primavera araba
primavèra àraba. – Espressione con la quale si fa riferimento alle rivoluzioni e all’ondata di proteste che hanno attraversato i regimi arabi nel corso del 2011 e le cui conseguenze hanno determinato un radicale cambiamento nel panorama mediorientale.
Tunisia. – L’inizio della rivolta viene simbolicamente fatto coincidere con il clamoroso gesto di protesta di Mohammed Bouazizi, un giovane venditore ambulante tunisino che il 17 dicembre 2010 si è dato fuoco nella cittadina di Sidi Bouzid per protestare contro le continue vessazioni da parte delle forze locali di polizia. L’episodio ha innescato numerose manifestazioni di piazza contro il dispotismo e la corruzione del regime del presidente Ben ‛Alī, al potere dal 1987. Di fronte ai manifestanti che chiedevano a gran voce la democratizzazione del sistema politico, il regime crollava con una velocità straordinaria e il 14 gennaio 2011 Ben ‛Alī fuggiva in Arabia Saudita con tutta la sua famiglia. Nel giro di pochi giorni si formava un nuovo governo provvisorio di coalizione che annunciava l’amnistia per i prigionieri politici e il riconoscimento di tutti i partiti al bando, mentre la rinnovata protesta nelle piazze per la presenza nell’esecutivo di numerosi esponenti del vecchio regime portava al loro progressivo allontanamento. In quelle stesse settimane veniva legalizzato Ennahda (al-Nahḍa, «Rinascita»), il movimento islamico moderato legato a una delle più antiche e influenti organizzazioni politico-religiose fondamentaliste dell’islam, i Fratelli musulmani (v. Fratellanza musulmana). Si apriva così un delicato processo di transizione democratica e costituzionale in cui un ruolo decisivo era ricoperto dall’Alta autorità per il raggiungimento degli obiettivi della Rivoluzione, della riforma politica e della transizione democratica. La nascita di questo comitato allargato scaturiva dalla volontà di non sminuire il portato delle giornate rivoluzionarie ma anzi valorizzare il grande dibattito politico nel Paese in preparazione delle elezioni per l’Assemblea costituente, previste inizialmente per luglio e poi rinviate al 23 ottobre. A maggio per le strade di Tunisi tornavano a protestare i giovani e i cittadini delusi dalla lentezza del processo democratico e preoccupati per il pericolo di una deriva autoritaria; intanto nel Paese veniva approvata la nuova legislazione elettorale che prevedeva un sistema proporzionale con liste bloccate con una presenza alternata e paritaria di un candidato di sesso maschile e uno di sesso femminile. Le elezioni del 23 ottobre facevano registrare una grande affluenza: oltre il 90% degli elettori si recava alle urne e queste sancivano il successo di Ennahda, ma anche l’importante affermazione dei partiti laici tra cui il Congresso per la repubblica, guidato da uno dei leader storici dell’opposizione, Moncef Marzouki (al-Munṣif al-Marzūqī), presidente della Lega tunisina per i diritti umani. Nei primi mesi del 2012 il delicato processo di revisione costituzionale si concentrava sulla questione fondamentale del rapporto tra democrazia e applicazione delle norme islamiche, ma nonostante le pressioni dei per un esplicito riferimento alla sharī῾a nel dettato costituzionale, Ennhada prendeva le distanze e si impegnava a difendere, al di là della scontata centralità dell’islam nella repubblica tunisina, la separazione delle istituzioni religiose e di quelle dello Stato.
Egitto. – A una settimana dalla caduta di Ben ‛Alī anche le piazze delle città egiziane si riempivano di manifestanti che chiedevano la fine dello stato d’emergenza e le dimissioni del presidente Ḥusnī Mubārak, al potere da trent’anni. Ad animare la protesta erano i giovani che si erano politicizzati al di fuori dei partiti tradizionali, la sinistra, i segmenti democratici della classe media, ma anche gli operai e i piccoli agricoltori. La richiesta di democratizzazione della vita politica si sposava alla centralità della questione sociale, in un Paese dove crescevano la disoccupazione e la povertà e dove la corruzione aveva premiato la grande borghesia cittadina alleata del regime. Il 25 gennaio, ‘giornata della collera’ indetta e propagandata sul web, vedeva manifestare nelle piazze del Cairo centinaia di migliaia di cittadini e pochi giorni più tardi, il 28, imponenti manifestazioni paralizzavano il centro della capitale, dove piazza Taḥrīr diventava l’epicentro delle contestazioni. Un ruolo decisivo, in Tunisia, in Egitto e negli altri paesi arabi in rivolta, assumevano i blogger, giovani uomini e donne che promuovevano e coordinavano la protesta informando in tempo reale il mondo di quanto avveniva nei loro paesi. Mentre la rivolta appariva ormai inarrestabile e la repressione si faceva sempre più violenta, tornava a far sentire la sua voce tra i manifestanti l’organizzazione islamica radicale dei Fratelli musulmani nel tentativo di incanalare la contestazione per assumerne a tempo debito le redini. Tra la fine di gennaio e il mese di febbraio la rivolta nel mondo arabo viveva, sull’onda della spinta popolare, il suo massimo momento di trionfo, prima di franare nel dramma della guerra civile libica. Cresceva l’attenzione e la simpatia della comunità internazionale per gli avvenimenti egiziani che di lì a poco vedevano Mubārak rinunciare al potere (11 febbraio) lasciando le redini del paese nelle mani del Consiglio supremo delle Forze armate guidato da M. Ḥ. Ṭanṭāwī, fedele servitore del passato regime con una lunga carriera militare ai vertici dell’esercito. Nella seconda metà del 2011 si evidenziavano in Egitto alcuni preoccupanti segnali di un'involuzione della vita politica e di un innalzamento delle tensioni interreligiose: a settembre l’assalto con morti e feriti all’ambasciata d’Israele al Cairo, a ottobre il massacro di cristiani copti negli scontri con la polizia. Emergevano a più riprese anche le frustrazioni dei giovani attivisti protagonisti della rivoluzione che tornavano a scendere nelle piazze accusando i vertici militari di non voler abbandonare il controllo del Paese, mentre sempre più spazio conquistavano i Fratelli musulmani ansiosi di mettere la sordina alle manifestazioni popolari e alle aspirazioni di libertà dei cittadini. Decisiva in questa direzione prima la grande affermazione alle elezioni parlamentari in tre turni (nov. 2011 - genn. 2012) di Giustizia e libertà, braccio politico dell’organizzazione islamica, e poi l’elezione di Mohammed Morsy (Muḥammad Morsī) anche lui espressione dei Fratelli musulmani, alla presidenza del Paese nel giugno 2012, data che simbolicamente coincise con la condanna all’ergastolo di Mubārak per la morte di circa 800 dimostranti durante le manifestazioni che avevano portato alla sua deposizione (i due ulteriori capi d’accusa contro di lui erano arricchimento illecito e corruzione).
Marocco, Giordania e monarchie del Golfo. – Tra gennaio e febbraio 2011 anche in Marocco e in Giordania si registravano alcuni episodi di protesta nelle piazze e cresceva la richiesta di democrazia in entrambi i paesi. Per scongiurare il pericolo del dilagare della rivolta, re Muḥammad VI del Marocco decideva di accelerare il processo interno di democratizzazione e modernizzazione, peraltro già avviato tra molte cautele nei primi anni del nuovo secolo. Così, mentre nel Paese continuavano le proteste, represse dalla polizia, nel mese di marzo si avviava il processo di revisione costituzionale che contemplava in primo luogo una limitazione dei poteri assoluti del sovrano e un riconoscimento delle funzioni del Parlamento e del Primo ministro. Il 1° luglio 2011 il 73% dell’elettorato approvava a schiacciante maggioranza, con un referendum, le variazioni introdotte alla costituzione, mentre una parte dell’opposizione (islamisti radicali, sinistra e liberali indipendenti) boicottava il voto ritenendo di poco conto le limitazioni introdotte. In Giordania le manifestazioni di protesta, partite da alcuni villaggi poverissimi del Paese, si diffusero in seguito ad Amman e ad altri centri cittadini, ma non conobbero una forte partecipazione popolare. La situazione nel regno giordano, uno dei regimi più stabili della regione, fedele alleato dell’Occidente, appariva fortemente condizionata dall’atteggiamento tradizionalista delle sfere religiose e delle strutture tribali e dei clan della società che ostacolavano i pur blandi progetti di modernizzazione proposti da re ‛Abd Allāh II. Stroncati sul nascere i tentativi di rivolta in Bahrain grazie all’intervento militare deciso dal Consiglio di cooperazione del Golfo su ispirazione del suo membro più influente, l’Arabia Saudita, la monarchia petrolifera governata dall’ultraottantenne re ‛Abd Allāh Bin ‛Abd al-‘Azīz Āl Sa‘ūd, da tempo autoproclamatasi gendarme della tradizione sunnita, della stabilità e della conservazione nella penisola araba e in tutta la regione. La ribellione pacifica a Manama (al-Manāma), capitale del Bahrain, aveva assunto dal suo esordio una notevole forza d’impatto e fu contrastata armi in pugno dalla polizia del regime facendo molte vittime. A protestare nelle piazze erano gli sciiti, che costituivano la grande maggioranza della popolazione in un piccolo Paese governato da una minoranza sunnita, e proprio questa caratteristica della rivolta metteva in allarme la dinastia saudita timorosa che le rivendicazioni degli sciiti del Bahrain potessero attecchire anche tra gli sciiti sauditi che costituivano la maggioranza nelle province orientali del Paese, ricche di petrolio. Il 14 marzo un contingente militare di circa 1500 effettivi, in prevalenza sauditi, veniva così inviato nell’arcipelago del Bahrain dove contestualmente si applicava la legge marziale. Nel corso dell’anno si scongiurava il pericolo di un contagio rivoluzionario in Arabia Saudita, ma la dinastia saudita, che ha elargito dollari in gran quantità per ingraziarsi i suoi sudditi, sa di non poter rinviare oltre la questione della rappresentanza politica. Ai confini meridionali dell’Arabia Saudita, nel sultanato dell’Oman, il movimento di protesta non ha rinnegato la sua fedeltà al regime, ma si è battuto per ottenere aumenti salariali, riforme politiche e l’allontanamento di ufficiali e funzionari corrotti, richieste cui il regime è andato incontro con la creazione di nuovi posti di lavoro, lo stanziamento di sussidi di disoccupazione e la promessa di riforme.
Libia. – La protesta in Libia scoppiava il 15 febbraio nella città costiera di Bengasi in Cirenaica, la regione da sempre ostile al controllo politico di Tripoli. Mentre la ribellione nelle piazze si allargava, pur non facendo mai registrare una partecipazione imponente e pacifica, in Cirenaica si arrivava ben presto all'insurrezione armata con l’adesione di ufficiali dell’esercito e di molti reparti militari. All’inizio di marzo i ribelli avanzavano verso sud e conquistavano Brega, sul golfo della Sirte, la città sede di uno dei principali impianti petroliferi del Paese intorno alla quale nel corso dei mesi successivi si riaccendeva più volte la battaglia tra gli insorti e le forze governative fedeli al colonnello Muammar Gheddafi (Mu῾ammar al-Qadhdhāfī); negli stessi giorni la Francia era il primo Paese a riconoscere l’autorità del Consiglio nazionale di transizione (CNT), l’organismo politico che controllava i territori in mano ai ribelli, autoproclamatosi unico legittimo rappresentante della repubblica libica. Le pressioni francesi erano determinanti nel giungere, il 17 marzo, all’approvazione della risoluzione 1973 da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con la quale si autorizzavano gli stati membri a prendere qualsiasi iniziativa necessaria per proteggere i civili, si disponeva la creazione di una no-fly zone e si rafforzava l’embargo sulle armi. Dopo i primi bombardamenti aerei della Francia contro le forze governative che cercavano di riconquistare Bengasi, il 31 marzo la NATO assumeva il comando delle operazioni contribuendo al successo dell’avanzata degli insorti in Tripolitania. Nel mese di aprile anche i caccia italiani partecipavano alle operazioni mentre iniziava il drammatico conteggio delle vittime collaterali dei bombardamenti e i ribelli conquistavano Misurata (maggio). Una lunga fase di stallo caratterizzava le operazioni di guerra tra giugno e luglio ma nel mese di agosto, sostenuti dalle tribù berbere, i ribelli entravano a Tripoli mentre le truppe lealiste e Gheddafi, ricorso a più riprese all’impiego di mercenari centrafricani, ripiegavano a Banī Walīd e Sirte. Tra settembre e ottobre entrambe le città erano teatro di bombardamenti e di un lungo assedio che mettevano a dura prova la capacità di sopravvivenza della popolazione. Il 20 ottobre Sirte veniva liberata e Gheddafi catturato dai ribelli, dopo che il convoglio con il quale era in fuga era stato colpito dagli elicotteri della NATO. Lo scempio della sua persona negli ultimi momenti di vita prima della sua esecuzione, ripreso da un telefono cellulare, faceva il giro del mondo in tempo reale, mandato in onda da tutte le televisioni. Con la morte di Gheddafi si apriva una fase delicatissima per il Paese: antagonismi e debolezze del CNT, già emersi durante il conflitto, e l’incognita delle forze islamiche, la cui presenza determinante nel campo degli insorti era stata spesso taciuta, apparivano solo alcuni dei problemi da affrontare. L’assenza di una società civile, dei partiti, di un’amministrazione centralizzata e l’enfatizzazione della tribù come unica istituzione riconosciuta della società durante la dittatura di Gheddafi, facevano della Libia un Paese senza Stato dove era difficile avviare la ricostruzione sotto la minaccia delle ingerenze dei paesi confinanti e degli interessi economici e geopolitici di Francia e Gran Bretagna. Un risultato sorprendente, in questo scenario difficile da interpretare, è stato quello registrato nelle prime elezioni libere nel Paese dopo quasi cinquant’anni, vinte nel luglio 2012 dall’Alleanza delle forze nazionali, lo schieramento moderato e vicino all’Occidente guidato da Maḥmūd Jibrīl (39 seggi), davanti alla formazione islamica moderata del Partito della giustizia e dello sviluppo (17 seggi). Ma la virulenza dell’attacco all’Occidente è tornata a farsi drammaticamente sentire l’11 settembre 2012 in occasione dell’assalto al consolato statunitense a Bengasi durante il quale è rimasto ucciso l’ambasciatore degli Stati Uniti.
Yemen. – Regime fortemente in bilico quello yemenita, dove le prime contestazioni al regime si sono verificate nel gennaio 2011 con la richiesta di dimissioni del presidente ‛Abdallāh Ṣāliḥ. Ferito il 3 giugno 2011 nell’esplosione che distruggeva parte della sua residenza nella capitale Sana, Ṣāliḥ è rientrato in patria nel mese di settembre dopo tre mesi di cure e convalescenza in Arabia Saudita. Pur abbandonato dalla Casa bianca, che non lo riteneva più all’altezza del difficile compito di contenere la crescita di al-Qā῾ida e delle numerose sigle del terrorismo islamico, e fortemente indebolito dalle defezioni di una parte consistente dell’esercito e del suo entourage politico che avevano aderito alla rivolta, Ṣāliḥ ha cercato fino all’ultimo di non cedere al diktat saudita che prevedeva una sua uscita di scena per risolvere la crisi e avviare nel Paese, già devastato da decenni di endemici conflitti tra nord e sud, una fase di transizione democratica. A fine novembre Ṣāliḥ accettava di ritirarsi e consegnava il Paese nelle mani del suo vice, il generale ‘Abd Rabbibi Manṣūr Hādī, che nel febbraio 2012 veniva eletto, senza sfidanti, alla presidenza. Si acuiva tuttavia, dopo la breve stagione delle lotte democratiche, l’instabilità politica, in un quadro sociale e istituzionale ancora fortemente dominato dalle strutture tribali; si intensificavano gli scontri tra estremisti salafiti e ribelli sciiti e soprattutto appariva minacciosa l’avanzata dei miliziani di al-Qā῾ida nel sud del Paese, dove l’organizzazione terroristica manteneva uno dei centri nevralgici della sua rete nella penisola araba.
Siria. – Dopo alcuni isolati accenni di protesta nel mese di febbraio 2011, in Siria le manifestazioni di piazza sono iniziate all’inizio di marzo a Daraa (Dar‛ā), una città al confine meridionale con la Giordania. Il 18 marzo, dopo la preghiera del venerdì, diverse migliaia di persone sono scese nelle strade per chiedere la liberazione di alcuni ragazzi arrestati nei giorni precedenti per aver inneggiato sui muri della città alle rivolte in Tunisia e in Egitto. Per tutto il mese di marzo Daraa ha continuato a essere il centro della protesta che progressivamente andava espandendosi ad altre città: Hasakeh, Latakia, Homs, Hama. L’immediata azione repressiva della polizia e dell’esercito provocava sin dai primissimi giorni della rivolta un elevato numero di morti. Le parole d’ordine della protesta, inizialmente improntate a un più generico anelito di libertà, si sono via via delineate: fine degli arresti arbitrari, liberazione dei detenuti politici, libertà di stampa e d’informazione, abolizione dell’articolo 8 della Costituzione che definisce il partito Ba’th «guida dello Stato e della società», di fatto uno strumento decisivo per assicurare lealtà al regime e controllare tutte le leve del potere. Forte il peso anche delle ragioni economiche e sociali della rivolta in un Paese dove un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Particolarmente sanguinosa è stata la repressione nel mese di agosto: il 1° del mese furono oltre cento i morti tra la folla presa a cannonate nelle strade di Hama, mentre anche a Damasco i manifestanti venivano attaccati con le armi. Nel pieno della crisi, durante l’estate del 2011, la violenza dell’esercito e l’azione intimidatoria e repressiva dei servizi segreti (Mukhabārāt), la vera colonna portante del regime di Damasco, hanno costituito un’impenetrabile linea di difesa della dittatura siriana che da sempre ha saputo alimentare le divisioni sociali, tribali e religiose interne per mantenere lo status quo e impedire un’eventuale coalizione tra gli oppositori al regime. A differenza che nel caso libico, l’Occidente ha mostrato di fronte alla repressione siriana, forse la più sanguinosa, molte cautele e reticenze: un eventuale altro fronte di instabilità in Medio Oriente spaventa tutti, sia i paesi vicini amici e nemici, come Iran e Israele, sia la comunità internazionale che fa finta di non vedere i crimini della dittatura di Bashshār al-Asad. L’Unione Europea ha votato a più riprese diverse sanzioni economiche contro la Siria ma nessuna condanna effettiva è arrivata dalle Nazioni Unite e nel Paese nel corso del 2012 la rivolta si è trasformata in una guerra civile senza esclusione di colpi (v. Siria).
Rivoluzioni e controrivoluzioni. – Nel corso del 2012, a distanza di molti mesi dallo scoppio della p. a., lo scenario appariva radicalmente mutato. La spontaneità della ribellione, la grande partecipazione giovanile, l’imponenza delle manifestazioni di piazza e la non violenza del movimento, che avevano segnato tra gennaio e febbraio 2011 il momento più alto di questa ondata rivoluzionaria, apparivano ormai irrimediabilmente respinte sullo sfondo. Dopo la vittoria nelle piazze in Tunisia e in Egitto, la rivolta si è trasformata in guerra civile in Libia o si è arenata di fronte alla capacità di resistenza dei regimi (Siria). Se in origine prevalevano i tratti comuni (tra la rivoluzione tunisina, quella egiziana e le prime manifestazioni di rivolta in Siria e nello Yemen), con il passare dei mesi sono emerse radicali differenze tra Paese e Paese e sono entrati in gioco, prima assenti, molti altri attori: le forze della NATO, l’Europa e da ultimi, e più defilati, gli Stati Uniti. Hanno ripreso vigore i tradizionali partiti all’opposizione, presi alla sprovvista dall’irruenza della protesta giovanile e spontanea, e un ruolo da protagonista, come era prevedibile, hanno conservato o riguadagnato i militari, pur fautori di scelte antitetiche da Paese a Paese: in Egitto i vertici dell’esercito hanno saputo cavalcare a lungo l’ondata delle proteste; in Libia e nello Yemen l’esercito si è diviso tra la fedeltà al regime e l’adesione alla rivolta; in Siria, infine, tutte le forze militari e i servizi segreti hanno fatto quadrato intorno ad al-Asad, apparentemente impenetrabili a qualsiasi ondata di cambiamento. Hanno riconquistato la ribalta le forze islamiste, prima fra tutte i Fratelli musulmani in Egitto, cui un’oculata strategia di partecipazione al movimento, ma senza eccessivi clamori e protagonismi, ha garantito la funzione di ago della bilancia, con il ruolo di fautori dell’ordine e di catalizzatori e controllori del disagio sociale. La spinta al cambiamento e le aspirazioni di libertà e democrazia rischiano di venire in qualche modo frustrate perché il crollo dei regimi non ha trascinato con sé tutti i vecchi centri di potere, rivelando ancora una volta l’intrinseca debolezza e fragilità delle istituzioni statali e il peso imprescindibile dei clan tribali, delle oligarchie militari e soprattutto della religione, l’islam, in tutte le sue sfaccettature sociali e politiche. La Libia rappresenta un’incognita: la scomparsa del rais potrebbe aiutare il processo di pace ricomponendo le diverse, e antagoniste, anime della guerra civile o potrebbe piuttosto precipitare il Paese nel caos esacerbando le divisioni e lasciando sempre più spazio alla stretta reazionaria dell’Arabia Saudita, preoccupata di mantenere lo status quo e soprattutto di attraversare indenne questa stagione di rivolte recuperando la sua funzione di interlocutore imprescindibile sul piano internazionale a discapito di un Egitto fortemente indebolito. Il progetto di ricostruzione della Libia non può poggiare su alcuna preesistente struttura statuale e nazionale, minacciato piuttosto dalla forza centripeta delle divisioni regionali interne (Cirenaica contro Tripolitania) e da un possibile protagonismo delle forze islamiche. L’Arabia Saudita, nel suo anacronistico connubio tra zelo religioso e petrodollari, modernità tecnologica e struttura statuale arcaica fondata su clan e famiglie principesche, vuole mantenere il suo ruolo di arbitro regionale, pronta a rinsaldare la sua alleanza strategica con gli Stati Uniti nel caso l’Iran sciita volesse approfittare della debolezza del fronte arabo sunnita. Da ultimo la crisi economica, che nella congiuntura rivoluzionaria ha conosciuto un ulteriore peggioramento e porta con sé il rischio di esasperare gli antagonismi sociali e generare nuove derive autoritarie: nel caso dell’Egitto, per esempio, uno dei più colpiti dalla crisi economica, un grande pericolo risiede nella debolezza dell’economia locale, dipendente dalle importazioni di prodotti alimentari e di beni di prima necessità. Alla fine del 2012 la nuova realtà politica scaturita dalla p. a. conosceva un primo importante banco di prova per il riacutizzarsi della crisi tra Israele e Gaza, con quest’ultima responsabile di un ripetuto e sempre più minaccioso lancio di missili in territorio israeliano. A interpretare un ruolo di mediazione veniva chiamato l’Egitto governato dai Fratelli musulmani, costretto a barcamenarsi tra l’alleanza di lunga data con Ḥamās, l’organizzazione di derivazione diretta dai Fratelli musulmani che governa la Striscia, e la necessità di non inimicarsi gli Stati Uniti e la comunità internazionale schierandosi in supporto della Striscia di Gaza. Ma insieme all’Egitto apparivano in difficoltà tutti gli attori della crisi mediorientale: dagli Stati Uniti, reduci da oltre un decennio di sconfitte nella regione, a israeliani e palestinesi, protagonisti di un conflitto irriducibile che li vede entrambi sconfitti, ai paesi arabi, dove se è vero che regimi dispotici e illiberali hanno lasciato il posto a governi e presidenti liberamente eletti, il processo di democratizzazione interna appare ancora lungo e incerto.