verificazione, principio di
Con questo nome viene correntemente indicata l’assunzione congiunta delle due tesi seguenti: (1) un enunciato ha significato se, e solo se, è possibile la sua v.; (2) il significato di un enunciato è il metodo della sua verificazione. Per principio di v. si è talvolta intesa anche solo una delle due tesi, distinguibili in quanto la prima stabilisce un criterio di significanza, mentre la seconda è una definizione di significato.
Alla base del principio vi sono alcune idee dei pragmatisti Peirce e James, ma la sua formulazione esplicita è dovuta ai filosofi del Circolo di Vienna che a loro volta l’attribuirono a Wittgenstein. Nel Tractatus logico- philosophicus (1922; trad. it.) (➔) il principio di v. non compare esplicitamente: la formulazione che più gli si avvicina si trova là dove si afferma che «comprendere una proposizione vuol dire sapere che accada se essa è vera» (Tractatus, 4.124), o che la conoscenza del senso di una proposizione è data dalla conoscenza delle sue condizioni di verità. Wittgenstein dovette per qualche tempo ritenere valido il principio di v., sminuendone via via l’importanza fino ad affermare che il significato di una proposizione può essere determinato dalla v. solo se quest’ultima contribuisce a chiarificarne la «grammatica» (cioè le regole d’uso nei vari contesti in cui compare). In alcune formulazioni delle idee di Wittgenstein il metodo di v. viene invece semplicemente equiparato alle «regole d’uso» di un’espressione, tesi questa più consona al secondo Wittgenstein che non al primo Wittgenstein per cui vale invece una descrizione delle condizioni di verità (cfr. Schlick, Meaning and verification, in Philosophical review, XLV, 1936).
Il principio di v. può essere considerato oggettivamente vicino ad alcune tesi di Bridgman (The logic of modern physics, 1927; trad. it. La logica della fisica moderna), da cui risulta che il significato di un concetto è dato dall’insieme di operazioni che lo definiscono e che problemi e domande non hanno significato se non è possibile trovare operazioni mediante cui fornire le risposte (➔ operazionismo). Se della concezione del significato come metodo di v. si mette in rilievo il fatto che essa caratterizza il significato di un enunciato come un metodo, si può comprendere come essa non abbia avuto molti sviluppi nelle teorie semantiche dell’empirismo logico che, elaborate prevalentemente da Carnap, individuano piuttosto il significato di un enunciato come un certo tipo di entità. La formulazione della tesi secondo la quale un enunciato ha significato quando è possibile la sua v. ha invece costituito un problema di rilievo nel quadro teorico del neoempirismo (➔) o positivismo logico, e la sua storia si confonde con quella dei tentativi di stabilire un criterio di significanza che separi gli enunciati dotati di significato da quelli che ne sono privi. La motivazione per la ricerca di un simile criterio è riconducibile all’esigenza di opposizione alla metafisica che, per i neoempiristi, è in grado di esprimere unicamente pseudo-asserzioni, ossia enunciati dichiarativi privi di significato cognitivo. Secondo questa concezione risultano forniti di significato cognitivo (contrapposto a «emotivo») solamente gli enunciati che hanno significato empirico e quelli che hanno significato logico (enunciati analitici ma anche, almeno per Carnap, enunciati contraddittori). Da questa assunzione i neoempiristi hanno proceduto alla formulazione di svariati criteri di significanza empirica. Il primo riferimento preciso a un criterio di significanza si deve a Carnap in Scheinproblem in der Philosophie (1928), dove si richiede, perché un enunciato risulti significante, che sia fondato su esperienze (Erlebnisse) almeno pensabili. La prima formulazione del principio di v. nel suo complesso si deve invece a Waismann (Logische Analyse des Wahrscheinlichkeitsbegriffs, in Erkenntnis, I, 1930) e, in seguito, ad alcuni scritti di Schlick in cui si chiariva (per es. Positivismus und Realismus, in Erkenntnis, III, 1932-33) che la possibilità di v. (verificabilità) andava considerata come possibilità e in linea di principio, escludendo come rilevanti le particolari condizioni tecniche che in una determinata circostanza o periodo potrebbero determinare l’impossibilità di verificare. Ma, chiarito che non ci si voleva riferire alla possibilità tecnica di v., restava da stabilire se la possibilità fosse di ordine logico o fisico. Schlick optò per la prima soluzione (Meaning and verification, in The philosophical review, 1936) e Carnap per la seconda (Testability and meaning, in Philosophy of science, III e IV, 1936 e 1937) in una discussione solo accennata, e complicata dal fatto che Schlick attribuiva possibilità logica e al fatto descritto dall’enunciato e al processo di v., mentre Carnap intendeva, almeno in un primo tempo, riferirsi alla possibilità fisica del solo procedimento di v. (o meglio di conferma). Nello scritto di Waismann, così come in quello di Schlick Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik (in Naturwissenschaften, XIX, 1931) si richiedeva che gli enunciati fossero verificabili conclusivamente.
Malgrado il termine v. sia spesso definito come sinonimo di qualsiasi procedimento in grado di stabilire la verità o la falsità, il termine stesso indica che il procedimento in questione intende in realtà dimostrare la verità e solo secondariamente, in caso di insuccesso, la falsità: in breve la v. di un enunciato di forma universale sottintende un procedimento induttivo. La chiarificazione di questo punto così come del fatto che gli enunciati di forma universale e quindi le leggi fisiche non possono essere conclusivamente verificati (stabiliti come veri) è dovuto, in gran parte, a Popper (➔). Da allora, oltre al tentativo, contrario alle intenzioni di Popper, di usare la falsificabilità come criterio di significanza, si è cercato di stabilire il principio di v. nella sua prima forma o fornendo nuove definizioni di verificabilità. Del primo tipo di procedimento sono esemplificazione due diversi tentativi di Ayer di definire la verificabilità e di conseguenza la significanza. Nella prima edizione di Language, truth and logic (1936; trad. it. Linguaggio, verità e logica) Ayer considera verificabile un enunciato se da esso, in congiunzione con altre premesse, si possono dedurre enunciati di osservazione non deducibili dalle sole altre premesse. Questo criterio risulta troppo largo perché è soddisfatto da qualsiasi enunciato «metafisico» E da cui è deducibile un enunciato osservativo O attraverso la premessa E D O. Ayer modifica allora il criterio stabilendo: (1) un criterio di verificabilità diretta soddisfatto dagli enunciati osservativi e da qualsiasi enunciato che in congiunzione con altri enunciati di osservazione implichi logicamente almeno un enunciato osservativo non deducibile dalle sole altre premesse; (2) un criterio di verificabilità indiretta soddisfatto da qualsiasi enunciato che in congiunzione con altre premesse implichi almeno un enunciato direttamente verificabile che non segue logicamente dalle sole altre premesse. Si richiede in questo caso che le premesse in questione risultino o enunciati analitici, o direttamente verificabili, o indipendentemente riconosciuti come indirettamente verificabili. Church ha mostrato (in Journal of symbolic logic, 1949) che in base a questa definizione risulta verificabile, e quindi empiricamente significante, qualsiasi enunciato o la sua negazione, alla condizione che esistano tre enunciati osservativi logicamente indipendenti. In seguito a questa dimostrazione si sono succeduti tentativi di ristabilire il criterio di Ayer e confutazioni di questi tentativi (soprattutto nella prima metà degli anni Sessanta), il cui unico risultato sembra essere stato quello di dimostrare l’impossibilità di stabilire un criterio di significanza attraverso questo metodo.
Una strada, in parte diversa, è stata invece intrapresa da Carnap, che in Testability and meaning riconosceva la necessità di sostituire al concetto di verificabilità quello più debole di confermabilità. Carnap considera confermabile un enunciato se alcune esperienze possibili possono contribuire (negativamente o positivamente) alla sua conferma. La soluzione di Carnap consisteva poi nella costruzione di un linguaggio formale che rispettasse il requisito di confermabilità, in modo che risultassero confermabili quegli enunciati in cui compaiono solo termini «riducibili» a una base di termini osservativi. Carnap pensava così che la significanza di un enunciato dovesse derivare dalla sua stessa inclusione in un linguaggio formale costruito secondo i requisiti dell’empirismo. Nel procedimento di Carnap, ancora più che in quello di Ayer, ha rilievo la distinzione tra osservabile e non osservabile o teorico (➔ teoria) riferita a termini o a enunciati di un linguaggio formale. I termini osservativi di Carnap sono i termini che si riferiscono a proprietà o relazioni «direttamente» osservabili e per essi non è necessario stabilire alcun criterio di significanza, così come gli enunciati di osservazione di Ayer sono gli unici enunciati direttamente e conclusivamente verificabili, eredi più o meno diretti dei primi enunciati protocollari. Successivamente Carnap ha proposto un nuovo criterio di significanza empirica che si applica in primo luogo ai termini teorici (cfr. The methodological character of theoretical concepts, 1956). In base a questo criterio si può dire, in sostanza, che un termine teorico risulta significante rispetto a una teoria se, e solo se, compare in un enunciato E tale che da E e da altre assunzioni contenenti termini teorici di cui si è già dimostrata la significanza è possibile derivare, con l’aiuto dei postulati della teoria, un enunciato osservativo che non può essere derivato senza E. Un enunciato teorico risulta poi significante se, e solo se, esso soddisfa le regole di formazione del linguaggio cui appartiene e contiene solo termini teorici significanti. Anche il criterio di Carnap è stato sottoposto a critiche e a modifiche che, come per il criterio di Ayer, si basano o sullo stabilire condizioni di adeguatezza che il criterio dimostra di non rispettare, o mostrando che anche enunciati «metafisici» soddisfano il criterio. La risposta di Carnap a questa seconda procedura sembra consistere nella constatazione che in questo caso gli enunciati non vanno più considerati «metafisici». In base a queste ultime considerazioni appare lecito dubitare della possibilità del tentativo stesso di fondare in modo soddisfacente un principio di verificazione. Si può in effetti avanzare l’ipotesi che l’individuazione di un principio di v. e il complesso travaglio tecnico che ne è seguito siano legati in definitiva a due principali nodi problematici: da un lato, quello connesso al mancato chiarimento della distinzione tra significanza empirica e significanza, e, dall’altro, quello derivante dalla preclusiva limitazione dell’ambito del significato agli enunciati empiricamente o logicamente significanti; nodi problematici tipici del movimento neoempirista e delle sue pregiudiziali antimetafisiche.