Abstract
L’autore, dopo aver individuato la funzione dell’atto di precetto alla luce delle norme vigenti e il suo collegamento col titolo esecutivo, delinea i rapporti tra tale atto e l’attività esecutiva nel suo complesso, che, pur essendo riportabile all’area della giurisdizione, non sembra spiegabile nella sua struttura e nel suo svolgimento in base alla categoria del processo, così come questa nozione è utilizzata per spiegare l’attività giurisdizionale dichiarativa. Quindi, vengono analizzati i vari snodi applicativi della disciplina in materia, facendo emergere in particolare le posizioni della giurisprudenza in merito alla validità del precetto e della sua notificazione, nonché alla sua efficacia sostanziale e processuale.
Alla luce dell’art. 480 c.p.c. il precetto è l’atto con cui l’avente diritto ad una prestazione intima all’obbligato di adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine comunque non inferiore a dieci giorni e lo avverte che, in mancanza della sua cooperazione, si procederà ad esecuzione forzata. Insomma, nel detto atto si individua il diritto di cui si pretende la realizzazione, collegandolo a quanto rappresentato nel titolo esecutivo, ed in riferimento ad esso si realizza un duplice scopo. Per un verso, con l’intimazione, si dà all’obbligato una sorta di ultima possibilità di adempiere, prima di subire l’esecuzione forzata, e, per altro verso, con l’avvertimento, preannunciando la provocazione dell’attività esecutiva statale, si dà sempre all’obbligato la possibilità di reagire immediatamente, contestando con la cd. opposizione a precetto (art. 615, co. 1, c.p.c.) il diritto della parte intimante a procedere ad esecuzione.
Quanto all’individuazione del diritto di prestazione da realizzare la giurisprudenza fissa una serie di principi.
Innanzitutto ne qualifica l’essenzialità, affermando la nullità del precetto ove in esso non sia appunto individuato il diritto, soggettivamente ed oggettivamente, in riferimento al quale si chiede l’adempimento (Cass., 13.11.2009, n. 24047, in cui non erano stati descritti gli immobili da rilasciare; Cass., 5.5.2009, n. 10296, in cui non era stata quantificata la somma di denaro pretesa).
In secondo luogo, dall’idea per cui il contenuto del precetto debba armonizzarsi con quello del titolo esecutivo, salvo la necessità di tenere presenti eventuali vicende successive alla formazione di questo, aspetto sul quale poi torneremo, si sono tratte alcune conseguenze processuali in riferimento ai crediti pecuniari.
La prima attiene all’applicabilità anche in questo ambito del principio della non frazionabilità. Per cui il creditore che abbia notificato un precetto per una certa somma di denaro, in collegamento ad un dato titolo esecutivo, ed abbia ricevuto il relativo pagamento non può, poi, notificare un ulteriore precetto calcolando una somma aggiuntiva in riferimento a quello stesso credito, sulla base del medesimo titolo esecutivo (Cass., 15.3.2013, n. 6663, in Foro it., 2014, 1, 916).
La seconda emerge quando si afferma il principio, direi ovvio, per cui l’eccessività della somma indicata nel precetto ne determina solo un’inefficacia parziale, rimanendo esso valido per la somma effettivamente dovuta, magari riquantificata in sede di opposizione (Cass., 30.1.2013, n. 2160; Cass., 29.2.2008, n. 5515).
Quanto agli altri due elementi, l’intimazione ad adempiere e l’avvertimento della futura esecuzione forzata, se essi individuano gli scopi del precetto, se ne dovrebbe ricavare la loro essenzialità. Invece, sembra che l’opinione più accreditata ammetta la nullità del precetto, da far valere con l’opposizione agli atti esecutivi proposta nel relativo termine, per il solo caso della mancanza dell’intimazione (Cass., 24.3.2011, n. 6732), escludendo la nullità per il caso della mancanza dell’avvertimento (Cass., 24.10.1986, n. 6230), argomentando sulla base del rilievo per cui il precetto consisterebbe essenzialmente nell’intimazione ad adempiere, dal cui mancato rispetto deriverebbero semplicemente le ovvie conseguenze di legge.
Se la funzione del precetto, quale risulta dalla semplice lettura dell’art. 480 c.p.c., è certamente quella sopra descritta, assai discussa è la collocazione di questo atto rispetto al processo esecutivo. Diverse sono le opinioni in campo e da esse si traggono diverse conseguenze pratiche, tra le quali si ricordino solo quelle relative agli effetti sostanziali del precetto rispetto alla prescrizione del diritto di cui si pretende la realizzazione.
La gran parte delle opinioni in campo ritiene che quella esecutiva sia un’attività giurisdizionale che si svolge e si spiega mediante la categoria del “processo”, la quale a sua volta implica necessariamente anche la nozione di “domanda” quale suo atto fondativo. Così, partendo da questo presupposto, alcuni hanno visto nel precetto la domanda esecutiva, con la quale si inizierebbe il processo esecutivo, ancorché non l’esecuzione in senso stretto; altri, invece, dalla combinazione degli artt. 480, 481, 491 e 608 c.p.c. hanno tratto l’idea per cui il precetto sarebbe un atto stragiudiziale e preliminare all’inizio dell’esecuzione forzata (soprattutto in giurisprudenza: Cass., 19.9.2014, n. 19738; Cass., 28.9.2011, n. 19791; Cass., 24.5.2012, n. 8213; Cass., 29.3.2007, n. 7737; Cass., 25.3.2002, n. 4203); altri ancora hanno costruito la domanda esecutiva come una fattispecie a formazione progressiva, avendosi nel precetto solo “un pezzo” di essa, ossia l’affermazione del diritto di cui si chiede tutela, da completarsi nella successiva richiesta all’organo esecutivo di attuazione della pretesa.
Non vi è alcun dubbio che nell’attuale diritto vigente l’esecuzione forzata rientri in quella “giurisdizione” di cui si occupa l’art. 111 Cost., anche se qui probabilmente di attività giurisdizionale si possa parlare solo in senso formale, emergendo tale qualifica unicamente per la connessione con l’attività di ius dicere e per l’attribuzione di essa ad organi giurisdizionali. Invero al suo interno l’esecuzione forzata non è altro che realizzazione del diritto, cosa che si attua o col semplice riportare una certa situazione di fatto al dover essere (esecuzione in forma specifica: v. esecuzione forzata per consegna e rilascio, esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare) oppure con un’operazione economica che si risolve nell’individuazione di un bene e nella sua vendita (espropriazione forzata) al fine della realizzazione di un credito pecuniario. Insomma, se de iure condendo non vi sarebbe niente di distonico rispetto al quadro costituzionale se con legge ordinaria si attribuisse al creditore un diritto di aggressione, da esercitare nell’ambito di un percorso regolamentato, si deve affermare che de iure condito l’attività esecutiva è oggi imputabile (processualmente) allo Stato, che agisce per mezzo dei suoi organi giurisdizionali su sollecitazione derivante dall’esercizio dell’azione esecutiva.
Tuttavia questo rilievo non toglie che anche nell’attuale quadro normativo difficilmente si possa utilizzare la categoria del “processo”, quale modulo di attività unitariamente considerato, per spiegare l’esecuzione forzata. La tutela dichiarativa si esplica secondo un’attività che ben possiamo spiegare con la categoria del “processo”, che inizia con una domanda nella quale si individua il diritto fatto valere e si chiede per esso una certa tutela, insomma si postula un’ipotesi di sentenza che poi il giudice verificherà per dare o negare quel provvedimento che appunto nella domanda l’attore aveva richiesto. Ma, se si guarda all’attività esecutiva, questa unitarietà evapora.
Nell’atto di precetto si può certo ravvisare l’individuazione del diritto che si vuol realizzare, cosa che peraltro si àncora essenzialmente a quanto emerge nel titolo esecutivo. Ma non si può in esso vedere alcuna richiesta di tutela rivolta ad un organo giurisdizionale.
Né, facendo l’esempio del più complesso modulo dell’espropriazione forzata, si può veramente ravvisare una domanda, così come la si vede nel processo dichiarativo, ossia intesa come richiesta di una data tutela su un determinato oggetto, nella serie di istanze che successivamente il creditore formula, istanze rivolte a soggetti diversi, il giudice o l’ufficiale giudiziario, che fondano fasi diverse dell’esecuzione. La fase del pignoramento è stimolata dal creditore, che a volte individua il bene da aggredire, chiedendosi all’ufficiale giudiziario solo di notificare l’atto di pignoramento ed effettuare la formale ingiunzione di cui all’art. 492, co. 1, c.p.c., mentre altre volte questa individuazione è lasciata all’ufficiale giudiziario. Ma queste istanze del creditore non formulano alcuna richiesta di tutela per il credito, ma solo innescano un’attività strumentale alla realizzazione di un obiettivo intermedio. Lo stesso si può dire per la sollecitazione della fase di liquidazione e poi della fase di assegnazione del ricavato, sempre che quest’ultima esiga una simile sollecitazione, cosa da escludere sia quando vi è solo un creditore da soddisfare sia quando si sia avuta un’espropriazione immobiliare. Senza, poi, voler qui approfondire il problema della struttura della vendita forzata che certo non si può spiegare (solo) come un’attività processuale.
Da questi sommari rilievi emerge come sia del tutto discutibile l’idea di parlare in senso proprio di un processo esecutivo, quale sequenza unitaria retta da una domanda che inizia la serie, la quale appunto unitariamente punti a rispondere con un atto finale al contenuto di quella domanda. Un’idea del genere è un’astrazione, poco aderente al diritto positivo. Né essa è necessariamente derivabile dal presupposto da cui parte, ossia dalla qualificazione dell’esecuzione forzata come attività giurisdizionale.
Del resto, se di processo si dovesse parlare, si dovrebbe anche individuarne un oggetto unitario, che sarebbe appunto l’oggetto della domanda e del suo, necessariamente corrispondente, atto di risposta finale. Ma questo non è possibile almeno nell’esecuzione per espropriazione, la quale, se punta a realizzare il credito pecuniario insoddisfatto, che in sé dovrebbe quindi essere l’oggetto della domanda esecutiva, si sviluppa, tuttavia, per misure espropriative, anche plurime in riferimento allo stesso credito da realizzare, che hanno invece ad oggetto i diversi tipi di beni, la cui liquidazione esige diverse modalità espropriative, oggetti che spesso, ma non sempre, sono individuati dal creditore istante.
Insomma, se pur deve oggi restare indiscutibile la qualificazione in termini di giurisdizione dell’attività esecutiva, sembra che da tale qualificazione debba solo ricavarsi la duplice necessità che l’esecuzione non si metta in moto d’ufficio e che essa si svolga secondo moduli organizzati dalla legge.
Ed, allora, tornando al problema della cd. natura del precetto, volendo restare aderenti al diritto vigente, sembra che si possa dire semplicemente che esso, lungi dal contenere la domanda esecutiva, nozione non necessaria all’esecuzione forzata, sia tuttavia un atto processuale per il semplice fatto che con essa, più che esercitare il diritto di prestazione, si esercita piuttosto l’azione esecutiva.
Ciò è confermato da precisi dati normativi. Innanzitutto dal fatto che il precetto rappresenta il presupposto del successivo atto processuale, nel senso che questo non è validamente esplicato se prima non vi sia stato quello (Cass. 31.10.2013, n. 24662). Ed, anzi, come vedremo, quell’idoneità a fondare l’atto successivo è propria del precetto solo per un certo periodo di tempo. In secondo luogo l’impossibilità di qualificare il precetto quale atto stragiudiziale emerge dal fatto che a seguito della sua notifica sono possibili sia l’opposizione all’esecuzione sia l’opposizione agli atti esecutivi, rimedi che presuppongono un’attività esecutiva in atto. E se pure si volesse ritenere che la prima sia spendibile anche anteriormente all’inizio dell’attività esecutiva, vedendo nel precetto una sorta di preventiva provocatio ad opponendum, appunto giustificata dalla mancanza nel nostro sistema di un controllo preventivo sull’attualità del titolo esecutivo e del credito, francamente non si vede come si potrebbe giustificare la spendibilità del rimedio di cui all’art. 617 c.p.c. senza anche ritenere che il precetto sia un atto esecutivo. In terzo luogo la qualificazione del precetto come atto esecutivo emerge da dati formali ricavabili, per un verso, dal rinvio che l’art. 480 c.p.c. fa all’art. 125 c.p.c. per la sua sottoscrizione e, per altro verso, dalla menzione del precetto nell’art. 83, co. 3, c.p.c.
Da ciò si ricava che all’atto di precetto deve essere riferita la previsione di cui all’art. 2943, co. 1, c.c., la quale, ancorché parli impropriamente di “giudizio” esecutivo, intende evidentemente ancorare l’effetto interruttivo della prescrizione del diritto all’atto processuale iniziale di un’attività nel cui ambito si realizza una tutela giurisdizionale. Invero, se è nel precetto che il creditore afferma il diritto di prestazione alla cui realizzazione coattiva aspira e se è il precetto l’atto iniziale di esercizio dell’azione esecutiva, non si vede perché non dovrebbe alla notifica di questo atto ancorarsi quell’effetto sostanziale, senza che qui rilevi l’ult. co. dell’art. 2943 c.c., perché, si ripete, non si può ravvisare nel precetto un atto stragiudiziale di messa in mora.
La differenza di prospettive da questo punto di vista rileva in realtà, più che in riferimento all’effetto interruttivo del termine di prescrizione del credito, piuttosto in riferimento all’effetto sospensivo di quel termine. A tal proposito l’opinione più diffusa ritiene che i due effetti debbano comunque scindersi, collegandosi l’effetto interruttivo cd. istantaneo alla notifica del precetto e quello sospensivo, cd. di interruzione permanente, all’atto successivo di inizio dell’esecuzione in senso proprio (Cass., 19.9.2014, n. 19738, in cui si specifica che l’effetto sospensivo si aggiunge solo se, proposta opposizione a precetto, il creditore faccia domanda riconvenzionale; Cass., 29.3.2007, n. 7737, in cui si fa la stessa specificazione, chiarendo che basti la domanda di rigetto dell’opposizione; Cass., 25.3.2002, n. 4202).
Francamente una simile opinione non convince. Invero, delle due l’una: o si ritiene che l’attività esecutiva produca solo l’effetto interruttivo del termine di prescrizione del credito, perché nessuna norma prevede, esplicitamente o implicitamente, che a quello si aggiunga anche l’effetto sospensivo, oppure si ritiene che anche questo effetto venga prodotto, ed allora non si vede in base a quale principio o norma si possano scindere i due effetti in parola. Invero, non potendosi qui parlare propriamente di domanda, processo e litispendenza, non si vede la ragione che dovrebbe impedire di ancorare il doppio effetto sul termine di prescrizione, interruttivo e sospensivo, all’atto processuale di inizio della serie procedimentale, insomma all’atto di precetto.
Se si aderisce a questa seconda ricostruzione, cosa che comunque non appare scontata, resta il problema di individuare, alla luce dell’art. 2945, co. 2 c.c., un atto paragonabile a quello che è il giudicato nell’ambito del processo dichiarativo, atto che, lasciando perdere l’ipotesi in cui il creditore risulti soddisfatto, si suole ravvisare nella mancata realizzazione del credito per un motivo diverso dall’estinzione (Cass., 25.3.2002, n. 4203).
Come è stato detto, il precetto è atto essenziale per procedere ad esecuzione forzata, ma resta il fatto che esso non rappresenta la fattispecie costitutiva dell’azione esecutiva, che si ravvisa sempre nel titolo esecutivo. Di conseguenza al momento in cui riceve la notifica del precetto il debitore deve sapere qual è il titolo esecutivo in base al quale si vorrebbe poi procedere, altrimenti il precetto non può raggiungere neanche i suoi scopi di intimazione ad adempiere e di preavvertimento dell’imminente aggressione esecutiva.
Ecco allora che, se alla notifica del precetto non si aggiunge contestualmente la notifica del titolo esecutivo, in quello vi devono essere gli elementi per identificare il titolo esecutivo in virtù del quale si procede. Da questo principio si ricava l’essenzialità dell’indicazione della data di notifica del titolo esecutivo, cosa che emerge esplicitamente dall’art. 480, co. 2, c.p.c., ovvero, nel caso di cui all’art. 654, co. 2, c.p.c., la menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà del decreto ingiuntivo e l’apposizione della clausola esecutiva (Cass., 23.10.2014, n. 22510; Cass., 25.5.2007, n. 12230; Cass., 2.3.2006, n. 4649, che specificano la non sanabilità del vizio nel caso di proposizione di opposizione agli atti esecutivi, che di per sé non implica raggiungimento dello scopo), elementi che sono sostituiti dall’integrale trascrizione del titolo esecutivo nello stesso precetto quando quel titolo non circola in copia.
Insomma il precetto è atto processuale di esercizio dell’azione esecutiva che si fonda su un titolo esecutivo, al quale esso deve riportarsi nel momento in cui si intima l’adempimento appunto dell’obbligo che nel detto titolo è rappresentato, minacciando in caso contrario la sua realizzazione coattiva.
Ma, come si è già accennato, il precetto può e deve andare anche oltre il titolo esecutivo, adeguando questo ai mutamenti sostanziali successivi alla sua formazione: oggettivamente e soggettivamente.
Oggettivamente il precetto deve ad esempio quantificare la somma dovuta in meno se in parte il credito è stato realizzato, ancorché, ove non lo faccia, esso mantenga la sua efficacia (parziale) per la somma effettivamente dovuta.
Soggettivamente si devono tenere presenti i fenomeni successori, per cui evidentemente, dovendosi applicare gli artt. 475 e 477 c.p.c., il precettante potrà divergere da colui che appare essere il creditore nel titolo esecutivo e così il debitore precettato potrà essere soggetto diverso da colui che appare essere l’obbligato sempre nel titolo esecutivo (cfr. Cass., 7.7.1999, n. 7026, in cui si specifica che il precetto va notificato a colui che attualmente deve eseguire la prestazione). Fermo restando che ogni affermazione contenuta nel precetto sarà verificabile, in ipotesi, nell’ambito di una eventuale opposizione all’esecuzione.
Inoltre, a volte, il creditore precettante deve assumersi più ampie responsabilità, concretizzando, se così si può dire, quanto emerge dal titolo esecutivo. Si pensi solo alla attuazione della misura coercitiva generale di cui all’art. 614 bis c.p.c., irrogata dal giudice del processo dichiarativo per l’eventualità che non sia adempiuta l’obbligazione (principale) in virtù della quale sia stato pronunciato un provvedimento di condanna. In questo caso il creditore procedente deve nell’atto di precetto affermare il perdurante inadempimento dell’obbligazione principale e, quindi, quantificare la somma dovuta a titolo di misura coercitiva applicando il criterio stabilito dal giudice della cognizione. Tutti questi elementi dovranno allora andare ad arricchire un precetto, avverso il quale l’esecutato potrà sempre proporre opposizione all’esecuzione, contestando sia la sussistenza del suo inadempimento sia l’errata quantificazione della somma dovuta.
Oltre ai contenuti che abbiamo già indicato quali coessenziali agli stessi scopi del precetto, questo atto deve contenere altri elementi formali, alcuni esplicitamente previsti nell’art. 480 c.p.c., altri previsti in norme diverse.
Nell’art. 480 c.p.c. sono innanzitutto individuati elementi la cui presenza è prevista esplicitamente a pena di nullità. Trattasi dell’indicazione delle parti e di ciò che abbiamo già sopra visto essere necessario per individuare il titolo esecutivo, ossia l’indicazione della data di notificazione di esso, se questa è fatta separatamente, o la trascrizione integrale del titolo stesso, quando è richiesta dalla legge, caso in cui l’ufficiale giudiziario, prima della relazione di notificazione, deve certificare di avere riscontrato che la trascrizione corrisponde esattamente al titolo originale.
A questi se ne aggiungono altri che non sono previsti esplicitamente a pena di nullità.
In primo luogo si dispone che il precetto debba contenere l’avvertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di composizione della lite o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi un piano del consumatore. Con ciò si rinvia all’applicabilità di norme che disciplinano percorsi concorsuali relativi a debitori non soggetti a fallimento, tra i quali si pensi a quello ipotizzato per il consumatore (l. 27.1.2012, n. 3, così come modificato dal d.l. 18.10,2012, n. 179, convertito dalla l. 17.12.2012, n. 221), la cui concreta utilizzazione determina la sospensione delle procedure esecutive in atto (art. 10 l. n. 3/2012).
In ordine a tale elemento sono necessarie due precisazioni. La prima attiene al suo ambito di operatività, perché, per un verso, non si vede perché essa dovrebbe applicarsi anche in riferimento a crediti non pecuniari, dato che per rapporti obbligatori di questo tipo non potrebbero venire in gioco le dette procedure concorsuali, e, per altro verso, non sembra ragionevole imporre un simile avvertimento anche nei riguardi di debitori fallibili, anche se a tal proposito potrebbe in concreto essere dubbia la linea di confine tra fallibilità e non fallibilità, con particolare riferimento ai requisiti dimensionali. La seconda precisazione attiene alle conseguenze derivanti dalla mancanza del detto avvertimento. Invero se l’avvertimento all’obbligato di un’incipiente esecuzione forzata fosse considerato un elemento essenziale dell’atto di precetto, potrebbe anche ritenersi che esso dovrebbe essere completato dall’ulteriore avvertimento ora in parola. Ma, poiché, come abbiamo sopra visto, la giurisprudenza assume in merito una posizione più morbida, sembra che la stessa debba replicarsi qui, ritenendo così anche questo ulteriore avvertimento un elemento la cui mancanza non produce nullità (in questo senso Trib. Milano, 15.7.2016; Trib. Milano, 19.1.2016, in Dir. fall., 2016, 928; in senso contrario Trib. Milano, 23.12.2015, in Dir. fall., 2016, 929).
In secondo luogo il precetto deve contenere la dichiarazione del creditore di avere residenza nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione ovvero, in caso negativo, l’elezione di domicilio sempre in detto comune. La mancanza di tale indicazione non determina la nullità del precetto, ma da essa consegue l’applicabilità del seguito della stessa previsione, ossia accade che le opposizioni al precetto si propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato e le notificazioni alla parte istante si fanno presso la cancelleria del giudice stesso.
Qui emergono due regole da tenere distinte. La prima attiene all’individuazione del foro delle opposizioni ed essa, a seguito dell’intervento del Giudice delle leggi (C. cost., 19.6.1973, n. 84), suona nel senso che esso si radica nel luogo di dichiarazione di residenza o di elezione di domicilio da parte del creditore solo se in questo può aversi esecuzione forzata, mentre se ciò non può accadere, perché ad esempio in quel luogo non vi siano beni del debitore, quel foro sarà individuato nel luogo ove si è avuta la notifica del precetto. In questo senso va la pacifica giurisprudenza della Corte di cassazione, nella quale si precisa anche che, ove emerga la questione di competenza territoriale, sta al creditore opposto provare la pertinenza del luogo in cui ha eletto domicilio (Cass., 4.5.2006, n. 10288, in Riv. esecuzione forzata, 2006, 640; Cass., 29.5.2003, n. 8629, in Guida dir., 2003, fasc. 30, 51; Cass., 14.6.2002, n. 8588; Cass., 28.1.1997, n. 840; Cass., 26.5.1994, n. 5183, in Giust. civ., 1995, I, 1343). La seconda regola attiene al luogo in cui va notificata l’eventuale opposizione ed essa, a seguito di un ulteriore intervento sempre della Consulta (C. cost., 29.12.2005, n. 480, in Giur. it., 2006, 1445), suona nel seguente modo: pur quando, in base alla regola di competenza come sopra specificata, il debitore può instaurare le opposizioni a precetto nel luogo ove sia stato notificato il precetto, tuttavia dette opposizioni vanno notificate al creditore in ogni caso nel luogo in cui questi ha eletto domicilio, emergendo quale luogo di notifica la cancelleria del giudice dell’esecuzione solo ove quella elezione di domicilio manchi del tutto (Cass., 20.7.2011, n. 15901; Cass., 28.5.2009, n. 12540, in Riv. esecuzione forzata, 2009, 3).
In terzo luogo, l’ult. co. dell’art. 480 c.p.c. dispone che il precetto deve essere sottoscritto a norma dell’art. 125 c.p.c., disposizione questa che ha fatto emergere nell’esperienza concreta una serie di problemi formali. Innanzitutto sembrerebbe ragionevole ritenere che il precetto debba in ogni caso essere sottoscritto da qualcuno, con la conseguenza che l’atto mancante di sottoscrizione dovrebbe essere considerato nullo per la carenza di una sua imputabilità ad un soggetto giuridico. Tuttavia la giurisprudenza assume posizioni più elastiche, ritenendo sufficienti altri modi per attribuire il precetto ad un dato creditore, così ritenendo, ad esempio, che non emerga una nullità ove, pur mancando la sottoscrizione sia della parte sia del suo difensore, l’ufficiale giudiziario attesta di aver ricevuto la copia del precetto dal difensore e che questa è conforme all’originale (Cass., 2.6.2001, n. 8593; Trib. Monza, 25.6.2003; Trib. Desio, 25.6.2003; un po’ diversa la posizione di Trib. Fermo, 2.2.2002, in cui si salva il precetto ove, firmato l’originale dal difensore munito di procura rilasciata dalla parte, non risulta firmata la copia notificata). Emerge poi qui l’importanza della questione attinente alla cd. natura del precetto. Invero, se si ritiene che esso sia un atto processuale, cosa che in fondo appare confermata anche dal richiamo del precetto sia nell’art. 125 c.p.c. sia nell’art. 83 c.p.c., se ne dovrebbe ricavare anche la conseguenza per cui in riferimento ad esso deve valere l’obbligo della rappresentanza tecnica. Da ciò la necessità della sottoscrizione ad opera del difensore, il cui potere rappresentativo non può fondarsi sulla procura speciale ricevuta nell’ambito del processo dichiarativo eventualmente svoltosi in precedenza, bensì su un’ulteriore procura rilasciata al fine dello svolgimento dell’esecuzione forzata, al più, visto il secondo comma dell’art. 125 c.p.c., anche a seguito della notifica del precetto (in tal senso Cass., 18.9.2007, n. 19362; ma in senso contrario Cass., 19.7.1991, n. 8043, sul presupposto che il precetto non sia un atto processuale). Se, invece, come è opinione certamente maggioritaria in giurisprudenza, si qualifica il precetto quale atto stragiudiziale, se ne deve ricavare la possibilità per il creditore di firmare personalmente il precetto o al più attribuire il relativo potere rappresentativo ad un procuratore sostanziale (così Cass., 24.5.2012, n. 8213; Cass., 23.2.2006, n. 3998; Cass., 5.4.2003, n. 5368; Cass., 23.11.1994, n. 9913, in Giur. it., 1995, I, 1, 1196). In tale ultima prospettiva, al più, volendo comporre la contraddizione che emerge dalla lettura degli artt. 125 e 83 c.p.c., si potrebbe ritenere che rispetto al precetto la rappresentanza tecnica sarebbe, se non obbligatoria, quantomeno possibile, lasciandosi al creditore precettante la scelta.
Agli elementi che il precetto deve contenere alla luce dell’art. 480 c.p.c. se ne aggiungono, in alcuni casi, altri previsti da norme diverse. Si distingua a tal proposito un precetto che preannunci un’esecuzione per espropriazione da un precetto che preannunci un’esecuzione in forma specifica.
Nel primo caso si deve precisare che, se non rientra negli scopi “naturali” del precetto l’individuazione del bene che sarà assoggettato ad espropriazione, essendo questo scopo proprio del (successivo) pignoramento, tuttavia a volte già nell’atto di precetto quel bene va individuato. Ciò accade tutte le volte in cui l’esecuzione forzata sarà svolta (anche) avverso un terzo che, pur non obbligato, è tuttavia proprietario di un bene responsabile per il debito da realizzare. Così quando si hanno le condizioni di applicabilità dell’art. 2929 bis c.c. ovvero, più in generale, le condizioni di utilizzabilità della cd. espropriazione contro il terzo proprietario ai sensi degli artt. 602 ss. c.p.c., è necessario che nell’atto di precetto, da notificarsi anche al detto terzo, sia indicato il bene che si intende aggredire, oltre alla affermazione delle altre condizioni di cui al co. 1 del citato art. 2929 bis c.c., ove appunto sia questa norma a venire in gioco.
Per il secondo caso va ricordato l’art. 605 c.p.c., ai sensi del quale il precetto per consegna dei beni mobili o rilascio di beni immobili deve contenere, oltre le indicazioni di cui all’art. 480 c.p.c., anche la descrizione sommaria dei beni stessi. Ma qui, coincidendo il bene oggetto dell’aggressione esecutiva col bene dovuto per diritto sostanziale, evidentemente una simile indicazione nel precetto non è altro che la specificazione del contenuto del diritto di prestazione di cui si intima l’adempimento e rispetto al quale si preavverte il precettato della imminente realizzabilità forzata.
Il precetto, visto l’ult. co. dell’art. 480 c.p.c., va notificato personalmente alla parte a norma degli artt. 137 ss. c.p.c., disposizione questa che va letta insieme all’art. 479 c.p.c., alla luce del quale insieme alla notifica del precetto o anche prima va effettuata la notifica del titolo in forma esecutiva (cfr. Cass., 24.11.2005, n. 24812, in Riv. esecuzione forzata, 2006, 409, secondo la quale la mancanza della formula esecutiva è vizio sanabile per il raggiungimento dello scopo), anch’essa da farsi personalmente alla parte, con la conseguenza che se trattasi di una sentenza il creditore deve procedere ad una doppia notificazione: una al difensore di controparte al fine di accorciare i tempi dell’impugnazione ed una personalmente alla parte appunto ai fini esecutivi. Insomma, notifica del titolo esecutivo e del precetto sono intimamente collegate. Se è il titolo esecutivo ad essere la fattispecie costitutiva dell’azione esecutiva, è vero che il debitore deve essere portato a conoscenza di esso, per cui la notifica di un precetto senza previa o contemporanea notifica del titolo esecutivo non può essere considerata rituale, ma è anche vero che la sola notifica del titolo esecutivo senza contemporanea o successiva notifica del precetto non avvia l’esecuzione forzata, con la conseguenza, ad esempio, che prima della notifica del precetto non è spendibile un’opposizione agli atti esecutivi (Cass., 28.7.1997, n. 7047, in cui si specifica che la nullità della notifica del titolo esecutivo va fatta valere con opposizione agli atti esecutivi nel relativo termine decorrente dalla notifica del precetto).
Questi principi esigono alcune precisazioni, alla luce di altre norme che qui vengono in gioco. Innanzitutto, come si è già rilevato, vi sono ipotesi in cui non è necessaria la notifica del titolo esecutivo: quando per legge il titolo deve essere trascritto integralmente nel precetto e nell’ipotesi già indicata di cui al co. 2 dell’art. 654 c.p.c. In secondo luogo vi sono casi in cui la notifica del titolo esecutivo deve necessariamente precedere la notifica del precetto, come emerge dall’art. 477 c.p.c. ovvero quando l’esecuzione sia diretta avverso un’amministrazione dello Stato o un ente pubblico non economico, ipotesi in cui il creditore deve attendere centoventi giorni prima di poter notificare il precetto (art. 14 del d.l. 31.12.1996, n. 669 convertito dalla l. 28.2.1997, n. 30, e successive modifiche).
Inoltre ad essi la giurisprudenza ha dato attuazione fissando una serie di regole applicative.
Innanzitutto con specifico riferimento alla notifica del precetto si è affermato che la nullità di essa, perché non effettuata personalmente alla parte ovvero perché la notifica è avvenuta ad opera di ufficiale giudiziario incompetente, è sanata nel primo caso ove risulti che comunque la parte abbia avuto conoscenza di esso (Cass,. 10.1.2003, n. 193, in cui ci si riferisce ad una sorta di “costituzione” del debitore “convenuto” nel processo esecutivo; Trib. Foligno, 24.4.2001, in Rass. giur. umbra, 2003, 511, che vede il fatto sanante nell’avvenuta proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi nel relativo termine) e nel secondo caso comunque ove sia stata proposta opposizione agli atti esecutivi (Cass., 7.6.2013, n. 14495; Cass., 24.5.2013, n. 13038). Insomma, la giurisprudenza ha un atteggiamento piuttosto morbido rispetto ai vizi della notificazione del precetto, fino a formulare il principio generale per cui la proposizione dell’opposizione agli atti da parte dell’intimato finisce per sanare quei vizi con effetti retroattivi, perché con ciò è dimostrato che egli ha avuto conoscenza del precetto (Cass., 15.5.2001, n. 6706; Cass., 10.11.1992, n. 12084, in Giur. it., 1993, I, 1, 1708). Principio che, però, non dovrebbe operare né a fronte di ipotesi di nullità/inesistenza né nell’eventualità che il debitore faccia valere i vizi di notificazione con un’opposizione agli atti proposta nel relativo termine decorrente dal (successivo) primo atto di esecuzione in senso stretto (art. 617, co. 2, c.p.c.).
In secondo luogo si è affermato che, dovendo l’esecuzione forzata essere preceduta dalla notifica del titolo esecutivo e del precetto, in caso di mancanza si ha una nullità da far valere con l’opposizione agli atti esecutivi entro il relativo termine decorrente dal primo atto esecutivo ovvero dalla legale conoscenza di questo (Cass., 31.10.2013, n. 24662; Cass., 26.6.2015, n. 13212, in cui si afferma anche il discutibile principio per cui starebbe al debitore opponente provare la mancata notifica del titolo esecutivo, pur trattandosi di un fatto negativo; Cass., 31.3.2008, n. 8306, in cui si specifica che, stando solo all’interessato far valere il vizio, non c’è rilevabilità d’ufficio di esso da parte del giudice dell’esecuzione; Cass., 4.7.2006, n. 15275; Cass., 24.11.2005, n. 24812, in Riv. esecuzione forzata, 2006, 409).
Infine si aggiunga il principio per cui il vizio di notifica del titolo esecutivo va ad incidere sulla validità del precetto, il cui vizio va fatto valere con l’opposizione agli atti esecutivi nel relativo termine decorrente dalla notifica del precetto stesso (Cass., 28.7.1997, n. 7047).
Intimando l’adempimento e preavvertendo che in caso di sua mancanza si procederà ad esecuzione, il creditore deve dare al debitore un termine non minore di dieci giorni per l’adempimento, con la conseguenza che, come recita l’art. 482 c.p.c., l’attività esecutiva successiva non può essere messa in moto prima che sia decorso il termine concesso e comunque non meno dei dieci giorni minimi previsti dalla legge.
È certo che l’omessa indicazione del detto termine ovvero una sua quantificazione in meno di dieci giorni non provoca la nullità del precetto, perché quella lacuna o questa indicazione ben possono essere ovviate con l’operatività del termine di legge. Come sembra del tutto ragionevole ritenere che l’eventuale inizio dell’attività aggressiva prima della decorrenza del necessario termine dilatorio comporti la nullità del primo atto successivo alla notifica del precetto, da far valere con l’opposizione agli atti esecutivi (su entrambi i principi vedi Cass., 21.1.2002, n. 55).
Peraltro, alla luce sempre dell’art. 482 c.p.c., è possibile che il presidente del tribunale competente per l’esecuzione o un giudice da lui delegato (anche oralmente: Cass., 6.8.2010, n. 18355), se vi è pericolo nel ritardo, autorizzi l’esecuzione immediata, con cauzione o senza, con decreto apposto in calce al precetto e trascritto a cura dell’ufficiale giudiziario nella copia da notificare. Avverso questo decreto si ritiene che sia ammissibile l’opposizione agli atti esecutivi, ove vi sia un interesse, che può emergere quando la vicenda abbia provocato danni e l’interessato abbia avuto ragione nel merito (Cass., 12.2.2015, n. 2742). Ma francamente è singolare l’idea che si possa percorrere la strada tracciata dall’art. 617 c.p.c. entro il relativo termine quando il buon esito di quella strada deve dipendere dal riconoscimento di una ragione nel merito, che evidentemente presuppone la vittoriosa utilizzazione di un’opposizione all’esecuzione.
Infine, visto l’art. 481 c.p.c., si rileva come il precetto possa validamente fondare il successivo atto esecutivo solo se questo si ha nel termine di novanta giorni dalla sua notificazione, termine al quale, se si resta coerenti con la qualificazione del precetto quale atto processuale, dovrebbe applicarsi la disciplina sulla sospensione feriale.
Se, ovviamente, l’operatività di una simile disposizione presuppone che nel precetto si intimi l’adempimento di un debito scaduto o comunque esigibile alla data di notifica di esso (Cass., 14.2.2013, n. 3656), sui suoi meccanismi applicativi sono necessarie diverse precisazioni.
Innanzitutto è da precisare come l’indicato termine di novanta giorni sia di decadenza, con la duplice conseguenza per cui, per un verso, una volta che essa sia stata evitata con l’inizio di una prima misura espropriativa entro il detto termine, l’unico precetto originario ben può fondare altre e successive misure espropriative (Cass., 28.4.2006, n. 9966; Cass., 31.5.2005, n. 11578; Trib. Reggio Emilia, 25.5.2014; Trib. Bari, 20.3.2008), e, per altro verso, l’atto esecutivo successivo al precetto compiuto oltre quel termine è affetto da un vizio rilevabile in sede di opposizione agli atti esecutivi (Cass., 27.3.2014, n. 7206; Cass., 13.10.2009, n. 21683), con l’ulteriore conseguenza che il creditore, accertata la nullità, dovrà rinnovare l’atto di precetto, ma non anche notificare nuovamente il titolo esecutivo (Cass., 23.4.2003, n. 6448).
In secondo luogo si deve precisare che cosa il legislatore intenda quando usa il concetto di “inizio” dell’esecuzione forzata, ossia quali fattispecie sono idonee ad evitare la perenzione del precetto.
La risposta dovrebbe essere semplice nell’area dell’esecuzione in forma specifica, perché, se l’esecuzione per rilascio di immobili inizia con la notifica dell’avviso di cui all’art. 608 c.p.c., o per essere più precisi la perenzione del precetto è evitata ove nel relativo termine l’istante abbia presentato la relativa istanza all’ufficiale giudiziario, e nell’esecuzione per obblighi di fare l’onere del procedente è assolto al momento del deposito del ricorso di cui all’art. 612 c.p.c., sembra che nell’esecuzione per consegna di cose mobili il termine di efficacia del precetto sia rispettato ove prima della sua scadenza si abbia l’accesso ai sensi dell’art. 606 c.p.c.
Essa si rivela, invece, più complessa in riferimento all’esecuzione per espropriazione, perché bisogna verificare in quale senso l’art. 491 c.p.c. utilizza la parola “pignoramento”, in quanto vi sono ipotesi in cui il pignoramento si perfeziona per mezzo dell’attuazione di una fattispecie complessa o almeno una simile complessità è necessaria al fine di rendere opponibili ai terzi i suoi effetti sostanziali. In tali casi solo il primo atto della fattispecie complessa è necessario perché si eviti la perenzione del precetto. Così in riferimento al pignoramento del credito basta la notifica dell’atto di cui all’art. 543 c.p.c., in riferimento al pignoramento immobiliare basta la notifica dell’atto di cui all’art. 555 c.p.c. e in riferimento al pignoramento dell’autoveicolo è sufficiente la notifica dell’atto di cui all’art. 521 bis c.p.c.
Né sembra che recenti discipline cambino la prospettiva tradizionale. Per un verso, non si può certamente ritenere che al fine di evitare la perenzione del precetto sia anche necessaria l’iscrizione a ruolo del pignoramento. Per altro verso, sembra che si debba negare l’impedimento della detta perenzione già solo con l’istanza rivolta al presidente del tribunale al fine della ricerca telematica dei beni da pignorare ai sensi dell’art. 492 bis c.p.c., anche se quest’ultima conclusione, pur corrispondente alle norme vigenti, ha suscitato in dottrina ragionevoli obiezioni.
In terzo luogo emerge la possibilità che quel termine di novanta giorni venga sospeso. A tal proposito si deve coordinare la disposizione dell’art. 481, co. 2, c.p.c., con quella contenuta nell’art. 615, co. 1, c.p.c.
La prima disposizione collega alla proposizione della cd. opposizione a precetto una sospensione ex lege del suo termine di efficacia, con la conseguenza che il creditore procedente può optare per un arresto di fatto della serie procedurale, senza che però, in caso di una sua scelta diversa, gli sia impedito il compimento dell’atto esecutivo successivo (Cass., 13.4.2011, n. 8465; Cass., 3.6.1994, n. 5377). Se, invece, il debitore opponente vuole propriamente provocare la sospensione dell’esecuzione, ossia l’impedimento dell’atto successivo al precetto, egli deve sperare di ottenere dal giudice dell’opposizione la pronuncia di un provvedimento di sospensione ai sensi del co. 1 dell’art. 615 c.p.c.
Infine, si ricorda come, ritenendo che la notifica del precetto produca un doppio effetto sul termine di prescrizione dell’affermato diritto di prestazione, se ne debba ora ricavare la conseguenza per cui la perenzione del precetto finisce per risolvere l’effetto sospensivo, sopravvivendo solo il provocato effetto interruttivo.
Artt. 479-482 c.p.c.
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