Legalità, principio di
Principio di legalità è un'espressione tecnica del linguaggio giuridico, in base alla quale si designa la subordinazione dei poteri pubblici alla legge e si inferisce l'invalidità di ogni atto imperativo che alla legge non sia conforme. Questa inferenza evidenzia già di per sé la rilevanza del principio per il processo di razionalizzazione formale che ha connotato in modo eminente la storia istituzionale dell'Occidente. Ma da un punto di vista teorico il senso della nozione non è così univoco come a tutta prima potrebbe apparire. Anche a voler assumere come problematico, il che purtroppo non è, il significato del termine 'conformità', è certo che con il concetto di 'legge' è possibile fare riferimento a cose piuttosto diverse. Fondamentalmente si può intendere la legge come legge in senso formale, cioè come atto proceduralmente determinato dell'organo competente per la legislazione, oppure come legge in senso materiale, come norma giuridica dotata di qualità oggettive che la differenziano dal semplice comando di un soggetto politico autorizzato. Nel primo caso, si fa solitamente osservare, il principio di legalità serve a limitare il potere giudiziario e soprattutto quello esecutivo, nel secondo esso viene esteso anche al potere legislativo, che non è soggetto alla legge formale ma può esserlo a norme di diritto, e precisamente, nel caso di una costituzione rigida, a norme di rango costituzionale (v. Guastini, Legalità..., 1994, p. 85).
Definito il principio di legalità in base all'affermazione della supremazia della legge sugli atti del potere esecutivo e del potere giudiziario, e introdotta la distinzione di legge in senso formale e legge in senso materiale, la dottrina giuridica specifica ulteriormente facendo riferimento a tre regole distinte: 1) "È invalido ogni atto dei pubblici poteri che sia in contrasto con la legge" (principio di preferenza della legge); 2) "È invalido ogni atto dei pubblici poteri che non sia espressamente autorizzato dalla legge" (principio di legalità in senso formale); 3) "È invalida (costituzionalmente illegittima) ogni legge che conferisca un potere senza disciplinarlo compiutamente" (principio di legalità in senso sostanziale) (ibid., p. 87). Come risulta evidente, queste tre diverse articolazioni del principio generale di legalità corrispondono a tre differenti modi di intendere la nozione di conformità alla legge. Definiscono anche, in modo tipico-ideale, tre gradi di evoluzione di quella moderna costruzione politica razionale che è lo Stato costituzionale di diritto. Si parla poi di riserva di legge ogni qualvolta la costituzione stabilisca che a disciplinare una certa materia sia la legge e solo la legge, sulla base dell'implicito convincimento che questa: a) sia capace di realizzare il massimo del compromesso tra le forze politiche (scongiurando una spaccatura orizzontale tra componenti della società); b) sia in grado di determinare il massimo consenso dei cittadini (evitando una spaccatura verticale tra istituzioni e cittadinanza); c) costituisca la massima garanzia contro il potere esecutivo; d) fornisca il massimo di funzionalità in vista di un controllo giudiziario delle attività amministrative (v. Zagrebelsky, 1984, p. 54).
In ciascuna delle materie regolate dal diritto il principio di legalità costituisce uno dei punti cardinali di riferimento. Ma particolare valenza simbolica il principio assume nell'ambito del diritto penale, dove ha trovato espressione in una delle massime paradigmatiche del positivismo giuridico e del garantismo penale, nullum crimen et nulla poena sine lege. Con questa massima si intende il divieto rivolto ai pubblici poteri di accusare, arrestare, detenere o punire alcuno se non in base a una legge promulgata anteriormente al delitto e non caduta in prescrizione (secondo la formulazione degli artt. 7 e 8 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789). In una recente sintesi teorica sul garantismo penale si definisce "principio di mera legalità" quella che tradizionalmente si è chiamata riserva di legge, la quale in materia penale sta a significare l'obbligo per il giudice di qualificare come reati solo i fenomeni che la legge individua come presupposti di una pena, e "principio di stretta legalità" la riserva assoluta di legge, in forza della quale è prescritta al legislatore "la tassatività e la determinatezza empirica delle formulazioni legali" (v. Ferrajoli, 1989, p. 7). Muovendo da questa ridefinizione del principio di legalità in ambito penale si perviene all'identificazione di due concetti generali, fondamentali per la teoria dello stato di diritto: legalità in senso lato, "in forza della quale la legge è condizionante", e legalità in senso stretto, "in forza della quale la legge è condizionata". In base al principio di mera legalità ci si limita a vincolare l'esercizio di qualunque potere alla legge quale "condizione formale di legittimità"; in base al principio di stretta legalità si esige invece che la legge stessa condizioni "la legittimità dell'esercizio di qualunque potere da essa istituito a determinati contenuti sostanziali", nella fattispecie i contenuti dei diritti fondamentali (ibid., p. 897). Il primo principio corrisponde al concetto classico di legalità, che a ragione, entro l'universo del positivismo giuridico, è stato contrapposto al concetto di legittimità in base alla distinzione tra esercizio e titolarità del potere - legittimo si dice un potere in base al titolo, legale in base all'esercizio (v. Bobbio, 1970). Il secondo principio fa invece riferimento al quadro del costituzionalismo postpositivistico, per il quale la contrapposizione di legalità e legittimità ha perso gran parte della sua nettezza.
Si può altresì sostenere che, in questa duplice accezione e nella progressione delle determinazioni ora menzionate, il principio di legalità si configura come la componente qualificante dello Stato di diritto moderno e (per quanto concerne la sua specificazione sostanziale) contemporaneo. Esso svolge per la teoria dello Stato di diritto il ruolo che il principio di legittimità (sovranità popolare) assolve per la teoria della democrazia. Ma anche per questo concetto si può distinguere, kantianamente, tra un'accezione stretta o forte e una larga o debole. Per Stato di diritto in senso stretto (distinto dal mero Stato legale o di legge o di ragione) si deve intendere uno Stato in cui il potere non solo si riveste della forma del diritto razionalizzando le sue procedure, ma si autolimita in senso contenutistico affermando la connessione tra diritto e giustizia: uno Stato, cioè, in cui i poteri pubblici non solo vengono predeterminati nella titolarità e nell'esercizio da norme generali, ma anche limitati dal riconoscimento positivo di una sfera di valori codificata dalle dichiarazioni dei diritti dell'uomo e del cittadino. Tutto ciò configura un sistema di meccanismi costituzionali che include: a) il controllo del potere esecutivo o di governo da parte del potere legislativo; b) il controllo di legalità degli atti di pubblica autorità da parte del potere giudiziario; c) il controllo del parlamento nell'esercizio del potere legislativo ordinario da parte di una corte costituzionale; d) la funzionalizzazione di tutti i poteri alla garanzia dei diritti fondamentali (v. Bobbio, 1985; v. Ferrajoli, 1989; v. Habermas, 1992). Per il pieno dispiegamento del principio di legalità entro la compagine politica moderna sono dunque necessarie tre fondamentali condizioni: 1) la razionalizzazione delle procedure di produzione del diritto; 2) la istituzionalizzazione della divisione dei poteri; 3) la costituzionalizzazione dei diritti naturali.
Ma nel linguaggio politico corrente vi è anche un'accezione debole o più larga di Stato di diritto, in base alla quale si fa riferimento a uno Stato in cui i poteri pubblici sono esercitati nell'ambito di norme generali che li regolano, ponendo i cittadini in una situazione di eguaglianza giuridica: in tale contesto anche il concetto di legalità assume una valenza più generale e viene a designare quel requisito del potere che si ha quando questo "viene esercitato nell'ambito o in conformità delle leggi stabilite o comunque accettate". Questa nozione ci riporta alla classica dottrina della superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini, nel cui alveo sono maturate proprio quelle idee che nella teorica moderna dello Stato di diritto (in senso stretto) hanno trovato poi elaborazione giuridica. Ed è dalla considerazione di questa accezione generale che si deve prendere le mosse, per altro consapevoli che in essa 'governo delle leggi' assume un duplice significato: governo per leges, vale a dire mediante leggi generali e astratte, o governo sub lege, sottoposto alla legge. Nel primo caso s'intende richiamare l'attenzione su una specifica modalità di produzione del diritto ("mediante leggi"), nel secondo si evidenzia una specifica modalità di applicazione del diritto ("secondo le leggi"; v. Bobbio, 1983², p. 581).
Questa concezione dello Stato di diritto come governo delle leggi continua a dominare il dibattito filosofico contemporaneo sulle forme di esistenza associata. Non sorprende pertanto se in un'opera che ha avuto in questi ultimi decenni straordinaria fortuna, A theory of justice di John Rawls, la questione della tutela dei diritti in una "società bene ordinata" venga affrontata proprio appellandosi alla veneranda nozione di governo della legge come idea limite o tipo ideale di sistema giuridico, a cui il filosofo americano associa quattro fondamentali massime di giustizia: 1) "dovere implica potere", ovvero ultra posse nemo tenetur; 2) "casi simili vanno trattati in modo simile"; 3) nullum crimen sine lege; 4) legislatori e giudici devono provvedere all'"integrità del procedimento giudiziario", a che cioè siano garantite condizioni d'indipendenza, imparzialità ed equità nel processo (v. Rawls, 1971; tr. it., pp. 202 ss.). Piuttosto val la pena sottolineare come tutte queste massime si rivolgano in modo prevalente o esclusivo al potere giudiziario, a conferma del fatto che la tradizione anglosassone del rule of law, a differenza della corrispondente tradizione continentale, tende a privilegiare nettamente la componente del governo sub lege e a operare con una più comprensiva nozione di legge. Tale diversità è del resto rispecchiata dal lessico, a proposito del quale è stato più volte sottolineato come il linguaggio anglosassone non conosca la contrapposizione tra 'legale' e 'giuridico', che è invece fortemente radicata nella cultura del continente e nella quale si riflette un'accentuazione del dualismo tra produzione e applicazione del diritto.
Analogamente più sfumata, sulla base della tesi della loro reciproca interconnessione (v. Alexy, 1992), appare in ambito culturale anglosassone la contrapposizione tra momento 'legale' e momento 'morale', che in area continentale si è solidamente attestata all'interno del discorso filosofico a partire dalla celebre distinzione di Kant. "Il puro accordo o disaccordo di un'azione colla legge, senza riguardo alcuno all'impulso di essa, si chiama la legalità (conformità alla legge); quando invece l'idea del dovere derivata dalla legge è nello stesso tempo impulso all'azione, abbiamo la moralità" (Metaphysik der Sitten, Einleitung III). Senza volersi qui accostare alla storia di questa dottrina, il che comporterebbe un bilancio su due secoli di elaborazioni nella filosofia del diritto e nella filosofia della morale, andrà almeno ricordato il ruolo che nell'immaginario giuridico della tradizione europea ha svolto la divaricazione tra quel positivismo legalistico che rifiuta diritto di cittadinanza all'idea di giustizia e quel "moralismo della legge" che nega validità a ogni norma positiva che contraddica principî di giustizia universalmente riconosciuti (v. Höffe, 1987; tr. it., p. 109).
La storiografia delle istituzioni ha mostrato come all'edificazione di un sistema giuridico ispirato al principio di legalità in senso lato, e quindi alle idee di razionalità, impersonalità e oggettività normativa, abbiano dato un contributo fondamentale la cultura e la prassi romana, mentre alla costruzione di un sistema giuridico poggiante sul principio di stretta legalità si sia arrivati solo in età moderna, in particolare, e non senza ambiguità e resistenze, con l'illuminismo. Ma dal punto di vista della storia del pensiero è difficile negare che già nell'antica Grecia sia presente la consapevolezza della complessità del problema. Nella disputa filosofica platonico-aristotelica, sulla superiorità del governo delle leggi o del governo degli uomini, quella distinzione tra governo sub lege e governo per legem appare già piuttosto chiaramente identificabile, per quanto poi questo dibattito vada calato, per essere adeguatamente compreso, entro un contesto di produzione normativa materialmente e formalmente irrazionale, in cui prevalgono le consuetudini del diritto sacrale e il nuovo si fa strada attraverso le forme della statuizione carismatica (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 100).
Quando nel Politico, sullo sfondo di una comunità politica che conosce, pur con tutte le sue tensioni e contraddizioni, l'isonomia, l'eguaglianza di legge che è al tempo stesso l'eguaglianza posta dalla legge, Platone formula la sua celebre critica alla dottrina della superiorità delle leggi, o quando nelle Leggi rovescia l'argomentazione, proponendo un topos che, ripreso da Aristotele, sarebbe diventato paradigmatico per il pensiero occidentale, non vi è dubbio che il riferimento sia in primo luogo al governo sub lege (v. Bobbio, 1991). Contro il principio della supremazia delle leggi Platone fa valere la tesi che, per la sua generalità, la legge non è in grado di comprendere tutti i casi possibili facendo giustizia della diversità delle posizioni. Contro il principio del primato del governo degli uomini, costantemente minacciato dal prevalere degli interessi particolari e dalle passioni distruttive, Aristotele sostiene invece la tesi che la legge è "ragione senza passione (ἂνευ ὀϱέξεωϚ νοuϚ)" (Politica, 1287a), evidenziando il nesso sussistente tra generalità, razionalità e impersonalità della norma statuita.
Quello che salta comunque all'occhio è la preoccupazione del pensiero greco per la diversità delle situazioni e la difficoltà di disciplinarle con una normativa troppo generale e astratta. La difficoltà viene esorcizzata proiettando nel mito, sulla figura del grande legislatore, il momento della produzione del diritto (origine carismatica della statuizione del diritto). Del resto, storicamente, la distinzione tra legislazione come momento di produzione delle norme e giurisdizione come loro applicazione fa fatica a delinearsi fintanto che la giustizia viene praticata come libera 'amministrazione' che decide caso per caso (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 13).
La più esplicita presa di posizione di Platone a favore della supremazia della legge è affidata all'ultimo e più maturo dei suoi dialoghi politici: "Dove la legge è sottomessa ai governanti ed è priva di autorità, io vedo pronta la rovina della città; dove invece la legge è signora dei governanti e i governanti sono suoi schiavi, io vedo la salvezza della città e accumularsi su di essa tutti i beni che gli dei sogliono largire alle città" (Leggi, 715d). E Aristotele fa eco a questa posizione nella Politica: "È preferibile, senza dubbio, che governi la legge più che un qualunque cittadino e, secondo questo stesso ragionamento, anche se è meglio che governino alcuni, costoro bisogna costituirli guardiani delle leggi e subordinati alle leggi (νομοϕύλαϰαϚ ϰαι òυπηϱέταϚ τοῖϚ υόμοιϚ)" (Politica, 1287a). In questo passo aristotelico, accanto al principio di legalità, fa la sua comparsa con l'idea dei guardiani della legge anche una prefigurazione del principio di costituzionalità (v. cap. 6). Del resto, l'idea di un organo conservatore delle leggi, garante e custode della stabilità, non è affatto estranea alla filosofia politica greca, come documenta anche la meditazione platonica sul "consiglio notturno" (Leggi, 961-962).
Ma Aristotele si spinge così innanzi da elaborare per il potere giudiziario quello che oggi chiameremmo principio di legalità in senso stretto. In una società nella quale strabordante è il peso del diritto consuetudinario e la sovranità dell'assemblea è messa a repentaglio dai tribunali (v. Hansen, 1991), dove elevata è dunque l'irrazionalità materiale e formale del sistema giuridico, la sua attenzione si rivolge alle tecniche che consentono di limitare al massimo il margine di discrezionalità dei giudici - e la prima fra queste è la legge. "Soprattutto occorrerebbe che delle leggi ben stabilite determinassero esse stesse tutto quanto è possibile e lasciassero ai giudici il meno possibile; anzitutto perché è più facile trovare uno o pochi che non molti uomini ben pensanti e capaci di legiferare e giudicare; quindi perché le disposizioni legislative sono stabilite dopo un lungo esame, invece i giudizi avvengono all'improvviso, cosicché è difficile che quelli che giudicano stabiliscano bene il giusto e l'utile. Ma, ed è la cosa più importante, perché il giudizio del legislatore non è particolare, ma riguarda il futuro e l'universale, mentre il membro di assemblea e il giudice giudicano ogni volta su casi presenti e determinati" (Retorica, 1354a-b). Dati questi limiti, il correttivo del principio di legalità diventa il principio di equità: l'equo è definito da Aristotele come "il giusto che va oltre la legge scritta" (ibid., 1374a).
Vi è una linea, sicuramente non retta e nondimeno continua, che da questa teorizzazione aristotelica conduce, attraverso il Cicerone che definisce il magistrato "legge parlante" e la legge "magistrato muto" (De legibus, III, 1, 2), alla celeberrima affermazione di Montesquieu, secondo cui il giudice altro non è che "la bocca che pronunzia le parole della legge" (Esprit des lois, XI, 6). Ma non si coglie il carattere polemico e programmatico di tante formulazioni di questo tenore se non si tiene presente quanto tenace sia, anche in epoche di razionalizzazione formale, la persistenza di una giurisdizione d'origine tradizionale e carismatica e la resistenza all'avanzata della legge. Ancora nell'Inghilterra del Settecento, quando William Blackstone paragona i giudici a oracoli viventi, le decisioni della common law conservano il carattere di surrogato dell'oracolo nel diritto antico (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 103). Ma il principio di legalità in senso debole o lato comincia a delinearsi soltanto quando l'ammissibilità di qualsiasi limitazione della sfera di libertà degli individui viene subordinata, con esclusione di altre fonti, all'intervento di una legge alla cui formazione hanno cooperato o direttamente o attraverso rappresentanti i consociati che le devono prestare obbedienza (v. Mortati, 1975⁹, p. 341; v. Matteucci, 1993).
La dottrina della subordinazione del potere al diritto trova, all'indomani della Magna Charta libertatum, una formulazione paradigmatica nella massima - che sancisce l'idea del primato della legge e che sta alla base della tradizione della rule of law - del De legibus et consuetudinibus Angliae di Henry Bracton: "Ipse autem rex non debet esse sub homine sed sub deo et sub lege quia lex facit regem" (v. Bobbio, 1991, p. 174). La lex a cui con questa massima si fa riferimento non è la stessa della formula opposta rex facit legem, che è alla base di quella concezione del positivismo giuridico cui Hobbes darà dignità teorica in epoca moderna. Qui, infatti, non vi può essere dubbio sul fatto che da un lato la legge posta dal re è legge civile, positiva; dall'altro, già solo l'endiadi sub deo et sub lege sembra suggerire che la legge a cui si fa riferimento è una legge sovrapositiva, cioè la legge naturale. Anche là dove è in questione come limite del potere regale la norma consuetudinaria, la dottrina della common law ne evidenzia la contiguità rispetto alla legge naturale. La tradizione costituzionalistica anglosassone sarà così, a partire da Bracton e Fortescue (come ha ben mostrato McIlwain: v., 1940), prevalentemente una tradizione che tende a ricondurre il potere, nella sua duplice determinazione di gubernaculum e iurisdictio, sotto il controllo della legge: un controllo più stretto nel caso della iurisdictio, sottoposta alla legge civile oltre che a quella naturale, più largo nel caso del gubernaculum, posto che il re resta sottoposto in primo luogo solo alla legge naturale. Ma le maglie della legalità, progressivamente, si stringeranno anche attorno a lui.
La richiesta di legalità, di sottomissione del sovrano e del magistrato alla legge, è la risposta della societas civilis che si viene costituendo - a partire dai centri urbani, commerciali e universitari medievali - contro la spinta all'espropriazione dei ceti (e dei loro diritti appropriati) e alla centralizzazione dell'apparato amministrativo. Il nucleo originario della dottrina della riserva di legge prende forma proprio nel corso delle battaglie dei ceti contro la prassi accentratrice dei principi che rivendicano accanto al monopolio militare quello fiscale. Essa si sviluppa parallelamente a una riflessione sulla riorganizzazione dei pubblici poteri che mette a fuoco le idee di 'ufficio', 'ministero', 'responsabilità' nella funzione pubblica. Come Max Weber ha mostrato, la progressiva inclusione dei consociati in una istituzione fondata sull'eguaglianza giuridica formale sotto la tutela della legge "è il prodotto di due grandi forze razionalizzatrici: da una parte l'ampliamento del mercato, dall'altra la burocratizzazione degli organi delle comunità di consenso" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 52).
Questa centralizzazione è d'altro canto il presupposto perché si realizzino quelle condizioni di omogeneità sociale che poi permetteranno il dispiegamento di una produzione normativa di carattere generale e astratto, di una legislazione riferita al caso 'normale'. La possibilità di questa legislazione normale è data infatti proprio dalla normalizzazione dei rapporti sociali sul territorio attraverso riforme che consentono il disciplinamento dei comportamenti e la razionalizzazione dei ruoli. Anche questa precondizione ha del resto un presupposto (e un modello): l'opera della Chiesa come efficace forza razionalizzatrice e agenzia normativa centralizzata all'interno di una società frammentata da un coacervo di consuetudini (v. Berman, 1983). In ogni caso il processo di normalizzazione sarà opera di un potere sovrano dotato di prerogative eccezionali: è il diritto dello stato d'eccezione a produrre quella normalità cui potrà applicarsi lo strumento generalizzante della legge. Soltanto dopo aver compiuto quest'opera di livellamento delle posizioni rispetto a un centro sovrano la ricerca di un assetto di divisione dei poteri potrà essere conciliata con quella della stabilità complessiva del corpo politico.
L'ingresso nella modernità da parte del pensiero politico è segnato dalla consapevolezza che per il consolidamento del governo sub lege è necessario perfezionare gli strumenti di produzione del diritto, cioè del governo per legem. Al processo di monopolizzazione del potere sovrano si accompagna così un processo di monopolizzazione delle fonti del diritto da parte della legge. L'enunciazione del grammatico Servius, risalente al IV secolo, secondo cui "ius generale est, sed lex est species" (v. Stein, 1966, p. 109), appare ormai anacronistica davanti all'avanzata della legge come atto normativo supremo e irresistibile. Rousseau, con il suo programma di "mettre la loi au dessus de l'homme", è l'autore che dà la più incisiva attuazione a questo disegno di marginalizzazione di ogni altra fonte giuridica: "Il corpo sovrano, non avendo altra forza oltre il potere legislativo, non agisce che per mezzo delle leggi" (Contrat social, III, 12). L'assolutismo della monarchia patrimoniale aveva già messo fuori gioco il potere giudiziario - costringendolo a essere quel "pouvoir en quelque façon nulle" di cui ci parla Montesquieu. Il programma politico dei rivoluzionari non fa che confermare, nelle parole autorevoli di Robespierre, quei risultati: "In uno Stato che ha una costituzione e un potere legislativo la giurisprudenza delle corti di giustizia consiste solo nella legge stessa" (v. Neumann, 1957; tr. it., p. 262). Ma l'assolutismo legislativo della repubblica democratica dei giacobini muove anche alla conquista del potere esecutivo, con la conseguenza di cancellare la linea divisoria tra legislazione e governo, compromettendo non solo il principio di divisione dei poteri ma lo stesso principio di legalità. Il dibattito costituzionale post-rivoluzionario, che dal Termidoro porta alla Costituzione dell'anno VIII, mostra di essere consapevole proprio di come la mancata progettazione di un forte governo finisca per pregiudicare anche la funzione del legislatore (v. Colombo, 1993).
Non è un caso che, dopo il collasso dell'esecutivo nel legislativo e il conseguente rovesciamento delle posizioni nel periodo della dittatura, portato a compimento il processo della codificazione napoleonica, il secolo trionfale per il principio di legalità sia l'Ottocento. La funzione primaria della codificazione consisterà nella riduzione dell'incertezza, incoerenza e confusione delle fonti, rendendo possibile l'affermazione del principio di legalità. Nel corso dei progressivi aggiustamenti della dottrina giuridica dello Stato di diritto borghese tale principio svilupperà le sue potenzialità principalmente in rapporto agli atti dell'esecutivo, quelli generali e astratti come i regolamenti, e soprattutto quelli particolari e concreti come i provvedimenti amministrativi. Questa dottrina verrà elaborata in primo luogo in Francia, per antonomasia la terra dei legisti e della filosofia della legge (v. Carré de Malberg, 1931). Ma anche nella cultura tedesca, cui va il merito d'aver sviluppato sistematicamente la teoria dello Stato di diritto, il vincolo della legalità sarà indirizzato al disciplinamento della 'polizia' e dell'amministrazione, il che non può sorprendere in un paese con tradizioni particolarmente forti in questo settore: Stato di diritto è per Otto Mayer, uno degli esponenti più rappresentativi della nuova ideologia giuridica, "lo Stato del diritto amministrativo ben ordinato" (v. Böckenförde, 1976, p. 72).
Più volte è stato osservato come per la teoria continentale abbia poco senso porre il problema della tutela dei diritti nei confronti del legislativo e del giudiziario, dal momento che il primo è considerato il potere da cui i diritti stessi traggono origine e il secondo un potere nullo, che non fa altro che applicare la legge senza margini di discrezionalità (v. Guastini, Legalità..., 1994, p. 86). Il passo decisivo in direzione della legalizzazione delle procedure giudiziarie era del resto già stato compiuto dal secolo dei Lumi. Nell'ambito del diritto penale, alla luce dei primi grandi riordinamenti legislativi della materia, la neutralizzazione di ogni discrezionalità giudiziaria è più che un programma che la filosofia giuridica dell'illuminismo lascia in eredità al secolo che celebra l'apoteosi della legge. Di questo programma una formulazione piuttosto efficace forniva il trattatello, destinato a inaspettate fortune, dell'italiano Cesare Beccaria: "In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev'essere la legge generale, la minore l'azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all'incertezza" (Dei delitti e delle pene, IV). Il dogma della certezza del diritto come risultato di procedure rigorose di applicazione del diritto diverrà, con il nuovo secolo, il mito fondativo del positivismo giuridico.
In epoca moderna la duplicità di significato del governo delle leggi dispiega tutta la sua rilevanza. Non rinnegata l'ideologia della legge come espressione della sovranità popolare ma acquistata consapevolezza della necessità di restaurare un più equilibrato rapporto tra i poteri, l'Ottocento pone mano all'elaborazione della dottrina dello Stato di diritto. Essa riflette quella duplicità al punto che diventa possibile parlare di 'doppia legalità' dello Stato di diritto, e questo rispetto al modo con cui viene esercitato il potere (sub lege) e rispetto al mezzo che consente quest'esercizio (per legem). Attraverso tale doppia legalità si realizza la coniugazione di liberalismo (con la sua vigilanza contro l'abuso del potere) e di democrazia (con la sua promozione della funzione eguagliatrice della legge). Il concetto di governo rappresentativo presiede a quella coniugazione anche sotto il profilo del suo rapporto con la legge: da un lato, infatti, è inerente alla nozione di rappresentanza l'idea che la volontà politica di una nazione o di un popolo debba essere sottoposta, per esprimersi ordinatamente, a un processo di formalizzazione giuridica (la rappresentanza è forma e non fonte della sovranità); dall'altro, l'assemblea rappresentativa, escludendo il mandato imperativo, è già in sé il risultato di un processo di astrazione e dunque il luogo qualificato alla produzione di norme astratte quali hanno da essere le leggi.
Nel corso di tutto l'Ottocento la riflessione sulla riserva di legge si svilupperà con questa duplice funzione liberale e democratica, da un lato ponendosi al servizio della tutela dei diritti dei cittadini contro il potere esecutivo, dall'altro riconducendo la disciplina di determinate materie sociali sotto il dominio degli organi rappresentativi espressione della sovranità popolare (v. Guastini, Legge..., 1994, pp. 166167). Vincolando alla legge l'attività del potere giudiziario, che nel far uso della sanzione e quindi di mezzi repressivi per dare esecuzione alle sentenze viene a trovarsi in una pericolosa contiguità rispetto al potere amministrativo, la dottrina dello Stato di diritto dà voce alla preoccupazione liberale per la divisione dei poteri. Ancorando alla legge l'attività dell'amministrazione, d'altro canto, essa non si limita a estendere a un altro ambito quella stessa preoccupazione ma persegue anche lo "scopo di vincolare l'uso del potere amministrativo al diritto democraticamente statuito" (v. Habermas, 1992, p. 213). Né questo è tutto. Nella dottrina dello Stato di diritto, da Robert von Mohl a Rudolf von Gneist, l'integrazione tra le due componenti - liberale e democratica - dello Stato post-rivoluzionario si compie inoltre attraverso il recupero di una nozione integra, materiale e formale insieme, di legge.
Il primo carattere della legge intesa nella sua integrità è la generalità: si tratta di una norma che s'indirizza a un numero indeterminato di destinatari, escludendo ogni eccezione e discriminazione. A questo proposito può essere considerata paradigmatica una celebre formulazione di Rousseau, per il quale l'idea stessa di volontà generale risulta inconciliabile con una norma particolare: "Quando dico che l'oggetto delle leggi è sempre generale, intendo dire che la legge considera i sudditi come corpo collettivo e le azioni come astratte, mai un uomo come individuo né un'azione particolare" (Contrat social, II, 6). Il fatto che la legge sia astratta è condizione della stabilizzazione di aspettative e quindi della certezza e prevedibilità del diritto: di conseguenza esclude la retroattività, che di quella certezza è la violazione più perturbante. La legge è nel tempo ma opera contro il tempo: di conseguenza tende a sottrarsi alle tentazioni di frequenti modificazioni e al vincolo della caducità (v. Zagrebelsky, 1992, p. 33). La legge come espressione della volontà generale celebra però il suo tragico fallimento nel corso della Rivoluzione francese. La sua pretesa atemporalità si capovolge, in questa accelerazione della storia, nella concitazione degli organi legislativi. Se non vuole dissolversi in una devastante "furia del dileguare", la legge deve allora recuperare un rapporto con la realtà effettuale. A pensare questa unità di universalità e determinatezza nella legge è Hegel. "Soltanto per il fatto che diviene legge, ciò che è diritto ottiene non solo la forma della sua universalità, ma la sua vera determinatezza. Nel concepire la legislazione si deve quindi avere innanzi non semplicemente l'un momento, secondo cui qualcosa è espresso come regola, valida per tutti, del comportarsi; bensì il momento essenziale interno, e prima di quest'altro la conoscenza del contenuto nella sua universalità determinata" (Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 211). La legge diventa così il mezzo attraverso cui si realizza l'oggettività dello Spirito e si esprime la volontà razionale dello Stato: soltanto attraverso la sua universalità la libertà, il principio del mondo moderno, viene all'esistenza.
Ma il trionfo della legge all'interno della società plasmata dalla Rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale è anche il principio del suo declino. Espandendosi l'intervento pubblico in tutti i domini e venendo così a offuscarsi la linea divisoria tra società civile e Stato, la legge si particolarizza. L'antitesi tra norma generale e comando individuale, tra ratio e voluntas, presuppone un ordinamento costituzionale fondato sulla distinzione fra società civile e Stato. Solo dove la società è autonoma, il che vuol dire capace di armonizzare le sue forze e di dar vita a un ordine spontaneo, lo Stato può limitarsi alla normazione generale (v. Forsthoff, 1964; tr. it., p. 105). Con la proliferazione delle leggi il carattere della generalità dei precetti normativi inevitabilmente s'incrina. In questo modo legge si riduce a essere ogni atto proceduralmente valido dell'organo competente a legiferare. Con la scissione di legge materiale e legge formale viene alla luce un altro aspetto della doppia legalità dello Stato di diritto. Per riprendere la terminologia della weberiana teoria della razionalità, se la legge materiale poteva essere definita razionale rispetto al valore, la legge formale appare ora un mero strumento razionale rispetto a uno scopo eteronomo. Dietro alla nozione di legge formale non resta invece che l'idea della volontà particolare e contingente di un'occasionale maggioranza. Si passa così, secondo la tagliente diagnosi di un critico irriducibile del liberalismo, dallo "Stato legislativo, giusto produttore di giusto diritto, con il suo saggio législateur e con la sua sempre buona e giusta volonté générale" (v. Schmitt, 1958; tr. it., p. 217), allo Stato amministrativo che si richiama tecnocraticamente alle necessità funzionali, alle esigenze dell'occupazione e della redistribuzione, alla gestione tecnica e neutrale di una quotidiana emergenza. Ma anche in uno Stato di questo genere, dove persino l'esistenza del corpo parlamentare viene ridotta a "mera funzione di votazioni generali di maggioranza", dal momento che la maggioranza è diventata il titolo giuridico esclusivo per l'appropriazione legale del potere, deve ancora valere un "principio materiale di giustizia, a meno che non si voglia che l'intero sistema di legalità cada a pezzi in un attimo: il principio cioè dell'uguale chance che tutte le pensabili opinioni, orientamenti e movimenti hanno di raggiungere quella maggioranza" (ibid., p. 236).
Con il prevalere del concetto formale di legge viene meno non solo l'identità di ratio e voluntas ma anche l'identificazione di legge e interesse generale. Nel Contrat social, quando denomina repubblica ogni Stato retto da leggi, Rousseau illustra questa definizione sostenendo che solo in un tale Stato "governa l'interesse pubblico" (II, 6). Ora, invece, con la particolarizzazione della legislazione emergono e tornano a organizzarsi gli interessi particolari e i corpi intermedi. La legge, trasformatasi in tecnica giuridica per la "selezione degli scopi" (v. Irti, 1986, p. 15), diventa un veicolo delle tendenze centrifughe della società complessa. In questa evoluzione sociale sono impliciti due esiti egualmente nefasti per il futuro dello Stato di diritto: un assetto corporativo della società e della sua rappresentanza oppure una sorta di mercato politico aperto alla sopraffazione del più forte (sia pure con mezzi legali). Nell'un caso come nell'altro questa particolarizzazione della legge può ben essere definita, per l'incidenza delle aspettative deluse, la promessa non mantenuta dello Stato di diritto.
La dottrina costituzionale della Rivoluzione francese, fissando la distinzione tra potere costituente e poteri costituiti, dischiude un nuovo scenario per la definizione dei rapporti tra legittimità e legalità - la cui contrapposizione nel lessico politico e nella pubblicistica data proprio a partire da quest'epoca -, e pone le premesse per distinguere tra una legittimità originaria e una legittimità derivata, nonché tra legalità e superlegalità. In quello che rapidamente sarebbe diventato il manifesto politico della Rivoluzione del 1789, Qu'est-ce-que le Tiers État? Sieyès scriveva: "Il governo esercita un potere reale solo in quanto è costituzionale, esso è legittimo solo e fin quando è fedele alle leggi che gli sono state imposte. Alla volontà nazionale, al contrario, basta la sua semplice realtà per essere sempre legittima: essa è all'origine di qualsiasi forma di legalità" (v. Sieyès, 1993, vol. I, p. 257). La volontà generale o nazionale è qui la fonte di ogni legalità e, poiché in essa esistenza e normatività vengono a coincidere, anche il suo prodotto, la legge, è necessariamente quello che deve essere, nel reciproco compenetrarsi di diritto naturale e diritto positivo. Questa dottrina del governo della legge assume tacitamente che il legislatore sia vincolato dalla legge che fa e altrettanto tacitamente esclude che la sua competenza di legiferare possa divenire lo strumento di un potere arbitrario. Quel vincolo, e con esso la coincidenza di legalità e legittimità, può tuttavia funzionare solo finché la legge mantiene i caratteri di una norma giuridica (calcolabilità, ragionevolezza, giustizia). La forza dello Stato di diritto ottocentesco si fondava sulla convinzione d'aver superato, armonizzandone le componenti, la contrapposizione tra le due grandi ideologie giuridiche che hanno attraversato, contrastandosi, l'intera storia dell'Occidente e di averne neutralizzato la pretesa reciprocamente esclusiva di individuare una fonte privilegiata della validità giuridica: da un lato l'ideologia giusrazionalistica - con la sua massima veritas non auctoritas facit legem - dall'altro l'ideologia positivista - con la massima auctoritas non veritas facit legem. Ora invece, con la crisi del concetto di legge in senso materiale la forbice tra le due componenti è tornata ad aprirsi a vantaggio della seconda. Con la trasformazione dello Stato di diritto liberale in democrazia di massa la voluntas si appresta a fagocitare la ratio; in essa lex est quod populus iubet. Legge è ormai "ciò che è fatto dalle istanze competenti per la legislazione con il procedimento prescritto per la legislazione" (v. Schmitt, 1928; tr. it., pp. 194-195). La legalità ha ormai irrevocabilmente divorziato dalla legittimità.
Con il positivismo giuridico la dottrina tardo-ottocentesca dello Stato mette a punto una critica radicale di ogni forma di sostanzialismo giuridico-politico, di ogni ipostatizzazione della volontà generale e del potere costituente. Essa trova il suo compimento nel rifiuto kelseniano di antropomorfizzazione della volontà entro un processo decisionale che risulta semplicemente dalla pluralità di atti individuali che concorrono a un certo risultato (v. Kelsen, 1929²; tr. it., p. 74). A questa critica fa da contraltare quella che Schmitt rivolge alla legalità di uno Stato policratico e di un sistema pluralistico nel quale ogni maggioranza non può più dirsi rappresentanza della totalità ma semplice somma non integrata di elementi eterogenei. A restaurare l'unità ormai disarticolata dello Stato parlamentare interviene la dinamica plebiscitaria della democrazia di massa. Tuttavia questa componente di legittimità plebiscitaria rimane in realtà solo giustapposta al sistema dello Stato legislativo orientato alla legalità (v. Schmitt, 1958, p. 318). Con questa diagnosi Schmitt mette a fuoco le ambivalenze o quelle che ritiene le contraddizioni di uno stadio evolutivo del costituzionalismo liberal-democratico, da parte del quale è tentata un'operazione che al positivismo giuridico sembra essere naturaliter preclusa, vale a dire l'integrazione dei diritti e dei principî materiali di giustizia nel tessuto normativo-positivo della costituzione. Il paradosso di questo passaggio evolutivo può essere sintetizzato così: mentre la legge si formalizza, la costituzione si materializza. L'elegante ma forse solo apparente soluzione del paradosso viene individuata dalla scienza del diritto costituzionale nel rafforzamento della validità di determinate norme (costituzionali) rispetto a quella delle norme ordinarie e nell'identificazione di materie sottratte alla revisione costituzionale: Maurice Hauriou (v., 1923, p. 297) introduce per la definizione di questo ambito problematico il concetto di "superlegalità costituzionale", che Costantino Mortati avrebbe ripreso parlando di "supercostituzione" e proponendone l'identificazione con la costituzione materiale (v. Mortati, 1975⁹, p. 330; v. Schmitt, 1978).
Analizzando la Costituzione di Weimar, nella quale questa problematica si pone con particolare evidenza, Schmitt usa i termini di "seconda costituzione", o anche di "contro-costituzione" (v. Schmitt, 1958, pp. 294 e 307), per sottolineare come all'interno della stessa legge fondamentale possano convivere due costituzioni tra loro in conflitto. Quanto già era accaduto nel corso dell'Ottocento per il concetto di legge, la divaricazione tra la sua componente formale e quella materiale, si riproduce ora all'interno del concetto di costituzione. "La Costituzione di Weimar è letteralmente scissa tra la neutralità valutativa della sua prima parte e la pienezza di valore della sua seconda parte" (ibid., p. 303). Ma tra l'una e l'altra, tra il sistema di legalità funzionalistica delle maggioranze parlamentari e il sistema di garanzie contenutistico-materiali della seconda costituzione, non può esservi mediazione possibile. Eppure è lo stesso Schmitt ad additare i rischi di "un premio superlegale" alla conquista della maggioranza e la necessità di proteggere il complesso delle superiori norme materiali dall'abuso di un legislatore ordinario che gode, con il controllo dell'apparato statale, di un "plusvalore politico addizionale". Tuttavia né lui né Hauriou appaiono disposti a riconoscere il controllo di costituzionalità delle leggi da parte di un'istanza giudiziaria come uscita dall'antinomia del positivismo legalistico. Contro i rischi di discrezionalità impolitica dello Stato giurisdizionale, il decisionismo giuridico e la dottrina dell'istituzione - in particolare nella versione italiana di Santi Romano - preferiranno correre quelli della discrezionalità iperpolitica delle dittature: in questi regimi verrà portato a compimento l'asservimento della legislazione all'arbitrio dei detentori del potere esecutivo.
La storia dello Stato di diritto è la storia della progressiva estensione dei tipi di diritti, a partire dal succedersi delle tre grandi ondate dei diritti civili, politici e sociali. Ma è anche la storia dei diversi livelli di tutela dei diritti soggettivi attraverso il principio di legalità in senso sostanziale. È stato giustamente osservato che i diritti soggettivi dei cittadini si trovano a essere tanto più garantiti nei confronti dei pubblici poteri quanto più intensamente la legge ne disciplina l'attività. La garanzia dei diritti è infatti "inesistente quando la legge si limita a conferire un potere senza tuttavia disciplinarlo in alcun modo [...] è minima allorché la legge circoscrive i poteri che conferisce (ossia conferisce poteri discrezionali) [...] è massima quando la legge, nel conferire un potere, pone a esso non solo limiti, ma anche vincoli sostanziali, predeterminando il contenuto dei suoi atti (ossia conferisce un potere vincolato)" (v. Guastini, Legalità..., 1994, p. 89). In un contesto giuridico nel quale il legislatore funge da interprete autorizzato ed esclusivo della volontà generale, la riserva di legge viene a svolgere un ruolo preminente rispetto alla stessa tutela dei diritti. Una loro piena protezione si ha soltanto con il passaggio da un universo giuridico che postula la sovranità della legge a uno che afferma la sovranità della costituzione, e non nel senso ancora legalistico della sovrapposizione di un legislatore straordinario al legislatore ordinario, bensì in quello di una concezione che, potenziando la componente del diritto materiale e quindi la dimensione etica rispetto al diritto, restituisce alla costituzione il suo carattere di cornice di regole, principî di giustizia e diritti per l'integrazione della società. Una concezione, si è detto, che per la prima volta nella storia realizza una "soluzione di equilibrio: la coesistenza di due lati egualmente essenziali del diritto, un lato 'soggettivo', esentato dalle incursioni della politica, e un lato 'oggettivo', in cui le scelte politiche hanno da svolgere legittimamente la loro parte" (v. Zagrebelsky, 1992, p. 77).
Nella dottrina contemporanea accanto al principio di legalità (formale) viene così a collocarsi il principio di costituzionalità, che del primo non è che "l'estensione al livello più alto e generale"; esso è altresì "il compimento dello Stato di diritto", nel senso che pure la legge, nelle costituzioni flessibili del passato alleggerita del vincolo di legalità, "è ora subordinata a una legge (costituzionale) ed è perciò anch'essa misurabile e controllabile alla stregua di una regola superiore" (v. Zagrebelsky, 1984, p. 57). Ciò che ora deve garantire alla legge il possesso della giustizia, immunizzandola da derive decisionistiche, è il suo ancoraggio al sistema dei diritti, ai valori e ai principî fissati o sedimentati nella costituzione. Si potrebbe a questo riguardo parlare di restaurazione del principio di stretta legalità a un piano più alto dell'ordinamento giuridico, e financo di riabilitazione di un concetto di legge materiale come unità o coincidenza di legge naturale e legge positiva. E in effetti non mancano le ragioni per farlo, se si è definita la giurisdizione costituzionale "amministrazione giudiziaria del diritto di natura" e ci si è spinti a sostenere che "il rapporto tra legge (compresa la legge costituzionale) e costituzione si avvicina al rapporto tra la legge e il diritto naturale" (v. Zagrebelsky, 1992, p. 157). In questo senso, del resto, già all'inizio del secolo Max Weber avvertiva nel ritorno di criteri di giustizia materiali, pur nel discredito a cui la critica dello storicismo e del positivismo giuridici aveva condannato l'antico diritto naturale, l'emergere dell'"idea nostalgica di un diritto sopra-positivo" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 194). Non lo Stato di diritto classico ma l'attuale Stato costituzionale dei diritti realizza al massimo grado la combinazione di giustizia legale e giustizia equitativa. Ma fino a che punto questo ritorno del diritto naturale possa costituire una risposta alla crisi della legge nella società ad alta complessità tecnologica resta questione aperta nel dibattito delle scienze sociali contemporanee.
Nuovo è però nell'ambito di quel dibattito il tentativo di fondare l'intreccio costituzionale di diritto e morale - dove l'una non è semplicemente complementare all'altro ma lo permea dall'interno - nel quadro di una teoria discorsiva dello Stato di diritto democratico. Riducendo a una nozione rigorosamente procedurale la sovranità popolare, questo approccio mira a riportare sotto controllo l'intero apparato dello Stato rendendolo impermeabile all'irruzione di poteri (democraticamente) illegittimi, primi fra tutti quelli dell'economia privata, e tutelando in questo modo le sfere di autonomia degli individui dalla "colonizzazione dei mondi vitali". Secondo la concezione post-metafisica della democrazia affermatasi negli ultimi anni a partire dalla cultura tedesca, può pretendere legittimità solo il diritto derivante dalla formazione discorsiva delle opinioni e della volontà di cittadini giuridicamente equiparati (v. Habermas, 1992).
Se lo Stato liberale di diritto può essere efficacemente definito "uno Stato legislativo che afferma se stesso attraverso il principio di legalità" (v. Zagrebelsky, 1992, p. 24), lo Stato totalitario (o a vocazione totalitaria) che ha dominato, almeno in alcuni paesi, una parte rilevante del nostro secolo può dirsi uno Stato governativo-amministrativo che afferma se stesso attraverso il principio di discrezionalità. Nella sua classica ricostruzione del regime nazionalsocialista in termini di "doppio Stato" (dual State), Ernst Fraenkel ha certo messo in luce come esso funzionasse in base alla sovrapposizione dello Stato discrezionale (prerogative State) allo Stato normativo (normative State), che appunto continuava a sussistere per garantire quel quadro di legalità formale necessario al funzionamento di un'economia capitalistica. Ma a dominare l'intera dinamica della vita statale era, rispetto a questo funzionalismo normativo, l'elemento della discrezionalità più assoluta: esso poneva amministrazione e potere giudiziario a disposizione delle autorità di polizia e comunque si faceva valere in un'attività di governo che sovvertiva la classica gerarchia di legge astratta e provvedimento concreto. In questo modo, "in contrasto col governo doppiamente legale dello Stato di diritto", il regime totalitario fondato sull'istituzionalizzazione dello stato d'eccezione deve essere riconosciuto come un governo "doppiamente illegale", sia rispetto all'assenza di limiti nell'esercizio del potere (la negazione di un governo sub lege), sia rispetto al mezzo di direzione politica che è il provvedimento, la decisione sul caso singolo (e dunque la negazione di un governo per leges) (v. Bobbio, 1983, p. XIII).
Oltre a costituire un significativo contributo all'edificazione di una teoria della dittatura, e del ruolo che in essa viene a svolgere la legge, il modello di Fraenkel consente di sottoporre a un'ulteriore generalizzazione la tesi weberiana circa la capacità del capitalismo moderno di prosperare sotto ordinamenti giuridici che sotto il profilo tecnico-normativo presentano istituzioni marcatamente eterogenee (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 196). Sia pure in un contesto internazionale e interno eccezionale e pertanto intrinsecamente labile sotto il profilo della durata, la coniugazione di capitalismo e "doppio Stato" totalitario mostra l'insostenibilità della connessione necessaria tra società di mercato e governo della legge asserita dall'ideologia liberale classica. Del resto, anche gli altri due scenari di convivenza tra istituzioni e mercato che questo secolo ha delineato - quello delle politiche redistributive dello Stato sociale di diritto e quello delle politiche di privatizzazione e deregulation fino al limite dello Stato minimo - stanno sotto il segno, variamente qualificato, del ritorno del principio di discrezionalità e dell'indebolimento strutturale della legge come strumento di coordinamento sociale.
Da un lato la spinta dello Stato sociale ad attuare principî etici di giustizia, piegando la legge alle finalità concrete del provvedimento e giocando sull'elasticità delle norme costituzionali relative ai diritti, ha portato inevitabilmente con sé la tendenza a cancellare i confini tra produzione e applicazione del diritto e a risolvere l'intervento legislativo in una delibera sul caso singolo (v. Matteucci, 1993, p. 36). Ma paradossalmente anche l'opposta spinta alla privatizzazione e all'instaurazione dello Stato minimo, avviata in Occidente nel corso degli anni settanta in risposta alla crisi di governabilità dei sistemi di welfare, degenerati in assistenzialismo, presenta analoghe tendenze alla riattivazione di un processo di materializzazione irrazionale del diritto. Nonostante certe riproposte dottrinali di un anacronistico concetto di legge di derivazione ottocentesca come garante della funzionalità di un ordine catallattico, la realtà sembra muovere anche qui nella direzione di un rafforzamento degli spazi di discrezionalità, spesso mascherati da un rivestimento di razionalità tecnico-aziendale, in tutti gli ambiti della vita sociale, non da ultimo quello del potere giudiziario. Se da un eminente teorico del liberalismo contemporaneo il giudice viene definito la tipica "istituzione di un ordine spontaneo" (v. Hayek, 1982²; tr. it., p. 121), non può sfuggire all'osservatore disincantato come proprio a un tale attore sociale il processo di depubblicizzazione della vita sociale apra, tra materialità etica e uso strategico della formalità giuridica, una impressionante riserva di discrezionalità.
Nel corso degli ultimi due decenni si è registrato del resto l'accumulo di una vasta letteratura sociologica sulla crisi, da taluno ritenuta irreversibile, della legge come strumento giuridico di coordinazione in un sistema complesso a "differenziazione organizzata", in cui la società non si lascia più governare a partire da un centro politico (v. Luhmann, 1993; v. Willke, 1992). A fronte dei crescenti rischi immanenti alla logica evolutiva delle società tecnologiche (in particolare inerenti alle biotecnologie), la legge appare un mezzo ormai inadeguato di selezione e riduzione della complessità. D'altro canto, a fronte di un progressivo decentramento e di una crescente segmentazione dell'attività amministrativa, essa perde anche in misura sempre più rilevante la sua funzione di strumento di controllo dell'intervento pubblico nella sfera di autonomia privata, rimanendo coinvolta in un processo di erosione del sistema di divisione dei poteri. Dove, a causa dell'alto livello di complessità, contestualità e indeterminazione della prassi amministrativa, non è più configurabile un intervento dell'amministrazione nel senso della classica dottrina dello Stato di diritto, viene meno anche l'effettività della riserva di legge; ma dove l'amministrazione cessa di essere vincolata dalla legge, anche i tribunali incontrano crescente difficoltà nell'esercitare un controllo di legittimità (v. Grimm, 1991). Si può così sostenere che, se da un punto di vista strutturale l'assetto dei poteri degli Stati democratico-costituzionali contemporanei sembra delineare il ritorno a un modello dualistico che ricorda la contrapposizione medievale di gubernaculum e iurisdictio, con conseguente perdita di centralità del momento legislativo, dal punto di vista contenutistico-materiale questa configurazione di contropoteri si trova a fare i conti con problemi qualitativamente nuovi, e resta aperta a una molteplicità di sviluppi. (V. anche Costituzionalismo; Giusnaturalismo e giuspositivismo; Legittimità).
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