Privatizzazioni
di Filippo Cavazzuti
Privatizzazioni: espressione sintetica, ma ambigua per la carica ideologica che essa trascina con sé; evocatrice di molti significati, ma comprensiva di troppi ambiti dai confini incerti. In modo assai generico, con tale espressione si intende il passaggio dei diritti di proprietà esercitati su di una impresa dalle mani dello Stato alle mani di quei privati che ne assumono la gestione: imprese elettriche, ferroviarie, postali e delle telecomunicazioni costituiscono gli esempi più frequenti di imprese candidate alla privatizzazione.In realtà, sul problema della scelta di quale impresa pubblica candidare alla privatizzazione va detto che dalla letteratura non è possibile trarre indicazioni univoche su quali attività debbano essere in concreto svolte da imprese pubbliche invece che da imprese private. In teoria, infatti, non si va molto oltre l'indicazione che in presenza di mercati concorrenziali la preferenza dovrebbe essere accordata al sistema delle imprese private e che, invece, in presenza di monopoli naturali (ovvero di imprese che, date le condizioni tecnologiche della produzione, raggiungono posizioni di monopolio grazie a rendimenti di scala crescenti e costi decrescenti) tale preferenza andrebbe accordata alle imprese pubbliche. Anche se, in quest'ultimo caso, l'analisi teorica indica che sarebbe ugualmente possibile regolamentare l'impresa privata monopolistica ed anche organizzare la concorrenza tra le imprese private che vogliono contendersi (tramite un sistema di asta competitiva) il diritto temporaneo ad esercitare una attività in condizioni di monopolio.
Sempre in modo generico, le privatizzazioni possono anche essere considerate come il passaggio dallo Stato ai privati di qualche particolare attività propria dello Stato del benessere; ad esempio il servizio sanitario affidato alle compagnie di assicurazione private; quello previdenziale ai fondi previdenziali privati; quello scolastico ai genitori lasciati liberi di scegliere per i loro figli la scuola che preferiscono: caso mai assistiti da un 'buono' dato loro dallo Stato per pagare l'istruzione presso le scuole private di loro scelta.Una variante, assai importante, di quest'ultimo modo di intendere le privatizzazioni è quella che introduce le organizzazioni senza scopo di lucro tra i soggetti che possono sostituirsi allo Stato nella gestione di una qualche funzione tipica del Welfare State: istruzione e sanità, biblioteche e musei, teatri e parchi sono i settori per i quali si richiede un arretramento del governo e l'ingresso, al suo posto, del terzo 'settore indipendente' (per usare l'espressione di von Hayek: v., 1982; tr. it., pp. 422 ss.). Fondazioni, enti di pubblica utilità, associazioni private e altri innumerevoli enti di beneficenza sono i soggetti candidati a soddisfare alcuni bisogni collettivi, nella presunzione che essi siano in grado di soddisfarli più efficacemente di quanto non sia in grado di fare il governo. Secondo von Hayek, con visione un po' catastrofica, "sviluppare la capacità di questo settore indipendente è, in molti campi, l'unico modo per evitare il pericolo di un controllo completo del governo sulla vita sociale" (ibid., p. 425).
Queste brevi considerazioni introduttive mostrano che nell'attuale dibattito politico ed economico con il termine 'privatizzazioni' si discute in realtà un tema assai più vasto di quanto esso lasci intendere, oltre che dai molteplici aspetti. Si discute, quantomeno, del ruolo dello Stato e del sistema politico (o partitico) in una economia di mercato e dei confini, assai mutevoli nel tempo e nello spazio, che possono separare l'intervento pubblico da quello privato. Già Knut Wicksell (1851-1926) aveva intravisto una sorta di 'Stato minimo' quando, proponendo che in Parlamento non soltanto non dovesse mai essere votata una spesa disgiuntamente dalla sua copertura finanziaria, ma che per l'approvazione dovesse risultare anche l'unanimità dei votanti, suggeriva che bisognasse limitare l'intervento dello Stato "ad una attività utile per tutta la società e che venga riconosciuta come tale da tutte le classi sociali senza eccezioni. Se ciò non corrisponde alla realtà, una parte più o meno grande della collettività rimarrà indifferente di fronte alla progettata attività dello Stato o, addirittura, la contrasterà; a questo punto, da parte mia, non riesco a vedere niente di più giusto se non che questa attività non sia compresa fra i bisogni della collettività nel vero senso della parola, ma venga temporaneamente affidata all'iniziativa privata" (v. Wicksell, 1896; tr. it., p. 136).
In questo senso il dibattito sulle privatizzazioni è anche la prosecuzione di quanto in molti paesi si è già lungamente discusso a proposito dei vantaggi del privato sul pubblico (o viceversa) e del ruolo economico dello Stato (v. Pigou, 1920; v. Stigler, 1965; v. Olson, 1971; v. Stiglitz, 1989; v. von Hayek, 1982).In molti casi, invero, ci si chiede ancora se la proprietà collettiva dei mezzi di produzione porti davvero al soddisfacimento di interessi collettivi o se, invece, le degenerazioni burocratiche che il 'pubblico' può portare dentro di sé non facciano sì che venga meno lo stretto collegamento tra gestione pubblica e raggiungimento di fini collettivi. Ci si chiede, cioè, se i monopoli pubblici siano stati instaurati a beneficio del pubblico o, invece, soltanto per accrescere il potere dei governi. Così, in quest'ultima logica e per esemplificare, secondo alcuni anche "il monopolio postale [...] deve la sua esistenza unicamente, e senza alcuna altra giustificazione, al desiderio del governo di controllare le comunicazioni tra i cittadini [...] queste stesse considerazioni si applicano [...] alla politica di gestire come monopoli governativi varie altre 'inutilità pubbliche' nei trasporti, comunicazioni, energia elettrica" (v. von Hayek, 1982; tr. it., p. 431). Per altri, invece, il monopolio postale esercitato dallo Stato deriva dal fatto che "è il segreto che si vuole conservare nella corrispondenza postale. In Francia era divenuto canone di buona politica il violare questo segreto per vedere come la pensavano i cittadini [...] Ma, ammesso il segreto postale inviolabile, chi può meglio garantire la segretezza tra lo Stato ed i privati? Questi lo violerebbero per scopi commerciali" (v. De Viti De Marco, s.d., pp. 26-27).
Si può inoltre sostenere, non a torto, che vi è anche una ragione squisitamente politica a favore di una ben disegnata politica delle privatizzazioni. Infatti, pur senza voler rincorrere la chimera del perfetto equilibrio tra attività del settore pubblico e attività private, va considerato che in molti paesi (Italia compresa) il potere di nomina degli organi di comando delle numerose imprese pubbliche e di gestione delle stesse, concentrato nelle mani del sistema politico (e dei partiti politici che lo formano), è da considerarsi 'troppo' rispetto a una equilibrata distribuzione dei poteri stessi. Vi è dunque spazio per il perseguimento di privatizzazioni che, per raggiungere i vantaggi collettivi derivanti da un più equilibrato assetto dei poteri, spostino a favore dei privati parte di tale potere, purché alla fine di tale processo la distribuzione del potere stesso non sia troppo concentrata in poche mani private. Come si vede, così interpretato, il processo di privatizzazione comporta giudizi squisitamente politici sul funzionamento del sistema politico del paese che affronta tale processo.
Nei decenni più recenti, ogni settore in cui sia presente l'azione dello Stato viene dunque investito dal dibattito sulle privatizzazioni. È, infatti, la concezione stessa che si ha dello Stato e del suo ruolo nella vita di una nazione quello che sostiene ed orienta il dibattito sulle privatizzazioni.Poiché, infine, il finanziamento pubblico dei servizi collettivi (come quelli appena richiamati) e, nel caso di perdite di esercizio, la ricapitalizzazione delle imprese pubbliche, richiedono il prelievo coattivo, tramite le imposte, di rilevanti ammontari di risorse private, il dibattito sulle privatizzazioni si intreccia con quello sulla onerosità e sopportabilità dei sistemi tributari. La privatizzazione di parti dello Stato del benessere e delle imprese pubbliche diviene dunque la via per la quale, da parte di alcuni, si vuole giungere alla riduzione dell'onere fiscale. Con questa ultima impostazione, le privatizzazioni sono state anche concepite come uno strumento, sostitutivo delle imposte, per finanziare i disavanzi dei bilanci pubblici. In conclusione, e per le osservazioni svolte, data la molteplicità degli ambiti coinvolti e delle azioni necessarie per realizzare le privatizzazioni, con l'espressione 'privatizzazioni' si deve, nella realtà, fare riferimento a una molteplicità di politiche economiche e sociali; e ciò non per sostenere "il nuovo credo economico", come ebbe a dire uno stretto collaboratore del governo conservatore inglese guidato da M. Thatcher (v. Letwin, 1988, p. VII), ma, piuttosto, per intendere un ben ordinato insieme di azioni (legislative, regolamentari, finanziarie e fiscali, tutte assai complesse) tese alla realizzazione di alcuni vantaggi collettivi.
Queste azioni, concorrendo al mutamento degli assetti proprietari, possono essere adottate al fine di dare soluzione ad alcuni problemi (come quelli della competitività, dei monopoli e dell'eccesso di burocratizzazione) che affliggono soprattutto quei sistemi economici che si sono sviluppati dal dopoguerra in poi in presenza di una forte crescita del ruolo dello Stato nell'economia.Le privatizzazioni vanno dunque intese come un mezzo per realizzare obiettivi e vantaggi collettivi e non come un fine a sé stante. Esse possono dunque contribuire a rimuovere alcuni di quegli ostacoli che oggi si frappongono (soprattutto in Italia) alla riallocazione degli assetti proprietari e alle opportunità di accesso al controllo delle imprese, a sviluppare cioè "il mercato della proprietà e del controllo delle imprese" (v. Barca, 1994, p. 6).
In altre parole, con la politica delle privatizzazioni si tratta di valutare i rapporti tra costi e benefici della modifica e della evoluzione di assetti istituzionali e proprietari alternativi, quali si sono storicamente determinati, e che certamente sono molto complessi; si tratta, in sintesi, di un progetto strategico di politica economica e istituzionale, di non breve periodo, teso a irrobustire il sistema istituzionale, industriale e finanziario di un paese (v. Cavazzuti, 1996). Non a caso, dunque, nei paesi che hanno adottato e perseguito con maggiore determinazione i processi di privatizzazione (come Francia, Regno Unito, Germania) l'arco di tempo richiesto è stato certamente non breve e assai complessa è stata la produzione legislativa approntata per governare tale processo.
Si è detto che le privatizzazioni comportano l'adozione di provvedimenti assai complessi che riguardano svariati ambiti e anche una continua verifica di ciò che si è fatto. Un breve sguardo all'esperienza di alcuni paesi europei esemplifica quanto appena detto.
Nel caso della Francia, si prenda in considerazione l'indagine della Commissione d'inchiesta parlamentare dell'Assemblea Nazionale francese che il 29 ottobre del 1989 ha concluso i propri lavori, iniziati il 28 aprile dello stesso anno (v. Assemblée Nationale, 1989). Come emerge dalla lettura di tale rapporto, in Francia (nell'arco di tre anni) 'prima' è stata discussa ed emanata una legge che ha fissato in 22 articoli la strategia generale e i criteri del 'cosa' e del 'come' privatizzare; 'poi' si è privatizzato sotto la sorveglianza di un'alta Autorità appositamente costituita e 'quindi' è stata svolta un'inchiesta parlamentare proprio per valutare il 'come' si è privatizzato e anche per esprimere una valutazione circa le decisioni adottate dall'alta Autorità. Da questa attività è scaturito anche il riconoscimento di alcuni errori (come quello della vendita 'fuori borsa' o quello, assai più importante, di avere venduto, a prezzi ritenuti troppo bassi, ai vecchi proprietari precedentemente espropriati) da tenere presenti e da evitare per il futuro.
Sempre nel caso della Francia (paese che non brilla per ansia privatizzatrice), in occasione della privatizzazione e dell'apertura alla concorrenza del settore delle telecomunicazioni (dominato, come noto, da France Telecom), il regolatore francese (DGTP: v., 1994) ha rinunciato al mito della pianificazione francese e all'idea di un grande piano pubblico ed ha imboccato la via della 'gara su proposta'. Il governo francese ha dunque lanciato un appello a tutti gli operatori per la sperimentazione delle nuove tecnologie delle telecomunicazioni. Al bando di gara, lanciato in un contesto legislativo aperto, hanno risposto alcune centinaia di progetti (635 progetti di sperimentazione assai diversi tra di loro) che sono stati accuratamente esaminati dall'amministrazione.
Nel caso dell'Italia, ove il processo di privatizzazione è iniziato con ritardo rispetto ad altri paesi europei, sono state privatizzate le due banche dell'IRI (Credito Italiano e Banca Commerciale), l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) e l'Istituto Mobiliare Italiano (IMI). Sul lato delle imprese di pubblica utilità (alla fine del 1996) sono state collocate quote minoritarie dell'ENI ed è stata istituita l'Autorità per la regolazione delle imprese elettriche, anche se nessun passo è stato fatto per la privatizzazione della società elettrica (ENEL).Nel caso della ex Repubblica Democratica Tedesca le privatizzazioni sono avvenute sotto la vigilanza di una agenzia appositamente costituita (Treuhandanstalt, THA) che nel giro di pochi anni ha assolto tutti i compiti che le erano stati affidati: ristrutturare e privatizzare le imprese della Germania dell'Est ed, eventualmente, procedere alla loro liquidazione.
Tale processo ha interessato tutti i comparti del settore pubblico e ha avuto come finalità quella di attuare la transizione da forme di mercato a forte contenuto dirigistico a logiche di funzionamento basate sulla concorrenza. Tra il 1990 e il 1995 la Treuhandanstalt ha ceduto circa 12.000 aziende. Si noti che tale sforzo è stato assistito da una continua campagna di informazione e pubblicitaria che ha interessato tanto la stampa quanto gli investitori nazionali e internazionali. L'elenco delle aziende in vendita, infatti, era acquisibile in qualsiasi libreria e scrivendo alla THA era possibile ottenere informazioni su ogni aspetto della vita delle imprese.
Anche nel caso dell'Inghilterra - che pure dispone di un mercato finanziario vecchio di più di duecento anni - sono state predisposte, da parte del governo conservatore guidato da M. Thatcher, alcune norme di carattere generale per garantire la pubblicità e la trasparenza dei collocamenti azionari e sono state emanate le grandi leggi di settore (Oil and gas act del 1982, Energy act del 1983 e Telecommunications act del 1984) che, privatizzando e liberalizzando i settori dell'energia e delle telecomunicazioni, regolavano in senso competitivo le rispettive industrie e le tariffe da applicare ai consumatori. Con le stesse leggi vennero anche costituite apposite agenzie indipendenti (ad esempio l'OFTEL, Office of Telecommunications) con poteri di regolazione del settore ove operavano le imprese privatizzate, con il compito di sorvegliare che venissero rispettati certi standard competitivi e di qualità dei servizi privatizzati (v. Kay e altri, 1986).
Nell'analisi che segue l'attenzione verrà limitata all'ambito di applicazione di un processo di privatizzazione che riguarda soltanto le aziende di credito e le imprese pubbliche che erogano servizi di pubblica utilità (ad esempio, poste, energia elettrica, telecomunicazioni, servizi di trasporto su rete, acquedotti che, abbiamo visto, von Hayek definisce "inutilità pubbliche"). Tale scelta deriva esclusivamente dalla osservazione del tutto empirica che è questo il campo in cui si sono verificati i più massicci e duraturi processi di privatizzazione i quali, invece, non hanno coinvolto in modo così profondo, e in alcuni casi neppure sfiorato, gli altri settori che più propriamente appartengono all'area del Welfare State.
Anche in questo ristretto ambito di osservazione, tuttavia, quando si affrontano i problemi delle privatizzazioni si finisce per dover dipanare una molteplicità di questioni riguardanti, in primo luogo, la distribuzione dei 'poteri' di condurre le imprese tra lo Stato e gli azionisti privati che vogliono sostituirsi a esso. In questo contesto si discute se la privatizzazione di una banca o di una impresa pubblica debba perseguire l'obiettivo dell'azionariato diffuso o, invece, quello della costituzione di un nucleo di azionisti di riferimento a cui affidare la gestione dell'impresa privatizzata. In secondo luogo l'attenzione va rivolta sia a quell'insieme di norme giuridiche e condizioni economiche e tecnologiche (ad esempio, di monopolio naturale) che consentono che una data attività di impresa sia riservata in modo esclusivo allo Stato invece che agli imprenditori privati; sia alle nuove forme giuridiche (ad esempio, società per azioni) che devono assumere le imprese pubbliche per poter essere privatizzate; sia ai modi della regolazione a cui devono essere sottoposte le imprese privatizzate che operano sui mercati di riferimento disponendo di un elevato grado di monopolio; sia, infine, ai poteri che possono (o debbono) restare nelle mani dello Stato pure in presenza di imprese di pubblica utilità completamente privatizzate.
Ma poiché con le privatizzazioni si affronta non soltanto il problema della sussistenza o meno delle condizioni che generano il monopolio naturale, ma anche quello del ruolo e della modifica degli assetti proprietari di imprese condotte dallo Stato su mercati entro i quali sono già operanti altri imprenditori privati - o su cui potrebbero operare nuovi imprenditori privati qualora venisse meno il monopolio legale che riserva allo Stato la conduzione di una data impresa, pure in assenza delle condizioni del monopolio naturale -, con la politica delle privatizzazioni si finisce per dover affrontare anche i problemi associati al funzionamento dei mercati su cui operano le imprese da privatizzare e alle condizioni da garantire per una loro maggiore efficienza e competitività.
Le considerazioni che seguono riguardano dunque, e prevalentemente, l'insieme dei problemi associati al mutamento della proprietà delle aziende di credito pubbliche e delle imprese pubbliche (come detto, poste, ferrovie, energia elettrica, acquedotti, telecomunicazioni, compagnie aeree, petrolifere o automobilistiche, ecc.); la proprietà cioè di quelle imprese che, in condizioni di economicità, possono produrre e vendere beni e servizi domandati dai singoli consumatori e realizzare profitti da accantonare, da reinvestire o da distribuire agli azionisti.
1. Una considerazione di fondo che spinge alla privatizzazione delle imprese di pubblica utilità è che, in certe circostanze, alcuni vantaggi collettivi (come quelli che derivano dal buon funzionamento dei mercati e dalla loro efficace tutela) sono più agevolmente perseguibili evitando il ricorso alla gestione diretta di una impresa da parte dello Stato (impresa che può essere gestita in concorrenza e per fini correttivi dell'azione delle imprese gestite dai privati), ma ricorrendo invece a un apposito sistema di regolazione dei mercati e delle imprese che su questi operano. In questo senso, allora, la politica delle privatizzazioni comporta non soltanto la deregolamentazione di parte dell'esistente (soprattutto dei mercati monopolistici su cui, di norma, operano le imprese pubbliche), ma anche un processo altrettanto profondo di ri-regolamentazione della nuova realtà al fine, soprattutto, di evitare che con la privatizzazione si abbia soltanto il semplice passaggio da un monopolio pubblico a un monopolio privato.A livello legislativo tali considerazioni si sono tradotte nell'approvazione di diverse leggi orientate alla tutela del mercato. Ne sono un esempio quella in materia di antitrust (particolarmente opportuna quando si deve privatizzare un'impresa che dispone di una posizione dominante sul mercato di riferimento); quella che vieta e reprime l'uso a proprio vantaggio di informazioni riservate (insider trading, fenomeno che può diffondersi tra il management dell'impresa da privatizzare); quella che regola i mercati mobiliari (che devono svolgere un ruolo decisivo nel collocamento delle azioni delle imprese da privatizzare); quella bancaria che, regolando anche i rapporti proprietari tra banche e imprese, è indispensabile per la privatizzazione delle banche pubbliche e delle imprese pubbliche; infine, quella che istituisce le agenzie indipendenti per la regolazione delle imprese di pubblica utilità. In molti paesi, Italia compresa, è stata dunque approntata una cornice legislativa (ancora incompleta e, comunque, perfettibile) strumentale anche all'avvio del processo di privatizzazione.
Data l'importanza nelle diverse economie nazionali delle imprese da privatizzare, tra gli strumenti legislativi che hanno accompagnato il processo delle privatizzazioni va segnalato quello che riserva al governo alcuni poteri speciali. Sia nell'esperienza inglese (golden share), sia in quella francese (action spécifique) si è trattato dell'inserimento nel capitale sociale della società da privatizzare di una azione posseduta dal governo o da un suo rappresentante e dotata di poteri speciali al fine di permettere al governo stesso di impedire scalate non desiderate da parte di soggetti stranieri o cambiamenti di controllo societario non voluti, anche al fine di proteggere gli interessi e l'indipendenza nazionali. Anche l'Italia ha introdotto alcuni poteri speciali (più forti di quelli presenti nell'esperienza francese e inglese), di gradimento di nuovi soci, di veto e di nomina di alcuni amministratori, che sono assegnati direttamente al ministro del Tesoro e, dunque, svincolati dalla effettiva partecipazione azionaria dello Stato.
2. Un ben ordinato processo di privatizzazione delle banche pubbliche e delle imprese di pubblica utilità può contribuire a dare soluzione ad alcuni problemi che segnano negativamente lo sviluppo di molte economie. Si pensi ad esempio: a) alla scarsa competitività del sistema industriale privato, dovuta anche al fatto che quest'ultimo si è sviluppato, in molti paesi, sotto la benevolente tutela delle banche pubbliche, oltre che del bilancio dello Stato; b) alla modestia del mercato dei capitali privati e alla prevalenza del capitale di debito nel finanziamento degli investimenti delle imprese; c) all'opportunità di creare nuovi mercati e nuove imprese per accrescere la forza del sistema industriale e la sua capacità di competere stabilmente sui mercati internazionali; d) alla pervasività dei monopoli legali che in molti settori impediscono che si manifesti un grado sufficiente di concorrenza; e) all'eccesso di discrezionalità degli organi di amministrazione delle imprese e delle banche pubbliche nel perseguire gli obiettivi loro assegnati; f) all'eccesso di asimmetria informativa che domina i mercati su cui operano molte imprese pubbliche; g) alle carenze informative nei processi di decisione accentrati nelle mani pubbliche e all'eccesso di controlli diretti in luogo di quelli indiretti di mercato. Sono questi alcuni dei problemi con cui, nelle esperienze concrete, ma anche nella riflessione più astratta, le privatizzazioni si sono confrontate. Esse, dunque, vanno giudicate non in via generale, ma per come vengono proposte e condotte in concreto, in base alla loro capacità di cominciare a risolvere alcuni dei problemi accennati.
In conclusione, come si legge anche in una raccomandazione della Commissione tecnica per la spesa pubblica (v. Ministero del Tesoro, 1992, p. 312), la politica delle privatizzazioni nel settore delle imprese di pubblica utilità (energia elettrica, trasporti, telecomunicazioni, ecc.) potrebbe portare al superamento dei seguenti aspetti critici: a) inefficienza allocativa e tecnica delle strutture integrate delle industrie interessate, nonché inefficienza gestionale delle singole imprese, a causa della limitata pressione della concorrenza e dei condizionamenti politici del management; b) uno sviluppo rallentato della tecnologia rispetto all'evoluzione della domanda e nei confronti di analoghe industrie europee; c) una qualità mediamente scadente dei servizi prestati.
3. Nel caso di molti paesi aderenti all'Unione economica europea (e in particolare nel caso dell'Italia), nel corso degli ultimi anni sono stati osservati almeno quattro fattori di spinta verso la privatizzazione delle banche e delle imprese pubbliche a livello nazionale o locale.
Vale allora la pena di riflettere brevemente su ognuno di essi poiché, a seconda di quello che prevale, si può giungere a configurazioni dei sistemi economici assai diverse. In sintesi tali fattori sono riconducibili a: a) una spinta di origine interna: la condizione della finanza pubblica a livello centrale e periferico ovvero le condizioni di grave indebitamento del gruppo societario di appartenenza dell'impresa da privatizzare; b) una spinta di origine esterna: la costruzione dei mercati unici (come nel caso di quello europeo) e il rispetto degli obblighi assunti in sede internazionale; c) una spinta ancora interna, ma fondata su considerazioni di tipo strutturale-economico strettamente legate alle condizioni del sistema economico, che si riassume nell'urgenza di far crescere le potenzialità del tessuto industriale e finanziario; d) una spinta che deriva dalla progressiva internazionalizzazione dei mercati dei capitali (anche per effetto della completa liberalizzazione dei movimenti dei capitali, inclusi quelli a breve termine) e che porta ad accrescere l'offerta di titoli da collocare sui mercati regolamentati (le borse valori) al fine di rendere questi ultimi più competitivi con quelli più evoluti.
4. La prima spinta di origine interna è tra quelle più note, ma anche la meno condivisibile. Essa risponde alla logica che considera le privatizzazioni finalizzate quasi esclusivamente al risanamento finanziario e alla riduzione dello stock del debito: sia che si tratti di un debito pubblico (nel senso che il soggetto proprietario - il Tesoro, ad esempio - che cede l'impresa sia un soggetto che attinge direttamente alla tesoreria dello Stato), sia che si tratti di un debito privato, come nel caso della vendita di un'azienda appartenente a un gruppo societario pubblico (come l'IRI, ad esempio). Si aggiunga che, per quanto riguarda il debito pubblico, le dimensioni relative dello stock (in Italia, circa il 120% del PIL) e l'ammontare dei proventi delle privatizzazioni (soltanto alcuni punti percentuali di PIL) mostrano quanto sia modesto il contributo che le privatizzazioni possono dare alla riduzione dello stock del debito pubblico.
È vero invece che un processo di privatizzazione delle public utilities ben condotto e ben presentato sulle piazze finanziarie internazionali consentirebbe di accrescere la credibilità del paese venditore su tali mercati e, per questa via, potrebbe concorrere a ridurre una componente di rischio incorporata nei tassi d'interesse richiesti dagli investitori internazionali. E questa riduzione costituisce il contributo più importante che le privatizzazioni possono dare al contenimento della crescita del debito pubblico.Il processo delle privatizzazioni secondo la logica della riduzione dello stock dell'indebitamento non è senza conseguenze sul 'come' si privatizza. È ovvio, infatti, che se dominano le esigenze di massimizzare gli incassi per il venditore è più facile cadere nella tentazione di collocare imprese pubbliche sotto la forma di monopolio verticalmente integrato: caso mai dotate di una concessione esclusiva della durata di un secolo. Per tale via si massimizza il ricavato per il venditore, ma non viene dato alcun contributo alla creazione di nuovi mercati. È questa un'ottica di breve periodo che non consente la predisposizione di un progetto industriale; tutto è dominato dalle preoccupazioni finanziarie del soggetto proprietario a scapito della crescita del tessuto industriale.
5. Questa impostazione è, tra l'altro, potenzialmente in contraddizione con la seconda spinta che viene, come detto, dalla costruzione dei mercati unici. È da tempo, infatti, che l'Unione Europea sollecita i paesi membri ad adottare misure idonee alla creazione del mercato unico europeo e alla rottura dei monopoli nazionali, così come è ipotizzato negli artt. 85, 86 e 90 del Trattato di Roma. Al riguardo va ricordata l'attività della Commissione e della Corte di giustizia che, sul finire degli anni ottanta, avviò una profonda trasformazione delle regole nel campo delle imprese di pubblica utilità. Si pensi al 'libro verde' (del 1987) sulle liberalizzazioni in alcuni settori delle telecomunicazioni e a quello (del 1992) sulla liberalizzazione in alcuni comparti del servizio postale. Si pensi, ancora, alle proposte di direttiva sul libero accesso alle reti di distribuzione dell'elettricità e del gas e a quella per il libero accesso al servizio delle merci sulle reti ferroviarie.
Nel caso delle imprese pubbliche, la spinta che viene dall'Europa va dunque nella direzione dello scorporo delle infrastrutture (ove dominano le caratteristiche del monopolio naturale, ad esempio i binari ferroviari) dalle attività commerciali che possono essere svolte sfruttando le infrastrutture stesse (ad esempio il transito dei treni), anche tramite l'apertura dei mercati a nuovi operatori. In Germania, ad esempio, l'integrazione dei sistemi ferroviari conseguente all'unificazione ha portato alla costituzione di quattro società separate (controllate da una stessa holding): per il trasporto passeggeri a breve distanza; per quello dei passeggeri a lunga distanza; per il trasporto delle merci; per le infrastrutture.
6. La terza spinta prende l'avvio dalla convinzione che una moderna politica industriale dovrebbe coincidere con la creazione di nuovi mercati (nazionali e locali) e che il tessuto industriale di un paese può crescere anche se viene organizzato un efficiente mercato delle imprese e degli imprenditori. Il settore pubblico, in questa prospettiva, può allora svolgere un ruolo assai importante: quello di partecipare alla creazione di questi nuovi mercati nazionali e locali, collocando su di essi, con la politica delle privatizzazioni, le proprie imprese o le proprie attività che meglio possono essere condotte con la veste di impresa orientata al profitto.
Ma la creazione di nuovi mercati impone che si affrontino e si risolvano almeno i problemi connessi ai soggetti che devono costituire tali nuovi mercati. In particolare si deve avere a che fare con: a) i nuovi entranti che hanno bisogno di regole (possibilmente semplici e chiare) e garanzie oltre che di uno spazio di mercato che consenta la loro crescita; b) le imprese già esistenti (incumbent) che sono portatrici di vantaggi accumulati e che ora, malgrado le loro resistenze, vengono esposte alla concorrenza e all'obbligo di rispettare i nuovi vincoli. La crescita dei nuovi entranti richiede dunque che al monopolista esistente venga, per un certo periodo di tempo, impedito di svilupparsi a danno dei nuovi entranti medesimi. Ciò richiede la predisposizione di ferree e asimmetriche disposizioni di legge e regolamentari; c) le istituzioni chiamate (di norma, le agenzie di regolazione) a dettare e a far rispettare le nuove regole e i nuovi vincoli, con il minimo di costo sopportato dalle imprese regolate. Misurarsi con questi aspetti del problema significa, come è già stato ricordato, che prima della privatizzazione occorre procedere alla liberalizzazione dei settori ove dominano le concessioni esclusive e i diritti speciali, anche perché, come attesta l'esperienza inglese, è meglio non avere a che fare con i monopoli legali, piuttosto che tentare di sottoporli a regolazione. In sintesi si può allora sostenere che la privatizzazione dei pubblici servizi (a livello nazionale e locale) non si esaurisce semplicisticamente nel passaggio della proprietà da mani pubbliche a mani private, ma richiede un processo di deregolazione e liberalizzazione immediatamente seguito da un processo di regolazione di tipo asimmetrico, onde consentire la nascita e lo sviluppo dei nuovi entranti.
Come è noto si tratta infatti di evitare il semplice passaggio da un monopolio pubblico (legale o naturale che sia) a un monopolio privato. Il passaggio deve dunque avvenire da una impresa pubblica a un'impresa privata-regolata, o a una molteplicità di imprese private-regolate nel caso si possa abbandonare la condizione di impresa assistita da un monopolio legale o dotata di concessione esclusiva.
Non vi è dubbio che l'esigenza della liberalizzazione dei mercati protetti comporta la ristrutturazione del settore industriale di riferimento e, dunque, un lasso di tempo certamente non breve e ciò potrebbe essere in contraddizione con le esigenze della privatizzazione che, invece, potrebbero richiedere tempi più rapidi. Si deve riconoscere che tale contraddizione è in parte inevitabile. Ma la preferenza va data alla ristrutturazione industriale; i documenti quali quelli voluti dal governo degli Stati Uniti, da quello inglese o da quello francese (v. GAO, 1995; v. Department of Trade, 1990 e 1994; v. Théry, 1994), riguardanti le profonde trasformazioni che il progresso tecnologico e la liberalizzazione del settore vanno introducendo nel settore delle telecomunicazioni, costituiscono importanti punti di riferimento non soltanto per la ristrutturazione delle loro industrie delle telecomunicazioni, ma per l'intera industria a livello mondiale.
7. La quarta e ultima spinta prende l'avvio dalla considerazione che, pure in assenza di una teoria della nascita dei mercati finanziari, la cessione ai privati delle partecipazioni azionarie detenute nelle 'mani pubbliche' potrebbe correggere la mancanza di un mercato dei capitali. In particolare, tali cessioni potrebbero contribuire, allargando il mercato, a ridurre la volatilità dei prezzi delle azioni, a consentire la diversificazione dei portafogli dei privati, a ridurre i rischi trasferiti sul mercato mobiliare.In generale, tra le più importanti ragioni della modestia del mercato dei capitali vanno ricordati: il finanziamento con il bilancio pubblico (sia in conto capitale che in conto interessi) di molte imprese in sostituzione della raccolta del capitale di rischio; il ritardo con cui si è proceduto alla internazionalizzazione dell'attività finanziaria e alla completa liberalizzazione dei movimenti dei capitali; il prevalere delle piccole imprese (a controllo quasi esclusivamente familiare) rispetto a quelle medie e grandi; l'isolamento (e la protezione) dalla concorrenza internazionale e dagli intermediari non bancari che al sistema finanziario (costituito quasi esclusivamente da istituti di credito) è stato offerto dagli organi di vigilanza.I problemi a cui si è fatto soltanto un accenno fanno sì che alcuni mercati mobiliari soffrano di tutti i limiti dei 'mercati sottili' i quali, in sintesi, presentano elevata rischiosità e sovente prezzi economicamente non significativi oltre che oscillazioni eccessive.
Se si accetta l'idea che il corretto funzionamento dei mercati mobiliari (ove devono essere assai numerose le occasioni di ripartizione dei rischi) e degli intermediari finanziari sia un 'bene pubblico', allora si rafforza anche il convincimento che possa essere compito dell'operatore pubblico quello di offrire tale bene. Tale compito l'operatore pubblico può perseguire qualora si adoperi per l'offerta di nuovi prodotti finanziari e per la sperimentazione di un sistema di 'regole' che garantisca il corretto comportamento degli intermediari ed il buon funzionamento del mercato. Nel caso delle privatizzazioni ciò è reso più facile dalla circostanza che l'operatore pubblico non solo è quello che offre i prodotti finanziari, ma anche quello che fissa le regole e che, dunque, è nella condizione di sperimentarle per primo e, per questa via, di innovare rispetto alla prassi e alle regole precedenti.
Se si condivide il convincimento che i mercati dei capitali non si creano dall'alto e che sia il soggetto pubblico a dover farsi carico del loro sviluppo, il processo di privatizzazione dovrebbe pertanto cominciare a sperimentare con gradualità tutti i passi e le tecniche necessarie per giungere, appunto, ad un mercato mobiliare completo, sviluppato ed efficiente.
Nel caso delle cessioni delle partecipazioni pubbliche spetta dunque proprio all'operatore pubblico garantire il massimo di trasparenza della condotta delle operazioni al fine di garantire l'uguaglianza informativa tra gli acquirenti e l'assenza di ogni privilegio. Si tratta, in sintesi, di evitare che le cessioni delle partecipazioni pubbliche vadano a vantaggio dei soliti 'bene informati'.
Poiché le privatizzazioni hanno importanti implicazioni di tipo finanziario sia nei riguardi del settore pubblico, sia nei riguardi di quello privato, nelle diverse esperienze, quali quelle prima ricordate, si è ampiamente discusso anche delle tecniche di vendita che consentono di rendere massimo l'incasso per il settore pubblico, così come dei costi che devono essere sostenuti per procedere al collocamento delle azioni presso i privati sottoscrittori.
Per quanto riguarda le tecniche di vendita delle public utilities e delle banche pubbliche, i due metodi più diffusi per le cessioni delle partecipazioni azionarie sono quello dell'offerta pubblica di vendita (opv) e quello dell'asta marginale. Nel primo caso le azioni vengono offerte al pubblico ad un prezzo fisso determinato precedentemente alla vendita, nel secondo caso si raccolgono le domande di acquisto con indicazioni di un prezzo superiore a quello 'minimo' con cui si apre l'asta. Secondo alcuni il vantaggio di questo secondo metodo risiede nel fatto che esso non richiede una stima precisa del valore dell'impresa (di norma mai quotata in precedenza), secondo altri questo sistema si presenta talmente complicato da scoraggiare la partecipazione dei piccoli investitori.
Poiché in molti casi di privatizzazione l'impresa di pubblica utilità o la banca in oggetto non è mai stata quotata sul mercato, il rischio di 'sbagliare' il prezzo del collocamento è assai alto. Per ovviare a tali inconvenienti e per saggiare il mercato si può procedere con il metodo del 'book building': ovvero si raccolgono indicazioni su quantità e prezzi indicativi da parte di investitori istituzionali. In altri casi si è proceduto con l'adozione del sistema d'asta su di una quota delle azioni da collocare, e ciò proprio al fine di fissare il prezzo con cui collocare le rimanenti azioni tramite una offerta di vendita. L'asta competitiva, caso mai adottata per la scelta del nucleo di azionisti di riferimento, dovrebbe dunque precedere l'offerta pubblica di vendita.In molti casi si è ampiamente verificato il fenomeno dell'underpricing, per cui il prezzo di collocamento della prima emissione è inferiore al prezzo che le stesse azioni registrano sul mercato nei periodi successivi alla emissione. In alcuni casi, come quello inglese, esso è stato deliberatamente voluto per favorire la massima diffusione dell'azionariato popolare: per rimuovere la vecchia distinzione tra 'workers' and 'owners', come sottolineava la ben orchestrata campagna pubblicitaria che accompagnò le privatizzazioni inglesi (v. HMT, 1989, p. 8).
In quest'ultimo caso, l'obiettivo dell'ampia diffusione tra il pubblico delle azioni cedute può risultare in conflitto con l'altro obiettivo di rendere massimo l'incasso per il settore pubblico che cede le azioni.
Per valutare correttamente ogni strategia di privatizzazione delle imprese di pubblica utilità (e relative controspinte), va poi ricordato che, in molti sistemi economici, a fianco dello Stato produttore diretto di beni e servizi si sono andati affermando un settore pubblico ed un settore privato che hanno creato e moltiplicato strutture organizzate che si aggiungono alle organizzazioni informali dei fornitori dello Stato e delle imprese pubbliche sempre meno capaci di agire come soggetti imprenditori e sempre più assimilabili agli enti erogatori di spesa pubblica.
Anche il sistema delle imprese pubbliche (a dispetto del nome) si è, nel tempo, sempre più diversificato, affiancando al 'cliente privato' il 'cliente Stato', e molte di esse si sono trasformate sempre più in intermediari che finanziano i lavori svolti da altre imprese pubbliche o private, in un intreccio inestricabile di interessi che potrebbero essere scalfiti dalla privatizzazione dell'impresa pubblica. Non si tratta, si badi bene, soltanto di una questione di rapporto tra pubblico e privato: lo Stato, ma anche gli enti locali e le loro imprese pubbliche, alimentano assai spesso una domanda per altre imprese pubbliche e private anch'essa al di fuori dei meccanismi della concorrenza, contribuendo alla creazione di un blocco granitico di interessi, tesi alla salvaguardia di posizioni di rendita e di micromonopolio ove non è consentita alcuna 'libertà di ingresso'.
L'analisi settoriale di queste relazioni conduce ad intravedere l'esistenza di un vero e proprio sistema di monopoli bilaterali assai stabile nel tempo ove, di volta in volta, l'impresa pubblica è disposta a non reagire di fronte ai prezzi assai elevati richiesti dal proprio fornitore (spesso un'impresa privata) non solo di materiali, ma anche di vere e proprie 'fasi' produttive. Si tratta di un sistema dunque, che appare sempre più caratterizzato sia dalla 'trattativa privata', sia dalla inesistenza di una qualche forma di 'libertà di ingresso e di concorrenza tra i fornitori', sia da una forte interconnessione con il sistema politico, ed anche assai costoso per il bilancio pubblico.Insieme alla politica delle privatizzazioni, allora, si dovrebbe consentire alle imprese straniere la piena 'libertà di ingresso' nel sistema dei fornitori delle imprese pubbliche (ed a maggior ragione quando queste fossero state 'privatizzate') e del bilancio pubblico.
Ed è questo un altro passo da compiere anche per accrescere l'efficienza industriale dei fornitori nazionali, per rompere le logiche di monopolio, per combattere le intese restrittive della concorrenza e l'abuso di posizioni dominanti.Va ricordato, infine, che l'avvio della soluzione dei problemi associati alle privatizzazioni è dipeso anche da come i governi, al fine di promuovere vantaggi collettivi, si sono mossi su di un terreno parallelo: quello della istituzione delle autorità indipendenti per la regolazione delle imprese operanti nel campo delle public utilities (v. Cavazzuti e Moglia, 1994).
In particolare al centro del dibattito vi era la questione se il regolatore di oggi (il ministero competente) dovesse essere sostituito da un nuovo 'regolatore' che deriva i suoi poteri dalla legge e che non si limita a dare suggerimenti. In molti casi, infatti, si è trattato di passare da una impresa pubblica regolata dal suo rapporto diretto con il sistema politico, ad altre imprese private, regolate da una autorità terza i cui compiti (tecnici e non politici) devono essere quelli di promuovere la concorrenza; di tutelare gli interessi degli utenti tramite la verifica che la normazione tecnica sia coerente con la definizione degli standard di qualità dei servizi offerti agli utenti; di regolare le tariffe a livello tale da rendere compatibile l'efficienza interna dell'impresa con la massimizzazione degli scambi; di fissare prezzi di interconnessione che non costituiscano barriere all'entrata delle nuove imprese.
Le funzioni di tali autorità sono, in analogia all'esperienza inglese (ad esempio l'Offer-office of electricity regulation) e nordamericana (ad esempio le Independent regulatory commissions): a) accrescere il grado di concorrenza là dove operano condizioni settoriali di monopolio (o quasi monopolio) legale. Si tratta, dunque, di permettere l'accesso delle nuove imprese al mercato tramite la revisione delle concessioni del servizio. Può essere il caso del secondo e del terzo gestore nella telefonia cellulare; b) verificare i casi in cui il progresso tecnologico abbia introdotto nuove condizioni in virtù delle quali non sussistono più, in molti settori delle public utilities, le condizioni di monopolio naturale che costituivano il prerequisito del monopolio pubblico. Ciò rende possibile la presenza di più imprese nello stesso mercato di riferimento. Può essere il caso della produzione della energia elettrica da parte di imprese private, o quello di una molteplicità di imprese nel settore delle telecomunicazioni; c) verificare, invece, se sussistono condizioni tecnologiche tali da non consentire alcuna forma di regolazione se non quella estrema della impresa totalmente pubblica che opera in condizioni di monopolio assoluto. Può essere il caso delle 'reti' ferroviarie ed elettriche, ove è difficile immaginare 'reti' concorrenti, ma dove occorre regolare l'accesso di più imprese che offrano il servizio all'utente finale; d) adottare adeguate politiche di deregolamentazione e di ri-regolazione al fine di promuovere la concorrenza o, dove questa non possa manifestarsi in modo effettivo nel mercato, introdurre condizioni ed incentivi di concorrenza potenziale per il mercato. Può essere il caso del rinvio ai meccanismi d'asta competitiva per l'assegnazione delle concessioni di servizio per un determinato periodo.
È ovvio che alla fine del periodo tale concessione dovrà di nuovo essere messa all'asta.Le funzioni appena ricordate ambiscono alla realizzazione di quel particolare vantaggio collettivo che è dato dal buon funzionamento di un mercato su cui operano imprese dotate di un rilevante potere dominante e sul quale stenta ad affermarsi la concorrenza tra le imprese stesse.In conclusione, come ebbe occasione di sottolineare Antonio De Viti De Marco, "ogni intervento dello Stato, tendente a soddisfare un bisogno collettivo, dà luogo ad una produzione di un servizio o bene pubblico. Non è, cioè, necessario che lo Stato sostituisca a pieno l'impresa privata; basta che intervenga per regolarne in qualche modo il funzionamento" (v. De Viti De Marco, 1961, p. 43).
(V. anche Impresa; Impresa pubblica; Liberismo; Mercato; Politica economica e finanziaria; Regolamentazione e deregolamentazione; Stato).
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