono più prendersi una distanza privilegiata nei confronti dell'oggetto della rappresentazione, metterlo in posa, girargli intorno per renderlo a tutto tondo.
Già Baudelaire aveva compreso, come pochi in quegli anni e come solo gli impressionisti hanno capito dopo di lui nel secolo scorso, che la realtà urbana non è il finito, lo stabile, il monumentale, ma ‟l'ondeggiante, il movimento, il fuggitivo, l'infinito"; che la città, la ‟metamorfosi quotidiana delle cose" impongono all'artista una ‟eguale velocità di esecuzione" (su Baudelaire e il tema della vie moderne in relazione alla pop art v. Calvesi, 1964; v. anche Boatto, 1967). Gli impressionisti si muovono appunto in questa direzione, non solo perché rappresentano gli aspetti molteplici e più semplici della vita quotidiana, ma in quanto si pongono all'interno stesso dell'oggetto della loro pittura: è così che riescono a darci una rappresentazione veloce, concitata, globale, affidata a mezzi espressivi che risultano strutturalmente nuovi in una con le modifiche strutturali della vita individuale e collettiva.
Anche il futurismo, naturalmente, è stato chiamato in causa come un possibile precedente storico della ricognizione urbana condotta dalla pop art. L. Alloway ricorda che il futurismo è stato un movimento programmaticamente pro-urbano che ha celebrato la città e la folla amplificando l'iconografia della vita moderna proposta dagli impressionisti e dai postimpressionisti. Il primo manifesto marinettiano contiene ‟il resoconto di un incidente automobilistico, riportato come un'esilarante esperienza. Non potevano esserci molti di questi incidenti nella letteratura prima del 1909" (v. Alloway, 1974, p. 116). Occorre aggiungere che i futuristi non si rivolgono alla scena urbana soltanto come a un repertorio tematico, di ordine contenutistico, ma si rifanno soprattutto alle mutate condizioni ambientali per cogliere nuovi procedimenti di formazione dell'arte introducendo le nozioni di coinvolgimento e di simultaneità.
Opere come Rissa in Galleria e La città che sale di Boccioni, oppure come I funerali dell'anarchico Galli di Carrà, o ancora l'iconografia parigina di Severini, condotta sulla base di un fitto intreccio di immagini e di parole, oltre che mediante l'assunzione di frammenti di realtà all'interno del quadro (materiali che per lo più conservano il loro peso semantico, in senso appunto urbano), possono essere considerate a ragione come precedenti storici autorevoli di una moderna ricognizione urbana. Alloway insiste molto, e giustamente, su un aspetto della formatività futurista, 0ssia sull' ‟intergioco di elementi visivi e verbali" che si ritrova nelle ‟parole in libertà" di Marinetti: ‟La dispersione di parole nello spazio non era limitata agli scrittori futuristi ma apparteneva anche a quegli artisti che usavano le parole con un valore semi-ideografico all'interno del contesto pittorico dei quadri. La tecnica pittorica di parole e la commistione di sistemi di rappresentazione visivi e verbali sono fonti importanti per la pop art" (ibid.).
L. R. Lippard (v., 1966) ritiene invece che la pop art non abbia punti di contatto con quello che definisce ‟lo stravagante ‛modernismo' dei futuristi". Alle spalle dell'esperienza pop c'è semmai il collage cubista (la Lippard cita in particolare il Piatto con i wafers di Picasso del 1914) e naturalmente la ricognizione dadaista di Schwitters, oltre che gli interni metafisici di De Chirico, dove appaiono riprodotti fin quasi al trompe-l'oeil oggetti di consumo. Lasciamo per ora da parte la questione metafisica-dadaismo e osserviamo subito che l'esclusione del precedente futurista tutta a favore del cubismo, così come è proposta dalla Lippard, non convince del tutto, non fosse altro perché il coinvolgimento dell'artista pop, l'attenzione che egli porta agli aspetti più banali ed effimeri, più popolari, della moderna scena urbana, i modi stessi della rappresentazione che pone in atto sulla base di una sofisticata e spesso ironica mimesi dei contenuti popular dell'iconosfera urbana, tutto questo sembra piuttosto lontano dalla forte formalizzazione del collage cubista e dalle preoccupazioni concettuali che i pittori francesi (Picasso e Braque soprattutto) esprimono attraverso il prelievo di dati reali e l'impiego del trompe l'oeil. Nel collage futurista invece la realtà circostante entra nel quadro attraverso un processo di rielaborazione che rivela in maniera esplicita intenzioni di ordine narrativo, fabulatorio e, in senso generale, modernolatrico. Del resto, se ne era accorto subito Apollinaire, sia pure per mettere in evidenza il distacco (tutto a favore dei francesi) tra cubismo e futurismo: ‟I futuristi traggono dalla realtà visiva gli elementi con cui vogliono dipingere la realtà mentale; per raffigurare un oggetto ne rappresentano i differenti aspetti, come avviene qualche volta nelle immagini popolari" (O. Apollinaire, Le futurisme, in ‟L'intermédiaire des chercheurs et des curieux", ottobre 1912).
Anche il purismo di Ozenfant e Jeanneret era mosso da intenzioni pro-urbane e pro-tecnologiche e per questa ragione è stato pure chiamato in causa in più di un' occasione da parte della critica che si è posta il problema dei precedenti storici della pop art. Il purismo si rivolge infatti agli oggetti della produzione industriale e li assume come i nuovi soggetti della pittura. La struttura geometrica del quadro (per lo più nature morte) si pone come analogia formale con l'oggetto di serie che viene rappresentato mediante una tecnica abbreviata, estremamente riduttiva, tale da ricondurlo alle sue linee essenziali. È appunto questo modo di rappresentazione che può aver influenzato gli artisti pop che puntano spesso all'isolamento di un particolare, all'ingrandimento, finanche a una nuova forma di monumentalismo. Come ha mostrato Alloway, la geometria purista di Le Corbusier e Ozenfant, ma anche il cubismo sui generis di Léger, furono americanizzati con l'opera del pittore statunitense Louis Lozowick che aveva sottolineato il valore simbolico del panorama urbano e in particolare della ‟rigida geometria della città americana: nella verticalità delle sue ciminiere, nel parallelismo delle sue strade, nella quadratura delle sue vie, nella cubatura delle sue fabbriche, nell'arco dei suoi ponti, nei cilindri delle autobotti" (v. Alloway, 1974, p. 117). I pittori dell'American scene nascevano proprio in questo ambito culturale e da esso traevano lo stimolo per una rappresentazione fedele della vita quotidiana, nei suoi aspetti più banali e correnti. Più direttamente legato alle tecniche di scomposizione e ricomposizione cubiste, e a Léger in particolare, è Stuart Davis, le cui composizioni degli anni venti, già ricche di riferimenti agli oggetti e alle immagini della scena urbana, hanno senza dubbio esercitato una qualche influenza sulla imagerie pop.
4. Le origini inglesi e la pop art americana
A parte questi precedenti storici, che hanno variamente agito a distanza e contribuito a creare l'ambiente culturale in cui è poi sorta la pop art, si devono registrare in Inghilterra e negli Stati Uniti una serie di fatti che si collocano come antecedenti immediati di questa corrente artistica. Gli studiosi più attenti del fenomeno pop, tra i quali Alloway e Wilson, hanno mostrato come proprio in Inghilterra si sia sviluppata fin dagli inizi degli anni cinquanta una profonda coscienza dei nuovi fatti inerenti ai mezzi di comunicazione di massa e della rilevanza del panorama urbano nella messa a punto di nuove tecniche di rappresentazione. Sul piano specifico della pittura si deve registrare l'impiego da parte di Francis Bacon di un fotogramma della Corazzata Potëmkin del regista sovietico Eisenstein in uno dei dipinti della serie delle Teste gridanti del 1949. Lo stesso artista nel 1951 estende l'uso di materiali fotografici utilizzando le fotografie di E. Muybridge riguardanti lo studio del movimento umano e animale.
Ma un rilievo maggiore nella messa a punto di un'analisi della cultura di massa assume l'attività dell'Institute of Contemporary Arts di Londra, all'interno del quale si costituisce nel 1952 un sottocomitato che prende il nome di Indipendent group (IG.). Il sottocomitato affronta in maniera sistematica lo studio delle arti popolari, intese come fenomeni propri della comunicazione di massa. Lo scultore Eduardo Paolozzi tiene una conferenza illustrata con immagini dei suoi collages e della pubblicità industriale. Nel 1953 l'IG organizza una mostra, Parallel of art and life, curata dallo stesso Paolozzi, dall'architetto P. Smithson e dal fotografo N. Hendersen: la mostra affronta alcuni temi tipici della moderna cultura di massa presentando una nutrita serie di riproduzioni fotografiche con cui vengono messe a confronto opere d'arte di Picasso, Klee e fotografie (foto aeree, ingrandimenti al microscopio, materiale etnografico, arte infantile). Nel 1954 con l'ingresso nell'IG di Alloway e di J. McHale l'interesse si concentra in maniera ancora più precisa sulla cultura popolare a livello urbano: ne è una testimonianza la mostra Man, machine and motion, presentata all'ICA di Londra nel 1955 dallo Hamilton, che analizza le relazioni tra macchina e funzione estetica. L'anno seguente, alla Whitechapel Gallery, l'IG presenta un'altra esposizione, This is tomorrow, sempre sul tema della nuova cultura di massa.
Nel complesso l'atteggiamento dell'IG nei confronti di questa cultura è di ordine prevalentemente analitico, si traduce cioè in un'indagine sistematica, diversa sia dalla critica ideologica dell'intellighenzia americana sia da un'assunzione condotta sotto il segno dell'ironia e della sofisticazione. Un atteggiamento ben rappresentato dal lavoro di Hamilton, che respinge l'uso di questi materiali in chiave satirica e li fa invece oggetto di una ricerca il cui scopo principale è di cogliere ‟ciò che è epico negli oggetti e negli atteggiamenti quotidiani" (v. Alloway, 1962, p. 1085).
Paolozzi comincia già dal 1947 a impiegare immagini ritagliate da riviste americane o attinte al mondo della pubblicità con l'intento di analizzare l'incontro e lo scontro tra la cultura inglese tradizionale e la cultura della società di massa. Lo stesso artista ha in più di un'occasione dichiarato di voler raccogliere i documenti più tipici del nostro tempo servendosi degli strumenti iconologici di Warburg e di Gombrich, che egli aveva studiato con molto interesse. Come ha scritto Quintavalle, ‟si trattava appunto di una ricerca linguistica sulle arti popolari, la pop art, appunto, non ancora trasformata essa stessa in oggetto artistico, era cioè un'intenzione diversa, analitica, che muoveva Paolozzi, e che poi, attraverso un complesso processo di elaborazione, doveva condurlo in scultura, ad esempio in pezzi intorno al 1957, ad operare una critica distruttiva del rapporto tra uomo e macchina" (A. C. Quintavalle, Tilson, Milano 1977, p. 13).
A questa indagine criticoanalitica dell'universo popular delle grandi città moderne porta un contributo rilevante Richard Hamilton. Il suo collage: Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? presentato nella mostra This is tomorrow del 1956 è diventato in qualche misura il simbolo delle origini della pop art: alla domanda posta nel titolo Hamilton risponde presentando una serie di immagini di un interno ‛moderno', zeppo di mobili e di suppellettili, con quadri e manifesti alle pareti e in primo piano un uomo e una donna colti in una posa tipicamente pubblicitaria. Anche se non è assente un intento ironico, ciò che interessa in questo collage è il carattere di campionario che esso assume nei confronti degli oggetti e delle immagini del nuovo universo urbano. Hamilton si è poi interessato in particolare alla fotografia, dedicandosi a un'indagine sistematica del messaggio fotografico fin da quando gli capitò di osservare alcune fotografie di Marilyn Monroe pubblicate dalla rivista ‟Town" sulle quali l'attrice aveva scritto alcune annotazioni con l'intento di scartare le foto che non erano di suo gradimento. Hamilton muove dall'osservazione della tensione tra i due piani del messaggio, quello della scrittura e quello dell'immagine, per procedere a una serie di studi di ordine propriamente analitico. In altri casi, Hamilton impiega le fotografie così come sono, intervenendo mediante la colorazione a mano di alcuni dettagli.
Nell'ambiente artistico di New York, dove i pittori dell'espressionismo astratto come Pollock e De Kooning, Kline e Rothko, Newman e Still avevano finalmente ottenuto un riconoscimento adeguato dalla critica e dai collezionisti e cominciavano a diventare popolari anche presso un pubblico più vasto, appaiono sulla scena alcuni artisti che si muovono ancora nell'ambito dell'action-painting, adoperando una pittura gestuale, ma che introducono nel contesto pittorico elementi attinti direttamente all'ambito dell'iconosfera urbana e inseriti come frammenti di realtà nell'opera d'arte oppure rappresentati con una tecnica pittorica spinta fino al trompe-l'oeil in modo da farli apparire veri, più veri del vero. L. Rivers, R. Rauschenberg e J. Johns realizzano una serie di opere, fin dalla metà degli anni cinquanta, ricche di riferimenti alla realtà quotidiana, che viene colta e resa nei suoi aspetti più banali e correnti, più popolari, appunto.
Larry Rivers comincia nel 1953 a introdurre elementi della pittura storica americana assunti come dati diventati patrimonio comune, popolare, come ad esempio nel quadro Washington che attraversa il Delaware, una traduzione parodistica del dipinto di Leutze. Si rifà alla tecnica gestuale di De Kooning ma include dentro il tessuto pittorico frammenti di realtà, come biglietti di banca, bandiere, ecc. Ma la nuova situazione assume i suoi connotati più precisi e propri con le opere di Rauschenberg e Johns, dove cominciano ad apparire come protagonisti le immagini e gli oggetti dell'universo quotidiano, quali la bottiglia di Coca-Cola, le fotografie delle dive cinematografiche, le immagini di individui anonimi, ma assurti alla rinomanza effimera della cronaca, le banconote, le cifre e le lettere dell'alfabeto, il bersaglio del parco dei divertimenti, le bandiere, tutte le cose insomma che accompagnano la nostra esistenza e che scompaiono rapidamente dal nostro orizzonte. Ma l'artista le riprende proprio a questo punto, nel momento in cui stanno per scomparire dalla scena, e le fa rivivere con tutto il peso e la ricchezza dei significati e dei ricordi che quelle cose destano in noi.
L'opera di Robert Rauschenberg rispecchia appunto questa posizione di fronte alla realtà: del resto, lo stesso artista ha dichiarato esplicitamente, differenziandosi dal prelievo d'oggetto praticato dai dadaisti, che la propria opera vuol vivere nel presente, far rivivere il passato nel presente: ‟Mi sembra che lo spirito sia completamente diverso. Per dada si trattava di escludere. Era una censura contro il passato, significava cancellarlo. Oggi, per noi, si tratta di integrare un movimento, d'introdurre il passato nel presente, la totalità nel momento. C'è qui tutta la differenza tra l'esclusione e l'inclusione" (intervista rilasciata da Rauschenberg ad A. Parinaud, in ‟Arts", maggio 1961, n. 821). Ma questa definizione di poetica di Rauschenberg assume immediatamente un significato che va oltre l'opera dell'artista, nel senso che essa individua una situazione più generale caratterizzata appunto da procedimenti fondati sul prelievo di oggetti e frammenti di realtà: una situazione indubbiamente legata alle esperienze condotte nell'ambito del dadaismo storico e che proprio per questa ragione è stata definita come una situazione new dada. Il termine fu proposto per l'opera di Johns, in occasione di una mostra allestita da L. Castelli a New York nel 1958, e poi fu esteso ad altri artisti, come lo stesso Rauschenberg, Stankievich, Chamberlain e, in qualche modo, anche la Nevelson. Ben presto, comunque, la definizione si estese oltre i confini americani comprendendo anche esperienze artistiche europee fondate sul prelievo di oggetti e immagini direttamente dalla realtà e quindi con qualche legame con il dada storico. Su questo punto, tuttavia, Alloway avanza qualche riserva osservando che il termine new dada ‟esagera i rapporti con dada, che sì certamente esistono, ma il raffronto è di solito viziato da una inadeguata definizione di ciò che gli inventori europei hanno veramente fatto" (v. Alloway, 1963, p. 59).
Il punto di riferimento è soprattutto il ready made di Marcel Duchamp, ossia il prelievo di un oggetto bell'e fatto e il suo inserimento nel contesto dell'arte. Il termine, com'è noto, fu coniato dallo stesso Duchamp per definire una sua opera del 1913 formata da una ruota di bicicletta sorretta da uno sgabello di legno. Nell'operazione c'è senza dubbio un'intenzione ironica, diretta in senso antifunzionale, in quanto il ready made capovolge la destinazione usuale dell'oggetto e lo rende inutile. Tuttavia l'intenzione critica raggiunge un effetto paradossale, come un farmaco adoperato oltre la dose usuale: il ready made, destituendo il congegno funzionale dal suo uso abituale, lo isola dal contesto e impegna l'osservatore a considerarlo per se stesso, a guardarlo con occhi del tutto nuovi.
Si tratta, del resto, di un risultato non completamente imprevisto: lo stesso Duchamp sapeva benissimo che un oggetto, una volta spostato dal suo ambiente, viene percepito in un modo inaspettato. Qualche anno più tardi, nel 1917, Duchamp, infatti, invia al Salon des Indépendants di New York un orinatoio con il titolo Fontana e con la firma ‛Richard Mutt', con il nome cioè di un noto fabbricante di articoli sanitari. La Fontana è respinta e il signor Mutt-Duchamp protesta con una lettera che è un ironico divertissement e, insieme, una definizione lucidissima della nuova poetica: ‟Non ha nessuna importanza scrive l'artista il fatto che Mutt abbia fabbricato la fontana con le proprie mani oppure no. Egli l'ha SCELTA. Ha preso un elemento comune dell'esistenza e l'ha disposto in modo tale che il significato utilitario scompare sotto il nuovo punto di vista: egli ha creato un nuovo pensiero per tale oggetto". Nella scelta di Duchamp c'era indubbiamente un intento blasfemo ed eversivo, ma nella lettera del signor Mutt c'era qualcosa di più, l'intento cioè costruttivo di creare nuovi pensieri per gli oggetti più banali della nostra vita quotidiana, riscattandoli dal peso ingombrante della loro destinazione pratica.
È l'operazione condotta in maniera sistematica, fino all'ossessione, da Kurt Schwitters, la cui poetica si inserisce proprio nella linea più costruttiva del dadaismo con la serie dei collages realizzati con l'inserimento nel contesto della pittura di frammenti della vita reale. Diversamente da Duchamp, Schwitters rivolge la propria attenzione a piccoli, a volte minuscoli, frammenti di realtà, scovati con la passione di un entomologo o di un erborista. Una volta in possesso dei suoi ingredienti, l'artista procede all'operazione di montaggio seguendo strutture calcolatissime, ma facendo in modo che ogni frammento rechi con sé nel quadro quel tanto di vita vissuta capace di far scattare, nella mente dello spettatore, la reazione a catena delle memorie e della fabulazione lirica. Per questo, l'opera di Schwitters realizza un inserimento del passato sia pure del passato prossimo del frammento buttato via un momento prima di essere raccolto - nel presente duraturo dell'arte e si presenta come un poema del quotidiano e dell'effimero, anticipando proprio alcune delle declinazioni centrali del new dada americano.
La censura contro il passato realizzata dai dadaisti non aveva quindi delle finalità puramente eversive: si trattava invece di una censura, di una distruzione del passato per poter giungere a un risultato poetico più puro. Forse la differenza sostanziale tra vecchio e nuovo dada è da rintracciare in questo diverso atteggiamento di fronte al presente, nell'intenzionalità rivoluzionaria che i dadaisti condividevano con le avanguardie storiche, di contro alla volontà di constatazione e di racconto che opera invece all'interno prima del new dada e poi della pop art.
Nell'opera di Rauschenberg questa esigenza di coinvolgimento nella realtà quotidiana, questa volontà di registrazione, di celebrazione del presente, si realizzano pienamente mediante un procedimento che tiene insieme gli elementi della pittura e i frammenti della realtà (combine-painting). In Rebus, del 1955, su un supporto sono incollati i reperti più disparati, quali una fotografia di donna, quella di un atleta in corsa, un giornaletto per ragazzi, una riproduzione della Primavera di Botticelli, carte da parati, il tutto combinato insieme ai mezzi consueti della pittura gestuale, segni, cancellature, macchie, scolature. Il titolo invita l'osservatore a un atto di decifrazione, ma il senso dell'opera non è poi così enigmatico, in quanto l'autore vi mostra con sufficiente chiarezza la sua intenzione di offrire allo spettatore una sorta di racconto, fatto non di personaggi e di situazioni singolari, ma di personaggi e cose quotidiani. In Bed, dello stesso anno, Rauschenberg esibisce un vero copriletto su cui il colore è dato a macchie e sgocciolature, il tutto montato e appeso alla parete. In Coca-Cola plan, del 1958, l'artista inserisce tre bottiglie di Coca-Cola, presentando così uno dei simboli più tipici della nuova società di massa. Più tardi, a partire dal 1962, esegue dipinti serigrafati impiegando fotografie tratte in gran parte da giornali e riviste, che vengono ingrandite e trasferite su schermi di seta, variamente inchiostrati. Ancora una volta, l'artista si affida a un procedimento ‛combinato' in cui il reperto preso dal reale si accompagna a segni manuali che testimoniano in modo diretto l'autografia dell'autore. Nell'opera di Rauschenberg, dunque, la realtà conserva i suoi contorni precisi, la sua durezza, la sua autonomia. Come ha detto lo stesso autore nell'intervista già ricordata, queste tele in cui appaiono gli oggetti della vita quotidiana ‟hanno valore di realtà. A un dato momento la prospettiva fu un'attualità. Adesso sappiamo che è un'illusione. Nello stesso modo queste combinazioni sono, in questo momento, delle attualità".
Sul rapporto tra immagine e oggetto, tra illusione e realtà, concentra la propria indagine Jasper Johns: diversamente da Rauschenberg, che tenta di fare una cosa sola dell'esperienza artistica e dell'esperienza vitale con un sistematico sconfinamento dall'ambito disciplinare delle singole arti, Johns opera invece sotto il segno della concentrazione, con un atteggiamento più propriamente critico nei confronti della pittura e del problema che la pittura pone intorno alla relazione realtà-rappresentazione. Anche lui si serve delle immagini più comuni e popolari, scegliendole tra quelle che posseggono un significato fortemente istituzionalizzato (le bandiere, ad esempio) e che agiscono quindi soprattutto per il loro valore di simboli. Ma a questo punto interviene l'artista che si assume il compito di ricondurre queste immagini all'interno di un linguaggio fortemente codificato come è quello della pittura o della scultura.
In questo, anche Johns si rifà a Duchamp, recuperandone la lezione non tanto sul piano del prelievo oggettuale, quanto al livello degli interrogativi che il prelievo pone intorno al problema della rappresentazione: nel ready made, l'oggetto si autopresenta e in questo movimento non delega ad altri l'ufficio della propria definizione linguistica, se non all'atto della scelta da parte dell'artista. Johns muove da questo punto cruciale dell'indagine duchampiana intorno all'oggetto reale, ma sposta l'operazione tutta dentro il linguaggio dell'arte, nel senso che egli agisce contemporaneamente sull'immagine (intesa come rappresentazione) e sull'oggetto (inteso come termine di riferimento ‛reale') e, subito dopo, pur riconoscendo alla prima tutti i diritti di priorità nel costituirsi dell'oggetto in opera d'arte, lascia all'oggetto la propria riconoscibilità più immediata, persino banale, l'illusione, direi, di poter entrare nel dominio dell'arte (e del linguaggio) conservando intatta l'identità con cui viene riconosciuto dal senso comune. Per questa ragione i dati di realtà (la bandiera, il bersaglio, ecc.) vengono dipinti con la tecnica del trompe-l'oeil facendo apparire la cosa vera più vera del vero.
Nello stesso tempo, però, il processo operativo pone in evidenza un altro movimento, che dall'oggetto si dirige questa volta verso l'immagine, verso la pittura, di cui l'artista sottolinea sia il prestigio qualitativo sia lo statuto di finzione, operando così uno scollamento, di ordine critico, tra il procedimento in apparenza banale della rappresentazione pittorica e la riflessione critica, sottile fino alla sofisticazione intellettuale, su questo stesso procedimento. Per la stessa ragione in Painted bronze (Beer cans), del 1960, Johns non presenta due barattoli di birra presi dalla realtà, ma un calco fedele in bronzo degli oggetti (riproducendo al trompe-l'oeil l'etichetta): sicché il linguaggio (della scultura, in tal caso) diventa una sorta di pelle dell'oggetto, portando alle conseguenze estreme il margine di ambiguità tra realtà e illusione. Da questo punto di vista, la ‛bandiera' e il ‛bersaglio', e ancora di più i ‛barattoli di birra', dimostrano come già in una proposizione new dada la globalità del dato oggettuale possa collimare con l'esibizione degli elementi visivi che ne costituiscono la struttura. Per questa complessità, l'opera di Johns apre su più direzioni: per un verso, per il prelievo e l'analisi linguistica dell'immagine, conduce a Lichtenstein e a Warhol; per un altro, per la riduzione dell'immagine alla sua struttura visiva, tocca Stella e Indiana e giunge fino a Kelly; per un altro ancora, per il rapporto diretto con l'oggetto, apre direttamente su Dine.
La situazione new dada negli Stati Uniti si presenta peraltro molto più ricca di personalità, forse meno implicate nello sviluppo successivo della ricerca artistica così come si configura nella pop art, ma non per questo meno interessanti, a cominciare da J. Cornell e da L. Nevelson fino a B. Copley, H. C. Westermann, Stankiewicz, J. Chamberlain, Thiebaud. Una situazione che, secondo un'interpretazione critica più larga, include anche esperienze europee e in particolare i nouveaux réalistes francesi. L'angolazione del nostro discorso non ci consente di soffermarci particolarmente su queste personalità, alcune delle quali di primissimo rilievo, come Cornell e la Nevelson ad esempio. Basti accennare, in questa sede, al fatto che la rivista ‟Art news" del gennaio 1958 dedicava la copertina a un bersaglio di Johns del 1955 parlando già diffusamente di un'esperienza new dada. Come ha notato Boatto (v., 1967), in seguito new dada è entrato a far parte del vocabolario critico al di qua di questa ipoteca iniziale, sebbene poi il termine pop art mostri la tendenza ad assorbirlo, con non molta giustificazione, del resto, se non per il fatto che segna lo sviluppo di questa nuova arte d'America. Naturalmente, come ogni altra definizione, anche questa del new dada ha un valore puramente strumentale, valido in quanto serve a dar conto non tanto di una tendenza in senso stretto quanto di una situazione piuttosto diversificata che trova un denominatore comune nella convergenza sull'oggetto e nello sconfinamento tra arte e realtà quotidiana.
Da questo punto di vista, la situazione new dada può dar conto di un altro aspetto rilevante delle esperienze artistiche americane compiute a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, ossia la pratica degli happenings, anche questa condotta nello stesso ambiente newyorchese da parte degli stessi artisti che hanno contribuito a definire la poetica new dada prima e quella della pop art dopo, come Kaprow, Whitmann, Rauschenberg, Dine, Oldenburg, Meredith, Monk, Grooms.
Per la pratica degli happenings un punto decisivo di riferimento è dato dall'opera musicale di Cage, accanto alla gestualità dell'action-painting, soprattutto di Pollock. Il concerto-azione di Cage, in cui vengono combinati insieme pittura, danza, film, diapositive, radio, registrazioni, piano (Black Mountain College, 1951-1952) può essere considerato come un punto di avvio determinante non solo per gli happenings ma per la stessa combine-painting di Rauschenberg. Collaboravano al concerto M. Cunningham, Ch. Ulson, Rauschenberg, M. C. Richards, D. Tudor. Cage leggeva un testo con intervalli di silenzio dall'alto di una scala, Tudor suonava il piano, Rauschenberg caricava un grammofono, Cunningham e altri danzatori si muovevano attraverso lo spazio. Alcuni dipinti ‛bianco su bianco' di Rauschenberg erano sospesi al soffitto. Su ogni sedia era collocata una tazza vuota, che alla fine della pièce veniva riempita di caffè. L'operazione di Cage si presenta quindi già come una combinazione di diversi mezzi linguistici ed è appunto questa operazione contaminante, di sconfinamento di un'arte in un'altra, che è alla base degli happenings, ma anche delle esperienze pittoriche fondate sull'assunzione di oggetti e frammenti della realtà quotidiana.
La prima realizzazione di un happening è di Kaprow, che nell'ottobre del 1959 presenta alla Reuben Gallery 18 happenings in six parts. Vi partecipa lo stesso artista parlando e suonando uno strumento musicale. Con lui sono presenti R. Montague, L. Samaras, J. Weinberger, R. Whitman, S. Francis, R. Frooms, D. Higgins, L. Johnsori, A. Leslie, J. Milder, O. Segal, R. Thompson. Gli ‛attori si muovono, parlano, suonano strumenti musicali, giocano a dipingere sulla scena. I visitatori sono seduti su sedie messe a caso e diversamente orientate e sono invitati a non lasciare il posto durante gli intervalli. In precedenza, Kaprow aveva pubblicato su un numero della rivista letteraria ‟Anthologist" una sorta di copione dell'happening con l'intestazione ‟Qualcosa che deve succedere: un accadimento". Il copione, in cui appare forse per la prima volta il termine happening, non fu mai eseguito nella sua interezza, ma diede alcuni spunti a 18 happenings in six parts e ad altri lavori successivi.
Kaprow è anche il teorico dell'happening: in una dichiarazione traccia il percorso da lui compiuto per la messa a punto della nuova manifestazione artistica, ricordando la sua partenza nell'ambito dell'action-painting e l'importanza che per lui ha avuto in particolare l'opera di Pollock. Kaprow parla, significativamente, di un ‟atteggiamento pluridimensionale verso la pittura", di un action-collage, riferendosi appunto ai primi sconfinamenti dal quadro e dalla superficie bidimensionale nel tentativo di invadere lo spazio ambientale. ‟Il mio action-collage si estese e io vi introdussi luci intermittenti e pezzi giganteschi di materiali diversi. Le agglomerazioni si protendevano sempre di più dalla parete verso il centro dell'ambiente, ed erano sempre più ricche di elementi auditivi [...]. Alla fine contenevano quasi tutti gli elementi sensori su cui avrei lavorato negli anni seguenti" (v. Kirby, s.d.; tr. it., p. 70). Il momento successivo è l'invasione di tutta la galleria e la creazione di un environment in cui vengono introdotte e coinvolte le persone. ‟Mi accorsi immediatamente - scrive ancora Kaprow - che ogni visitatore dell'environment ne diventava parte (cosa che, per la verità, non avevo previsto) sicché affidai a coloro che entravano mansioni di poco conto, come muovere qualcosa, girare gli interruttori, ecc. Verso il 1957 e il 1958 questa necessità si fece più intensa e mi suggerì di attribuire una responsabilità sempre più ‛marcata' al visitatore, cui affidai incombenze sempre più numerose. Nacque così l'happening" (ibid., p. 71).
L'evento artistico sposta quindi l'operazione dall'oggetto (quadro, scultura) al comportamento, avvicinando l'esperienza dell'arte a quella del teatro, ma contribuendo anche a liberare quest'ultima da ogni impostazione di tipo tradizionale; l'evento, inoltre, compie anche un passo ulteriore, aprendosi a luoghi diversi da quelli tradizionalmente deputati all'arte, come soffitte, negozi, garages, aule scolastiche, palestre, ecc. e comprendendo anche la strada. L'happening, quindi, è essenzialmente una sequenza di eventi la cui trama è prevista in anticipo nelle linee generali in modo da lasciare un margine più o meno ampio all'intervento degli spettatori e a possibili variazioni interpretative da parte degli attori. Questi non sono generalmente attori professionisti, ma appartengono quasi tutti allo stesso ambiente di artisti, musicisti, poeti che in quegli anni avevano fatto di New York uno dei centri più significativi della cultura artistica mondiale. Secondo Kaprow, la presenza di attori di professione si rivelò inadatta alla messa in scena dell'happening, in quanto l'attore pretende di recitare e di ‟parlare il più possibile", troppo preso di sé e privo di naturalezza.
La semplicità, la naturalezza, la spontaneità, almeno apparente, sono qualità necessarie all'happening: ‟Quanto meno ‛artistici' erano gli happenings, tanto più naturali, facili da eseguire e poco ‛inibitori' sembravano agli esecutori", dichiara sempre Kaprow (ibid., p. 76), il quale enuncia infine i quattro punti fondamentali intorno a cui ruotano le sue realizzazioni e che rappresentano le caratteristiche più tipiche dell'happening: ‟Primo: la ‛quiddità' immediata di ogni azione, semplice o complessa, priva cioè di qualsiasi altro significato al di là della semplice immediatezza di quanto si verifica. Questo ‛essere dell'azione', fisica, sensibile, tangibile, è per me molto importante. Secondo: le azioni sono fantasie eseguite non esattamente sul modello della vita, anche se derivate da essa. Terzo: le azioni costituiscono una struttura organizzata di eventi. E quarto: il loro ‛significato' è leggibile in senso simbolico e allusivo" (ibid.).
Quest'ultimo aspetto dell'azione, che sembra contraddirne l'affermata immediatezza e la pura fisicità, ma che invece si fonda proprio su queste qualità di base, è particolarmente presente in The courtyard, un happening realizzato da Kaprow nel 1962 in un cortile del Greenwich Hotel di New York: in questa azione Kaprow impiega strutture simboliche, che egli stesso definisce ‟archetipiche", quali la montagna, intesa come ‟autoeruzione" ed ‟estrinsecazione di Madre Natura"; la figura della ragazza che entra in scena ascoltando la musica di un transistor e che sale sulla montagna finendo inghiottita dalla terra è insieme la dea della natura e Afrodite e Miss America. Questa investitura simbolica dell'azione e delle figure è tuttavia un aspetto non frequente negli happenings, soprattutto americani, mentre costituirà una componente importante delle performances realizzate a partire dal 1960 soprattutto dagli artisti europei.
Sul carattere programmato e insieme aleatorio dell'happening insiste anche Robert Whitman, le cui istruzioni per lo svolgimento dell'azione sono tuttavia molto meno minuziose e meno determinanti di quelle impiegate da Kaprow. Whitman non prepara un copione in senso stretto ma traccia, più per se stesso, una serie di appunti, schizzi, note, disegni, acquerelli, didascalie. Anche lui sottolinea il rapporto stretto tra azione e vita vissuta, ma nello stesso tempo riprende l'accenno di Kaprow sulla componente fantastica dell'happening, che deriva dalla vita, ma non aderisce completamente a essa. Il suo tema centrale è il tempo e i suoi happenings (The American moon, 1960; Mouth, 1961; Flower, 1963; Water, 1963; The night time sky, 1967; Cinema pièce, 1968) raggiungono un più alto grado di astrazione rispetto a quelli di Kaprow, di Dine e di Oldenburg. Più che gli oggetti e le persone fisiche, conta per Whitman la concretizzazione del tempo, inteso come un filo astratto che lega insieme il passato e il presente in una ‛storia'. Per lui ‟il tempo è qualcosa di concreto" e gli ‟piace usarlo allo stesso modo del colore, del gesso e di qualsiasi altro materiale". Il tempo sorregge la descrizione degli eventi, delle esperienze delle singole persone. Anche la fantasia ‟diventa un oggetto del mondo fisico e non si differenzia più da una strada o dalla pioggia. Diventa un prodotto di eventi fisici, una parte della natura che si può descrivere. La fantasia esiste come oggetto, come entità fisica e come parte della storia che è possibile raccontare su altri oggetti" (ibid., p. 179). Ciò che conta negli happenings di Whitman non è tanto la presenza fisica degli oggetti e delle persone, quanto il loro ‛flusso': in The American moon gli attori attraversano lo spazio in tutte le direzioni, visibili dalla vita in giù, sospesi lungo una rete di fili che occupa lo spazio dell'azione. Come dice lo stesso Whitman, gli attori ‟viaggiano a gran velocità e lo spazio è pieno di corpi ‛sparati' a destra e a sinistra" (ibid., p. 182).
Con le azioni di Jim Dine e Claes Oldenburg si registra uno spostamento sensibile rispetto alle posizioni di Kaprow e di Whitman: il rapporto con l'esistenza quotidiana è sempre al centro dell'azione, ma il senso di questo rapporto appare mutato, così come mutato è l'atteggiamento di fronte al reale dei pop artists (Dine, Segal, Oldenburg, Lichtenstein, Warhol, Rosenquist): più che di partecipazione e di adesione alla vita quotidiana, per questi artisti si deve parlare di un rapporto fondato sulla contraddizione, il reale essendo vissuto in termini di più marcata violenza e aggressività.
The car crash, l'azione realizzata da Dine nel novembre del 1960 alla Reuben Gallery, è la descrizione di un incidente d'auto (come Autobodys di Oldenburg): Dine costruisce una situazione allarmante mediante il gioco violento delle luci, portate dai protagonisti sul loro corpo, l'intensità crescente dei rumori del traffico registrati su nastro, i frammenti di parole pronunziati dagli attori, la ‛macchina per chiedere aiuto' azionata dallo stesso Dine, la presenza emblematica della ragazza con la faccia bianca, apparentemente alta due metri e mezzo (la ragazza è appollaiata su una scala resa invisibile da un'enorme tunica di mussola bianca), immobile per tutta la durata dell'azione. Aggressività e violenza sono già presenti nei lavori precedenti, The smiling workman, The vaudeville show, in cui Dine impiega registri linguistici diversi, attingendo anche al repertorio del circo (il trucco violento che trasforma il volto in una maschera tra il comico e il tragico) e pervenendo alla realizzazione di grotteschi scenici.
Oldenburg muove ancora da una presa diretta del reale nei suoi happenings (The store, 1961; The injun, 1962; World's fair II, 1962; Gayety, 1962; Autobodys, 1963; The home, 1964) ma, come nella sua opera plastica, punta sulla manipolazione e la deformazione degli oggetti quotidiani, macchine da scrivere, tavoli da ping-pong, articoli di vestiario, mobili, coni gelati, hamburgers, dolci, ecc. Nelle azioni di Oldenburg assume un ruolo determinante una componente immaginaria che contribuisce a creare delle situazioni in cui accadimenti realistici e accadimenti fantastici sono strettamente mescolati tra loro.
Sia negli happenings di Dine che in quelli di Oldenburg, il coinvolgimento del pubblico e la componente aleatoria, pur essendo ancora presenti, non hanno lo stesso peso che assumono nelle opere di Kaprow e di Whitman. Dine, del resto, rifiuta la stessa definizione di happening, dichiarando che ‟la parola è di Kaprow, e non ha nessuna relazione con il mio lavoro", mentre Oldenburg, parlando dei suoi lavori, dice che ‟il termine happening, con la sua ambiguità, provocherebbe un'attesa assai lontana dall'effetto voluto, che non è di spontaneità, né d'improvvisazione" (ibid., p. 257). In sostanza gli happenings di Dine e di Oldenburg si presentano come pièces sorrette da una struttura fortemente organizzata, tendono all'opera in qualche modo conclusa e anticipano pertanto quella che sarà la struttura di base dell'‛arte di comportamento' a partire dalla seconda metà degli anni sessanta.
Verso la fine degli anni cinquanta si registra quindi in America un vasto e articolato movimento che si sviluppa in due direzioni principali: una linea di esperienza tende all'abbandono della pratica dell'arte intesa come produzione di oggetti a favore di una pratica intesa come produzione di eventi effimeri e di comportamenti. Significativo appare, da questo punto di vista, L'omaggio a New York che lo scultore francese Tinguély (uno dei protagonisti del nouveau réalisme) presenta nel 1960 al Museum of Modern Art: si tratta di un puro evento durante il quale l'opera d'arte (una grande scultura) si costruisce da sé e va incontro alla propria autodistruzione. L'happening, come del resto l'intero arco delle esperienze condotte dal gruppo Fluxus, è in definitiva una forma di teatralizzazione del quotidiano e, pur configurandosi in modi diversi, presenta non pochi punti di contatto con le nuove forme teatrali, in particolare con le prime realizzazioni del Living theatre, in cui si manifesta la stessa esigenza di stringere più da vicino i rapporti tra teatro e vita quotidiana. L'altra linea di esperienze non porta all'abbandono dell'opera e, pur affacciandosi con spregiudicatezza sul panorama urbano e sugli aspetti più correnti e popolari dell'esistenza quotidiana, tende a chiuderli dentro i confini di una nuova rappresentazione. È la linea che dalla situazione new dada si sviluppa nella poetica pop. Gli stessi happenings di Dine e di Oldenburg, come si è visto, si presentano con caratteri già diversi per il peso minore che in essi assumono il coinvolgimento del pubblico e la componente aleatoria.
In Dine, il prelievo d'oggetto assume immediatamente una connotazione radicalmente diversa dall'impiego dei frammenti reali compiuto da Rauschenberg, nel senso che l'artista non pone il problema del superamento del diaframma tradizionale tra arte e vita. Su questo punto Dine, in un'intervista rilasciata a G. R. Swenson, è molto esplicito: ‟L'affermazione circa il superamento della frattura tra arte e vita sembra una bella metafora o immagine, se così vogliamo chiamarla, ma io non ci credo. Tutti se ne servono ora, ma io la ritengo fuorviante [...]. Significherebbe sostenere che la vita e l'arte - questi due poli opposti - siano la stessa cosa. Io faccio arte, altri fanno altre cose. C'è l'arte e c'è la vita. Io penso che la vita arrivi all'arte, ma se si usa un oggetto e la gente dice che l'oggetto è lì per colmare il distacco, questa è follia. L'oggetto è lì per fare arte, allo stesso modo del colore" (v. Swenson, 1963, p. 62). Certo, apparentemente, Dine propone un uso dell'oggetto tendente a una spersonalizzazione massima, lo presenta in e per se stesso, con un'operazione che a volte si presenta con i caratteri di un reportage cronachistico. In Double red bathroom, del 1962, si serve della tela tinteggiata con una tecnica simile alla scialbatura come di una parete su cui sono inseriti gli oggetti propri di una stanza del genere, dallo specchio agli asciugamani, dal bicchiere con gli spazzolini alla carta igienica. In altri casi, come nell'opera The shovel, dello stesso anno, o in Two black and white ties, del 1961, gli oggetti sono presentati isolatamente come in un campionario o in un dizionario fatto di immagini e non di termini verbali. In altri casi, come in Shoe, l'immagine della scarpa dipinta con fedeltà realistica è accompagnata dal termine verbale che la designa. Da questo punto di vista Dine si ricollega direttamente a Johns e, per il tramite di questi, pone una serie di problemi di ordine specificamente linguistico che avevano interessato Duchamp e Magritte. Il ready made pone già un problema linguistico: l'oggetto si autopresenta e autonomina e in questo movimento non delega ad altri l'ufficio della propria designazione (non alla pittura, non alla scultura, non alla fotografia e nemmeno alla denotazione verbale), ma assume in proprio tale compito. Su questa via, lo abbiamo visto, Johns riprende la questione, ma riconducendola tutta dentro il linguaggio della pittura o della scultura. Dine sembra rifarsi direttamente a Duchamp in quanto preleva direttamente l'oggetto (almeno nelle opere iniziali) ma, diversamente da Duchamp che nello Scolabottiglie tende al massimo della denotazione, egli designa l'oggetto-pala connotandolo con una serie di predicati che ne specificano l'uso e ne fissano maggiormente il significato. In altri casi, presentando un martello o una sega o un'accetta, inserisce l'oggetto in un contesto che ne indica la funzione, quasi che la nominazione dell'oggetto possa avvantaggiarsi attraverso la definizione del suo uso pratico.
Anche questo era già stato proposto da Duchamp nel momento in cui aveva firmato dei sigari e li aveva distribuiti agli spettatori per una vera partita di fumo. Tranne uno, quello che aveva riservato per sé, dimostrando ancora una volta che lo statuto dell'arte è altra cosa dallo statuto della vita.
Anche nell'opera di Roy Lichtenstein l'universo quotidiano è sottoposto a un procedimento sorretto da una fortissima intenzione formalizzante. L'artista si rivolge ai mezzi di comunicazione di massa e in particolare alle ‛storie' dei fumetti e, più in generale, ai prodotti dell'industria culturale, ma crea uno stacco marcato tra il messaggio di questi prodotti, che rimane quello lowbrow, e le immagini che vengono rese, invece, con una definizione asciutta, ironicamente aristocratica della forma. In un certo senso, si può dire che Lichtenstein non si interessa tanto dell'immagine e del suo messaggio quanto dei modi di produzione e quindi delle strutture visive che sorreggono le immagini stesse e veicolano l'informazione: egli cioè conduce una serrata analisi critica dei procedimenti formativi posti in opera dai produttori di comics e si chiede se non sia possibile ‛rifarli' in modi diversi, in modi, cioè, esteticamente qualificati, ma lasciando apparentemente intatto il risultato finale (l'immagine) in maniera da servirsi di esso per inviare un messaggio, questa volta di natura precisamente estetica. Lichtenstein, in sostanza, si serve del medium tecnologico non per pedissequa mimesi e nemmeno per feticismo nei confronti del mondo moderno ma, al contrario, per contrabbandare entro i confini del Kitsch un prodotto proibito e quindi pressoché sconosciuto, ossia lo stile alto della grande tradizione pittorica moderna.
Si comprende perciò come un quadro di Lichtenstein, che si presenta in superficie come una mera riproduzione dei comics, finisca in realtà con il riassumere in sé, nel suo contesto circoscritto, una vera e propria ‛storia' delle correnti visive contemporanee. Di qui il largo impiego della ‛citazione' (le riprese testuali da Cézanne, Mondrian, Léger e altri, ma, per quanto riguarda più specificamente il segno, anche da Seurat e da Gauguin, da van de Velde e dall'art nouveau). In altri termini, l'artista si serve di un materiale eterogeneo costituito dai segni istituzionalizzati nel corso stesso della tradizione pittorica moderna (la linea ondulata come linea-forza, il contorno sintetico ed espressivo, la divisione dello spazio pittorico in zone larghe e unite, l'impiego del colore a tinte piatte, l'impostazione rigorosamente bidimensionale della superficie, ecc.) proprio perché vuole inserire un particolare contenuto semantico del segno - il significato alto della tradizione moderna - nel contesto semantico dei comics e della pubblicità. Lichtenstein accetta, quindi, come un dato non recusabile il nuovo rapporto individuo-ambiente imposto dall'odierna realtà urbana sulla base di una pura relazione percettiva, ma scopre nello stesso tempo che l'occhio opera attivamente ed è in grado, come un gesto, di afferrare il reale nelle sue strutture significanti. L'occhio opera secondo un processo globale e tende a stabilire equilibri percettivi (l'equilibrio migliore possibile in un determinato contesto) sulla base di un'intensa attività selettiva. Lichtenstein parla perciò di percezione organizzata a proposito dei propri procedimenti formativi (diamo il passo nell'originale): ‟The work is ground-directed; the fact that it's an eyebrow or an almost direct copy of something ir unimportant. The ground-directedness ir in the painter's mind and not immediately apparent in the painting. Pop art makes the statement that ground-directedness is not a quality that the painting has because of what it looks like. This tension between apparent object-directed products and actual ground-directed processes is an important strength of pop art" (v. Swenson, 1963, p. 62).
Anche Andy Warhol rivolge la propria attenzione alle immagini più tipiche della cultura di massa, da quelle pubblicitarie a quelle delle più famose dive cinematografiche divulgate dai giornali e dalle riviste fino alle notizie di cronaca e alle icone che le accompagnano. Intorno al 1960 analizza i caratteri dei fumetti e ne ricava dei dipinti ingranditi, con una tecnica che mima quella dei modelli. Dal 1962 abbandona la manualità pittorica a favore di procedimenti meccanici, in genere la serigrafia trasferita su tela, con cui rappresenta una serie di personalità assai note come Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Jacqueline Kennedy, Elvis Presley e, accanto a queste, le immagini pubblicitarie più diffuse, tra cui la Campbell's Soup, o i reportages cronachistici di incidenti stradali. Nel 1963 allestisce una mostra a Parigi intitolata Death in America in cui presenta immagini della sedia elettrica, di incidenti stradali e di suicidi. Si affida sempre più spesso alla ripetizione in serie delle immagini con il duplice intento di eliminare ogni sospetto di enfatizzazione del modello e di esprimere la serialità che caratterizza non solo la produzione di oggetti ma anche il tipo di informazione della moderna società di massa. In ogni caso, il suo sguardo è freddo e distaccato, apparentemente del tutto privo di giudizio, se non fosse per un senso di forte pessimismo che traspare dalle sue immagini, da questa vera e propria galleria di ritratti di personaggi, cose ed eventi della vita quotidiana di una grande metropoli moderna. Warhol, comunque, tende sempre a destituire di particolari significati le proprie opere, a conferire al proprio lavoro l'aspetto il più banale e corrente possibile, giocando a costruire un personaggio il cui cinismo e la cui indifferenza rappresentano, alla fine, ancora una metafora di una determinata condizione esistenziale. A un intervistatore che gli chiedeva perché dipingesse i barattoli della Campbell's Soup, egli risponde con la sua tipica pratica della riduzione: ‟Perché mangiavo quella minestra. Ne ho mangiato ogni giorno, per una ventina di anni, suppongo; sempre la stessa cosa" (ibid. , p. 26).
La ripetizione, l'impersonalità fino all'anonimato, l'uniformità dei pensieri e dei gesti costituiscono i punti di riferimento del lavoro di Warhol. La stessa operazione artistica, tradizionalmente ritenuta un esempio tipico (il più tipico, forse) di un lavoro individuale, viene considerata dall'artista come un'operazione che deve tendere all'anonimato: ‟Penso che qualcun altro dovrebbe essere capace di fare i quadri che faccio io. Non sono riuscito a rendere tutte le immagini chiare, semplici ed eguali alla prima. Penso che sarebbe fantastico se più persone si servissero del silkscreen così che nessuno potesse riconoscere il quadro mio da un altro" (ibid.).
Un carattere più marcatamente espressivo presenta l'opera di Claes Oldenburg. Più che uno scultore in senso proprio, Oldenburg è un creatore di oggetti a tre dimensioni, che o riproducono fedelmente, fino al trompe-l'oeil, le cose reali o sono rappresentati dagli stessi oggetti, prelevati dalla realtà. Si tratta, in genere, di cibi o di prodotti commerciali imitati fedelmente o deformati mediante una tecnica di ingigantimento e ridipinti con colori sgargianti che intensificano i colori sgargianti e pacchiani dell'universo pubblicitario. In altri casi, si tratta di oggetti di uso comune, di un telefono, ad esempio, o di una macchina per scrivere: ma se si stacca il ricevitore o si toccano il carrello e i tasti della macchina si affonda con la mano in una massa molle e invischiante. I materiali adoperati per costruire questa galleria di oggetti sono i più diversi, dalla ceramica coloratissima alla tela imbottita di gommapiuma, dal legno e la lacca al vinile, al kapok e alla stoffa. Nel 1962 realizza Floorburger (Giant hamburger), una scultura morbida lunga non meno di due metri e spessa più di un metro, costruita con tela imbottita di gommapiuma e cartone. Del 1963 sono le sculture morbide in vinile (Soft play-telephone e Soft typewriter), mentre nel 1964, in Bedroom ensemble, realizza una camera di motel in legno, formica e vinile con distorsioni prospettiche che spiazzano le attese visive dello spettatore.
Lo spiazzamento è del resto una tecnica alla quale Oldenburg ricorre assai spesso sia mediante l'ingigantimento degli oggetti sia attraverso la modificazione della loro consistenza abituale. Di qui quell'aspetto onirico che assume il suo repertorio di oggetti che può essere anche interpretato come una ricostruzione dell'universo familiare secondo il dettato del desiderio, un mondo che ha tutta l'apparenza di quello reale, ma che invece si presenta con i connotati di un environment sognato a occhi aperti, un universo ricreato da un fanciullo, morbido e soffice come un seno materno, o affollato e ingombrante come una stanza dei giochi.
In una realtà tridimensionale ci conduce anche George Segal con i suoi manichini in gesso che riproducono personaggi anonimi nell'atto di compiere i loro gesti più quotidiani e banali: una coppia distesa su un letto, un gruppo di uomini intorno a un tavolo, un uomo in piedi in una vasca da bagno mentre si lava, un uomo su una bicicletta, una vecchia signora seduta in una poltrona di vimini o al tavolo di un bar. I manichini in gesso si accompagnano quindi, il più delle volte, a oggetti reali, in modo da presentarsi in un contesto ambientale il più possibile fedele alla realtà quotidiana. L'anonimato perseguito da Warhol riguarda la tecnica dell'esecuzione, che realizza una sorta di pareggiamento dei soggetti rappresentati, anche famosi come una diva cinematografica o un eroe rivoluzionario o un capo di Stato; in Segal l'anonimo viene trasferito invece su personaggi comuni, uomini e donne, colti nell'atto di compiere gesti abituali, privi di qualsiasi significatività emergente. Ma la messa in scena dei personaggi e la loro ambientazione rivelano un sapiente lavoro di regia che punta al taglio inaspettato, a una sorta di istantaneità che sembra avere più di un legame con il taglio e l'istantaneità della fotografia. Boatto ha giustamente insistito su questa consonanza di procedimenti osservando che ‟la dimensione anonima di Segal si frantuma in una serie di ritagliate sezioni; profitta dei modi di ricezione a scatti che sono propri dell'occhio ammaestrato dell'uomo moderno, agisce nel senso non già di un'esperienza regolare e piena ma traumatica. Il processo fotografico comune alla pop art prende qui consistenza plastica, tridimensionale e si contamina con un tipo di teatralità cinematografica" (v. Boatto, 1967, pp. 140-141).
James Rosenquist sposta il discorso ancora sulle due dimensioni della pittura proponendo una sorta di inventario dei momenti più tipici del panorama urbano così come è configurato dai mezzi di comunicazione di massa e, in primo luogo, dall'informazione pubblicitaria. La sua formazione di disegnatore di cartelloni viene sfruttata nella messa a punto delle opere d'arte in senso proprio realizzate soprattutto a partire dal 1960: Rosenquist fa un largo uso, infatti, delle tecniche di ingrandimento e di isolamento di particolari che ritroviamo nell'immagine pubblicitaria insieme a un impiego di colori squillanti, forti e aggressivi. Anche nella sua opera si avverte un influsso del taglio fotografico che isola un dettaglio e lo presenta in sostituzione dell'insieme. Spesso il particolare acquista una consistenza fisica assai marcata richiamando l'attenzione dell'osservatore su elementi non immediatamente identificabili e quindi invitandolo a un atto di decifrazione mentale. Di fronte allo spettacolo visivo della città moderna Rosenquist assume un atteggiamento di sostanziale adesione, nel senso che egli accetta lo scontro con questa realtà, è disposto a riceverne l'impatto violento e a tradurlo in immagini in cui il dato reale subisce però un forte processo di formalizzazione: l'immagine cartellonistica è indagata nella sua struttura, nella sua autonomia linguistica, ed è questa autonomia che Rosenquist tende a realizzare anche nella sua opera. Come ha dichiarato lui stesso, egli si serve dell'immagine cartellonistica ‟così com'è, distaccata dalla natura". Nello stesso tempo si dichiara affascinato dall'iconosfera urbana: ‟Io sono meravigliato, eccitato e affascinato da come le cose vengono scagliate contro di noi, il modo con cui questo schermo invisibile a difesa della nostra mente e dei nostri sensi è aggredito dalla radio, dalla televisione, dai mezzi di comunicazione visiva, attraverso cose più grandi della vita; le cose arrivano a colpirci con tale velocità e con tale forza che la pittura e l'atteggiamento verso la pittura e quello che si comunica attraverso un quadro mi sembrano del tutto sorpassati" (v. Swenson, 1964, p. 63).
Questo impatto violento e prevaricante della realtà visiva è reso dall'artista nel dipinto murale F 111 del 1965. Un'opera costituita da una serie di pannelli lunga 28 metri e alta 3, rappresentante l'immagine frammentata di un jet attraverso una serie di particolari eterogenei, quali un dolce con la lista delle sue sostanze nutrienti, un pneumatico, un groviglio di spaghetti, una bambina sotto un casco di parrucchiere, una nube a fungo coperta da un ombrello, un sub d'alto mare, con il casco che ripete la sagoma a cono dell'aereo. Un'opera gigantesca, ambiziosa e sconcertante, che rivela l'intenzione sostanzialmente epica che sorregge la ricognizione del reale proposta da Rosenquist.
Tom Wesselman si rivolge prevalentemente a soggetti tradizionali, ossia il nudo e la natura morta. Ma questi temi sono visti e resi attraverso il filtro delle immagini pubblicitarie, che tendono al gigantismo delle forme e a una resa cromatica a piatto, forte e aggressiva. Mel Ramos concentra la propria attenzione ancora sulla figura femminile mettendone in risalto le componenti erotiche ampiamente sfruttate dalla pubblicità, in una sorta di celebrazione del sesso. Nell'opera di Robert Indiana si registra invece un assottigliamento semantico dell'immagine a favore dei suoi elementi costitutivi. La scelta dell'artista è già in partenza riduttiva rispetto all'esuberanza iconica di altri artisti pop: i suoi marchi di fabbrica, gli stemmi, i numeri, campiti dentro larghe zone di colore, presentano l'essenzialità schematica e l'eleganza decorativa di un emblema araldico, segnando un punto di convergenza con certi risultati hard-edge conseguiti negli stessi anni in un altro ambito di ricerca, come quello ad esempio di Stella e di Noland.
Il denominatore comune a tutti questi artisti è una stessa fondamentale esigenza di realismo, di prendere coscienza della nuova condizione antropologica determinata dallo sviluppo industriale e dai mezzi di comunicazione di massa. Ma si tratta di un realismo consapevole della convenzionalità del linguaggio artistico, del filtro che i nuovi strumenti tecnici di rappresentazione pongono tra noi e i dati della realtà. Di qui l'enfasi che questi artisti pongono sui mezzi linguistici, sull'autonomia relativa della superficie piana della pittura che impone le sue regole e le sue convenzioni. È per questa ragione che questi artisti insistono esplicitamente sull'ineliminabile finzione che sussiste anche quando, nell'ambito della scultura, l'oggetto reale è reso con la tecnica apparentemente fedele del calco. Del resto, la realtà rappresentata dagli artisti pop è già un dato che ha subito un filtro convenzionale, quello messo a punto dai tecnici della pubblicità e dai produttori dell'informazione di massa. Per questa ragione, il realismo pop è un realismo alla seconda potenza, operante a un livello che si può già considerare metalinguistico. È Lichtenstein che chiarisce in maniera estremamente esplicita questo aspetto fondamentale della pop art statunitense. All'obiezione di alcuni critici secondo cui la pop art non trasforma i suoi modelli (obiezione riportata da Swenson nella sua intervista a Lichtenstein già ricordata), l'artista risponde che ‟trasformazione è una strana parola. Implica che l'arte trasforma. Non è vero, dà forma. Gli artisti non hanno mai lavorato col modello - solo con il quadro".
5. La situazione europea
L'esigenza di inventare nuovi strumenti espressivi in grado di stabilire un più diretto rapporto con la realtà ambientale è al fondamento anche delle esperienze condotte in Francia intorno al 1960 da un gruppo di artisti, assai diversi l'uno dall'altro, ma tutti sorretti dalla necessità di superare la pittura informale e più in generale la pittura da cavalletto. Il prelievo d'oggetto è il loro denominatore comune, il procedimento con il quale essi intendono spingersi al di là della pittura, in particolare della pittura informale, e cogliere il reale con una nuova immediatezza. Il termine nouveaux réalistes, con cui sono conosciuti, fu inventato dal critico P. Restany proprio per sottolineare questa fame di realtà che caratterizzava l'opera di artisti come Klein, Arman, César, Hains, Villeglé, Tinguély. Nel primo manifesto del gruppo, scritto dallo stesso Restany e diffuso a Milano il 16 aprile del 1960, si denuncia l'esaurimento e la sclerosi di tutti i vocabolari stabiliti, di tutti i linguaggi e di tutti gli stili. A questa carenza dei mezzi tradizionali alcuni artisti cercano di reagire in Europa e in America proponendo i fondamenti di una nuova espressività, ossia ‟l'appassionante avventura del reale percepito in se stesso e non attraverso il prisma della trascrizione concettuale o immaginaria". Dopo aver affermato che questi artisti - Klein e Tinguély, Hains e Arman, Dufrêne e Villeglé - si orientano verso ‟un nuovo realismo della pura sensibilità", il manifesto si chiude con un'esplicita dichiarazione realistica: ‟Eccoci fino al collo nel bagno dell'espressività diretta e a quaranta gradi sopra lo zero dada, senza complessi di aggressività, senza volontà polemica, senza nessun altro prurito di giustificazione che il nostro realismo".
Questi artisti si riconobbero solidali a seguito di una serie di avvenimenti, a cominciare dalla mostra allestita nel 1958 da Yves Klein nella galleria Iris Clert sul tema del vuoto (Le vide): i visitatori erano accolti nella galleria completamente vuota, mentre l'artista dipingeva di bianco le pareti dell'ambiente. Il bianco sostituiva il blu (il colore con cui l'artista aveva dipinto una serie di tele monocrome), il vuoto il pieno, l'assenza la presenza. Ma il polo positivo, quello del prelievo, era posto fuori della galleria in quanto fasci di luce blu illuminavano, la sera della vernice, l'obelisco di place de la Concorde. Nel 1959 Jean Tinguély presenta Les métamatics, ossia una serie di macchine per dipingere, e nello stesso anno Hains espone alla prima Biennale di Parigi i suoi manifesti strappati. L'anno seguente Arman risponde al vuoto di Klein allestendo da Iris Clert una mostra con il titolo Le plein e César presenta per la prima volta le sue Compressioni, cioè le sue macchine schiacciate. È da questi fatti che Restany trasse una conseguenza di ordine critico facendo da raccordo tra i diversi artisti e teorizzando la poetica del ‛nuovo realismo'. Del resto, egli aveva stretto amicizia con Klein già da alcuni anni e ne aveva seguito il percorso fin dai primi Monochromes del 1956-1957.
La presenza di Klein nel gruppo dei nuovi realisti francesi ha soprattutto una funzione di apertura e di stimolo in quanto l'orientamento dell'artista appare subito diverso, maggiormente diretto verso esperienze di tipo comportamentale. Natura di predicatore e di filosofo, praticante di lotta giapponese di livello internazionale, Klein aveva frequentato le lezioni di Bachelard alla Sorbona sui temi dell'immaginario e del simbolismo junghiano e aveva studiato la tradizione ermetica e alchemica, oltre che l'esoterismo dei Rosacroce. Klein ha fatto della sua breve vita (l'artista è morto nel 1962) un evento unitario, un luogo di concentrazione meditativa e di espansione vitale. Come gli antichi alchimisti, impiega la materia come luogo di proiezione psichica, sicché le sue trasformazioni implicano un mutamento dell'io: l'acqua, la terra, il fuoco, l'aria sono gli elementi primari che Klein impiega in una serie di opere e di progetti che vanno dai Fuochi (1960-1962) ai progetti di sculture aeromagnetiche (1960), di Architetture d'aria e di Fontane d'acqua e di fuoco (1959). Lo stesso colore, reso mediante stesure monocrome (soprattutto il blu) assume significati simbolici, diventa un luogo di meditazione cosmica. Anche il corpo umano rientra tra i materiali di Klein: a esso l'artista lascia il compito di dipingere direttamente, trasformando i corpi delle modelle in ‛pennelli umani' nelle sue Anthropométries (1959-1960).
Più direttamente interessato al prelievo d'oggetto appare invece Arman fin dalla fase dei timbri e degli stampi del 1958: un procedimento consistente nello stampigliare il foglio con diversi stampi e timbri impregnati di inchiostri multicolori. Tra il 1959 e il 1960 l'artista mette a punto le sue allures d'objects, ossia tracce di svariati oggetti (ciottoli, utensili, collane, correggie, gusci d'uova, aghi, ecc.) su tela o su carta bianca, su cui vengono premuti dopo un'inchiostratura. Nello stesso periodo l'artista realizza le Poubelles, rappresentate da accumulazioni di rifiuti in contenitori di vetro o di plexiglas. Nel 1960 allestisce la mostra sul Pieno in cui l'accumulazione di oggetti assume un aspetto monumentale. In seguito gli oggetti vengono tagliati, frantumati, bruciati o imprigionati nel poliestere trasparente colato in forme. In ogni caso, Arman si affida alle tecniche dell'assemblaggio sotto forma di accumulazione di oggetti che si presentano in aspetti molto diversi dalla combine-painting di Rauschenberg, nel senso che nell'artista francese il fattore quantitativo gioca un ruolo molto più determinante. Come ha scritto Restany, ‟il suo fine è cogliere un aspetto della realtà in tutta la sua pienezza espressiva ed è soltanto per sottolineare l'espressività di un oggetto che ricorre spesso ai procedimenti antitetici dell'accumulazione (accumulations) e della frantumazione (colères)" (v. Restany, 1963).
Cèsar propone invece un'analogia tra arte e panorama urbano attraverso le sue automobili compresse (al Salon de Mai del 1960 ne presenta tre compresse in parallelepipedi del peso di una tonnellata). I materiali sono selezionati dall'artista, che dirige anche la sistemazione dei pezzi nel pressamacchine in modo da realizzare un equilibrio tra il progetto e la casualità del risultato. In César rivive ancora una volta la poetica del relitto, dell'accumulazione di rifiuti che la società dei consumi deposita ai margini delle città: l'artista preleva questi relitti, la ferraglia delle automobili abbandonate, e li rimette in circolazione adottando anche nel procedimento (la compressione) un processo ‛reale', il procedimento cioè proprio di una fase del recupero e del riciclaggio industriale dei materiali. Sculture metalliche e congegni meccanici sono anche le opere di Tinguély, ma si tratta ora di congegni in movimento, che si sostituiscono grottescamente all'artista e dipingono (Métamatics) o compiono una serie di movimenti imprevisti, con cigolii e rumori che hanno un peso preciso nella configurazione del senso dell'opera. Un senso che capovolge quello rigorosamente funzionale ed economico della macchina per attestarsi sul piano del grottesco e del fantastico.
Anche Martial Raysse punta sull'accumulazione: al festival del nouveau réalisme di Nizza del 1961 realizza il suo Pieno nella sala di una galleria, ma diversamente da Arman il ‛pieno' è tutto nelle vetrine, quasi una messa in scena di una facciata pubblicitaria. Nel 1962 in una mostra collettiva allo Stedelijk Museum di Amsterdam presenta la Raysse beach, una piscina assemblage, con boe e fotografie di bagnanti in grandezza naturale, il tutto dominato da una grande insegna al neon. Ancora sull'accumulazione e sull'assemblaggio si fonda l'opera di Daniel Spoerri, ma con un più marcato accento sulla casualità della presentazione degli oggetti. Il manifesto pubblicitario, come emblema del panorama urbano, è il termine di riferimento delle operazioni condotte da Raymond Hains, Jacques de la Villeglé, François Dufrêne e dall'italiano Rotella, che opera a Roma ma è considerato uno dei rappresentanti piu tipici e anche più significativi del nouveau réalisme. Rotella e Hains presentano per lo più ‛manifesti strappati' realizzati con una tecnica di décollage che scopre le stratificazioni dei manifesti, facendo emergere dal fondo immagini, parole, colori, quasi a far rivivere ciò che è stato cancellato o coperto. Dufrêne si interessa generalmente al retro dei manifesti, alla parte che aderisce al supporto, mentre Villeglé predilige l'aspetto tipografico delle affiches insieme alle grandi macchie di colore. Niki de Saint-Phalle realizza grandi fantocci a mo' di sculture totemiche con intenti chiaramente grotteschi, mentre Christo dà inizio ai suoi ‛impacchettamenti', che lo renderanno poi famoso, scegliendo oggetti di non grandi dimensioni e ricostruendo con essi fantasmatici ambienti familiari.
Il prelievo d'oggetto rappresenta, quindi, l'aspetto più rilevante della poetica novorealistica teorizzata da Restany e come tale il nouveau réalisme può essere in qualche misura accostato alla situazione new dada americana e nell'ambito del new dada esso viene generalmente considerato quando si dia al termine un' accezione piuttosto larga e diramata. Per questa stessa ragione il nouveau réalisme, nonostante abbia (come il new dada statunitense, del resto) qualche punto di contatto con la pop art, se ne differenzia in maniera piuttosto netta proprio per la forte presenza oggettuale che lo contrassegna.
In Europa, le declinazioni più tipiche della pop art si registrano in Inghilterra, dove il fenomeno popular, come si è visto, era stato oggetto di analisi attente nell'ambito dell'Indipendent group e in particolare da parte di Paolozzi e Hamilton. Il confronto e lo scontro tra la tradizione culturale inglese e i dati della nuova cultura di massa (un confronto che aveva particolarmente interessato i membri dell'Indipendent group) sono al fondamento della pop art inglese, le cui declinazioni appaiono piuttosto lontane dalla freddezza e dall'oggettività degli americani e più aperte agli apporti di umori personali, in cui dominano accenti ora ironici ora grotteschi ora dichiaratamente critici.
Peter Blake muove appunto dalla cultura popular posta in circolazione dall'IO proponendo un recupero di immagini e oggetti di vecchi ambienti familiari e presentandoli frontalmente come icone votive. Nell'opera On the balcon (1955-1957) esibisce una serie di ritratti, vecchie fotografie, copertine di riviste illustrate sullo sfondo di un ambiente dipinto con una ripida prospettiva angolare che rafforza il ribaltamento della composizione sulla superficie. In Tattoed lady (1958), una figura femminile è vista ancora una volta frontalmente ed è costruita con un tratto semplice, stilizzato come in una silhouette; sul busto è attaccata in apparente disordine, come in una teca, una fittissima collezione di immagini prese da giornali, riviste e libri. La citazione, la memoria, una sorta di collezionismo ossessivo caratterizzano gli esordi di Blake, che più tardi rivolge la propria attenzione alle immagini di pop stars, pin ups e divi della musica o dello sport. Ma anche in questo caso, l'ottica con cui egli guarda a questi eroi moderni conserva un accento consapevolmente popolare, quasi che l'artista si metta nei panni dello stesso pubblico ingenuo che ha decretato la facile e caduca fama di quei personaggi.
Come Rauschenberg, anche Blake realizza una serie di combine-paintings servendosi però non della tela, ma di materiali solidi, come tavole suddivise in comparti o strisce di legno. Talvolta impiega porte o muri. In ogni caso egli non abbandona mai il suo tipico accento apparentemente naïf e una tecnica del collage che rifà con scaltrita sofisticazione manuale il bricolage infantile o l'accumulazione degli ex voto. Come ha scritto E. Lucie-Smith, nelle sue opere ‟l'elemento nostalgico è ancora più marcato che in quelle di Hamilton, tanto che Blake potrebbe sembrare un artista vittoriano dell'epoca contemporanea. Quando Blake usa una tecnica caratteristica del XX secolo, come il collage, riesce immediatamente a ricordarci che in realtà esso fu portato a un livello di notevole elaborazione dai dilettanti dell'epoca vittoriana che incollavano pezzi di carta sui paraventi" (E. Lucie-Smith, Arte oggi. Dall'espressionismo astratto all'iperrealismo, Milano 1976, p. 251).
Un posto a parte nella pop inglese occupa R. B. Kitay, le cui fonti non sono rappresentate tanto dalla cultura popular, indagata e posta in circolazione dall'IG, quanto da alcune correnti artistiche continentali, quali l'espressionismo tedesco e il colorismo acceso dei fauves, oltre che l'improvvisa epifania delle immagini surrealiste. Le fonti tematiche appartengono alla letteratura e agli eventi politici più che alla cultura popolare e sono recuperate attraverso un'analisi simbolica con cui l'artista si era familiarizzato attraverso lo studio delle ricerche di A. Warburg, di Saxl e di Panofsky. Le intenzioni critico-ideologiche sono chiaramente espresse, così come risulta evidente la presa di posizione nei confronti di una condizione sociale considerata repressiva e alienante. E anche in questo l'ascendenza espressionista appare piuttosto chiara, nel giudizio critico cioè che Kitay dà della condizione urbana, come avevano fatto agli inizi del secolo Kirchner e i pittori della Brücke e, negli anni venti, Grosz e Dix. The murder of Rosa Luxemburg, una pittura-collage del 1960, è un esempio della posizione di Kitay nell'ambito della pop inglese, così come un evidente contenuto ideologico è espresso in Kennst du das Land?, del 1962, in cui il famoso verso goethiano è il pretesto per un'aperta denuncia della guerra: le figure umane si accampano su fondi sbilenchi e precari, resi con prospettive angolari e con una molteplicità di punti di fuga che si scontrano violentemente e conferiscono dinamismo e drammaticità all'insieme; i personaggi sono costruiti con campiture nitide e aggressive di colore, appaiono deformati, sottoposti a un processo di degradazione grottesca, ancora una volta di derivazione espressionista, mutuata dalla lezione di Bacon.
Anche la posizione di David Hockney appare alquanto defilata rispetto alle declinazioni più tipicamente pop. Fin dall'inizio l'artista mostra un interesse fortissimo per il disegno, recuperato al livello della grafia infantile per il tramite, probabilmente, dell'opera di Dubuffet e in parte di Twombly. La definizione delle figure punta sulla sproporzione e si serve di questa per creare una sorta di gerarchia simbolica tra i personaggi del racconto: tipiche in proposito opere come Man in museum, del 1962, Picture emphasizing stillness, dello stesso anno, e Play within a play, del 1965. Anche la resa dello spazio ambientale tralascia sia le indicazioni prospettiche tradizionali sia il ribaltamento sulla superficie proprio della tradizione moderna per rifarsi ancora una volta alla logica del disegno infantile. Dal 1964 Hockney si dedica a un tema ricorrente quale la rappresentazione di ambienti californiani, assumendo la piscina come un luogo simbolico di quella condizione sociologica: questa serie di opere segna un notevole mutamento stilistico, soprattutto per un più franco impiego del colore, dato a stesure pure e fredde, e per la resa illusionistica, a metà tra la pittura naive e la tecnica del trompe-l'òeil. Si tratta, nel complesso, di una pittura apparentemente ingenua, popolare, infantile, e invece sorretta da un'intelligenza raffinata e da una sottile vena di ironia profondamente radicata nella cultura inglese e in particolare debitrice (si pensi alla serie Rake's progress, del 1961-1963, direttamente ispirata a Hogarth) all'humor sociologico sette e ottocentesco. Questo interesse per situazioni ‛umane', osservate all'interno di un determinato contesto sociale, è del resto chiaramente confessato dallo stesso artista in una dichiarazione di poetica del 1975 che si chiude con una citazione da una poesia di Auden: ‟Per me il tema dell'arte è nel gioco umano / È nel paesaggio, ma come sfondo a un busto. / Farei a meno delle mele di Cézanne, I Per un piccolo Goya, o per un Daumier" (v. Arte inglese..., 1976, p. 98).
Joe Tilson si rivolge in maniera più esplicita ai temi della società di massa dopo una fase iniziale in cui si avverte una marcata influenza continentale, soprattutto delle costruzioni di Schwitters e dei ‛legni' di Burri. Tilson compie un lungo viaggio in Europa e soggiorna soprattutto a Roma dove viene a contatto non solo con le opere degli artisti (tra cui appunto Burri) ma anche con un paesaggio urbano, ricco di memoria storica e di monumenti, molto diverso dall'iconosfera propria di altre città moderne. L'artista realizza in questa fase una serie di rilievi in legno con un procedimento che tenta di stabilire un certo equilibrio tra la casualità del prelievo dei materiali e la sintassi della costruzione (i Wood reliefs tra il 1958 e il 1961). Successivamente i ‛rilievi' assumono dei modelli iconici più precisi - come ad esempio nel Wood relief n. 21. Bocca, del 1961, - in cui l'artista si è chiaramente ispirato alla romana Bocca della verità. Tra il 1962 e il 1963 realizza la serie degli Obelischi e subito dopo i rilievi in cui più esplicitamente viene recuperata l'imagerie popular. In ogni caso, anche quando attingerà più tardi a temi della tradizione ermetica ed esoterica, Tilson rivela un gusto marcato per il gioco e una divertita capacità di manipolazione artigianale che lo conducono a ridurre il contenuto iconico dell'immagine a cifra araldica sconvolgendone i consueti nessi sintattici e riorganizzandone i frammenti in una nuova struttura non più garantita dalla sua destinazione pratica.
Nell'opera di Richard Smith è ancora il colore ad assumere un ruolo centrale, saldando lo splendore timbrico della grande tradizione pittorica moderna con il colore gaio, anonimo e freddo dell'odierno universo tecnologico. Ma si tratta di un colore impiegato in sintonia con la struttura: l'uno e l'altra diventano protagonisti di un processo che da un'analisi delle componenti delle immagini pubblicitarie mette capo a un'opera-oggetto. L'artista definisce infatti il proprio lavoro mediante immagini ingrandite di oggetti (un orologio, un pacchetto di sigarette, contenitori) trattate con uno stile abbreviato, sintetico, fondamentalmente astratto e con un uso del colore squillante, clamoroso come nella pubblicità. Nel 1962 affronta il tema della ‛scatola', del contenitore variopinto, e lo esalta portandolo a dimensioni giganti in tele che muovono dalla bidimensionalità della superficie per conquistare una terza dimensione, non solo quella illusionistica della tradizione diretta dentro il quadro, ma quella ‛reale' che sporge dentro lo spazio ambientale. Lungo questo processo si assiste quindi al passaggio da una rappresentazione schematica dell'oggetto, che sfonda illusionisticamente la superficie, a una struttura oggettuale che occupa materialmente lo spazio. Per questa marcata componente strutturale e oggettuale l'opera di Smith rivela più di un punto di contatto con le correnti pittoriche non oggettive e in particolare con artisti come Robyn Denny e Jeremy Moon che, a loro volta, puntano su un impiego violento e aggressivo del colore.
Del resto Smith aveva partecipato alle prime mostre della nuova astrazione inglese tenute a Londra nel 1960 e nel 1961 con il titolo Situation. Per questa ragione egli si presenta come uno degli esponenti più significativi di un momento culturale e di una ricerca artistica caratterizzata dalla convergenza su una linea di oggettualità strutturale e percettiva di esperienze di origini diverse, e in particolare della post-painterly abstraction americana (la linea di F. Stella e di E. Kelly) e della ricognizione iconografica propria della pop art. Del resto, il tirocinio americano ha avuto un rilevante significato per Smith (negli anni 1961-1962 egli soggiorna negli Stati Uniti), come riconosce lo stesso artista non senza una punta polemica nei confronti dei suoi connazionali: ‟Aver lavorato a New York mi ha posto a una certa distanza dagli altri pittori inglesi. Non potevo più legare con artisti che non c'erano mai stati, salvo che come amici. Possedevo un diverso ordine di riferimenti" (ibid., p. 182). Non a caso, d'altra parte, il critico D. Sylvester, in un intervento del 1964, aveva incluso l'opera di Smith nell'area pop. Lo stesso Denny, uno dei maggiori rappresentanti della pittura inglese non oggettiva, appare orientato in tal senso, almeno in una fase iniziale. In occasione di una mostra del 1959, in cui Smith, Denny e Rumney esponevano una serie di opere standard, R. Coleman osservava che per questi artisti ‟l'identificazione con l'ambiente dei mass media costituisce una significativa scelta estetica."
Una convergenza, questa, tra astrazione pittorica e pop art, che trova riscontro anche in altre situazioni europee. Nell'ambito delle esperienze tedesche questa convergenza si registra in occasione di una mostra tenuta a Bochum nel 1971, con il titolo Markierungen-71, con opere di Peter Brlining, Bernd Damke, Winfred Gaul, Horst Lerche, Helmut Sundaussen. Soprattutto Brüning e Gaul si situano all'incontro tra ricerca strutturale e ricognizione urbana (della segnaletica stradale, in particolare), realizzando una serie di opere a forma di segnali che puntano sulla forza dell'impatto cromatico e sulla riduzione dell'iconismo a una grafia segnica pura. Nell'ambito delle esperienze italiane, questa situazione può essere esemplificata con le opere di Rodolfo Aricò verso la metà degli anni sessanta: in essa la molteplicità e l'accidentalità del reale viene ricondotta e ordinata entro un ristretto repertorio di schemi riassuntivi e di figure geometriche. Tuttavia la semplificazione purista e la rigidità di questi schemi e figure ritrovano, in un colore ambiguamente diviso tra freddezza artificiale e fluidità sensoriale, un preciso aggancio mondano.
Più direttamente coinvolto con le immagini veicolate dai mezzi di comunicazione di massa appare il lavoro di Allen Jones, che mostra inoltre il proprio debito nei confronti dell'impostazione critica propria delle origini inglesi della pop art. Nella sua opera infatti l'elemento popular è mediato da una marcata componente analitico-formale in quanto l'artista è interessato anzitutto alla rappresentazione del movimento più che alla presentazione delle immagini in e per se stesse. È probabile che Jones abbia guardato con interesse agli studi sul movimento condotti da Duchamp nel famoso Nudo che discende le scale ma anche ai futuristi e in particolare alle analisi compiute da Balla con l'individuazione di un particolare per sottolineare con più forza il dinamismo delle figure. Jones fa un largo uso di questo modo di rappresentazione (un particolare per il tutto) soprattutto nei suoi dipinti a soggetto erotico, dove l'enfasi portata su un dettaglio (un particolare del corpo femminile) vuol essere un'indicazione e una sollecitazione per lo sguardo dello spettatore. In ogni caso, il procedimento operativo è sempre sorretto da un intento analitico, di ordine strutturale. Lo dichiara lo stesso artista in maniera esplicita: ‛I soggetti dei miei quadri nascono spesso dai problemi formali che mi occupano nel momento in cui dipingo. Ad esempio, cercando di accordare il movimento implicito di una tela a sagoma irregolare con il movimento cinetico dei colori dipinti su di essa, ho prodotto temi come gli Autobus, i Paracadute, gli Aeroplani e le Medaglie. In ciascun caso il soggetto del quadro e l'oggetto, che naturalmente era la stessa tela sagomata, sono stati uniti e combinati in una cosa sola" (ibid., p. 122). I temi erotici e la forza persuasiva del sesso, largamente impiegati dai mezzi di comunicazione di massa, diventano il soggetto dominante di Jones dopo il soggiorno americano del 1964-1965: in queste opere l'artista si concentra sempre sulla rappresentazione del movimento, ma insiste maggiormente sul momento iconico servendosi di sezioni del corpo femminile per ricomporre un insieme dotato di una presa forte e aggressiva sullo spettatore.
Jones punta esplicitamente sulla risposta emotiva del pubblico, che egli cerca di colpire cogliendolo, per così dire, di sorpresa, con un impiego delle tecniche dello spiazzamento riconducibili, questa volta, ai surrealisti e a Magritte in particolare. Ma l'erotismo di Jones non si colora di umori moralistici: al contrario, l'epifania erotica dei mass media è vista come una nuova possibilità di comunicazione intersoggettiva sottratta alle discriminazioni elitarie. Come scrive lo stesso artista, ‟l'erotismo trascende le barriere cerebrali e richiede una reazione emotiva. Messa a confronto con una dichiarazione astratta, la gente si rivolge a un esperto; ma di fronte a una dichiarazione erotica tutti sono esperti. Mi sembra un'idea democratica che l'arte debba essere accessibile a tutti a un certo livello, e l'erotismo è quel livello" (ibid.).
Riferimenti a oggetti di serie, congegni meccanici per lo più, a figure di donna, al lettering dei flippers abbondano nell'opera di Peter Phillips che, secondo il giudizio di Lucie-Smith, rappresenta il più riuscito tentativo di avvicinarsi alle icone pop americane da parte di un inglese. Ma le immagini, contrariamente a quanto si verifica nella pop statunitense, non si accampano isolate e frontali, bensì appaiono inserite in strutture intricate, ricche di incastri e snodi, che conferiscono un forte dinamismo e un accento di soffocante drammaticità all'insieme.
Certamente più vicino a certe declinazioni pop americane, e in particolare a quelle di Lichtenstein, si presenta Patrick Caufield: le sue opere sono impostate infatti su schemi grafici descrittivi fissi, desunti dai comics, dalla grafica pubblicitaria e anche da esempi artistici che risalgono fino allo art nouveau. Il colore è dato a piatto, con stesure unite, fortemente staccate nei punti di intersezione. Il risultato è una forte bidimensionalità, accresciuta da una resa dello spazio mediante prospettive multiple, contraddittorie, che creano una forte ambiguità visiva e che sbarrano il percorso verso la profondità. Il soggetto è in qualche misura indifferente, quasi un pretesto per un sofisticato gioco linguistico che contamina stili diversi. Come ha scritto Finch, ‟questi dipinti non sono altro che ritratti schematici di linguaggi" con i quali l'artista intende far scattare nella mente dell'osservatore un processo di interpretazione e di riconoscimento (v. Finch, 1968 p. 28).
Sempre in ambito europeo, la situazione francese appare piuttosto ricca di personalità, in parte maturate sui fondamenti del nouveau réalisme, in particolare sulla base di scambi con l'ambito culturale inglese e americano. Alain Jacquet adopera il procedimento serigrafico facendo passare l'immagine attraverso una successione di trasformazioni che la rendono sempre più astratta mettendo in evidenza il processo operativo. Nel rifacimento del Déjeuner sur l'herbe di Manet, 1964, l'artista muove da una fotografia di un gruppo di persone presso una piscina e dall'ingrandimento della fotografia stessa fino a quando i punti della grana non oscurano l'immagine. Procede poi al trasferimento serigrafico in grandi formati con i dettagli ulteriormente ingranditi che mettono in evidenza la struttura pointilliste della superficie. Vicino alla pop americana, soprattutto a Lichtenstein, appare Hervé Télémaque che si affida a larghe campiture di colore squillante e festoso e a una definizione marcatamente bidimensionale della rappresentazione.
Altre presenze europee da registrare sono quelle dello spagnolo Juan Genovés, con le sue scene di folla in movimento ottenute mediante modelli fotografici e l'uso di un colore monocromo a spruzzo; del tedesco Peter Klasen con montaggi di frammenti di figure umane e pezzi meccanici; di Oyvind Fahlström, nato in Brasile, ma di origine svedese, che ha compiuto lunghi soggiorni a Roma e Parigi prima di stabilirsi a New York. L'artista si rivolge a immagini tipicamente pop, quali le illustrazioni di riviste, di libri, di fumetti, ma le inserisce in strutture in cui, almeno in un primo momento, assume notevole rilievo l'intervento dello spettatore che può spostare i personaggi del racconto come i pezzi di una scacchiera. Questo aspetto del suo lavoro è stato chiarito dallo stesso artista, il quale insiste sempre sul fattore ludico dell'opera: ‟Una struttura di gioco non significa nè l'unilateralità del realismo, nè il formalismo dell'arte astratta, nè le simboliche relazioni delle immagini surrealiste, nè l'equilibrata non relazione nelle opere neodadaiste [. . .] la sistemazione viene fuori da una combinazione dei ruoli (il fattore possibilità) e le mie intenzioni e viene esibita in una ‛linea di partenza' o ‛scenario' (sotto forma di un disegno, fotografie, o piccoli dipinti). Gli elementi isolati in tal modo non sono quadri, ma macchinano per fare quadri. Immagine-organica" (cfr. Game of character, in ‟Art and literature", 1964, n. 3, p. 225).
Nelle declinazioni italiane della pop art, o quanto meno nella maggior parte di esse, è possibile scorgere una sorta di distanziamento dell'occhio dell'artista dai dati forniti dalla scena urbana: è come se tra il soggetto e l'oggetto della rappresentazione si inserisse una lente attraverso la quale il dato di realtà perde la carica aggressiva e la violenza ottica che esso possiede e conserva o addirittura esalta nelle opere pop americane. Questa lente è costituita, in definitiva, dalla nostra tradizione culturale, in cui agisce ancora con forza l'eredità della pittura metafisica, e, in qualche misura, dallo stesso paesaggio urbano, così stratificato nella storia, così ricco di memoria culturale, così coltivato rispetto alla primitività moderna dell'iconosfera urbana delle grandi metropoli americane.
Tipica, da questo punto di vista, è l'opera di Mario Schifano degli anni 1961-1962, rappresentata da una serie di particolari ingranditi di annunci pubblicitari, come quello della scritta della Coca-Cola o il marchio della Esso. In queste opere Schifano impiega una tecnica pittorica densa e compatta, ricca di stratificazioni culturali, tale da ridurre l'impatto delle icone pubblicitarie a favore di valori più propriamente pittorici. Anche quando si dedica, subito dopo, alla rappresentazione del movimento con espliciti richiami alla tradizione futurista (e ai futuristi firmatari del primo manifesto della pittura egli dedica una serie di ‛ritratti' di gruppo servendosi di una famosa immagine fotografica) o quando dipinge i ‛paesaggi italiani', ciò che conta in prima istanza nella sua opera è ancora e soprattutto la pittura.
Richiami alla tradizione metafisica appaiono invece nell'opera di Tano Festa, sia nella costruzione di oggetti, come specchi e armadi, sia nell'adozione di icone pittoriche attinte alla tradizione alta della pittura, dai van Eyck a Michelangiolo fino a Ingres. All'iconografia colta ricorre talvolta anche Cesare Tacchi che trasferisce le immagini su supporti di gommapiuma con risultati volutamente ironici ed estranianti.
Una matrice dichiaratamente metafisica, volta a un gioco linguistico sofisticatamente ironico, si riscontra nell'opera di Lucio Del Pezzo, soprattutto nella costruzione in legno di nature morte, in cui si individuano vere e proprie citazioni dall'universo iconografico di De Chirico. La presenza metafisica, particolarmente forte nell'area romana, si avverte anche nelle silhouettes in legno di Mario Ceroli che riconducono alcuni temi della cultura popular nell'ambito di una formulazione fabulatoria, sospesa e contemplativa. Giosetta Fioroni rielabora l'iconografia urbana con un procedimento di duplicazione che mima la tecnica fotografica; Renato Mambor ricompita, con l'uso ironico della scala gigante, l'immagine dei rebus o degli abecedari; a questi ultimi si rivolge in particolare Aldo Mondino con un intento ironicamente didascalico; Franco Angeli mostra un'intenzione più marcatamente ideologica, sia che riprenda i simboli della romanità (Natale di Roma, 1964), sia che esibisca il simbolo della potenza economica americana (Half dollar). Jannis Kounellis, di origine greca ma italiano di adozione, si rivolge alle unità di base della comunicazione - segnali, lettere, numeri - e le articola in vista della rifondazione di un alfabeto più personale e segreto. Mimmo Rotella, che abbiamo già segnalato nell'ambito del nouveau réalisme, contribuisce a una definizione della imagerie pop con i suoi décollages, in cui affiorano le immagini di dive cinematografiche o gli annunci pubblicitari di spettacoli o prodotti commerciali.
Più vicino a declinazioni straniere della pop art, in particolare alla pop inglese (si pensi soprattutto a Caufield), appare Valerio Adami per quanto riguarda la tecnica fondata su campiture piatte di colore delimitate da contorni netti. Anche i temi di Adami sono attinti ai fumetti e sottoposti a una ristrutturazione linguistica ricca di riferimenti colti, dalla scomposizione cubista fino a certe distorsioni prospettiche surrealiste. Un accento pure marcatamente surrealistico assumono le opere di Concetto Pozzati che si serve magrittianamente della rappresentazione per sottolineare l'ambiguità tra vero e falso, tra realtà e finzione. Sul tema della rappresentazione spinta fino al trompe-l'oeil punta esplicitamente Michelangelo Pistoletto con le sue superfici specchianti su cui si accampano le silhouettes di personaggi della vita quotidiana, colti nei gesti più semplici e correnti. Lo stesso può dirsi di Piero Gilardi, il quale però tende con più ostinato puntiglio a una rappresentazione più vera realizzata mediante la ricostruzione con materie plastiche di pezzi di natura resi con fedeltà illusionistica. Solo tangenzialmente rientrano in una poetica pop artisti come Enrico Baj, con i suoi mobili ricostruiti, i suoi generali grotteschi e i ‛mostri' metallici, o come Piero Manzoni, un artista che ha dominato la scena italiana degli anni sessanta, nonostante la sua precoce scomparsa, grazie a una ricerca articolata in varie direzioni, dal prelievo di oggetto alle prime esperienze comportamentali.
In un ambito più strettamente pop rientrano invece non pochi artisti, e tra questi Luca Patella, Baruchello, e ancora Schifano e Rotella, che allargano il campo dell'intervento appropriandosi di mezzi extrapittorici - riporto fotografico, diapositive, cinema - operando un pareggiamento tra strumento linguistico e immagine, entrambi attinti all'area tecnologica.
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