Popolazione
di Graziella Caselli
Popolazione
sommario: 1. Introduzione. 2. Il recente sviluppo della popolazione mondiale. 3. Il declino demografico dei paesi ricchi. a) L'incremento della popolazione. b) La fecondità. c) Mortalità e sopravvivenza. d) Tanti anziani, prevalentemente donne. 4. L'esplosione demografica del Terzo Mondo. a) Le grandi differenze geografiche. b) Gli effetti dell'AIDS. c) Una fecondità troppo elevata. d) L'invecchiamento nel Sud del mondo. e) Globalizzazione, migrazioni e urbanizzazione. 5. Aumenta l'incertezza. ▭ Bibliografia.
1. Introduzione
Gli sviluppi più recenti della popolazione nelle diverse aree del pianeta si inquadrano nel contesto più generale delle trasformazioni sociali, economiche e politiche in atto. La capacità di reagire alle conseguenze dei rapidi cambiamenti sociali e culturali, delle grandi innovazioni tecnologiche, dell'affermazione sempre più spinta dell'economia di mercato, dei processi di globalizzazione e dell'indebolimento dello Stato sociale è generalmente molto diversa da un'area geografica all'altra e da gruppo a gruppo, anche all'interno di uno stesso paese. Fattori discriminanti sono la cultura, i mezzi di accesso alle nuove tecnologie e, ovviamente, le potenzialità economiche. Quasi sempre i più forti traggono vantaggio a scapito dei più deboli. Di conseguenza, anche sul piano demografico, aumentano le distanze tra chi occupa le posizioni di testa e chi occupa quelle di coda, ed emerge con forte evidenza il divario tra le regioni del Nord e quelle del Sud del mondo, in cui solo i paesi più dinamici, che hanno sperimentato per primi una favorevole evoluzione demografica, sono in grado di competere con quelli del Nord, mentre gli altri, privi di risorse e ancora alla prese con le conseguenze di una crescita demografica troppo rapida, sprofondano nella crisi (v. Coussy e Vallin, 1996).
Le attuali tendenze demografiche dei paesi ricchi potrebbero diventare una nuova fonte di preoccupazione. La teoria secondo cui alla conclusione del grande movimento storico della transizione demografica, segnato dal passaggio dagli alti livelli di fecondità e di mortalità ai bassi livelli raggiunti tra le due guerre mondiali, sarebbe seguita una situazione di equilibrio, in cui la crescita sarebbe stata quasi nulla e le strutture costanti, sembra essere largamente contraddetta dai fatti (v. Landry, 1934; v. Chesnais, 1986; v. Vallin, 2001 e 2004). Lungi dall'essere stabile, la composizione per età della popolazione, nelle tre grandi componenti in cui si articola il ciclo di vita individuale - infanzia, età adulta e vecchiaia - appare oggi più instabile che mai. Secondo lo schema classico del periodo post-transizione, il processo di invecchiamento si sarebbe dovuto attuare senza creare sconvolgimenti nella struttura per età della popolazione, richiedendo solo aggiustamenti marginali dei sistemi sociali realizzati nel corso di un secolo. Oggi, invece, il crollo dei livelli di fecondità e la forte diminuzione della mortalità degli anziani generano una struttura per età assai distante dall'equilibrio atteso.
Questa preoccupazione per l'avvenire demografico dei paesi sviluppati potrebbe sembrare senza importanza rispetto all'ampiezza dei problemi, di natura diametralmente opposta, che ancora oggi gravano su molti paesi poveri. È assai probabile che nel volgere di qualche decennio, con la mondializzazione dei processi demografici, lo squilibrio nella struttura per età divenga il problema più importante dell'intero pianeta, ma nel frattempo non si può sottovalutare che, ancora per un po' di tempo, una frazione importante della popolazione mondiale si troverà a dover far fronte ai problemi derivanti da una rapida crescita demografica.
La fine della transizione demografica, confermata da tutte le proiezioni effettuate dalle Nazioni Unite negli ultimi vent'anni, reca, ovviamente, un grande sollievo se si considera il grande clamore sollevato alla fine degli anni cinquanta dalle previsioni elaborate dalle stesse Nazioni Unite per il 2000 e dalle estrapolazioni più o meno stravaganti proposte da vari studiosi, per imprudenza o con lo scopo di diffondere il panico (v. Vallin e Caselli, 2004).
Erano illegittime le preoccupazioni di chi, in passato, esagerava la gravità della situazione per stigmatizzare l'irresponsabile incremento demografico nei paesi del Sud o per favorire l'avvio di politiche di controllo delle nascite; oggi, la fine annunciata della transizione demografica è la prova della vacuità di alcuni timori del passato, mentre molti problemi cruciali sono ancora in attesa di una soluzione.
Già all'inizio degli anni ottanta i risultati di una simulazione effettuata dalle Nazioni Unite sulla base della teoria della transizione, che prospettavano una stabilizzazione generale dell'insieme della popolazione mondiale, risultavano del tutto inattendibili, non tanto perché non erano state previste né l'apparizione dell'AIDS in Africa né la crisi sanitaria dei paesi dell'Est europeo, quanto perché tutto sembrava indicare che la fine della transizione demografica non si sarebbe manifestata nei modi previsti (v. Caselli e altri, 2001).
Il fenomeno del baby boom, verificatosi nel secondo dopoguerra, poteva essere un segno premonitore di una fine della transizione diversa da quella delineata in base allo schema tradizionale, ma fu interpretato come un'eccezione nell'ambito di un processo ineluttabile. Difatti, dopo la diminuzione della mortalità e della fecondità e il conseguente aumento impetuoso della popolazione, dovuto allo sfasamento fra i due fenomeni, e dopo lo sconvolgimento delle strutture per età che ne è seguito, era stata prevista un'era di stabilità, in cui la speranza di vita si sarebbe inevitabilmente arrestata alla soglia degli 85 anni, mentre la fecondità si sarebbe necessariamente stabilizzata attorno ai due figli per donna.
Il processo di transizione, invece, sta seguendo un andamento diverso e le recenti tendenze della dinamica delle popolazioni indicano che per l'avvenire nulla può essere dato per scontato.
Nei capitoli successivi saranno illustrate le caratteristiche più recenti dell'evoluzione dei processi demografici in atto nelle due grandi aree geografiche che comprendono i paesi ricchi e i paesi poveri. L'analisi fornirà gli elementi per comprendere meglio in che modo le recenti dinamiche stiano modificando il quadro demografico delineato appena dieci anni fa e consentirà di avanzare alcune ipotesi sul futuro della popolazione del pianeta.
2. Il recente sviluppo della popolazione mondiale
Gli ultimi dati presentati dalla Population Division delle Nazioni Unite (v. UN-Population Division, contributi del 2001) sulla recente evoluzione della popolazione del pianeta sono ben diversi dalle stime fornite nel 1991 (v. UN-Population Division, 1991), secondo le quali nel 2000 avrebbero dovuto esserci circa 200 milioni di individui in più rispetto a quelli effettivamente registrati, di cui 70 milioni nei paesi sviluppati (1 miliardo e 264 milioni, anziché 1 miliardo e 191 milioni) e il resto nei paesi in via di sviluppo (5 miliardi, anziché 4 miliardi e 865 milioni). Contrariamente alle attese, c'è stato, infatti, un rallentamento dei tassi di crescita della popolazione dei paesi ricchi e di alcuni tra i più importanti paesi in via di sviluppo (PVS) che oggi fanno parte dell'ampia area geografica dei paesi cosiddetti emergenti. Tra questi si possono ricordare i paesi dell'Est asiatico e quelli dell'America Latina. Dalla fig. 1 si può rilevare quanto il fenomeno sia recente, ma anche che nei paesi ricchi l'entità della crescita della popolazione è ben diversa da quella dei paesi poveri: i tassi medi annui di incremento naturale sono passati da 0,5 a 0,3% nei paesi ricchi, e dal 2,1 all'1,6% nei paesi emergenti (v. tab. I).
Il rallentamento dei tassi di crescita costituisce la prova concreta che i timori e gli allarmismi degli anni ottanta e dei primi anni novanta erano infondati. Le ragioni del nuovo andamento vanno ricercate principalmente nella diminuzione della natalità, seguita al declino dei livelli di fecondità, che nessuna stima aveva previsto di proporzioni tanto rilevanti. In venti anni, il numero dei figli per donna è passato da circa 4 a 2,8 per il mondo intero, scendendo da 1,9 a 1,6 nei paesi sviluppati, da 6,4 a 5,5 nei paesi più poveri del mondo e da 4,4 a 2,8 negli altri paesi in via di sviluppo (v. tab. I). L'importanza di questo dato può essere valutata appieno considerando che la riduzione più forte registrata nei cosiddetti paesi emergenti ha interessato una popolazione di 2 miliardi di individui. In questi paesi, inoltre, gli effetti del declino della fecondità sarebbero stati ben più importanti se non fossero stati controbilanciati da quelli di segno opposto dovuti alla diminuzione della mortalità infantile, il cui tasso in 20 anni è diminuito di più di 3 punti percentuali, passando dal 91 al 56‰ (v. Tabutin, 1995).
Fecondità, mortalità e struttura per età della popolazione concorrono a determinare la dinamica delle popolazioni. Come si è ricordato, queste tre componenti hanno andamenti diversi a seconda dei contesti geografici e solo un'analisi che tenga conto delle singole realtà può aiutare a comprendere meglio l'entità del nuovo corso e l'influsso che questo può avere sulla futura evoluzione della popolazione del pianeta. Un'evoluzione che, anche da un punto di vista politico ed economico, non mancherà di mettere in discussione i nuovi equilibri mondiali.
3. Il declino demografico dei paesi ricchi.
a) L'incremento della popolazione
Un tasso di crescita totale dello 0,4% annuo (v. tab. II), a fronte di un incremento naturale dello 0,3% (v. fig. 1), indica che la popolazione dei paesi ricchi cresce anche grazie all'apporto dell'immigrazione dai paesi in via di sviluppo. Seppure contenuta, la crescita naturale della popolazione nel Nord del mondo riesce per ora a mantenere costante il numero dei suoi abitanti. Diversa è, invece, la situazione quando si indaga all'interno di quest'area. La fig. 1, fornendo l'immagine di cinquanta anni di evoluzione dei tassi di natalità e di mortalità, consente di avere una visione complessiva del fenomeno di crescita e di apprezzarne le caratteristiche recenti. Si può osservare che, nell'ultimo decennio, mentre il Nordamerica, l'Australia e la Nuova Zelanda mantengono tassi di incremento naturale superiori all'1% annuo, l'Europa, con un tasso negativo, è ormai entrata in una fase di declino demografico. Tra i paesi europei, quelli dell'Est sembrano essere i principali responsabili del fenomeno, ma anche quelli del Sud, l'Italia in primo luogo, pur mantenendosi in prossimità di una crescita pari a zero, sembrano avviati a seguire la stessa sorte (v. fig. 1, valori previsti al 2010).
b) La fecondità
Per i prossimi anni, dunque, le sorti degli abitanti di un ampio numero di paesi ricchi appaiono ormai segnate. Questo perché molti paesi che ancora oggi mantengono tassi d'incremento naturale lievemente positivi presentano già da tempo tassi di fecondità totali inferiori alla soglia, detta anche di sostituzione, dei due figli per donna (v. tab. III), e quindi sono prossimi al passaggio verso un andamento negativo. Circa due figli per donna rappresentano la quota che consente a ogni donna di riprodurre se stessa e il proprio partner e, quindi, di mantenere invariata la popolazione sostituendo due uscite con due ingressi. In effetti, ogni volta che si fa riferimento al numero medio di figli per donna si fa implicitamente riferimento anche a una generazione di donne, mentre i tassi di fecondità totale che si riportano nelle tabelle sono calcolati su anni di calendario e si riferiscono quindi a 35 generazioni diverse. Non è perciò del tutto corretto il valore predittivo - o di sostituzione - a loro attribuito, anche se in presenza di livelli di fecondità totale molto bassi - o molto alti - l'interpretazione è coerente con le aspettative. Se i tassi di fecondità totale si manterranno per molti anni al di sotto della soglia di sostituzione (v. tab. III) e il numero di donne in età feconda continuerà a diminuire per l'ingresso delle generazioni nate negli anni del declino della fecondità, anche il totale dei nati subirà una forte diminuzione, fino a divenire numericamente inferiore al numero dei decessi. Il nostro paese, che per lungo tempo è riuscito a mantenere l'equilibrio tra nascite e morti in ragione dell'elevato numero di donne in età feconda, si trova ora in una fase in cui solo l'apporto positivo delle immigrazioni può impedire il declino della sua popolazione. Nei paesi dell'Est europeo, per contro, all'effetto negativo dei tassi di fecondità, da tempo assai al di sotto della soglia di sostituzione, si aggiunge quello dovuto alle emigrazioni, così che la perdita numerica nell'ultimo decennio ha superato i 7 milioni di individui.
Diversa è la situazione nel Nordamerica, dove i tassi di fecondità totale si mantengono uguali a due figli per donna, per cui la popolazione può ancora contare su una crescita naturale superiore all'1% annuo. Se a questo incremento si aggiunge quello migratorio positivo, la crescita può continuare indisturbata a ritmi dell'1,1-1,2% annuo. Ciò consente ai paesi interessati non solo di crescere, ma anche, come si vedrà in seguito, di contenere il processo di invecchiamento che invece incombe sui paesi europei, ponendoli in una posizione demografica sfavorevole rispetto al Nuovo Continente. Si salvano dal declino demografico l'Australia e la Nuova Zelanda, mentre non vi sfugge il Giappone, che con tassi di fecondità uguali a 1,4-1,5, nell'ultimo decennio si è avviato verso una crescita uguale a zero.
c) Mortalità e sopravvivenza
La situazione del Giappone induce a spostare l'attenzione dalla fecondità alla mortalità. Come si può vedere dalla fig. 1, la curva della mortalità nel periodo più recente sale. Ciò è ancor più evidente per i paesi europei, dove, tra l'altro, il suo andamento contrasta nettamente con la diminuzione indicata dalla curva di natalità. Questo fenomeno non è il risultato di un aumento dei rischi di morte della popolazione - che, al contrario, diminuiscono in tutte le età della vita - bensì del rapido incremento della popolazione nelle età anziane (in cui il rischio di morte è elevato) che, combinandosi con il crescente numero degli anziani, produce tassi di mortalità sempre più alti. In effetti, se si fa riferimento alla speranza di vita alla nascita (v. fig. 2), che della mortalità totale è l'immagine speculare, si vede che nell'ultimo decennio tale speranza continua ad aumentare, nonostante i già alti livelli raggiunti negli anni ottanta. A fronte di una sopravvivenza media nel totale dei paesi sviluppati di poco superiore ai 71 anni per gli uomini e di quasi 79 per le donne, il Giappone può vantare il primato di sopravvivenza per entrambi i sessi con valori rispettivamente di 77 e 84 anni (v. tab. IV), valori ormai prossimi al superamento di quella soglia che negli anni ottanta veniva indicata come limite massimo della sopravvivenza umana. In effetti già nel 2001, ancor prima della data indicata nelle previsioni delle Nazioni Unite, le donne giapponesi hanno raggiunto gli 85 anni di sopravvivenza media.
Lo scarso ottimismo sull'evoluzione della sopravvivenza umana era stato suggerito tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta dal particolare andamento assunto dai valori della speranza di vita in quasi tutti i paesi sviluppati. In quegli anni si manifestò un rallentamento, se non addirittura un ristagno, nella crescita della speranza di vita alla nascita (v. fig. 2). All'epoca si pensò che nessun guadagno fosse ormai possibile, visto che nelle età dell'infanzia e della giovinezza la mortalità aveva raggiunto livelli molto bassi e che nelle età adulte e anziane, dominate dalle cosiddette malattie del progresso, difficilmente si sarebbero potute ottenere riduzioni di mortalità. Al contrario, i moderni stili di vita e l'aumento dell'inquinamento facevano pensare a una moltiplicazione dei fattori di rischio e quindi a una vera e propria recrudescenza della mortalità nelle età della vita più esposte a quei fattori. Il timore non cessò nemmeno quando, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, in tutti i paesi occidentali si ottennero nuovi e importanti progressi in termini di sopravvivenza proprio grazie alla riduzione della mortalità nelle età adulte e, a partire dagli anni ottanta, anche della mortalità degli anziani (v. Caselli e altri, 2002). In queste ultime età della vita le riduzioni più importanti si sono verificate nell'ultimo decennio, tanto che oggi si assiste ad aumenti nel ritmo di crescita della speranza di vita proprio a seguito della forte riduzione della mortalità nelle età superiori agli 80 anni.
Nessuno aveva previsto che nell'area più industrializzata del mondo alcuni paesi non avrebbero seguito questo cammino. Nei paesi dell'ex blocco sovietico la mortalità iniziò ad aumentare in tutte le età, contrariamente a quanto si verificava altrove. Tale aumento, particolarmente forte per gli uomini adulti, ha portato i livelli di sopravvivenza della Russia del 2000 al di sotto di quelli raggiunti negli anni cinquanta. L'aumento della mortalità, già tanto importante negli anni settanta e ottanta, si è acuito negli anni novanta e solo negli anni più recenti si avvertono i primi segni di inversione di questa tendenza negativa (v. Shkolnikov e altri, 1996). In Russia la crisi economica, iniziata ancor prima della crisi politica del regime sovietico, ha avuto un impatto negativo senza precedenti nella storia dei paesi sviluppati sui sistemi sanitari e ancor più sulle relazioni sociali, favorendo da una parte l'acuirsi di vecchie patologie e, dall'altra, il diffondersi di stili di vita molto nocivi alla salute, tanto che gran parte dell'aumento della mortalità degli uomini adulti è dovuto all'alcolismo. Inoltre, contrariamente alle popolazioni di quasi tutti i paesi ricchi, i Russi (uomini e donne) in età senile e presenile non hanno ancora beneficiato degli effetti positivi delle nuove terapie per le malattie cardiovascolari, che si sono dimostrate le vere protagoniste dell'attuale diminuzione della mortalità in queste età e, quindi, dell'aumento dei livelli di sopravvivenza (v. Robine e altri, 1997; v. Caselli e altri, 2002).
Nell'ultimo decennio nei paesi dell'Europa centrale e dell'Est, esclusa la Russia, la situazione è nettamente migliorata (v. fig. 2). Anche in questi paesi la sopravvivenza ha ripreso a crescere, e per il futuro, soprattutto con l'ingresso nell'Unione Europea, ci sono buone prospettive di recupero del tempo perduto. Come si è detto nell'introduzione, l'esperienza dei paesi dell'Est europeo non deve far credere ai paesi ricchi che i traguardi raggiunti in termini di salute della popolazione siano definitivi. I rischi di recrudescenza di vecchie malattie, così come l'apparizione di nuove patologie, sono sempre in agguato, pronti a produrre un'inversione di tendenza del processo di crescita della sopravvivenza umana.
Certo, negli anni più recenti questi timori si sono attenuati. In quasi tutti i paesi sviluppati sta emergendo con grande rapidità un nuovo fenomeno che vede come protagonisti i grandi vecchi. La riduzione della mortalità in tutte le età della vita accresce le dimensioni della popolazione nelle età anziane: molti raggiungono gli 80 anni e tra questi una quota sempre più elevata arriva alla soglia dei 100 anni. In Italia, secondo le ultime tavole di mortalità, su ogni 100 nati di entrambi i sessi più di 65 donne e 45 uomini arrivano a 80 anni e 25 donne sono ancora vive all'età di 90 anni (v. Caselli, 1996; v. Caselli e altri, 2000). Questo fenomeno, che sta producendo una crescita esponenziale di ultracentenari nella popolazione, ha aperto nuove frontiere di ricerca nel campo della longevità umana, inducendo il mondo scientifico a rimetterne in discussione i limiti (v. Barbi e altri, 2003).
d) Tanti anziani, prevalentemente donne
Si vive dunque sempre più a lungo e si fanno sempre meno figli; e questo influisce sulla struttura per età delle popolazioni, acuendo i processi di invecchiamento già in atto alla fine degli anni ottanta. Come si è accennato nell'introduzione, la base della piramide si restringe continuamente, mentre il vertice si allarga e la struttura per età è lungi dall'essere stabile (v. fig. 3).
Negli anni più recenti si è generalizzato e consolidato in più paesi un comportamento che solo venti anni fa sembrava riguardare solo qualche eccezione. Il processo di invecchiamento interessa tutti i paesi del mondo sviluppato e, soprattutto nell'ultimo decennio, coinvolge anche alcuni tra i paesi in via di sviluppo, quelli emergenti dell'Asia (in particolare la Cina) e quelli dell'America Latina (v. Kinsella e Velkoff, 2001). Ovviamente, anche tra i primi l'entità di tale processo varia a seconda dei livelli di fecondità e di mortalità. L'invecchiamento è infatti il risultato dell'azione congiunta della diminuzione del numero dei nati (la piramide delle età si restringe), a seguito del declino della fecondità, e dell'aumento del numero di anziani (la piramide si allarga al vertice) dovuto alla diminuzione della mortalità in tutte le età della vita. Chi può contare su livelli di fecondità prossimi ai due figli per donna, come i Nordamericani o gli Australiani, può controbilanciare l'aumento della proporzione di anziani nella popolazione mantenendo alto il numero dei giovani. Chi, come gli Europei o i Giapponesi, ha una fecondità al di sotto di tali livelli vedrà le proporzioni di anziani accrescersi sempre più col passare del tempo. Ovviamente, i paesi dell'Est europeo, caratterizzati da livelli di mortalità più alti, hanno un numero di anziani più basso e così controllano il processo di invecchiamento della loro popolazione (v. tab. IV). I valori presentati nella tab. V dimostrano quanto siano importanti nel 2000 le differenze tra le diverse realtà: in Europa gli ultrasessantacinquenni rappresentano il 15% circa della popolazione, mentre nel Nordamerica, in Australia e in Nuova Zelanda tale quota scende al 12%. Questi valori, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, potrebbero essere nel 2010 rispettivamente del 16 e 13%, il che dimostra che il controllo dell'invecchiamento avviene attraverso il mantenimento di tassi di fecondità totale attorno a 2 figli per donna. Ovviamente, quando i livelli di fecondità sono da tempo al di sotto di 1,5, come in Italia e in Giappone, la percentuale di ultrasessantacinquenni tra il 2000 e il 2010 passa, rispettivamente, da 18,1 a 20,6 e da 17,2 a 22,3. Il maggior incremento che dovrebbe verificarsi in Giappone dipende esclusivamente dai più bassi livelli di mortalità (più alta speranza di vita) di questo paese (v. tab. IV). La fecondità, infatti, si mantiene più bassa in Italia, dove, soprattutto, è tale da più tempo (v. tab. II).
Per apprezzare le differenze complessive in termini di struttura per età si può fare un confronto delle piramidi delle età presentate in fig. 3. Si è scelto di rappresentare le realtà che presentano maggiori contrasti tra i continenti: il Nuovo e il Vecchio Continente da una parte, l'Italia e la Francia dall'altra. La stretta base della piramide europea contrasta, infatti, con quella più larga nordamericana, ed entrambe contrastano con la base ancor più ridotta e il vertice molto più ampio della piramide italiana. Quest'ultima, a sua volta, appare molto diversa dalla piramide francese. L'Italia, con il perdurare trentennale di livelli di fecondità tra i più bassi del mondo, è anche il paese con il più alto grado di invecchiamento (v. tab. IV), mentre la Francia, con una fecondità delle generazioni ai livelli di sostituzione, controlla l'invecchiamento della sua popolazione (v. Bardet e Dupâquier, 1997-1999).
Si può vedere in fig. 3 come fino a oggi la proporzione della popolazione nelle età centrali della vita, quelle produttive e riproduttive, resta elevata. È questo uno dei motivi per cui, nonostante i bassi livelli di fecondità, anche in Italia si è potuto contrastare la diminuzione della popolazione. Ma fino a quando potrà durare questa favorevole congiuntura? Immaginiamo di spostare nelle età di 20-50 anni la popolazione che oggi si trova in età giovanile, così che questa tra 20-30 anni appartenga alle classi di età centrali e costituisca il potenziale di individui in età lavorativa e riproduttiva. Le giovani donne di oggi, così scarse, saranno le madri del domani. Il risultato si può apprezzare pienamente se si osservano le due piramidi dell'Italia e del Giappone, costruite utilizzando le proiezioni per il 2030 delle Nazioni Unite (v. fig. 4). Sembra evidente che, a meno di introdurre un numero ragguardevole di immigrati di quelle età, la scarsità di popolazione nelle età centrali porrà a questi due paesi gravi problemi in termini di mercato del lavoro e di declino demografico. Questa tendenza inizia a caratterizzare le popolazioni europee, mentre per ora non ha investito quella nordamericana, facendo emergere differenze demografiche tra i due continenti che potrebbero rimettere in discussione i rapporti di forza tra le due realtà (v. Council of Europe, 1978). Inoltre il declino demografico dei paesi europei induce a considerare le diverse prospettive dei paesi poveri del mondo, dove la popolazione giovanile costituisce, come si vedrà in seguito, quasi la metà del totale.
Le piramidi delle età, consentendo anche di confrontare la struttura per età della popolazione dei due sessi, mostra con chiarezza come l'invecchiamento privilegi le donne. Queste, pur numericamente svantaggiate alla nascita (105-106 uomini ogni 100 donne), con più bassi livelli di mortalità in ogni età, arrivano in numero maggiore nelle età anziane, così che tra i vecchi, sempre più numerosi, vi sono sempre più donne, le quali, sempre in ragione della loro più bassa mortalità in tutte le età, sono sempre più sole. In Italia, ad esempio, dopo gli 80 anni oggi si contano circa 2 donne per ogni uomo, mentre negli anni cinquanta il rapporto era di 1,3 a 1. In termini assoluti questo squilibrio assume un significato ancor più rilevante. Si consideri, infatti, che mentre all'inizio degli anni cinquanta le ultrasessantenni superavano i loro coetanei di circa 600 mila unità, al primo gennaio del 1998 erano ben 2 milioni in più. Una quota che corrisponde all'incirca al numero di vedove presenti nella popolazione di queste età e che può contare su una sopravvivenza media più elevata di quella degli uomini. In particolare, può essere interessante ricordare che la vita media residua per le donne vedove (di qualsiasi età) è di circa 17 anni, mentre per i vedovi è di circa 11 anni (v. Golini, 1999).
L'analisi delle diverse componenti della recente dinamica delle popolazioni dei paesi sviluppati ha consentito di mettere in luce gli aspetti del processo di declino demografico annunciato nell'introduzione, evidenziando inoltre l'esistenza di importanti differenze all'interno di una realtà che solo in apparenza è omogenea.
Come si vedrà, i cambiamenti in corso nei paesi ricchi, come le differenze osservate, sono ben poca cosa se confrontati con quelli che si stanno registrando nei paesi in via di sviluppo.
4. L'esplosione demografica del Terzo Mondo
a) Le grandi differenze geografiche
Quasi tutti i paesi sviluppati dispongono di censimenti o di stime della popolazione ricostruite, nonché di dati relativi ai flussi migratori; al contrario, per i paesi in via di sviluppo è difficile avere nello stesso tempo stime di popolazione, di fecondità, di mortalità e di migrazione. Negli anni novanta solo 135 paesi su 173 hanno effettuato un censimento, mentre i restanti paesi dispongono solo di dati di indagine, a volte frammentari. Nonostante queste lacune, dopo mezzo secolo di pratica e con l'aiuto della moderna tecnologia la Divisione della Popolazione delle Nazioni Unite oggi è in grado di produrre una base di dati demografici per tutti i paesi del mondo per il periodo 1950-2000 che, senza essere perfetta, presenta almeno il vantaggio di essere esaustiva e confrontabile (v. UN-Population Division, contributi del 2001). Come si è ricordato, secondo queste stime la popolazione dei paesi in via di sviluppo è ormai prossima ai 5 miliardi di individui. Di questi, 3,7 miliardi si trovano in Asia, di cui poco meno di 1,3 miliardi in Cina, e circa 1,5 miliardi nell'area più povera del Centro-Sud (v. tab. VI), dove la sola India conta già più di 1 miliardo di abitanti.
Nel periodo 1990-2000, la popolazione dei paesi in via di sviluppo ha fatto registrare un tasso medio annuo di crescita attorno all'1,8%, aumentando di ben 700 milioni (v. tab. VI). Quest'ampia area è però al suo interno tutt'altro che omogenea. Vi è un gruppo più avvantaggiato, comprendente quasi tutti i paesi dell'America Latina, dell'Estremo Oriente e del Nordafrica, che nell'ultimo decennio ha potuto contare su tassi di crescita media annua di poco superiori all'1%, con valori che variano tra l'1% della Cina e l'1,5% del Brasile. All'altro estremo, tra il gruppo dei più sfavoriti, vi sono 50 paesi tra i più poveri del mondo, esclusi dallo sviluppo economico e sociale, che rappresentano il 10% della popolazione mondiale (il 13% di quella dei paesi dell'area meno sviluppata) e che hanno ancora oggi tassi di crescita superiori al 2,5% medio annuo. Questi si trovano per la maggior parte (30 dei 42 paesi con più di 150 mila abitanti) nell'Africa sub-sahariana e presentano tassi di natalità superiori al 40‰ e di mortalità del 14-15‰, tra i più alti del mondo. In alcuni di questi paesi, come in Eritrea o in Congo, i tassi di crescita arrivano a superare il 3%.
b) Gli effetti dell'AIDS
L'Africa - continente con il più alto tasso di crescita - presenta situazioni molto diverse al suo interno: da una parte c'è l'ampia area sub-sahariana, con un tasso di crescita del 3%, per cui, nel decennio 1990-2000, al mezzo miliardo di individui se ne sono aggiunti altri 150 milioni; dall'altra si trovano i paesi settentrionali, con una crescita percentuale di poco superiore a quella degli Stati Uniti (1,1% annuo nel periodo 1995-2000).
Negli ultimi anni la popolazione africana dell'area subsahariana sta inoltre sperimentando i più alti livelli di crescita del mondo e un forte aumento dei livelli di mortalità. Nella storia della transizione demografica i due fenomeni non si erano mai presentati con queste caratteristiche; al contrario, ogni forte crescita della popolazione, tipica della prima fase della transizione, era stata ovunque accompagnata da un importante declino dei livelli di mortalità (v. Chesnais, 1986). Quest'anomalia africana, dovuta agli effetti catastrofici dell'AIDS, potrebbe essere un fenomeno di breve periodo, proprio come avveniva nel passato, quando il sopraggiungere di una crisi di mortalità ne innalzava bruscamente i livelli, producendo riduzioni nei tassi di fecondità e, ovviamente, nell'ammontare della popolazione. Se consideriamo i dati relativi allo Zimbabwe mostrati nella fig. 5, si può vedere che negli anni più recenti l'aumento della curva di mortalità, accompagnato dal declino di quella di natalità, ha prodotto una riduzione dell'area che rappresenta la crescita della popolazione. In Africa la trasmissione dell'AIDS avviene prevalentemente attraverso rapporti eterosessuali, colpendo le donne in età riproduttiva con effetti negativi sulla loro salute, sull'esito della gravidanza e sul prodotto del concepimento (v. Timæus, 1998). Un'alta proporzione di donne infette si associa sempre con una proporzione estremamente elevata di bambini infetti (v. UN-Population Division, 1998; v. Livi Bacci, 2002). In questa parte dell'Africa, ogni bambino sieropositivo è destinato a una morte certa in tempi abbastanza brevi, tanto che la mortalità infantile alla soglia del XXI secolo supera il 100‰ (in Sierra Leone raggiunge il 165‰), valore vicino ai livelli italiani di fine Ottocento.
A causa dell'AIDS molti di questi paesi, malgrado i primi successi ottenuti nella lotta contro le malattie infettive, in particolare le malattie tropicali, non sono riusciti a seguire l'esempio di altri paesi dello stesso continente, che hanno ridotto le distanze dal resto del mondo; al contrario, come si può vedere dalle figg. 6 e 7, nel corso degli anni ottanta e novanta hanno sperimentato una stagnazione e poi una brusca inversione di tendenza nei livelli di sopravvivenza: lo Zambia, ad esempio, ha perso 11 anni tra il 1980-85 e il 1995-2000, lo Zimbabwe nello stesso periodo ne ha persi 17. Lo Zambia, con 40 anni di speranza di vita, è regredito al livello che aveva all'inizio degli anni cinquanta, mentre lo Zimbabwe è sceso addirittura al di sotto (42,9 anni anziché 47,4; v. Caselli e altri, 2002).
La fig. 6 consente di vedere come l'impatto dell'AIDS sui livelli della speranza di vita si sia verificato in periodi diversi a seconda dei paesi: in Sudafrica l'inversione di tendenza della curva si verifica con almeno dieci anni di ritardo rispetto, ad esempio, al Burkina Faso, così come, nell'area maggiormente colpita, lo Zimbabwe anticipa il Botswana. In quest'ultimo paese, all'inizio degli anni novanta, la speranza di vita alla nascita aveva superato i 60 anni, ma in pochissimo tempo gli effetti dell'AIDS l'hanno bruscamente riportata al di sotto dei 45 anni. La fig. 6 evidenzia anche le forti differenze esistenti tra i paesi del Nord del continente e gli altri. Si vede, ad esempio, come negli anni cinquanta partendo dallo stesso livello di sopravvivenza della Tunisia, la Nigeria abbia seguito un cammino nettamente meno favorevole, che la porta oggi ad avere una speranza di vita di 20 anni inferiore a quella tunisina.
Nella fig. 7, il confronto tra paesi a diversi livello di sviluppo dimostra chiaramente l'attuale presenza di convergenze Sud-Nord e di divergenze Sud-Sud nei livelli di speranza di vita alla nascita (v. anche tab. VII). Per i paesi in fase di transizione avanzata, nei quali il progresso economico e sociale degli ultimi decenni ha contribuito a ridurre notevolmente la mortalità infantile e giovanile, si è avviata una fase di rapida convergenza dei livelli di sopravvivenza verso quella dei paesi più sviluppati, che ha consentito di recuperare in una trentina di anni gran parte del loro ritardo: i paesi emergenti dell'America Latina (rappresentati dal Cile), dell'Estremo Oriente (rappresentato dalla Corea del Sud) e del Nordafrica (rappresentato dalla Tunisia) hanno livelli che si stanno avvicinando rapidamente a quelli dei paesi industrializzati (fig. 7A). In Cile, ad esempio, la speranza di vita ha raggiunto i 72 anni per gli uomini e i 78 anni per le donne. La divergenza delle curve in fig. 7B evidenzia la posizione di grande vantaggio di Cile, Corea e Tunisia rispetto ai paesi più colpiti dall'AIDS che, tra l'altro, appaiono sempre più lontani dal resto del mondo.
In Africa si sta consumando una tragedia di dimensioni superiori a quella sperimentata negli ultimi decenni dai paesi dell'Europa orientale, anche se entrambe sono il risultato di due processi assolutamente non previsti che dimostrano come nulla possa essere dato per acquisito. Attualmente, molti studiosi pensano cinicamente che l'AIDS costituisca il mezzo più efficace per controllare la crescita della popolazione africana. Almeno nel breve periodo, gli effetti saranno realmente questi (ad esempio, le Nazioni Unite prevedono che la popolazione del Botswana nel 2015 sarà del 28% inferiore a quella che si registrerebbe in assenza dell'AIDS), ma alla lunga, quando questa malattia sarà debellata, la popolazione ritornerà a crescere con maggiore intensità, proprio come succedeva alle popolazioni del passato dopo ogni grande crisi di mortalità (v. Del Panta, 1980). Ciò perché i livelli di fecondità si mantengono, nonostante tutto, estremamente alti, e il loro declino verso valori accettabili sarà di parecchi anni successivo a quello della mortalità. Per i paesi africani più colpiti dall'AIDS, le Nazioni Unite hanno infatti stimato per il 2030 una speranza di vita alla nascita di circa 60 anni - con un aumento, quindi, di 20 anni circa rispetto ai valori attuali e con un dimezzamento rispetto al 2000 dei livelli di mortalità infantile - e un tasso di fecondità totale di 4 figli per donna (v. UN-Population Division, contributi del 2001).
Questo significa che fra 30 anni il tasso di crescita di questa popolazione sarà del 3,3%, quindi più elevato di quello attuale, e che nello stesso periodo avrà avuto un incremento numerico di 900 milioni di individui. Pur prevedendo fino al 2050 un ulteriore aumento della sopravvivenza di 7 anni e un declino della fecondità fino a raggiungere i 2,5 figli per donna, la popolazione di questi paesi potrebbe aver superato a quella data i 3 miliardi, cioè 2,5 miliardi in più di quella attuale. Senza l'AIDS l'ammontare sarebbe stato del 15% più elevato.
La povertà estrema - così come l'AIDS e in molti contesti le guerre - non colpisce soltanto i paesi africani (che pure hanno i più bassi livelli di sopravvivenza), ma anche alcuni paesi dell'Asia centrale e meridionale, come ad esempio la Cambogia e la Thailandia, e dell'America Latina, come la Repubblica Dominicana o l'Honduras. Per l'Asia si può ricordare che in Cambogia, secondo le ultime stime delle Nazioni Unite (2001), la mortalità infantile, con valori superiori al 240, è la più alta registrata nel mondo negli anni più recenti (v. tab. I). È noto che ogni aumento della speranza di vita passa in primo luogo attraverso la diminuzione della mortalità nelle prime età della vita, ma affinché questo si verifichi è necessario migliorare le condizioni di vita delle popolazioni da un punto di vista economico e, soprattutto, sanitario.
I paesi che negli ultimi anni hanno avuto particolare successo nella lotta contro la mortalità sono quelli che hanno saputo convogliare risorse economiche e umane proprio verso il settore sanitario. Ne sono un esempio la Cina, Cuba e il Costa Rica e, ultimamente, anche lo Sri Lanka (v. Livi Bacci, 2002). Per convincere i governi del mondo che questa è la via da seguire, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dimostrato che il 90% delle morti nei paesi poveri è causato da polmoniti, diarrea, tubercolosi, malaria, morbillo e AIDS, cioè da malattie che per la gran parte possono essere ridotte, se non debellate, investendo in cure a basso costo.
c) Una fecondità troppo elevata
Nella teoria della transizione demografica la mortalità dei bambini è sempre apparsa come una delle variabili più importanti anche nella spiegazione delle variazioni della fecondità e della sua evoluzione. Del resto, è ovvio che non si possono avere livelli di fecondità molto bassi in contesti di alta mortalità senza rischiare l'estinzione della popolazione. È noto, inoltre, che nel processo di transizione la diminuzione della mortalità, in particolare quella infantile che caratterizza l'avvio del processo, è la premessa alla diminuzione della fecondità.
Salvo rare eccezioni, alla fine degli anni novanta i paesi dove la mortalità infantile superava il 90‰ avevano una fecondità totale superiore a 5 figli per donna, mentre tutti i paesi in cui la mortalità infantile era minore del 30‰ avevano una fecondità inferiore a 3,5 figli per donna. Nessun paese in cui la fecondità è superiore a 2 figli per donna ha livelli di mortalità infantile superiori al 25‰ (a esclusione della Cina).
In ogni caso, nessuna società del Sud ha realizzato la sua transizione di fecondità senza un importante e rapido declino della mortalità infantile (v. Montgomery e Cohen, 1998). Ciò vale per i paesi dell'America Latina e di gran parte dell'Asia, dove i livelli di mortalità infantile stanno rapidamente scendendo al di sotto del 30‰ e il tasso di fecondità totale è sceso sotto i 3 figli per donna avviandosi, secondo le previsioni, verso i 2 (v. tab. VIII).
Come era prevedibile, l'Africa sub-sahariana, con una mortalità infantile di circa il 100‰ e con gli attuali 6 figli per donna, è molto lontana dall'intraprendere questo cammino, anche se al suo interno, ancora una volta, sono presenti differenze importanti, che vanno dai 5 figli delle donne dello Zimbabwe ai 7 delle donne somale. In questo caso, le disparità regionali sono la conseguenza delle differenze sociali e culturali, molto forti all'interno di quest'area. Tuttavia, anche se l'andamento della fecondità è diversificato, sembra esserci un processo di convergenza verso i 5 figli (v. fig. 8), contrariamente a ciò che si verifica per la mortalità, per la quale, come si è visto (v. fig. 7), le divergenze sono un fenomeno recente che si accentua sempre di più.
Tra la fine degli anni ottanta e l'inizio del 2000 in molti paesi in via di sviluppo la fecondità è diminuita notevolmente, seguendo a breve distanza il declino della mortalità. Osservando i valori riportati nella tab. VIII (ma anche in fig. 8), si vede che ci sono paesi del Nordafrica e dell'America Latina che hanno visto scendere i tassi di fecondità totale (la Tunisia è passata da 4 a poco più di 2 figli per donna; il Brasile in poco tempo è riuscito a passare da 3 a 2,3 figli). Anche in molti paesi asiatici la riduzione è stata notevole, in Cina in primo luogo, dove il tasso di fecondità totale è sceso sotto i livelli di sostituzione con 1,8 figli per donna, ma anche in India dove, contro ogni previsione, è passato in soli dieci anni da 4 figli a poco più di 3. Se in molti paesi in via di sviluppo l'avvio del declino della fecondità ricorda quello ormai lontano del mondo occidentale, in altri sembra molto diverso, soprattutto in ragione della rapidità con cui si sta verificando. Tale fenomeno è da mettere senz'altro in relazione alla velocità con cui si stanno diffondendo i metodi di controllo delle nascite nei paesi in cui lo sviluppo economico e culturale avanza rapidamente. Negli anni ottanta uno studio della Banca Mondiale (v. The World Bank, 1984) aveva già evidenziato come l'aumento della contraccezione fosse il principale fattore di riduzione della fecondità nella gran parte dei paesi in via di sviluppo, dove, tra l'altro, l'aumento dell'età al matrimonio era la seconda tra le variabili più importati.
Come si è più volte ricordato, i paesi più poveri del mondo, dell'Africa e dell'Asia - pur se interessati dal processo di declino della fecondità in ragione di una gravissima crisi di mortalità, in particolare di mortalità infantile - mantengono ancora oggi un numero medio di figli per donna analogo a quello che si aveva due secoli fa nei paesi dell'Europa settentrionale. Nei paesi africani il maggiore ostacolo alla diffusione dei metodi di controllo delle nascite è il predominante stato di sottosviluppo economico e sociale, mentre in quelli asiatici è rilevante anche il ruolo giocato dai fattori culturali e religiosi. In molti contesti, i genitori considerano i figli una garanzia di aiuto economico e materiale nelle età anziane (ad esempio in Indonesia, Corea, Filippine, Thailandia e Turchia); in altri contesti culturali (ad esempio in Pakistan, Iran, Yemen e Arabia Saudita) l'alto numero di figli è visto come forma di adesione a radicati principî religiosi. In ogni caso, questi fattori mantengono alta la fecondità, e quindi la sua diminuzione deve necessariamente passare per la loro modificazione; tuttavia, perché ciò si verifichi è necessario, in primo luogo, che aumenti la sopravvivenza di queste popolazioni (v. Livi Bacci, 2002). Una conferma di questo fatto si ha anche confrontando i valori della speranza di vita alla nascita riportati nella tab. VII con quelli della fecondità totale presentati nella tab. VIII: tutti i paesi con una sopravvivenza media superiore ai 60-62 anni hanno anche una fecondità inferiore ai 3 figli per donna.
L'incertezza che caratterizza lo sviluppo demografico dei paesi più poveri dipende anche dalla struttura per età delle loro popolazioni. Questi paesi sono tuttora caratterizzati da una piramide delle età simile a quella dei paesi sviluppati nella fase antecedente l'avvio della transizione demografica: nel 2000 la proporzione di individui con meno di 15 anni varia tra il 40 e il 50% del totale, mentre quella relativa alla popolazione con più di 65 anni è del 3% (v. tab. I). In Africa, il potenziale di donne in età feconda è ancora abbastanza elevato, anche se nei paesi maggiormente colpiti dall'AIDS la popolazione appartenente alle suddette classi di età si è ridotta notevolmente (si veda l'esempio dello Zimbabwe in fig. 7). Nei prossimi anni, per questi ultimi paesi la riduzione del numero di donne in età feconda avrà un ruolo importante nella diminuzione del numero dei nati e, come si è detto, nel rallentamento della crescita della popolazione.
Rispetto alla composizione per età, una situazione non lontanissima da quella dei paesi più poveri si profila anche per i cosiddetti paesi intermedi. L'esempio dell'Asia e dell'America Latina dimostra come la proporzione di popolazione nelle età centrali resti ancora molto elevata, in presenza di una altrettanto elevata proporzione di giovani di età inferiore ai 15 anni: sono circa il 31% del totale i potenziali adulti di domani, coloro che saranno in grado di mantenere elevato il numero di nati per molti anni anche in presenza di livelli di fecondità in forte diminuzione. Ciò dimostra come il perdurare di una piramide delle età favorevole alla crescita demografica sia uno dei principali ostacoli alla riduzione della popolazione in tutta l'area meno sviluppata del mondo, anche in quella che ha ormai raggiunto i due figli per donna. È in parte per questa ragione che, nonostante l'attuale rallentamento previsto in ragione della diminuzione dei tassi di fecondità, tra soli dieci anni la popolazione dei paesi in via di sviluppo avrà aggiunto un altro miliardo al suo contingente attuale.
d) L'invecchiamento nel Sud del mondo
Con tassi di fecondità totale ancora superiori ai livelli di sostituzione, con livelli di sopravvivenza crescenti e con una struttura per età ancora relativamente dominata dalla componente giovane, i paesi intermedi non sono ancora investiti dal processo di invecchiamento che caratterizza i paesi sviluppati. Finora, infatti, la popolazione con più di 65 anni non è aumentata sensibilmente: con proporzioni inferiori al 6% (v. tab. I) è ancora assai lontana dai livelli del 14-20% dei paesi sviluppati. Se la proporzione di ultrasessantacinquenni è ancora relativamente bassa e se continuerà a esserlo per i prossimi decenni fino a raggiungere, secondo le previsioni delle Nazioni Unite (v. UN-Population Division, contributi del 2001), il 9% nel 2030, la numerosità di questa popolazione a quella data sarà notevolmente aumentata. L'invecchiamento non è solo un problema di struttura, ma anche di numero totale di individui. Per comprendere l'importanza di questa considerazione, si pensi che attualmente nei paesi sviluppati con percentuali di ultrasessantacinquenni superiori al 14% si contano ben 170 milioni di individui appartenenti a questa fascia di età, e che ve ne sono più o meno altrettanti nei paesi con percentuali di ultrasessantacinquenni inferiori al 6%. Nel 2030, quando nei paesi sviluppati vi saranno, secondo le previsioni, 281 milioni di individui, in quelli in via di sviluppo ve ne saranno più del doppio. Tra poco meno di 30 anni questi ultimi dovranno quindi far fronte a nuove sfide economiche, sociali e sanitarie (v. Tabutin, 1990) ancora più impegnative di quelle attuali, poiché il processo di invecchiamento sarà ancor più rapido di quanto non sia stato quello del declino della fecondità. Il caso della Cina sembra essere emblematico: in poco più di 20 anni (dal 1980 al 2000) i suoi livelli di fecondità sono scesi al di sotto dei 2 figli per donna, con una popolazione di età compresa tra 0 e 14 anni che si è ridotta appena del 14%, mentre la numerosità degli ultrasessantacinquenni nello stesso tempo è quasi raddoppiata.
Questo processo, che sta coinvolgendo un insieme di paesi nei quali vive circa il 70% della popolazione mondiale, desta preoccupazione non solo per gli aspetti sociali e culturali di tale rivoluzione, ma anche per l'insieme delle trasformazioni richieste da una popolazione che invecchia. I sistemi sanitari sono, almeno per ora, rivolti a preservare la salute dei bambini e dei giovani; i sistemi di assistenza e previdenza sociale sono appena abbozzati o inesistenti; la solidarietà familiare, tanto importante nel passato, è messa in discussione dalla modernità. La crisi che si profila è, quindi, di grandi proporzioni ed è destinata a perdurare per lunghi anni.
e) Globalizzazione, migrazioni e urbanizzazione
Molti studiosi ritengono che nel sistema globale mondiale quel che conta non sia solo la numerosità degli anziani, ma anche il mutamento nei rapporti con la popolazione in età lavorativa e con quella in giovane età. Se le tendenze di cui si è parlato hanno la massima rilevanza politica, economica e organizzativa all'interno di ciascuna realtà, in una dimensione internazionale è importante anche quello che avviene negli altri paesi. Infatti, le popolazioni estremamente invecchiate, con basse proporzioni di giovani, hanno, rispetto al mercato del lavoro, esigenze contrapposte a quelle delle popolazioni in cui la proporzione di giovani adulti si mantiene elevatissima. Si pensi all'Europa, e al nostro paese in particolare, e, dall'altra parte, all'Africa, per capire che il Vecchio Continente avrà sempre più bisogno di mano d'opera straniera e che il continente africano, al contrario, ne avrà in eccesso. Queste diversità, già presenti negli ultimi decenni del millennio passato, hanno contribuito a intensificare il processo migratorio tra Sud e Nord del mondo. Ora, se si torna alle forme delle varie piramidi delle età (v. figg 1 e 9), si comprende che le differenze esistenti sono destinate ad acuire i problemi negli anni a venire e che in presenza di differenziali demografici così importanti soltanto una forte riduzione dei differenziali economico-sociali tra paesi di origine e paese di destinazione sarebbe in grado di contenere correnti migratorie destinate a diventare di massa (v. Golini, 1999).
Alla luce dell'attuale situazione politico-economica non sembrano esistere le condizioni necessarie per giungere in breve tempo a un equilibrio accettabile e, di conseguenza, sembra probabile che i flussi migratori dai paesi poveri verso i paesi ricchi continueranno con intensità crescente nonostante le politiche restrittive messe in atto da alcuni paesi per limitare gli ingressi. Solo negli anni novanta, ad esempio, si calcola che più di 4 milioni di individui abbiano lasciato i paesi asiatici e 5 milioni i paesi dell'America Latina per stabilirsi definitivamente nel Nordamerica, come risulta dall'elaborazione dei dati rilevati dal Système d'Observation Permanente des Migrations dell'OECD (v. SOPEMI, 2001).
L'intensità di tali flussi può far pensare che da un punto di vista demografico l'emigrazione sia una via per ridurre la forte pressione della crescita della popolazione nei paesi poveri, ma non è così. Il bacino di partenza è troppo ampio e, come si è visto, lo sarà sempre di più. Nel 1999 le Nazioni Unite hanno stimato che dal dopoguerra le economie occidentali hanno assorbito circa 35 milioni di immigrati e che questi hanno contribuito per il 28% alla loro crescita demografica, riducendo solo del 2% la crescita nel resto del mondo. Allo scarso peso delle migrazioni internazionali nel contenimento della popolazione dei paesi poveri si contrappone, quindi, il ruolo importante che queste hanno e potranno avere per il futuro delle popolazioni dei paesi ricchi che, sempre secondo le Nazioni Unite (v. UN-Population Division, contributi del 2001), nel 2050 saranno 1,05 miliardi in assenza di immigrazioni, contro 1,18 miliardi con immigrazione, cioè 130 milioni di più.
Per i paesi in via di sviluppo, le migrazioni internazionali sono davvero poca cosa in confronto ai grandi spostamenti interni che li caratterizzano, spesso indotti dalla mancanza di cibo e di ogni altro bene utile alla sopravvivenza, ma anche da guerre etniche o religiose. Tutti questi spostamenti sono diretti verso le aree urbane, e in questi ultimi anni hanno contribuito a incrementare il processo di urbanizzazione anche nelle aree geografiche che nel passato ne erano escluse. Ecco alcuni dati che rendono conto dell'importanza del fenomeno. Nel 1975 gli agglomerati urbani con una popolazione compresa tra 1 e 5 milioni nei paesi industrializzati erano 75, e nel 2000 sono diventati 109, mentre nei paesi in via di sviluppo sono passati da 98 a 261, così divisi: in Asia sono passati da 77 a 183, in Africa da 7 a 40 e in America Latina da 17 a 44. Nel 2000 questo processo interessava nel mondo intero circa 704 milioni di individui (contro i 327 del 1975): 485 milioni (182 milioni nel 1975) appartenevano ai paesi in via di sviluppo, cioè il 10% circa della loro popolazione totale. Il processo si è verificato con grande rapidità, facendo affluire in venticinque anni circa 300 milioni di individui verso questi agglomerati urbani, spesso sprovvisti di strutture adeguate e di attività produttive. Tutto ciò senza considerare gli spostamenti verso le aree urbane di più ridotte dimensioni e verso le grandi metropoli con più di 5 milioni di abitanti. Tra queste - per citare solo alcune megalopoli cresciute rapidamente e che ora sono tra quelle con un numero più elevato di abitanti - si trovano Bombay, che tra il 1975 e il 2000 ha visto i sui abitanti passare da 7 a 18 milioni, Lagos, che da poco più di 3 milioni di abitanti è passata a 23 milioni e mezzo nel 2000, ma anche San Paolo e Karachi, passate rispettivamente da 10 a 18 milioni e da 4 a 12 milioni (v. megalopoli, vol. XIII). Mentre nei paesi ricchi il processo di crescita delle grandi città si è praticamente bloccato circa 20 anni fa, nei paesi in via di sviluppo continua con intensità crescente, dopo aver acquisito un nuovo impulso a partire dagli anni novanta.
5. Aumenta l'incertezza
Come si è visto, la crescita demografica nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo ha subito di recente un sorprendente rallentamento, diffondendo un certo ottimismo per l'evoluzione futura e inducendo le Nazioni Unite a rivedere annualmente le loro previsioni e a stimare nel 2001 una crescita per il 2050 inferiore di quasi un miliardo di persone a quella stimata per la stessa data nel 1991. Difatti, in cinquanta anni si è passati da 2,5 a 6 miliardi di individui, e si prevede un salto da 6 a 9,3 miliardi nei prossimi 50 anni (v. UN-Population Division, contributi del 2001). In mezzo secolo si è verificata una crescita del 140%, mentre i 3,3 miliardi che dovrebbero aggiungersi ai 6 miliardi del 2000 produrrebbero una crescita del 55%. Si profila, quindi, un ulteriore rallentamento. Ciò nonostante, il quadro d'insieme non è affatto brillante: il 20% della popolazione mondiale può contare sull'80% del reddito del pianeta, mentre la grande maggioranza si divide il resto, cioè le briciole, e in modo tutt'altro che eguale. Si è visto come nei paesi poveri emerga sempre di più il divario tra quelli realmente in via di sviluppo e quelli molto poveri, le cui economie fragilissime stanno per affondare (v. Caselli e altri, 2001).
Inoltre, dei 3,5 miliardi di individui in più degli ultimi 50 anni, meno di 400 milioni sono stati acquisiti dai paesi del Nord, mentre il resto, per la quasi totalità, è andato ad accrescere i paesi o le regioni più dinamiche del Sud del mondo, come la Cina, il Sudest asiatico e l'America Latina (v. Vallin, 19934 e 2001). Al contrario, i 3,5 miliardi che si aggiungeranno alla popolazione attuale nei prossimi 50 anni saranno quasi interamente a carico dei paesi e delle regioni più povere del pianeta e in particolare dell'Africa sub-sahariana e di qualche paese dell'Asia meridionale. Se si rapporta il nuovo aumento all'attuale popolazione di queste regioni (poco più di 2 miliardi) si rileva una crescita del 200%. Questi paesi non sono solo i più poveri, ma - contrariamente alla gran parte dei paesi dell'Asia o dell'America Latina, che hanno avuto la crescita demografica più rilevante negli anni del boom economico del secondo dopoguerra - si troveranno a sperimentare tale crescita in un clima economico-politico internazionale a loro sfavorevole.
In questa congiuntura sfavorevole è assai difficile reperire le risorse necessarie a introdurre e diffondere i mezzi indispensabili per un efficace controllo delle nascite. Ancor meno si può e si vuole fare per estirpare le vecchie e le nuove malattie che stanno producendo milioni di vittime. La recente epidemia di AIDS non è che la punta di un iceberg. Vecchie malattie che nel mondo sviluppato erano già state debellate negli anni cinquanta-sessanta, come la tubercolosi, la malaria e il colera, si riacutizzano in presenza di un peggioramento delle condizioni ambientali che si viene a creare nelle aree urbane sempre più grandi e degradate e nelle zone rurali dove povertà e sottosviluppo sono in aumento.
Nei paesi in via di sviluppo, il rapido processo di crescita della popolazione urbana è tanto dirompente che non vi sono risorse umane, finanziarie, economiche e sociali in grado di far fronte ai problemi drammatici degli abitanti di queste aree. Che fare? Frenare l'esodo dalle zone rurali? Dirottare parte di questa popolazione verso altri agglomerati urbani di minore dimensione? Cercare di aumentare i flussi migratori internazionali? Tutte queste soluzioni, alla luce delle attuali condizioni economiche di questi paesi e delle tensioni politiche internazionali, non sembrano realizzabili a breve termine.
Anche sul fronte dei paesi ricchi i problemi, seppure di diversa entità, non sembrano trascurabili. Per ragioni congiunturali, le popolazioni di questi paesi, e in particolare quelle dell'Europa, hanno cumulato un potenziale di sviluppo del processo di invecchiamento senza precedenti. Fino a oggi, in quasi tutto il mondo sviluppato, nelle età centrali della vita l'entità della popolazione si è mantenuta abbastanza costante, grazie al numero rilevante dei nati nel secondo dopoguerra e negli anni sessanta; ma nei prossimi anni, queste generazioni numerose entreranno nelle età del pensionamento, mentre la popolazione attiva si ridurrà via via che generazioni sempre meno numerose arriveranno all'età lavorativa (v. Caselli e altri, 2003).
Per le due ondate del baby boom - quella dell'immediato dopoguerra e quella degli anni sessanta - il passaggio al pensionamento, calcolando un'uscita dalla vita attiva a 60-65 anni, si compirà rispettivamente nel 2005-2010 e nel 2025-2035. Ne seguirà, evidentemente, un'impennata dei costi dei sistemi sanitario e assistenziale (v. UN-Economic Commission for Europe, 1992). Da questo punto di vista, si dovrà tener conto che sul piano sanitario si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, resa possibile dai grandi progressi terapeutici e dalla prevenzione, che permettono a molti individui affetti da malattie degenerative o da tumori di sopravvivere più a lungo che nel passato. Ci si attende per il futuro che la sopravvivenza nelle età anziane continui ad aumentare, poiché i nonni di oggi, ma ancor più quelli di domani, fanno parte delle generazioni che hanno potuto godere degli aspetti positivi del benessere: nutrizione adeguata, migliore qualità della vita individuale e lavorativa, maggiore cultura e, soprattutto, disponibilità di beni e servizi e di mezzi utili al mantenimento di una buona forma fisica e mentale fino alla soglia della quarta età. L'aumento del numero dei grandi vecchi, e soprattutto della loro proporzione, metterà in moto un meccanismo di aumento dei costi sia previdenziali che sanitari per la prevenzione e la cura delle malattie cronico-degenerative, e più in generale per far fronte all'invalidità fisica e mentale frequente nelle età estreme della vita (v. van de Water e van Herten, 1998; v. National Research Council, 2001).
In Europa più che altrove - e in Italia più che nel resto d'Europa - anche il persistere di livelli molto bassi di fecondità pesa fortemente sulla crescita della proporzione di anziani. Come si è visto, mentre la parte superiore della piramide continua ad allargarsi, quella inferiore, costituita dalle nuove generazioni di nati, si restringe. Agli ormai bassi livelli di fecondità si accompagna un numero via via decrescente di donne in età feconda. In futuro, quando le generazioni nate nel periodo della bassa fecondità entreranno nell'età riproduttiva - anche restando invariato il numero medio di figli per donna - daranno luogo a un numero di nati sempre più basso. Questi effetti a catena si potrebbero generalizzare, e solo una consistente ripresa della fecondità potrebbe rallentare il processo di declino delle popolazioni. Né si può contare sull'immigrazione per attenuare provvisoriamente le conseguenze del fenomeno. Pertanto, il persistere di generazioni ridotte alla base della piramide delle età sarà sempre più un ostacolo al ritorno all'equilibrio, e anche un'inversione di tendenza nell'evoluzione della fecondità (aumento del numero medio di figli per donna) manifesterebbe solo dopo moltissimi anni i suoi effetti sulla struttura per età della popolazione (v. Caselli e Vallin, 2001). Tuttavia non è del tutto certo che esistano le condizioni perché ciò si verifichi, in quanto molto dipende dalla posizione che la donna occupa nella società e più in generale dall'importanza che la società attribuisce ai figli nella scala delle priorità.
Luci e ombre accompagnano dunque il recente rallentamento della crescita della popolazione mondiale. Ci sono certamente buone ragioni per abbandonare i timori per la cosiddetta esplosione demografica, rivelatisi infondati, ma ci si dovrà preoccupare seriamente di ciò che è stato rinviato a più tardi malgrado le buone intenzioni: lo sviluppo economico e sociale delle regioni più povere, un compito che appare sempre più urgente.
Da un punto di vista demografico rimangono senza risposta numerosi interrogativi. La stabilizzazione della popolazione sarà possibile? Sarà duratura? Porterà i paesi ricchi ad avere tassi di fecondità totale che garantiscano loro il rinnovo delle popolazioni? Nei paesi in via di sviluppo sarà possibile attuare politiche efficaci di controllo delle nascite e politiche sanitarie in grado di ridurre la mortalità?
Se è più o meno certo che, dopo una fase di sviluppo eccezionale, ogni popolazione del mondo giungerà prima o poi, nei prossimi decenni o nei seguenti, a uno stadio in cui mortalità e fecondità saranno di nuovo in equilibrio, nulla garantisce che una tale situazione sarà stabile. Al contrario, stando a quanto è avvenuto negli ultimi decenni, sembra più probabile che la fine del grande processo storico noto come transizione demografica segni anche la morte del paradigma che porta lo stesso nome (v. Vallin, 2004).
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