Prezzi
Per 'prezzo' si intende il valore di un bene, cioè la quantità di altri beni che è possibile acquistare con un'unità del bene stesso. Il prezzo di un litro di vino è pari a due quintali di grano se con un litro di vino si possono ottenere due quintali di grano. Il prezzo è quindi un rapporto di scambio fra due beni, e può anche essere definito valore di scambio. Si tratta qui del prezzo relativo fra due beni, ma una società in cui vi siano molti beni e servizi prodotti e scambiati necessita di un'unità di misura unica per regolare gli scambi stessi. Il prezzo in moneta, o prezzo nominale, indica la quantità di moneta che è richiesta per acquistare un'unità fisica del bene o la quantità di moneta che si ottiene vendendo la stessa unità di bene. Quindi i prezzi monetari servono per confrontare facilmente fra di loro i vari beni senza dover ricorrere ad un numero elevatissimo di rapporti di scambio. Ogni bene o servizio ha un prezzo monetario e se n sono i beni e servizi scambiati avremo n-1 prezzi relativi.Il luogo in cui i beni si scambiano è il mercato, ed è sul mercato che per ogni bene viene scambiata una certa quantità ad un certo prezzo, ricordando che il prezzo va sempre riferito all'unità fisica del bene, cioè è un valore unitario.
Il problema del valore di scambio e quindi del prezzo è uno dei problemi cruciali della scienza economica, dal momento che da esso dipende sia la ricchezza relativa degli individui e dei gruppi sociali sia quella degli Stati. Gli individui o gli Stati che producono beni con prezzi elevati rispetto ad altri beni e servizi godono ovviamente di un alto potere di acquisto. Il valore di scambio di merci e servizi è quindi un rapporto fra i produttori degli stessi, dal momento che ogni consumatore di un bene è tale perché ha un reddito, o ricchezza, che si è procurato in quanto venditore su altri mercati (v. Lunghini, 1986, pp. 104-105).
Molte sono le teorie economiche che hanno cercato di rispondere al quesito: perché un bene vale più di un altro? In sostanza si tratta di descrivere e studiare i meccanismi di mercato, e non solo, che spiegano la formazione del valore di scambio. Esamineremo di seguito le principali teorie del valore di scambio e le innumerevoli definizioni della nozione di prezzo che ne sono derivate.
Il problema del valore dei beni è stato affrontato fin dall'antichità (v. Schumpeter, 1954; tr. it., vol. I, pp. 63 ss.); ai tempi della Scolastica, con San Tommaso e Duns Scoto, il tema del valore viene analizzato in termini etici, come problema del giusto prezzo, allo stesso modo in cui si pone la questione di un giusto salario e di un giusto tasso di interesse. Ma l'estensione dei commerci, soprattutto a seguito della scoperta dell'America, e l'affermarsi in Europa del capitalismo - almeno nella sua forma mercantile -, pongono non solo problemi etici, ma richiedono di capire i meccanismi e le leggi che regolano la determinazione dei prezzi dei beni e dei servizi sui mercati.
È con l'affermazione della divisione sociale del lavoro che il problema del prezzo diviene centrale per ogni ragionamento economico. Secondo Smith le società moderne sono caratterizzate da un elevato grado di divisione sociale del lavoro, cioè vi è una specializzazione dei compiti fra gli individui che compongono la società; chi si occupa dell'agricoltura, chi dell'industria, chi dell'educazione, chi della giustizia e così via (v. Smith, 1776, libro I, capp. 1 e 2). La divisione dei compiti e delle funzioni procede di pari passo con l'evoluzione della storia umana dalle società primitive fino a quelle caratterizzate dal commercio e dalla produzione capitalistica. In una società capitalistica gli individui ricorrono solo in piccola parte alla produzione diretta dei beni e dei servizi necessari; per soddisfare la maggior parte dei beni devono in genere ricorrere al mercato, cioè devono scambiare le merci che hanno prodotto e che sono in eccesso rispetto alle proprie esigenze con altre merci prodotte da altri individui. Quindi, in seguito alla divisione sociale del lavoro si diffonde il sistema degli scambi e si pone allora il problema del prezzo, cioè del rapporto che regola lo scambio di due merci. Il concetto di prezzo relativo esiste anche nelle società primitive basate sul semplice baratto, ma è soltanto nelle società moderne che il sistema degli scambi si generalizza. Il prezzo relativo indica dunque il potere d'acquisto di una merce rispetto alle altre; la teoria economica studia le cause per cui una merce ha più valore di un'altra.
I prezzi in moneta sono l'espressione comune del valore di scambio dei beni, quella in cui ci si imbatte normalmente; in questo modo si evita di ricorrere a un numero elevatissimo di rapporti di scambio, come succederebbe se dovessimo avere per ogni bene il suo prezzo relativamente a tutti gli altri beni. La moneta, afferma Adam Smith, facilita la divisione del lavoro e la specializzazione dei compiti, e al tempo stesso fornisce l'unità di misura, il numerario, con cui rappresentare il prezzo dei beni. Ma lo stesso Smith distingue il prezzo reale delle merci dal loro prezzo nominale: il secondo è il prezzo in moneta, il primo è la quantità di lavoro che una merce può acquistare (v. Smith, 1776, libro I, cap. 4). Smith preferisce ricorrere alla misurazione in termini di potere di acquisto sul lavoro, proprio perché ritiene che i prezzi monetari possano fornire indicazioni esatte del valore di scambio di un bene solo in presenza di un valore costante della moneta utilizzata.In termini parzialmente diversi da quelli utilizzati da Smith, il problema si pone anche oggi, soprattutto nell'analisi delle serie storiche di determinate grandezze economiche, ad esempio il PIL, ma un discorso analogo vale per i consumi, gli investimenti e così via. Queste e altre grandezze sono spesso definite a prezzi correnti, intendendo con ciò il loro valore nominale secondo i prezzi monetari dell'anno cui si riferiscono.
Le stesse grandezze sono misurabili a prezzi costanti quando ogni grandezza annuale, come il PIL, è valutato con i prezzi monetari di uno stesso anno preso come base di riferimento. Ad esempio, se si valuta il PIL del 1990 a prezzi 1980, si può vedere il tasso medio annuo di incremento reale del reddito, depurato della variazione nel valore del reddito dovuta alla modificazione dei prezzi monetari delle merci che lo compongono. Ciò che importa è l'indicazione della maggiore disponibilità di merci e servizi in termini fisici, cioè dell'incremento di potere di acquisto dei cittadini del paese.In sostanza il problema posto da Smith oggi si presenta in riferimento al tasso di variazione del valore della moneta usata come numerario, cioè al tasso di inflazione.
In periodi di elevata inflazione i redditi espressi in moneta sono di per sé poco significativi dell'effettivo potere di acquisto: bisogna conoscere il tasso di inflazione. Essendo la moneta lo strumento con cui vengono rappresentati i prezzi di tutti beni, il livello generale dei prezzi è un indice che risulta da una media, solitamente ponderata, dei prezzi dei vari beni e servizi prodotti in un paese; in sostanza si tratta di un prezzo monetario medio del prodotto lordo del paese. Il tasso di inflazione è la variazione nel tempo di questo particolare prezzo, o di indici ad esso collegati, per esempio l'indice dei prezzi al consumo. Più elevato è il tasso di inflazione, maggiormente perde valore la moneta nel tempo; così il reciproco del livello generale dei prezzi viene spesso utilizzato come indicatore del valore della moneta.
Il problema di confrontare grandezze in termini reali e non solo monetari si pone anche nel caso di un confronto fra diverse grandezze nello spazio oltre che nel tempo; ad esempio il valore del reddito nazionale dei vari Stati viene oggi confrontato secondo il metodo delle parità di potere d'acquisto, o PPP (dall'inglese purchasing power parities).
Questo metodo consente di tener conto del fatto che il valore reale di un dollaro in un paese povero, cioè i beni e servizi che il dollaro consente di acquistare, sia assai più elevato che in un paese ricco. Esso è stato utilizzato su larga scala per la prima volta nel 1986 da Summer e Heston, che hanno costruito tavole rappresentative del reddito nei vari paesi non basate sui dollari, ma sul potere d'acquisto. È invece dubbio che il metodo delle parità di potere di acquisto sia utile nella spiegazione dei tassi di cambio e delle loro variazioni (v. Sylos Labini, 1983, p. 200, n. 2).
Come prima accennavamo, i concetti di prezzo di mercato e di prezzo naturale si devono ad Adam Smith, che nella Ricchezza delle nazioni definisce con precisione queste nozioni (v. Smith, 1776, libro I, cap. VI). Il prezzo naturale è un elemento essenziale per comprendere la teoria dei prezzi e del valore propria degli economisti classici inglesi. Secondo Smith "quando il prezzo di una merce non è più né meno di quanto è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale impiegati nel coltivare, preparare e portare al mercato la merce stessa, secondo i loro saggi naturali, quella merce verrà venduta per quello che si può chiamare il suo prezzo naturale" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 52). Il prezzo naturale è perciò un prezzo che definisce quanto la merce costa al produttore in una situazione in cui gli inputs sono remunerati ai loro saggi naturali.
Siano: r il saggio di profitto, re la rendita per unità di terra, w il salario per unità di lavoro, L, T e K rispettivamente le quantità di lavoro, terra e capitale impiegate nella produzione. Il prezzo naturale può essere descritto dalla seguente equazione:
pn = wL + reT+K. (1)
I saggi naturali dipendono dalle caratteristiche generali della società, e in particolare dalla sua ricchezza e dallo stato di progresso economico, di regresso o di stazionarietà che la contraddistinguono. È importante sottolineare che il concetto di prezzo naturale stabilisce un legame preciso fra il problema del valore e quello della distribuzione, cioè la ripartizione del prodotto fra le classi sociali: i salari vanno ai lavoratori, le rendite ai proprietari terrieri e i profitti ai capitalisti imprenditori. Il prezzo naturale è dunque un elemento analitico che lega il problema del valore di scambio alla particolare divisione sociale del lavoro che caratterizza l'Inghilterra alla fine del Settecento, in cui il capitalismo è ormai la forma economico-sociale emergente. Un tentativo di legare il valore di scambio alla distribuzione del prodotto nella società era già stato tentato da Richard Cantillon agli inizi del XVIII secolo con la teoria delle tre rendite.
Secondo Cantillon, il prodotto dell'agricoltura si distribuisce in 'tre rendite', ognuna pari ad un terzo del valore totale, che spettano rispettivamente ai proprietari terrieri, ai fittavoli e ai salariati agricoli (v. Cantillon, 1755; tr. it., p. 31). Lo stesso Cantillon aveva usato per indicare il prezzo di lungo periodo l'espressione 'valore intrinseco'. Ma sia Cantillon che, prima di lui, sir William Petty avevano mantenuto un'idea di prezzo di lungo periodo, o valore, prevalentemente legata al costo di produzione di una merce, e quindi dipendente soprattutto dai costi sostenuti per la sussistenza dei lavoratori e per le materie prime impiegate nella produzione (v. Petty, 1662, pp. 44, 68, 92).
Nel 1757, con François Quesnay, emerge il concetto di prezzo fondamentale, che comprende sia i costi di produzione che un elemento del prodotto netto della società: le rendite. Il prezzo fondamentale è dato dal costo unitario per l'imprenditore agricolo e quindi indica il livello di prezzo al di sotto del quale egli subisce una perdita (v. INED, 1958, p. 555). Ma Quesnay nel prezzo fondamentale non include, come farà poi Smith, il profitto normale dell'imprenditore-capitalista. È solo con Smith che troviamo una chiara specificazione delle componenti del prezzo in una società capitalistica (v. Smith, 1776, libro I, cap. VI).
Il prezzo di mercato è generalmente diverso dal prezzo naturale. Infatti se la quantità di una merce prodotta è differente dalla sua domanda effettiva, cioè da quella particolare quantità che può essere venduta al prezzo naturale, allora il prezzo di mercato sarà diverso da quello naturale. In particolare, se la quantità prodotta di una merce è superiore alla domanda effettiva, il suo prezzo di mercato è inferiore al prezzo naturale; nel caso contrario il prezzo di mercato è superiore al prezzo naturale. Il concetto di domanda effettiva definisce qui la particolare quantità di merce che in base all'esperienza si presume possa essere venduta a un prezzo di mercato pari a quello naturale. Per questo particolare livello di produzione prezzo di mercato e prezzo naturale coincidono. La nozione di domanda effettiva non va confusa con quella di funzione, o curva di domanda di tipo marginalista o neoclassico, poiché non si tratta di una relazione funzionale fra prezzi e quantità, ma soltanto di un punto nello spazio ideale a due dimensioni in cui abbiamo i prezzi sull'asse verticale e le quantità su quello orizzontale (v. Garegnani, 1983).
I prezzi di mercato non possono allontanarsi permanentemente dal loro prezzo naturale. Per usare un'espressione ormai diffusa, il prezzo di mercato di un bene prodotto 'gravita' attorno al suo prezzo naturale: può essere più basso o più alto, ma non si può allontanare sistematicamente da esso. Per questa ragione quello di prezzo naturale è considerato il concetto fondamentale nella teoria dei prezzi dell'economia politica classica. Si tratta di un prezzo di lungo periodo, o normale, o di riferimento, mentre i prezzi di mercato sono prezzi di breve periodo, ovvero determinati da circostanze occasionali le quali fanno sì che in un certo momento la produzione di un bene sia differente dalla domanda effettiva. Tali circostanze possono essere legate a situazioni 'naturali', ad esempio le condizioni meteorologiche nel caso delle produzioni agricole, ma anche ad errori di valutazione da parte dei produttori circa la domanda effettiva di una certa merce. L'idea che vi sia un prezzo di lungo periodo o normale non è limitata all'economia politica classica, ma si trova anche in Alfred Marshall (v., 1890, cap. 8). La distinzione fra prezzo di mercato e valore intrinseco delle merci, o fra prezzi che oscillano frequentemente e valori che sono stabili e dipendono dalle condizioni di produzione, è precedente a Smith e si può trovare già in Petty e Cantillon (v. Hollander, 1973, p. 41). Ma solo Smith descrive con precisione il meccanismo di oscillazione dei prezzi di mercato attorno a quelli naturali.
Questo meccanismo, che ricorda la meccanica newtoniana, è ormai usato per rappresentare le condizioni di libera, o perfetta, concorrenza fra imprese. Quando in un settore il prezzo di mercato è più alto di quello naturale, le imprese di tale settore ottengono un saggio di profitto più elevato di quello medio o normale. Nulla vieta che ad essere più elevato sia il saggio di salario, o quello di rendita, o tutti e tre i saggi di remunerazione degli inputs. Ma dal momento che sono gli imprenditori-capitalisti a decidere quanto produrre e dove investire, è più realistico supporre che i saggi di salario e di rendita siano all'incirca gli stessi per tutti i settori produttivi, sicché eventuali prezzi di mercato più alti di quelli naturali vanno direttamente a beneficio dei capitalisti. In assenza di barriere legali o tecnologiche all'ingresso, le imprese investiranno in quei settori che mostrano saggi di profitto più elevati della media. Se lo spostamento di capitali, e quindi di capacità produttiva fra settori, avviene in tempi relativamente brevi e con costi trascurabili, nei settori con più alti saggi di profitto la produzione aumenta.
Data la domanda effettiva, l'aumento della quantità prodotta determina una riduzione del prezzo di mercato, dal momento che ora la produzione da vendere è più elevata di prima. Il minor prezzo di mercato comporta un saggio di profitto inferiore a quello precedente. Quando il saggio di profitto del settore è pari a quello di ogni altro settore produttivo le imprese non hanno dunque più convenienza a spostare capitali, e quindi la quantità prodotta in ogni settore non si modifica: si è cioè raggiunto il livello di prezzo che definiamo naturale. Il meccanismo inverso vale nel caso in cui nella situazione iniziale il prezzo di mercato sia inferiore a quello naturale. Secondo Smith, quando r è uniforme in tutti i settori si è raggiunta una condizione di equilibrio. Va sottolineato che per Smith l'aspetto più importante del processo di gravitazione non consiste tanto nell'effettivo raggiungimento del prezzo naturale, quanto nell'impossibilità per il prezzo di mercato di muoversi 'senza regole' e di sfuggire all'attrazione rappresentata dal prezzo naturale, che rappresenta quindi il prezzo di riferimento di lungo periodo per i prezzi dei beni la cui produzione può essere modificata.
Il concetto di equilibrio legato all'uniformità del saggio di profitto in tutti i settori verrà successivamente adottato da David Ricardo e Karl Marx, e si trova anche nelle versioni moderne della teoria classica dei prezzi. Questo concetto dipende dall'ipotesi di libera circolazione dei capitali e di ricerca del massimo saggio di profitto da parte delle imprese. Si noti che queste ipotesi sono alla base anche della descrizione dell'equilibrio in mercati concorrenziali nell'economia marginalista e neoclassica.
Per l'analisi delle teorie dei prezzi David Ricardo costituisce un punto di riferimento importante per due ragioni. In primo luogo egli distingue due tipi di merci: quelle 'riproducibili', la cui quantità prodotta può essere aumentata senza problemi, e quelle 'non riproducibili', per cui vi sono difficoltà ad incrementare la produzione (v. Ricardo, 1817; tr. it., pp. 7-9). Queste difficoltà possono derivare dalla natura particolare della merce, ad esempio quando si tratta di opere d'arte esclusive per cui la quantità è rigidamente fissata, o di merci, come i vini pregiati, la cui quantità può variare, ma in modo assai limitato, oppure vi possono essere condizioni di mercato, ed in particolare di monopolio, le quali fanno sì che la quantità prodotta non si adegui alla domanda effettiva. Il prezzo di queste merci dipende dalla loro scarsità relativamente alla domanda. Ma secondo Ricardo la maggior parte delle merci ricade nella categoria delle merci riproducibili ed il loro prezzo naturale dipende sostanzialmente dalle condizioni di produzione e dai saggi che definiscono la distribuzione del prodotto sociale. Quindi egli accetta la distinzione smithiana fra prezzo di mercato e prezzo naturale, e ritiene che quest'ultimo dipenda dal lavoro necessario a produrre la merce stessa.
Inoltre Ricardo, contrariamente a Smith, ritiene valida la teoria del valore-lavoro anche in una società capitalistica. Secondo Smith, in una società primitiva, in cui le terre ed i beni capitali sono a disposizione di tutti e non sono ancora divenuti proprietà privata, le merci si scambiano secondo le quantità di lavoro necessarie per produrle. "Se, ad esempio, presso un popolo di cacciatori, uccidere un castoro costa generalmente un lavoro doppio che uccidere un cervo, un castoro si scambierà naturalmente per due cervi ossia avrà il valore di due cervi" (v. Smith, 1776; tr. it., libro I, p. 45). Qui Smith fornisce un chiaro esempio di prezzo relativo; ma nella società capitalistica i prezzi devono includere anche rendite e profitti, quindi lo scambio non può più essere regolato esclusivamente dalle quantità di lavoro incorporate nella produzione di un bene.
Nei Principi dell'economia politica e delle imposte David Ricardo utilizza invece la teoria del valore-lavoro come spiegazione dei prezzi relativi anche in presenza di profitti e rendite positivi. Nell'esempio seguente consideriamo due merci, a e b, per la cui produzione non si pagano rendite, e vediamo come vengono determinati i prezzi; essi devono innanzitutto consentire di pagare i salari di sussistenza dei lavoratori, salari che sono stati anticipati dai capitalisti all'inizio del periodo di produzione. Ma i prezzi devono anche includere i profitti dei capitalisti che hanno effettuato l'anticipazione dei salari e coordinato la produzione. Quindi possiamo esprimere i prezzi delle due merci con il seguente sistema di due equazioni:
pa = wla + rwla = wla(1+r) (2)
pb = wlb + rwlb = wlb(1+r)
pa e pb sono i prezzi rispettivamente delle merci a e b e la e lb le quantità di lavoro complessivamente necessarie rispettivamente per produrre un'unità di a e b. Si suppone che: 1) i saggi di salario e di profitto siano uniformi in entrambi i settori; 2) il capitale anticipato dagli imprenditori all'inizio del ciclo produttivo sia costituito solo dai salari; 3) il periodo di produzione sia di uguale lunghezza, ad esempio un anno, per entrambe le merci.In base alle ipotesi 1-3, dal sistema (2) discende che:
pa/pb=la/lb.
Quindi il prezzo relativo dei due beni è determinato esattamente dalle quantità di lavoro necessarie nella loro produzione; questa eguaglianza esprime la teoria del valore-lavoro.
Lo stesso Ricardo sottolinea che le condizioni in base alle quali i prezzi dei beni sono proporzionali alle quantità di lavoro necessarie per la loro produzione sono in realtà assai restrittive, soprattutto quelle richiamate nelle ipotesi 2) e 3). Il periodo di produzione può essere di differente durata e, soprattutto, il processo produttivo può richiedere l'impiego anche di strumenti di produzione e quindi di beni capitali diversi dal lavoro (v. Ricardo, 1817; tr. it., pp. 20-23). Ma sarà Karl Marx nel III libro del Capitale a precisare le condizioni in cui vale la teoria del valore-lavoro ed a proporne il superamento come teoria della determinazione dei prezzi relativi delle merci.
Secondo Marx, nel caso di un'economia capitalistica caratterizzata da libera circolazione dei capitali, e quindi da un saggio uniforme di profitto, le merci si scambiano secondo le quantità di lavoro direttamente ed indirettamente incorporate solo in condizioni talmente restrittive da essere assai poco realistiche. Supponiamo di avere due soli settori produttivi: il primo settore produce la merce 1 che è un mezzo di produzione (strumenti, attrezzi, materie prime, ecc.), include cioè gli elementi che secondo Marx costituiscono il capitale costante c; il secondo settore produce la merce 2, cioè l'insieme dei beni-salario dei lavoratori. Come in Ricardo, sia i beni-salario che i mezzi di produzione devono essere anticipati dai capitalisti all'inizio del periodo di produzione. Siano c₁ e c₂ il capitale costante dei settori 1 e 2, ossia il valore dei mezzi di produzione impiegati per produrre rispettivamente un'unità di merce 1 e 2. Siano v₁ e v₂ i valori del capitale variabile nei due settori, cioè il valore della forza lavoro e quindi il monte salari per unità di prodotto nei due settori; s₁ e s₂ rappresentano il plusvalore nei settori 1 e 2; il plusvalore è dato dalla differenza fra la quantità di tempo lavorato e quella pagata ai lavoratori nei due settori. La teoria del valore-lavoro come teoria dei prezzi relativi vale solo se tutti i settori presentano la stessa 'composizione organica del capitale', cioè lo stesso rapporto c/v. Questo rapporto è oggi chiamato rapporto capitale-lavoro, K/L, e dovrebbe essere uniforme per tutti i settori. Chiaramente tale condizione presuppone che la tecnologia impiegata sia sostanzialmente la stessa per tutti i processi produttivi, il che è palesemente impossibile.
Oltre a criticare l'uso della teoria del valore-lavoro come teoria dei prezzi, Marx ne propone il superamento mediante la nozione di prezzi di produzione, che derivano dalle quantità di lavoro incorporate, ma obbediscono alla regola dell'uniformità del saggio di profitto. Secondo Marx sia la merce 1 che la merce 2 sono utilizzate nella produzione di se stesse e dell'altra merce, quindi sono sia inputs che outputs dei rispettivi settori produttivi. A differenza del sistema (2) in cui il lavoro è l'unico input in entrambi i settori, nell'esempio di Marx troviamo un sistema di due equazioni e due merci prodotte, che sono anche i due inputs necessari. Si tratta di un sistema input-output di tipo quadrato, due per due. I prezzi di produzione vengono determinati nel seguente modo (v. Marx, 1867-1894, libro III, cap. 9; v. Napoleoni, 1976, par. 3.5):
p1 = (c1+v1)(1 +r) (3)
p2 = (c2+v2)(1+r)
Secondo Marx i prezzi p₁ e p₂, e quindi il prezzo relativo delle due merci, dipendono dalle quantità di lavoro incorporate sia come capitale costante che come capitale variabile nei due settori e dall'unico saggio di profitto ottenuto come rapporto fra il totale del plusvalore ed il totale del capitale:
r = (s1+s2)/(v1+v2+c1+c2) (4)
La formulazione analitica del sistema è estremamente interessante e prelude chiaramente all'analisi moderna dei prezzi di produzione, ma contiene un vizio logico che rende la soluzione marxiana del problema errata. Nel sistema (3) le merci 1 e 2 vengono scambiate secondo i prezzi di produzione p₁ e p₂ in quanto merci prodotte, outputs, ma vengono contabilizzate al valore-lavoro fra gli elementi di costo, cioè come inputs. Infatti il settore 1 acquista dal settore 2 i beni-salario di cui necessita pagandoli v₁, e quindi secondo le quantità di lavoro incorporate, non secondo il prezzo di produzione p₂; lo stesso problema riguarda il valore delle altre tre grandezze che indicano gli inputs: v₂, c₁ e c₂.
La formulazione corretta del sistema di equazioni che determina i prezzi relativi si deve a Ladislaus von Bortkievicz, che agli inizi del secolo 'corresse' l'impostazione di Marx e aprì la strada alla teoria moderna dei prezzi di produzione. Ma in questa sede analizzeremo direttamente la rappresentazione moderna della teoria dei prezzi di produzione che si deve all'opera di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci (v. Sraffa, 1960), in cui la determinazione dei prezzi relativi ed il loro significato vengono definitivamente chiariti. Seguendo la simbologia e le ipotesi di Sraffa sostituiamo alle merci 1 e 2 di Marx le merci a e b: il sistema produttivo è ancora quadrato, ma questa volta le merci vengono sempre scambiate secondo il loro prezzo, sia in quanto outputs che in quanto inputs. Per semplicità ci si limita al caso di industrie o settori che producono un'unica merce, e quindi non si considerano gli aspetti relativi alla produzione congiunta di più merci in un singolo settore, alla presenza di inputs non riproducibili e quindi di rendite, e all'esistenza di capitale fisso, tutti aspetti però discussi da Sraffa (v., 1960, parte seconda).
A differenza degli economisti classici e di Marx, Sraffa suppone che il salario dei lavoratori venga corrisposto al termine del ciclo produttivo e quindi non faccia parte dei mezzi di produzione anticipati dai capitalisti. Il sistema dei prezzi si può descrivere come segue (ibid., p. 13):
pa = wla+(aapa+bapb)(1+r) (5)
pb = wlb+(abpa+bbpb)(1+r)
Gli unici simboli nuovi riguardano i coefficienti unitari di produzione, ad esempio ab indica la quantità di merce necessaria a produrre un'unità di merce b e così via per gli altri tre coefficienti; per gli altri simboli valgono le definizioni già date. Si suppone che sia (aa+ab)⟨1 e analogamente per la merce b, cioè per ogni merce la quantità complessivamente impiegata come input è inferiore alla quantità prodotta. Quindi vi è un prodotto netto pari a: 1-(aa+ab) di a e 1-(ba+bb) di b. Questo sovrappiù in termini fisici deve essere ripartito fra lavoratori e capitalisti, e quindi fra salari e profitti. È importante sottolineare che ora il salario per unità di lavoro w non è più necessariamente fissato a livello di sussistenza, come per i classici e per Marx. Inoltre il saggio di profitto r non è necessariamente determinato prima dei prezzi, come avviene nell'analisi di Marx con l'equazione (4).
Nel sistema (5) salari e profitti sono considerati come incognite al pari dei due prezzi, e quindi si hanno due equazioni e quattro incognite. Ma, al pari dei classici, Sraffa è interessato alla determinazione dei prezzi relativi; e quindi se si prende una delle due merci, ad esempio a, come unità di misura, si ha pa=1, e dunque restano tre incognite e due equazioni. Il sistema ha ancora un grado di libertà, e Sraffa lascia la possibilità di chiuderlo fissando esogenamente o il saggio di salario, ovviamente in termini del numerario scelto, o il saggio di profitto. Per determinare i prezzi relativi è necessario fissare una delle due variabili distributive, dopo di che l'altra verrà determinata insieme al prezzo relativo delle due merci.
Supponiamo che la merce a sia un bene salario e che la contrattazione fra lavoratori e capitalisti porti alla fissazione di w in termini di a, cioè determini il potere d'acquisto dei lavoratori e quindi il salario reale. In questo caso il sistema (5) ci permette di determinare simultaneamente il prezzo relativo pb, che altro non è che pb/pa, ed il saggio di profitto r. Con salari reali fissati esogenamente al sistema dei prezzi, e quindi prima di essi, siamo in condizioni simili a quelle ipotizzate dai classici, anche se il salario non è necessariamente di sussistenza, ma il prezzo relativo e il saggio di profitto si determinano simultaneamente.
Invece del salario reale potremmo decidere che sia il saggio di profitto ad essere fissato esogenamente, ad esempio dalla politica monetaria e dal livello dei tassi di interesse (v. Sraffa, 1960, p. 43); in questo caso le due equazioni consentono di determinare il salario in termini di merce a ed il prezzo relativo pb. Supponendo di avere un numero n>2 di merci, si può dimostrare che quando r è la variabile determinata esogenamente il rapporto di scambio fra due merci qualsiasi, cioè il loro prezzo relativo, non cambia qualunque sia il bene scelto come numerario. Quindi vi è una relazione biunivoca fra il saggio di profitto ed il sistema dei prezzi relativi: un certo saggio di profitto comporta necessariamente un certo sistema di prezzi relativi e viceversa; ovviamente con due merci avremo un prezzo relativo, con n merci avremo n-1 prezzi relativi.
Quindi nello schema di Sraffa i prezzi dipendono: 1) dalle condizioni tecniche, descritte dai coefficienti unitari di produzione (che si suppongono dati, per lo meno per il periodo di tempo durante il quale si determinano i prezzi, nel senso che nel lungo periodo ovviamente i coefficienti di produzione si modificheranno e determineranno un nuovo sistema di prezzi); 2) dal valore fissato esogenamente di una variabile distributiva. È ora possibile chiarire il significato dei prezzi nel sistema di Sraffa. Il sistema dei prezzi di produzione di Sraffa condivide due caratteristiche importanti con l'approccio degli economisti classici. In primo luogo i prezzi relativi servono a determinare la circolazione delle merci prodotte in modo tale che si possano ricostituire in tutti i settori gli inputs necessari per continuare il processo produttivo, come per Quesnay, Smith, Ricardo e Marx. L'idea originaria che la circolazione dei beni debba soddisfare la condizione di riproduzione degli inputs risale al Tableau économique di Quesnay (v. Tsuru, 1970, pp. 281-286).
Inoltre, data una variabile distributiva, ad esempio il salario reale, i prezzi ripartiscono il prodotto netto del sistema in modo che in ogni settore vi sia uno stesso saggio di profitto; ritroviamo il concetto di libera circolazione dei capitali e di equilibrio di lungo periodo che risale a Turgot e Smith, e che Ricardo e Marx accettano. Quindi, come per i classici, la tecnologia e le regole distributive precedono il sistema dei prezzi che dipende da questi due elementi (v. Cartelier, 1976, pp. 19-22).
Vanno però segnalate anche alcune differenze fra il sistema dei prezzi di Sraffa e l'approccio classico. Innanzitutto vi è quella fondamentale rispetto al concetto di prezzo naturale di Smith. I prezzi relativi di Sraffa non sono derivati dalla somma dei redditi degli agenti della produzione, o di costi e di redditi, ossia i saggi di salario e di profitto non precedono il sistema dei prezzi relativi; ciò vale per una sola delle due grandezze distributive, mentre l'altra è determinata simultaneamente ai prezzi. Del resto già Ricardo e Marx avevano superato questa concezione 'additiva' del prezzo.
Altra differenza fondamentale rispetto all'approccio classico consiste nell'assenza dell'ipotesi di salario dato a livello di sussistenza, per cui anche i salari possono ottenere una parte del prodotto netto, se ad essere determinato esogenamente è il saggio di profitto (v. Roncaglia, 1975, cap. IV).
Sraffa risolve il problema della determinazione dei prezzi relativi attraverso un sistema di equazioni lineari che spesso viene rappresentato mediante l'algebra lineare (v. Pasinetti, 1975, cap. V).
A è la matrice quadrata (n righe ed n colonne) dei coefficienti unitari di produzione, L è il vettore degli n coefficienti diretti di lavoro, p è il vettore riga degli n prezzi ed il sistema si può scrivere:
p=wL+(1+r)Ap, (6)
Indicando con I la matrice unità, la soluzione per il vettore dei prezzi è:
p=wL[I-(1+r)A]-¹. (7)
La (7) mostra che, fissato un qualunque prezzo come numerario e data una delle due variabili distributive, vengono determinati n-1 prezzi relativi e l'altra variabile. Inoltre il sistema (7) consente di vedere che nel caso r=0 i prezzi sono proporzionali, secondo lo scalare w, all'espressione L (I-A)-¹ che indica le quantità di lavoro direttamente ed indirettamente incorporate in ogni bene, e quindi in questo caso vale la teoria del valore-lavoro.La descrizione del sistema di prezzi di Sraffa mediante l'algebra lineare consente anche di sottolineare il contributo alla teoria dei prezzi di altri due autori che oltre a Sraffa hanno fondato l'analisi dei prezzi relativi su modelli lineari di produzione. Wassily Leontief analizza il problema della determinazione dei prezzi e delle quantità mediante schemi simili al sistema (6) in cui è però assente l'indicazione esplicita delle due variabili distributive w e r (v. Leontief, 1951). Detto V il vettore dei valori aggiunti delle varie industrie, come si rileva in Pasinetti (v., 1975, cap. IV, par. 4), si ha:
p=(I-A)-¹V. (8)
Leontief mostra che esiste un sistema duale a quello dei prezzi, il sistema delle quantità fisiche, in cui indicando con Q il vettore dell'output lordo di ogni settore e con Y il vettore delle quantità fisiche che fanno parte della domanda finale, e che sono perciò spiegate da ragioni di consumo e di investimento, si ha:
Q=(I-A)-¹Y. (9)
In sostanza il sistema dei prezzi e quello delle quantità sono uno il duale dell'altro, se il salario reale è fissato come se il lavoro fosse un qualunque mezzo di produzione, e se la tecnologia presenta rendimenti costanti di scala, prezzi e quantità sono due facce della stessa medaglia, per l'appunto quella rappresentata dalla matrice A dei coefficienti interindustriali. Va ricordato che l'algoritmo (I-A)-¹ rappresenta la cosiddetta matrice inversa di Leontief, che consente di valutare le quantità fisiche totali di ogni merce (cioè sia quelle impiegate direttamente come mezzo di produzione che quelle utilizzate indirettamente, cioè nella produzione di inputs dei mezzi di produzione) necessarie per produrre un'unità fisica di ogni merce come bene finale (v. Pasinetti, 1975, cap. IV, par. 7).
Anche von Neumann adotta una descrizione della tecnologia simile a quella di Leontief ed un modello lineare di produzione, ma la sua analisi riguarda soprattutto il problema della crescita in condizioni di equilibrio (v. Neumann, 1937). Von Neumann mostra che quando l'economia cresce ad un saggio uniforme in ogni settore vi è una fondamentale dualità fra il sistema delle quantità fisiche ed il sistema dei prezzi (v. Donzelli, 1986, p. 64).
Oltre alla teoria dei prezzi di produzione e alle differenti interpretazioni che riconducono il prezzo ad una qualche definizione di costo di produzione, vi sono ovviamente le teorie del prezzo che si rifanno alle nozioni di domanda ed offerta, ed in particolare all'approccio marginalista, nella determinazione del valore di scambio. Il passaggio dall'analisi degli economisti classici a quella dei teorici marginalisti non avviene però improvvisamente, ma impiega all'incirca mezzo secolo, dalla morte di Ricardo nel 1823 alla pubblicazione delle opere di Jevons e Menger nel 1871 ed al libro di Walras nel 1874.
Fra gli autori che contribuiscono alla modificazione nella teoria dei valori di scambio bisogna ricordare Samuel Bailey, che nel 1825 critica l'idea che vi sia un valore assoluto delle merci, legato alle caratteristiche intrinseche vuoi delle merci stesse, vuoi del loro processo produttivo. Secondo Bailey il valore indica soltanto la relazione fra due oggetti ed esiste solo in questo senso, quindi come prezzo relativo (v. Dobb, 1973, pp. 99-100). Ma Bailey indica anche che il valore è collegato all'effetto che un bene produce sul consumatore, e quindi apre la strada alla considerazione del valore come fatto soggettivo, come relazione fra una merce ed il grado di interesse che essa esercita su un individuo.
Già nel XVIII secolo alcuni autori avevano avanzato l'idea che il prezzo di un bene fosse legato alla valutazione che ne veniva data dall'individuo, cioè a una sorta di valore soggettivo (in particolare bisogna ricordare l'abate Galiani e Turgot). Ma è nel corso della prima metà dell'Ottocento che il valore di scambio e quindi i prezzi relativi vengono messi in relazione con il valore d'uso, cioè con l'utilità, e con la scarsità relativa. Negli anni trenta Nassau Senior indica esplicitamente nell'utilità una determinante del valore di scambio, e si fa strada l'idea che il prezzo di un bene sia legato alla domanda ed all'offerta.
Una decina di anni più tardi John Stuart Mill tenta un'ultima, poco efficace, difesa dell'approccio classico. Per Mill vi sono sostanzialmente tre tipi di merci: quelle scarse, nel senso di Ricardo, quelle la cui quantità prodotta può essere aumentata senza aumenti del costo unitario di produzione, e le merci per cui l'aumento della produzione comporta un aumento dei costi unitari (v. Mill, 1848; tr. it., pp. 423-424). Domanda ed offerta determinano il prezzo del primo tipo di merci. Anche per i beni producibili con costi costanti la domanda e l'offerta operano sui mercati e fanno tendere i prezzi verso un valore di scambio di equilibrio, o valore naturale di lungo periodo, che è dato sostanzialmente dal costo di produzione (v. Dobb, 1973, pp. 129-130). Per le merci producibili a costi crescenti il prezzo dipende sia dai costi che dalla domanda (v. Donzelli, 1986, pp. 45-47). Per lo sviluppo futuro delle teorie del prezzo il riferimento di Mill al caso di costi di produzione crescenti è molto importante.
Con la cosiddetta rivoluzione marginalista l'approccio all'analisi del prezzo si modifica radicalmente. Si possono individuare quattro punti fondamentali in cui il marginalismo si distacca definitivamente dall'economia classica.
In primo luogo, i fondamenti del valore di scambio sono sempre l'utilità e la scarsità. Walras dice chiaramente che la ricchezza sociale è costituita soltanto dalle cose utili e che queste esistono in quantità limitata, cioè sono scarse; le cose utili ma non rare non fanno parte della ricchezza (v. Walras, 1874; tr. it., pp. 142-145). Quindi il prezzo che si determina riflette sempre la scarsità relativa della merce, che dipende dalla tecnologia disponibile, ma anche dalle quantità date di risorse o servizi produttivi che devono essere utilizzate per la produzione della merce stessa. Analogamente Menger definisce beni economici solo quelli la cui quantità esistente è inferiore al fabbisogno; solo di questi si occupa la scienza economica, e non dei beni in generale (v. Menger, 1871; tr. it., pp. 147-148).
Vi è quindi una condizione generale di scarsità sia dei beni di consumo che dei fattori della produzione.In secondo luogo, nel processo produttivo il caso normale non è rappresentato da costi costanti, ma da produzioni aumentabili solo a costi crescenti e quindi le condizioni di domanda entrano nella determinazione del prezzo. La domanda viene collegata all'utilità che un bene è in grado di procurare, e quindi il prezzo dipende anche dalla valutazione che ne danno i consumatori potenziali. Il valore di scambio è perciò un fatto soggettivo e non dipende da una qualità intrinseca della merce.
In terzo luogo, e come conseguenza, viene di fatto accantonata la distinzione fra prezzo di mercato e prezzo di lungo periodo tipica dell'economia politica classica. Il prezzo relativo dei beni, siano essi prodotti o meno, dipende dalla loro scarsità relativamente alla domanda. In sostanza si può dire che per ogni tipo di bene il prezzo dipende dalla domanda e dall'offerta, che facendo salve alcune differenze fra i mercati dei beni finali, quelli dei beni consumo e quelli delle risorse produttive, vengono spesso rappresentate con due curve, l'una discendente e l'altra ascendente (v. fig. 1).
In quarto luogo, dal momento che mediante le relazioni di domanda e di offerta possiamo descrivere il mercato dei beni, la determinazione del prezzo è strettamente collegata a quella della quantità prodotta; l'equilibrio di mercato è definito dunque da un prezzo e da una quantità che si determinano simultaneamente e risultano dal punto di incontro delle curve di domanda e di offerta.
È importante precisare che qui si considerano mercati perfettamente concorrenziali, mentre nel caso di mercati monopolistici o oligopolistici le condizioni di equilibrio sono differenti (v. cap. 10). Un mercato è definito in condizioni di perfetta concorrenza se vi è un numero elevato di venditori e di compratori, se non vi sono barriere all'ingresso sul mercato, se il bene prodotto e scambiato è sostanzialmente omogeneo e se tutti gli agenti hanno identica e piena conoscenza delle condizioni di mercato. In sostanza, compratori e venditori hanno comportamenti completamente indipendenti e non sono in grado di influenzare il prezzo del bene, sono quindi price takers. Il punto E individua un prezzo p* per cui la domanda e l'offerta sono uguali, cioè al prezzo p* e solo a quel prezzo si realizza la condizione per cui tutti coloro che desiderano acquistare il bene riescono a farlo e lo stesso vale per tutti coloro che desiderano venderlo. Nell'analisi dell'equilibrio gioca un ruolo fondamentale la funzione di eccesso di domanda, definita come Z(p)=D(p)-S(p) (v. Cozzi-Zamagni, 1994, p. 153).
Per valori inferiori al prezzo p* la quantità domandata è superiore a quella offerta, cioè per p⟨p* sul mercato vi è un 'eccesso di domanda' e quindi non tutti coloro che desiderano il bene possono effettivamente acquistarlo. Per prezzi superiori a p*, z(p)⟨0, vi è un 'eccesso di offerta' e quindi a quei prezzi alcuni venditori si troveranno con merce invenduta. Solo quando il prezzo è pari a p* l'eccesso di domanda (o di offerta) è nullo e quindi tutte le aspirazioni-esigenze degli agenti economici sono soddisfatte. Al prezzo p* tutta la quantità offerta viene effettivamente acquistata e quindi p* è un prezzo che 'ripulisce' il mercato (market clearing price), nel senso che non vi sono merci invendute o domande di beni insoddisfatte poiché z(p*)=0.
Per vedere come opera il mercato, e quindi se e come è possibile giungere al prezzo p*, è opportuno distinguere l'analisi di Walras da quella di Marshall. La differenza sostanziale fra le due concezioni consiste nel fatto che per Walras gli scambi hanno luogo solo al prezzo di equilibrio e quindi quando tutta la domanda e tutta l'offerta sono soddisfatte (v. Walras, 1874; tr. it., p. 112). Al di fuori di questo prezzo e quindi quando vi è un eccesso di domanda o un eccesso di offerta non si fanno scambi, ma ovviamente il prezzo deve modificarsi. In Walras i prezzi svolgono un ruolo parametrico: per ogni prezzo i consumatori ed i produttori-venditori decidono quali quantità acquistare e produrre-vendere.
Il sistema di prezzi relativi necessario per calcolare l'allocazione di risorse che porta alla massima soddisfazione è assegnato agli agenti economici dall'esterno; Walras usa la metafora del banditore che annuncia un prezzo, o meglio un sistema di prezzi relativi. Se, come è probabile, per questo primo sistema di prezzi non risulta z(p)=0 inizia un processo - che Walras definisce di tatônnement - di tentativi ripetuti, che sotto certe condizioni porta al prezzo di equilibrio.
Se valgono le condizioni di perfetta concorrenza e se le curve di domanda e di offerta hanno la forma descritta nelle figg. 1 e 2, allora è possibile dimostrare che E è un punto di equilibrio stabile, nel senso che in presenza di prezzi differenti il meccanismo di mercato fa sì che i prezzi convergano verso p* e le quantità prodotte e scambiate verso q*. Dato un prezzo iniziale pari a p₁ ed il prezzo successivo nel processo di tatônnement, p₂, il processo di convergenza è assicurato se vale la regola per cui:- se z(p₁)>0 allora p₂>p₁, cioè in presenza di un eccesso di domanda il prezzo cresce;- se z(p₁)⟨0 allora p₂⟨p₁, cioè quando vi è un eccesso di offerta il prezzo diminuisce.
È importante sottolineare che il prezzo di equilibrio non è in alcun modo noto prima che si ottenga la condizione z(p)=0; i prezzi che vengono assegnati dal banditore agli agenti economici servono esclusivamente ad effettuare i calcoli di acquisto e di vendita che devono portare alla massima utilità. Tuttavia, se valgono le due condizioni sopra citate, un mercato concorrenziale porta sicuramente ad un prezzo di equilibrio per cui la quantità domandata e quella offerta sono uguali. La definizione delle condizioni di esistenza dell'equilibrio, e quindi del corrispondente sistema di prezzi relativi, non è dovuta solo a Walras, ma anche ad altri economisti (v. Donzelli, 1986, pp. 53-54).
È negli anni cinquanta però che l'approccio walrasiano torna in auge, grazie all'opera di Arrow, Debreu e Malinvaud (v. Arrow e Debreu, 1954; v. Debreu, 1959; v. Malinvaud, 1953). I modelli elaborati da questi autori presentano un notevole grado di complicazione formale e consentono di individuare con precisione le condizioni matematiche relative ai problemi di esistenza, unicità e stabilità dell'equilibrio walrasiano, oltreché di analizzare problemi di allocazione intertemporale delle risorse, sempre attraverso un sistema di prezzi relativi. Tuttavia questi modelli mantengono le ipotesi fondamentali dell'analisi di Walras dei mercati concorrenziali e quindi assumono che gli agenti economici siano price takers e che gli scambi avvengano solo ai prezzi di equilibrio.
Un modo di analizzare il processo di tendenza verso il prezzo di equilibrio diverso dal tatônnement walrasiano è quello descritto da Alfred Marshall: in questo caso non sono solo i prezzi di mercato a modificarsi in seguito agli eccessi di domanda e di offerta, ma anche le quantità. In sostanza si hanno scambi anche durante il processo di aggiustamento e non solo per il prezzo di equilibrio, per cui z(p)=0. Conformemente all'approccio dei classici, Marshall distingue fra prezzo normale e prezzo di mercato. Il prezzo di mercato è quello realizzato in un determinato istante, diciamo un certo giorno; il prezzo normale è invece il prezzo che ci si attende di veder prevalere su quel mercato in un determinato arco di tempo, solitamente non breve (v. Marshall, 1890; tr. it., pp. 290-291).
Il prezzo normale è perciò un prezzo atteso per il futuro e dipende da moltissime cause, non ultime le valutazioni soggettive degli agenti economici (ibid., pp. 305-307): Marshall sembra negare che il prezzo normale derivi in qualche modo dai prezzi di mercato, e non esplicita chiaramente da che cosa esso dipenda; tuttavia vedremo che, almeno nel caso di mercati perfettamente concorrenziali e per merci non scarse e riproducibili in condizioni di rendimenti costanti di scala, il prezzo normale è legato alla struttura dei costi delle imprese.Il meccanismo di tendenza verso l'equilibrio dipende innanzitutto dal confronto che ogni agente economico, venditore o acquirente, opera fra il prezzo di mercato e quello che egli ritiene essere il prezzo normale. Se il prezzo di mercato è più elevato di quello normale i venditori cercheranno di aumentare l'offerta, perché a quel prezzo di mercato si registrano domande insoddisfatte da parte dei consumatori, e soprattutto i produttori ottengono un profitto superiore a quello già compreso nel prezzo normale. Se, al contrario, l'offerta supera la domanda, il prezzo di mercato sarà inferiore al prezzo normale, vi saranno prodotti invenduti, cioè accumulazione indesiderata di scorte, e il saggio di profitto sarà più basso del normale. Di conseguenza le imprese ridurranno le quantità prodotte. Il confronto fra il prezzo di mercato ed il prezzo normale porta innanzitutto alla modificazione delle quantità prodotte e scambiate, ed in seguito alla variazione delle quantità varieranno i prezzi di mercato.
Ai nuovi prezzi di mercato si ripropone il confronto con i prezzi normali; e così via. Se le curve di domanda e di offerta hanno la forma appropriata, come nella fig. 1, e sono abbastanza stabili nel tempo, allora il processo porta verso l'equilibrio, cioè le quantità prodotte si modificano finché tutti coloro che desiderano acquistare siano soddisfatti e non vi siano scorte non desiderate. Il prezzo di equilibrio sarà ovviamente il prezzo normale. Come si può notare, contrariamente al processo di aggiustamento di tipo walrasiano, per Marshall si realizzano scambi al di fuori del prezzo di equilibrio, e quindi ai prezzi di mercato. L'aggiustamento riguarda sia i prezzi che le quantità. Anzi proprio il fatto che in un dato settore gli scambi avvengano al di fuori dell'equilibrio consente alle imprese del settore stesso di realizzare nel breve periodo degli extraprofitti. In mercati perfettamente concorrenziali questi extraprofitti stimolano l'ingresso di nuove imprese nel settore in cui essi si realizzano e di conseguenza si ha l'aumento della produzione.
Abbiamo visto che le curve di domanda e di offerta sono la base dell'analisi tradizionale dei prezzi in mercati concorrenziali, e abbiamo anche visto che la stabilità dell'equilibrio dipende sostanzialmente dalla forma delle due curve. Conviene quindi indicare brevemente gli elementi che determinano l'inclinazione positiva della curva di offerta e la relazione inversa fra prezzo e quantità per quella di domanda.
Vi sono vari modi per spiegare l'inclinazione negativa della curva di domanda ma, in definitiva, si assume che il prezzo di un bene dipende dall'utilità che gli agenti economici ritengono di poter trarre dal suo consumo. Più precisamente, fin dagli inizi della teoria marginalista Menger indicò nel concetto di utilità marginale la determinante del valore di scambio di un bene di consumo.
Si ipotizza che i consumatori siano razionali, che abbiano un reddito dato, e che siano perfettamente in grado di confrontare il piacere, o la soddisfazione, o l'utilità ottenuta consumando quantità differenti dei vari beni. Questi consumatori cercano di massimizzare la soddisfazione che derivano dalla spesa del reddito, e per fare ciò acquistano innanzitutto i beni che forniscono gli incrementi di utilità, cioè le utilità marginali, più elevate. Se U=f(Yi) è la funzione di utilità che indica l'utilità totale derivata dal consumo di una determinata quantità yi del bene 'i', con i=1,2.....n, e se n sono i beni disponibili per il consumo, allora l'utilità marginale del bene 'i' è la derivata prima di questa funzione rispetto ad yi: UMa=(δU)/(δyi). Gli individui usano le prime dosi di un bene per soddisfare i bisogni più intensi; man mano che si procede nel consumo di un bene ci si sazia, quindi l'incremento di utilità ottenuto acquistando le dosi successive sarà via via minore, cioè l'utilità marginale dei beni di consumo è normalmente decrescente (v. Menger, 1871; tr. it., pp. 210-215, 237-238). La curva di domanda di mercato di un bene è la somma delle curve di domanda dei singoli individui che derivano direttamente dalla curva di utilità marginale decrescente.
La curva di domanda di mercato indica che con l'aumento del consumo di un bene gli agenti economici sono disposti ad acquistare ulteriori dosi dello stesso solo a prezzi via via inferiori, dal momento che si sono già parzialmente saziati e quindi hanno già soddisfatto i bisogni più importanti che il bene stesso è in grado di soddisfare.La curva di offerta viene derivata dall'analisi della produzione. Vi sono molte imprese che possono utilizzare la stessa tecnologia. Le tecniche di produzione sono rappresentate mediante le curve dei costi, ed in particolare la curva dei costi marginali delle imprese è supposta essere crescente. Questa curva indica il costo di un'unità aggiuntiva di prodotto. Se y=g(l) è la funzione di produzione di breve periodo, supponiamo che ci siano un'unica merce prodotta 'y' ed unico fattore variabile, il lavoro l, che è pagato al salario unitario w, dato e costante per la singola impresa; allora il costo marginale è CMa=w(δl)/(δy). Se la curva è crescente significa che è possibile aumentare la produzione, ma le dosi successive di lavoro, pur costando lo stesso salario delle precedenti, w, consentono di ottenere un incremento di prodotto, o prodotto marginale, PMa=(δy)/(δl), via via minore. Per cui si ha CMa=w/PMa. Quindi ogni impresa aumenterà la produzione, ma solo se i prezzi delle successive unità di prodotto vendute saranno in aumento in modo da coprire i costi marginali crescenti. In sostanza, la curva di offerta rappresenta il livello di prezzo, p, che giustifica per un'impresa la produzione di una certa quantità y; in questo senso la curva indica quello che può essere definito il 'costo opportunità' dell'impresa. La curva di offerta di mercato non è altro che la somma delle curve dei costi marginali delle singole imprese che producono un certo bene.
Nel caso di mercati perfettamente concorrenziali, fino a che il prezzo è superiore al costo marginale ogni impresa aumenta la quantità prodotta; se non lo fanno le imprese già presenti nel settore, arrivano nuove imprese dall'esterno, attratte dalla differenza fra prezzo e costo marginale che indica l'esistenza di extraprofitti. Solo quando il prezzo è uguale al costo marginale l'impresa non ha più convenienza ad incrementare l'output. E nel lungo periodo questa condizione coincide con l'uguaglianza fra prezzo e costo medio minimo.
Il punto E della fig. 3 indica quindi la condizione di equilibrio di lungo periodo per ogni impresa, che evidentemente produrrà la quantità y*. D'altro canto tutte le imprese che producono questo bene hanno a disposizione la stessa tecnologia e quindi presentano le stesse curve dei costi medi e marginali. Il prezzo di un bene prodotto in mercati perfettamente concorrenziali è perciò determinato dal punto in cui la curva dei costi marginali attraversa quella dei costi medi, e cioè dal punto di minimo di quest'ultima curva. In sostanza, la perfetta concorrenza assicura la piena efficienza della produzione e del mercato, poiché i consumatori si trovano con i prezzi più bassi consentiti dalla tecnologia esistente e dal prezzo dell'input. Solo il progresso tecnico e/o la diminuzione del prezzo dell'input possono consentire ulteriori riduzioni di prezzo.
A partire dagli anni venti si sono sviluppate molte critiche alle teorie della formazione del prezzo basate sull'idea di mercati perfettamente concorrenziali. Si è visto che le ipotesi alla base degli equilibri concorrenziali erano assai spesso disattese dalla realtà, soprattutto per ciò che concerne la sfera della produzione. È difficile pensare che in ogni settore produttivo vi sia una quantità pressoché infinita di imprese, ognuna delle quali è rigorosamente price taker. Questa fantomatica 'impresa rappresentativa' deve essere totalmente indifferente alle scelte delle altre imprese, le sue decisioni limitate alla fissazione della quantità da produrre e prese solo sulla base del prezzo di mercato, che è un dato. In molti mercati vi sono pochi produttori, quando non uno solo, nel qual caso si parla di mercato monopolistico. In ogni settore vi sono imprese di varie dimensioni e spesso i produttori più grandi hanno la possibilità di fissare il prezzo della merce.
Tutto ciò diviene ancora più importante se si considera il progresso tecnico, che assai di rado riguarda tutte le imprese di un settore allo stesso modo, concentrandosi di solito solo in alcune di esse le quali hanno quindi evidenti vantaggi in termini di costi rispetto ai loro concorrenti.L'analisi neoclassica ha affrontato il problema della determinazione del prezzo nelle forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta. In questo approccio i problemi, sia per il caso del monopolio che per quello della concorrenza monopolistica, nascono dalle particolari caratteristiche della curva di domanda per le imprese, che non è orizzontale, come nel caso della concorrenza perfetta (v. fig. 3). Si può constatare che solitamente i prezzi sono più alti e le quantità prodotte sono inferiori rispetto a quelli che si otterrebbero in mercati concorrenziali, e quindi si sostiene la superiorità della concorrenza perfetta soprattutto a vantaggio dei consumatori. Le forme delle curve dei costi medi e marginali non vengono però messe in discussione.
Negli anni trenta Michael Kalecki costruisce una teoria dei prezzi alla cui base vi sono curve dei costi diverse da quelle ipotizzate per imprese operanti in condizioni di perfetta concorrenza. In particolare, secondo Kalecki le curve dei costi marginali sono sostanzialmente sempre crescenti solo in agricoltura, mentre per i settori manifatturieri un tratto significativo della curva dei costi marginali è orizzontale (v. fig. 4).
Kalecki ritiene che la curva dei costi marginali inizia a salire solo quando ci si avvicina al pieno utilizzo della capacità produttiva (v. Kalecki, 1939, p. 17).
Se la curva dei costi marginali presenta un tratto orizzontale, anche quella dei costi medi è orizzontale e in quel tratto coincide con quella dei costi marginali. In presenza di capacità produttiva inutilizzata e di mercati non concorrenziali, le imprese hanno curve dei costi marginali simili a quelle della fig. 4, quindi possono aumentare la quantità prodotta senza avere un incremento del costo marginale. Se i costi marginali sono costanti, per un intervallo rilevante di output anche la curva dei costi medi è sostanzialmente orizzontale poiché un'unità in più di prodotto costa come le unità precedenti e quindi il costo medio unitario non varia.
Secondo Kalecki le condizioni tecnologiche descritte dalla fig. 4 riguardano soprattutto i settori produttivi in cui i costi variabili, materie prime e salari, sono preponderanti rispetto ai costi fissi, ed in cui i prezzi di questi inputs sono indipendenti dalla quantità di essi richiesta. In questo caso è possibile aumentare la produzione aumentando gli inputs primari a costi unitari sostanzialmente costanti.
Con una simile struttura dei costi un'impresa non ha nessun incentivo ad aumentare la quantità prodotta oltre il punto A, dal momento che un aumento del suo output porta ad un incremento non indifferente dell'offerta di mercato e quindi ad una riduzione del prezzo. A causa della mancanza di concorrenza non possono giungere dall'esterno nuove imprese, e quindi la differenza, B´B, fra il prezzo e il costo marginale può permanere.
Come si determina il prezzo in mercati di concorrenza imperfetta, dove non è più assicurata l'uguaglianza fra prezzo, costo marginale e costo medio che si riscontra in concorrenza perfetta? Secondo Kalecki le imprese manifatturiere in condizioni non concorrenziali fissano il prezzo e non la quantità prodotta, sono cioè price makers. Il prezzo viene fissato tenendo conto di due elementi: i costi medi variabili ed un margine di profitto, comunemente detto mark up, che dipende dal grado di monopolio.Sia u il costo unitario variabile, o costo primo, risultante dalla somma dei costi medi per materie prime e beni capitali circolanti in genere e dei costi salariali. Il prezzo è dato da p=u(1+q), dove q è il mark up, p-u è il margine di profitto e q=(p-u)/u è il margine di profitto per unità di costo. Secondo Kalecki q è fissato dalle imprese in modo tale da tenere conto di due elementi. In primo luogo esse devono coprire anche i costi costanti o fissi; in secondo luogo devono garantirsi un profitto; q, il 'ricarico' sui costi variabili, deve consentire di ottenere un prezzo di vendita che soddisfi le due condizioni.
Ovviamente l'impresa desidera avere un profitto più alto possibile, ma non può mettere un mark up troppo elevato perché deve tenere conto delle altre imprese operanti sullo stesso mercato. Kalecki afferma che q dipende dal grado di monopolio, cioè è determinato nel seguente modo: q=f(p´/p)=(p-u)/u, dove p è il prezzo fissato dall'impresa, p´ è il prezzo medio ponderato del settore, cioè la media ponderata dei prezzi praticati dalle imprese concorrenti, e (p-u)/u è il 'grado di monopolio'. p´>0, cioè il 'margine' q è tanto più elevato quanto minore è il prezzo dell'impresa rispetto a quello medio dei suoi concorrenti (v. Kalecki, 1970, pp. 87-88).
Come si vede, emerge il problema dell'interdipendenza dei comportamenti delle imprese, che non sono più semplici price takers. Per un'impresa operante in mercati oligopolistici la fissazione del prezzo è un elemento importante della sua strategia, che non riguarda più soltanto la massimizzazione del profitto nel breve periodo.
Negli anni cinquanta Bain, Stigler e Sylos Labini elaborarono analisi del comportamento delle imprese fondate su strategie che si preoccupano soprattutto di impedire l'ingresso nel settore di altri produttori. Il prezzo diventa perciò un elemento nell'ambito di una strategia che vuole porre 'barriere all'entrata'. Vengono quindi definiti i concetti di 'prezzo limite' e di 'prezzo di esclusione', il cui livello specifico dipende dalle condizioni di mercato e dalle caratteristiche tecnologiche delle imprese e del settore, ma hanno come obiettivo di consentire profitti, e soprattutto di conservare all'impresa la propria quota di mercato.
È importante sottolineare che questi approcci differiscono dall'analisi neoclassica tradizionale non solo per le diverse ipotesi circa la forma di mercato, ma soprattutto perché studiano il fenomeno del prezzo in un contesto dinamico. La tecnologia propone continuamente nuove possibilità di contenimento dei costi e/o di nuove produzioni, e quindi in definitiva di nuovi profitti. È comunque attraverso le politiche di prezzo che le imprese cercano di ottenere i profitti stessi (v. Sylos Labini, 1967, parte I, cap. 2). Del resto l'ottica delle imprese oligopolistiche non può limitarsi al breve periodo, ma deve badare soprattutto al mantenimento della possibilità di ottenere profitti nel medio e lungo periodo. Di qui il doppio vincolo alla politica dei prezzi; da un lato, deve garantire profittabilità nell'immediato, dall'altro deve fare in modo di mantenere ed aumentare le quote di mercato dell'impresa.
Queste analisi avvicinano la teoria dei prezzi alle problematiche pratiche e hanno il grande merito di mettere in luce le relazioni fra prezzi, forme di mercato, tecnologia e strategie delle imprese.
I concetti di flex price e fix price vennero elaborati da Hicks nel 1956 in Methods of dinamic analysis e si riferiscono a due modi di determinazione dei prezzi. In mercati dove le imprese sono prevalentemente price takers, e quindi l'aggiustamento verso l'equilibrio avviene sostanzialmente attraverso la flessibilità dei prezzi secondo il modello concorrenziale walrasiano, le condizioni di determinazione dei prezzi risultano essere di tipo flex price. L'aggiustamento verso l'equilibrio avviene grazie alla flessibilità dei prezzi. I mercati in cui prevalgono questi meccanismi sono solitamente quelli dei prodotti agricoli e quelli delle materie prime, dove le quantità non possono essere modificate se non in tempi medio-lunghi e con costi crescenti.
Nel caso di settori caratterizzati da concorrenza imperfetta e da imprese che sono price makers, l'equilibrio si raggiunge attraverso variazioni delle quantità e non dei prezzi, che sono sostanzialmente stabili poiché si è nel tratto orizzontale delle curve dei costi marginali e medi. In caso di eccesso di domanda le imprese riducono le scorte accumulate in precedenza, in caso di eccesso di offerta esse aumentano le scorte invendute e riducono il grado di capacità produttiva utilizzata. Si ritiene che i mercati dei prodotti della manifattura siano prevalentemente di tipo fix price, e quindi con prezzi tendenzialmente stabili. (V. anche Concorrenza; Domanda; Equilibrio economico; Finanziari, mercati; Inflazione; Interdipendenze strutturali, analisi delle; Interesse, saggio dell'; Macro e microanalisi; Marginalismo; Moneta; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Offerta; Oligopolio; Oro).
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