positivismo giuridico
Locuz. che comprende e denota un ampio e assai diversificato complesso di dottrine filosofiche e giuridiche, le quali sottolineano la natura ‘positiva’ del diritto, ossia il suo essere positum («posto») da un’autorità legislatrice umana o, comunque, a opera esclusiva dell’uomo. Il p. g. si oppone alle correnti giusnaturalistiche (➔ giusnaturalismo), che vedono il diritto come già dato nelle linee di un ordine naturale universale, prevalentemente di ispirazione teologica, cui la volontà umana deve conformarsi. Nella caratterizzazione del p. g. rientrano – come messo in luce da Bobbio nei suoi ormai classici contributi sul tema (Il positivismo giuridico, 1961, 3a ed. 1996; Giusnaturalismo e positivismo giuridico, 1965) – tre aspetti, tra i quali non sussiste un rapporto di reciproca e necessaria implicazione. Il p. g. può essere visto: come un modo di accostarsi allo studio del diritto assumendo un punto di vista fattuale e, perciò, distinguendo tra il diritto qual è e come si vorrebbe che fosse secondo un ideale di giustizia; come una teoria o concezione del diritto che correla il fenomeno giuridico all’esercizio della coazione da parte di un potere sovrano, soprattutto nell’ottica di una concezione statalistica del diritto; come un’ideologia che identifica la giustizia con la legalità o che rappresenta il diritto come lo strumento primo e insostituibile per il conseguimento dell’ordine, della sicurezza sociale e della pace. È da rimarcare come questi tre aspetti, per sé stessi o nella combinazione di volta in volta raggiunta, abbiano vissuto alterne vicende concettuali e incontrato diversa fortuna nella storia della filosofia del diritto contemporanea, subendo gli effetti, per es., del crescente ridimensionamento della sovranità statuale o dell’affermazione di un sistema di diritti umani che svela nessi non rescindibili tra aspettative di giustizia e validità giuridica.
La nascita del p. g. è convenzionalmente associata alla pubblicazione, nel 1798, del Lehrbuch des Naturrechts als einer Philosophie des positiven Rechts («Trattato di diritto naturale come filosofia del diritto positivo») di Gustav Hugo, in cui il diritto naturale viene ridotto a filosofia del diritto positivo nel senso di conoscenza razionale per mezzo di concetti generali di ciò che può essere diritto nello Stato. Va peraltro ricordato che importanti elementi di anticipazione sono presenti in pensatori precedenti, come, per es., Hobbes, la cui definizione della legge civile risponde al principio auctoritas non veritas facit legem (Leviatano, 1651, parte 2ª, cap. 26°). Lo sviluppo del concetto è indubbiamente ottocentesco e investe più ambienti culturali. In Germania, la Scuola storica del diritto, soprattutto con Savigny, contrappone al diritto naturale un diritto dipendente dai costumi e dallo «spirito del popolo», cioè, essenzialmente, un diritto consuetudinario, il cui carattere positivo viene polemicamente fatto valere contro l’idea di codificazione sostenuta dalla Scuola filosofica, seppure con il correttivo di un forte impegno sistematico dei giuristi. In Francia, la codificazione napoleonica determina il prosperare di dottrine giuspositiviste convinte assertrici del dogma dell’onnipotenza del legislatore e, in sede di interpretazione, dell’assoluta fedeltà al codice così da pervenire, come nella imperante Scuola dell’esegesi, a un vero culto del testo della legge. In Inghilterra, Austin opera una delimitazione del campo della giurisprudenza, assegnandole quale oggetto il diritto positivo, visto come l’insieme delle regole stabilite da un «superiore politico», e invita a non confondere il diritto con fenomeni analoghi. Il momento di massima affermazione del p. g. è costituito, a partire dalla seconda decade del Novecento, dal pensiero di Kelsen (➔). La kelseniana dottrina pura del diritto si proclama, fin dall’inizio, come una teoria del diritto positivo, animata dallo scopo di «liberare il diritto da quel legame per cui è stato sempre unito alla morale» (Reine Rechtslehre, 1934, trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto). Tanto la conoscenza del diritto non deve essere influenzata da giudizi morali quanto il significato giuridico di una disposizione non dipende dal valore morale del suo contenuto, per sé giuridicamente indifferente, ma dall’essere sussunta in una struttura formale – la norma giuridica come giudizio ipotetico che collega un comportamento a una sanzione – aperta a ogni contenuto.
La separazione tra diritto e morale si chiarisce, così, come il punto nevralgico del concetto di p. g., sul quale non tarderanno a concentrarsi dubbi teorici e attenzioni critiche degli studiosi, in particolar modo dopo la riflessione sulla copertura legale dei crimini dei regimi totalitari, ingenerata dalla tragedia della Seconda guerra mondiale. È alto il numero di giuristi e filosofi del diritto che cedono al richiamo di un ritorno giusnaturalistico, asserendo, come nella famosa ‘formula’ di Radbruch, che la legge perderebbe o, meglio, non acquisirebbe mai validità giuridica qualora fosse «intollerabilmente ingiusta». Il compito di fornire una versione equilibrata del p. g., sensibile alla problematica etica ma ferma nel ribadire la separazione tra diritto e morale, viene assunto da Hart, la cui teoria, perfezionata in The concept of law (1961, trad. it. Il concetto di diritto), ammette che norme giuridiche e morali possano avere come contenuto comune quei principi di condotta evidenti al fine della sopravvivenza e della pacifica convivenza umana («contenuto minimo di diritto naturale»), ma riporta senza esitazione la giuridicità delle regole non al loro contenuto ma alle modalità con le quali sono state elaborate e adottate, ovvero al fatto che tali regole abbiano superato le prove stabilite da una «norma di riconoscimento» per far parte dell’ordinamento giuridico. Le tesi hartiane, ripensate spesso alla luce della critica antipositivistica di Dworkin, sono alla base degli sviluppi attuali del p. g., attraversati da una controversia tra i sostenitori di un exclusive legal positivism (Joseph Raz) e i sostenitori di un inclusive legal positivism (Jules Coleman, Wilfrid Waluchow, David Lyons), che, rispettivamente, escludono o accettano la possibilità di una connessione tra diritto e morale.