Abstract
Oggetto della presente voce è lo studio delle controversie in materia di locazione, controversie che dopo la riforma del 1990 sono state sottoposte ad un unico rito ed attribuite alla competenza di un unico giudice. Vengono così analizzati il procedimento a cognizione piena disciplinato nell’art. 447 bis c.p.c., il procedimento di rilascio di cui all’art. 30 legge dell’equo canone, i procedimenti sommari per convalida e per decreto ingiuntivo e l’esecuzione dei provvedimenti di condanna.
Il codice di procedura civile del 1940 non dettava una specifica disciplina per le controversie in materia di locazione, le quali erano così trattate con il rito ordinario a cognizione piena ed erano attribuite al conciliatore, al pretore o al tribunale in base al valore. Il codice prevedeva comunque il procedimento sommario per convalida (artt. 657 c.p.c.), che il locatore poteva utilizzare per conseguire il provvedimento esecutivo di rilascio dell’immobile o per finita locazione, sia prima sia dopo la scadenza contrattualmente stabilita, o per morosità. Tale giudizio era alternativo e facoltativo rispetto a quello ordinario e rientrava nella competenza per materia e per valore del conciliatore e del pretore.
Subito dopo la guerra si assiste all’introduzione della cd. legislazione vincolistica, nonché alla previsione di un particolare procedimento (l. 23.5.1950, n. 253).
Il primo intervento di particolare importanza si ha con la l. 27.7.1978, n. 392 (cd. dell’equo canone), la quale introdusse altri due procedimenti (artt. 30 e 43), entrambi alternativi ed esclusivi rispetto al processo ordinario e destinati a regolamentare solo alcune controversie. Tale legge inoltre introdusse una significativa differenza tra immobili adibiti ad uso abitativo ed immobili adibiti ad uso diverso, nel senso di prevedere che per i primi il contratto avesse durata di quattro anni e potesse alla scadenza chiedersi il rilascio utilizzando il procedimento speciale per convalida e per i secondi il contratto avesse durata di sei anni, rinnovabili per altri sei, e che alla prima scadenza il locatore potesse chiedere il rilascio solo per tassativi motivi, azionando non il procedimento per convalida, bensì quello a cognizione piena regolato nell’art. 30 l. n. 392/1978.
Con la l. 30.7.1984, n. 399 il legislatore tolse le controversie locatizie al conciliatore, che furono così divise fra pretore e tribunale.
Con la l. 26.11.1990, n. 353 le controversie in oggetto furono attribuite al pretore, con conseguente eliminazione della pluralità di riti e di competenze, e furono assoggettate ad un rito speciale modellato su quello del lavoro (art. 447 bis c.p.c.).
Con il d.lgs. 19.2.1998, n. 51 e con la abolizione della figura del pretore, il giudice competente per le controversie di locazione è diventato il tribunale in composizione monocratica.
Va poi ricordata la l. 9.12.1998, n. 431, che ha ampliato l’ambito di operatività del procedimento di rilascio regolato dall’art. 30 l. n. 392/1978 ed ha, conseguentemente, ridotto l’ambito di operatività del procedimento per convalida.
Alla luce di questi interventi la situazione si presenta sensibilmente semplificata rispetto al passato, perché le parti possono avvalersi di un processo a cognizione piena, che si svolge dinanzi al tribunale con il rito speciale modellato su quello del lavoro, e di un procedimento speciale per convalida, che si svolge sempre dinanzi al tribunale, salva la possibilità di instaurare altri procedimenti speciali, quali ad esempio il procedimento ingiuntivo o quello cautelare.
Con la l. n. 353/1990, le controversie che trovano la loro ragione in un rapporto di locazione di immobili urbani sono tutte assoggettate al rito modellato su quello del lavoro e attribuite alla competenza del tribunale in composizione monocratica, indipendentemente dalla specifica utilizzazione del bene (se per uso abitativo, professionale, commerciale, ricreativo), dalla natura dell’azione spiegata (se personale o reale), dal tipo di pretesa azionata (rilascio dell’immobile, risoluzione del contratto, pagamento del canone, restituzione del deposito cauzionale), dal concernere le obbligazioni principali o quelle accessorie, dall’essere la locazione cessata o ancora in corso o anche da costituire ex art. 2932 c.c., dall’essere la locazione di fatto.
Il rito è differente da quello ordinario ed è modellato su quello del lavoro: l’art. 447 bis c.p.c. infatti richiama tutta una serie di norme che disciplinano appunto il processo del lavoro.
In questa sede saranno esaminate solo le peculiarità che caratterizzano il processo in esame, nel quale trovano comunque applicazione istituti propri del processo ordinario (contumacia, interruzione, sospensione, estinzione, ecc.).
Competente per materia è il tribunale in composizione monocratica e per territorio il tribunale del luogo ove è posto l’immobile (art. 21, co. 1, c.p.c.). Si tratta di una competenza per territorio inderogabile, perché ex art. 447 bis, co. 2, c.p.c. «sono nulle le clausole di deroga alla competenza». Fanno eccezione le controversie agrarie che sono attribuite alle sezioni specializzate del tribunale, che giudicano in composizione collegiale (art. 50 bis, co. 1, n. 3, c.p.c.).
Ai sensi dell’art. 428 c.p.c., il convenuto può eccepire l’incompetenza solo nella memoria difensiva, da depositare dieci giorni prima l’udienza, e il giudice deve rilevarla non oltre l’udienza di discussione di cui all’art. 420 c.p.c.
Il processo locatizio è caratterizzato da un rigido sistema di preclusioni che riguarda tutta l’attività delle parti e tutte le parti. Sia l’attore sia il convenuto devono nei primi atti indicare i fatti sui quali si basano le rispettive posizioni, chiedere l’ammissione delle prove, produrre i documenti. In caso contrario non possono farlo successivamente.
La domanda si propone con ricorso che va depositato nella cancelleria del tribunale competente. Il ricorso deve contenere l’indicazione del tribunale e dei soggetti; la determinazione dell’oggetto della domanda; l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni; l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti.
Una volta effettuato il deposito, il cancelliere deve subito formare il fascicolo di ufficio. Il giudice nominato, entro cinque giorni, deve fissare con decreto l’udienza di discussione, alla quale le parti devono comparire personalmente. Ricorso e decreto vanno notificati a cura dell’attore alla controparte; fra la data della notifica e quella di udienza deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni (termine elevato allorché la notifica deve farsi all’estero).
Il convenuto deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata nel decreto, depositando in cancelleria una memoria difensiva, nella quale deve prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda e proporre tutte le difese in fatto e in diritto; deve proporre, a pena di decadenza, le eccezioni di rito e di merito non rilevabili di ufficio, nonché, a pena di decadenza, le eventuali domande in via riconvenzionale e chiamare in causa terzi; deve indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova e i documenti che deve contestualmente depositare.
In caso di proposizione di domanda riconvenzionale o di accertamento incidentale il convenuto nella stessa memoria difensiva deve, a pena di decadenza, chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza; il giudice deve fissare una nuova udienza.
Nel processo delle locazioni è possibile l’intervento volontario di un terzo, che «non può avere luogo oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto», ossia dieci giorni prima dell’udienza di discussione (art. 419 c.p.c.).
Nel processo locatizio fondamentale importanza ha l’udienza di discussione di cui all’art. 420 c.p.c., soprattutto nel giudizio promosso dal locatore per conseguire il rilascio dell’immobile alla prima scadenza (art. 30 l. n. 392/1978).
La domanda può essere proposta sia prima della scadenza del contratto (si tratta di un’ipotesi di condanna in futuro), sia dopo, nel caso in cui il conduttore non abbia rilasciato l’immobile. Il procedimento può svilupparsi in modo differente a seconda dell’atteggiamento che assume il convenuto alla prima udienza.
Se il convenuto compare e non si oppone, «il giudice ad istanza del locatore, pronunzia ordinanza di rilascio per la scadenza di cui alla comunicazione prevista dall’art. 29. // L’ordinanza costituisce titolo esecutivo e definisce il giudizio» (art. 30, co. 2 e 3). Nell’ordinanza il giudice deve, ex art. 56 l. n. 392/1978, fissare la data dell’esecuzione.
Se invece il conduttore non si costituisce o si oppone, il giudice non può pronunciare l’ordinanza di rilascio e deve procedere oltre, innanzitutto esperendo il tentativo di conciliazione. Se il tentativo non riesce, il giudizio prosegue a cognizione piena ed esauriente.
In tale ipotesi il giudice «su istanza del ricorrente, alla prima udienza e comunque in ogni stato del giudizio, valutate le ragioni addotte dalle parti e le prove raccolte, può disporre il rilascio dell’immobile con ordinanza costituente titolo esecutivo» (art. 30, ult. co.). L’ordinanza non definisce il giudizio, il quale prosegue fino all’emanazione della sentenza definitiva. Anche in questo caso il giudice deve, ai sensi dell’art. 56 cit., fissare la data dell’esecuzione.
Si discute circa la natura e l’efficacia di tale ordinanza. Secondo una tesi diffusa anche nella giurisprudenza della Cassazione, l’ordinanza de qua avrebbe natura provvisoria e sarebbe priva dei caratteri di decisorietà e definitività e sarebbe pertanto revocabile solo con la sentenza che definisce il giudizio, ma non impugnabile, neppure con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., dovendo la parte far valere i vizi che colpiscono tale ordinanza, nel corso del giudizio oppure in sede di impugnazione della sentenza che abbia deciso la causa.
Tale posizione ha fatto sorgere numerose perplessità non tanto sulla provvisorietà, quanto sulla decisorietà dell’ordinanza, dal momento che essa è destinata ad incidere sul diritto delle parti e a provocare un pregiudizio per una di esse, e sulla non impugnabilità, tanto che si è dubitato della legittimità costituzionale dell’attuale sistema che non prevede alcun rimedio avverso l’ordinanza provvisoria di rilascio ex art. 30.
Per quel che riguarda la fase istruttoria l’art. 447 bis c.p.c. contempla il potere per il giudice di disporre di ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio, ma non prevede che siffatto potere possa essere esercitato «anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile». Ragion per cui il tribunale può disporre di ufficio ogni mezzo di prova, ma sempre nei limiti di ammissibilità stabiliti dal codice civile. Peraltro, il giudice, una volta che ha ammesso il mezzo di prova di ufficio, deve consentire alle parti di dedurre i mezzi di prova resisi necessari in relazione a quelli disposti di ufficio.
Nel processo locatizio sono esperibili tutti i mezzi di prova previsti dalla legge.
Per quanto concerne la fase decisoria, l’art. 447 bis c.p.c. richiama l’art. 429, co. 1 e 2 c.p.c. Quindi, «nell’udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversie, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza» (co. 1). Va peraltro posto in evidenza che se le parti ne fanno richiesta, il giudice, se lo ritiene necessario, «concede alle stesse un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza» (co. 2).
Relativamente all’efficacia, il legislatore del 1990 ha dettato nell’ultimo comma dell’art. 447 bis c.p.c. una disposizione specifica: «le sentenze di condanna di primo grado sono provvisoriamente esecutive. All’esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza. Il giudice d’appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l’efficacia esecutiva o l’esecuzione siano sospese quando dalle stesse possa derivare all’altra parte gravissimo danno».
Nel processo locatizio trovano piena applicazione le disposizioni che disciplinano le impugnazioni (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione, giudizio di rinvio, revocazione e opposizione di terzo).
Il procedimento speciale per convalida, disciplinato negli artt. 657-669 c.p.c., nel corso degli anni è stato oggetto di integrazioni ed innovazioni, anche significative, dovute non solo al legislatore, ma anche alla Corte costituzionale.
A tale proposito la Corte ha ritenuto che il procedimento nel suo complesso non violi i principi costituzionali, potendo il legislatore «differenziare la tutela giurisdizionale con riguardo alla particolarità del rapporto da regolare» (C. cost., 18.5.1972, n. 89), e si è limitata ad intervenire su singoli aspetti, denunciando soprattutto il particolare regime di stabilità del provvedimento conclusivo, nei cui confronti il legislatore del 1940 ha previsto unicamente l’opposizione tardiva da parte dell’intimato non comparso (art. 668 c.p.c.), e ritenendo fondate solo questioni concernenti il sistema dei rimedi (C. cost., 18.5. 1972, n. 89, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 668 c.p.c.; C. cost., 7.6.1984, n. 167, C. cost., 25.10.1985, n. 237 e C. cost., 26.5.1995, n. 192, hanno dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 404 c.p.c.; C. cost., 20.12.1989, n. 558, e C. cost., 20.2.1995, n. 51, hanno dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 395 c.p.c.).
La conseguenza è che la Corte ha ampliato l’ambito di esperibilità delle impugnazioni avverso il provvedimento di convalida, auspicando comunque «un organico intervento legislativo» (C. cost., 20.12.1989, n. 558), che tuttavia non vi è stato.
Il procedimento per convalida è un procedimento speciale di cognizione, che si pone come alternativa all’ordinario processo di cognizione, e assolve alla funzione di fornire al locatore una tutela giurisdizionale effettiva ed immediata, consistente nell’ottenere nel più breve tempo possibile un titolo esecutivo giudiziale per conseguire il rilascio dell’immobile locato. E per tale ragione ha strutturato il procedimento in modo peculiare, senza però rinunciare alla realizzazione del contraddittorio fin dal primo momento.
Il rapporto giuridico oggetto del procedimento per convalida è la locazione di immobili urbani e non urbani, a prescindere dalla specifica utilizzazione del bene o dalla natura dell’interesse in gioco (se per uso abitativo, professionale, commerciale, ricreativo o altro). Sono compresi i contratti agrari, mentre sono esclusi tutti quei rapporti giuridici di natura personale e reale che non sono riconducibili allo schema contrattuale della locazione, come il comodato, i contratti atipici, i contratti misti (contratto di albergo, di alloggio, di pensione, di residence), l’affitto di azienda, i contratti di leasing immobiliari, la mera occupazione o la detenzione sine titulo.
Il procedimento per convalida può essere utilizzato per situazioni ben determinate e tassative, non suscettibili di applicazione analogica o estensiva, ossia:
a) prima che scada il contratto (licenza per finita locazione); si tratta di un tipico caso di condanna in futuro;
b) quando il contratto è scaduto (sfratto per finita locazione);
c) per il «mancato pagamento del canone di affitto alle scadenze» (sfratto per morosità); nelle locazioni di immobili adibiti ad uso abitativo, il mancato pagamento di un canone, decorsi venti giorni dalla scadenza prevista, ovvero il mancato pagamento, nel termine previsto, degli oneri accessori quando l’importo non pagato superi quello di due mensilità del canone, costituisce motivo di risoluzione e legittima il ricorso al procedimento speciale per convalida (art. 5 l. n. 392/1978); nelle locazioni ad uso diverso, invece, si applica l’art. 1455 c.c., sicché è il giudice che deve valutare l’importanza e la gravità dell’inadempimento;
d) quando il godimento di un immobile è il corrispettivo anche parziale di una prestazione d’opera e il rapporto di lavoro viene a cessare per qualsiasi causa (art. 659 c.p.c.).
Competente è il tribunale in composizione monocratica del luogo in cui si trova la cosa locata (art. 661 c.p.c.). Il procedimento ha inizio con citazione nella quale il locatore intima licenza per finita locazione, sfratto per finita locazione o sfratto per morosità.
La citazione deve contenere l’indicazione dell’ufficio giudiziario, delle parti, dell’oggetto, delle ragioni della domanda, delle conclusioni, della procura, dell’avvertimento al convenuto che in caso di mancata comparizione o di mancata opposizione il giudice convaliderà la licenza o lo sfratto. L’atto deve essere sottoscritto dal difensore. Tra il giorno della notifica dell’intimazione e quello dell’udienza debbono intercorrere termini liberi non minori di venti giorni (art. 660, co. 4, c.p.c.).
Particolare cura e cautela il legislatore dedica alla notificazione dell’atto introduttivo, volendo assicurare, per quanto possibile, che il conduttore abbia diretta e personale conoscenza della citazione. E così ha escluso alcune forme di notificazione (al domicilio eletto ex art. 141 c.p.c.) ed ha previsto che quando la notifica non è fatta a mani proprie l’ufficiale giudiziario debba inviare al conduttore avviso dell’avvenuta notifica (art. 660, co. 7, c.p.c.).
Il procedimento ha uno sviluppo differente a seconda del comportamento delle parti all’udienza di comparizione:
a) se non compare il locatore vengono meno gli effetti processuali dell’intimazione e il giudice deve disporre la cancellazione della causa dal ruolo;
b) se l’intimato non compare o comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione l’apposizione su di essa della formula esecutiva; se lo sfratto viene intimato per morosità, il locatore o il suo procuratore deve attestare che la morosità persiste; l’ordinanza ha efficacia esecutiva e pone termine al procedimento;
c) se lo sfratto viene intimato per morosità, il conduttore può evitare la risoluzione sanando la morosità in sede giudiziale, versando l’importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per gli oneri accessori maturati, maggiorato degli interessi legali e delle spese processuali liquidate dal giudice; peraltro, il giudice, dinanzi a comprovate condizioni di difficoltà del conduttore, può assegnare un termine (cd. di grazia) per sanare la morosità, non superiore a giorni novanta (art. 55 l. n. 392/1978); tale sanatoria opera solo nelle locazioni di immobili urbani ad uso abitativo (Cass., S.U., 28.4.1999, n. 272).
Nel disegno originario del codice di rito del 1940 l’unico rimedio previsto avverso l’ordinanza di convalida ex art. 663 c.p.c. era l’opposizione tardiva (art. 668 c.p.c.).
Tale opposizione, che è un’impugnazione, può essere proposta, entro dieci giorni dall’inizio dell’esecuzione, da parte del conduttore che non è comparso all’udienza per non avere avuto tempestiva conoscenza della citazione per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore, nonché per non essere comparso all’udienza, pur avendone avuto conoscenza, per caso fortuito o forza maggiore (C. cost., 18.5.1972, n. 89). L’opposizione non sospende l’esecuzione, a meno che il giudice ritenga che ricorrano «gravi motivi» (art. 668, co. 4, c.p.c.).
L’opposizione tardiva si propone davanti al tribunale che ha pronunciato l’ordinanza di convalida nelle forme prescritte per l’opposizione al decreto di ingiunzione, in quanto applicabili (art. 668, co. 3, c.p.c.), ossia, se si tratta di immobili urbani, con ricorso ed il rito è quello delle locazioni.
Il giudizio di opposizione si chiude con sentenza, assoggettata ai normali mezzi di impugnazione.
A seguito dell’intervento della Corte costituzionale l’ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione, di sfratto per morosità e di licenza per finita locazione, in caso di mancata opposizione del conduttore, può essere impugnata anche con l’opposizione di terzo, nonché con la revocazione i) in caso di errore di fatto (art. 395, prima parte, n. 4, c.p.c.), avverso l’ordinanza con cui viene convalidato lo sfratto o la licenza per finita locazione o lo sfratto per morosità, pronunciata in assenza dell’intimato o per mancata opposizione; ii) in caso di dolo dell’intimante (falsa attestazione della persistenza della morosità).
La dottrina e la giurisprudenza, da parte loro, spinte dall’esigenza di non lasciare le parti prive di garanzia, hanno riconosciuto che l’ordinanza, se è emessa in mancanza delle condizioni previste dall’art. 663 c.p.c. o dei presupposti di legge, può essere impugnata con l’appello, secondo l’opinione maggioritaria anche della Cassazione, o con il ricorso per cassazione, secondo altra tesi minoritaria.
d) Se l’intimato compare e si oppone, anche personalmente, il giudice non può pronunciare l’ordinanza di convalida ex art. 663 c.p.c. e il giudizio prosegue nelle forme della cognizione piena ai sensi dell’art. 667 c.p.c. dinanzi al tribunale, senza bisogno di un atto di riassunzione o di una nuova costituzione per l’intimante. L’opposizione può dare vita a differenti sviluppi a seconda che le eccezioni siano oppure no fondate su prova scritta:
d1) se le eccezioni sono fondate su prova scritta, il giudice deve prenderne atto e pronunciare l’ordinanza con cui fissa l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. ed il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memoria e di documenti in cancelleria; il processo prosegue nel suo corso e si conclude con sentenza;
d2) se, invece, le eccezioni non sono fondate su prova scritta, «il giudice, su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario, pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto» (art. 665, co. 1, c.p.c.); l’ordinanza non definisce il giudizio, che prosegue nel suo corso e si conclude con sentenza, che, nel caso in cui rigetta l’opposizione, si affianca all’ordinanza di rilascio, che conserva la sua efficacia esecutiva, e, nel caso di accoglimento dell’opposizione, pone nel nulla l’ordinanza provvisoria di rilascio.
L’ordinanza con riserva delle eccezioni è un provvedimento sommario – anticipatorio non cautelare – che sopravvive nella sua efficacia esecutiva in caso di estinzione del processo, senza essere idonea a passare in giudicato. L’art. 665 c.p.c. qualifica l’ordinanza come non impugnabile. Inoltre il provvedimento non è impugnabile ex art. 111 Cost. perché provvisorio e non definitivo. La mancanza assoluta di rimedi avverso l’ordinanza di rilascio di cui all’art. 665 c.p.c. suscita dubbi di legittimità costituzionale, per violazione dei principi contenuti negli artt. 3, 24 e 111 Cost., proprio perché, da un lato, il provvedimento è idoneo a recare un pregiudizio diretto ed immediato per il conduttore, che è costretto a rilasciare l’immobile, e, dall’altro, non può essere una garanzia idonea la possibilità di ridiscutere del provvedimento nel corso della causa, dal momento che altro è il riesame immediato da parte di un differente giudice e altro è il controllo da parte dello stesso giudice.
Il locatore, allorché intima sfratto per morosità, può nello stesso atto introduttivo chiedere l’ingiunzione di pagamento per i canoni scaduti e per quelli da scadere fino all’esecuzione dello sfratto (art. 664, co. 1, c.p.c.).
Competente per materia e per territorio è lo stesso giudice competente a pronunciare la convalida, ossia il tribunale del luogo ove è situato l’immobile (artt. 661 e 21 c.p.c.), che conosce in composizione monocratica. Presupposto essenziale perché il giudice possa emettere l’ingiunzione di pagamento è la pronuncia dell’ordinanza di convalida di sfratto ex art. 663 c.p.c..
L’ingiunzione viene disposta con decreto, che ha ad oggetto i canoni scaduti e da scadere fino al rilascio, le spese del procedimento per convalida e quelle del procedimento ingiuntivo in base all’art. 91 c.p.c. Il decreto, che è steso in calce ad una copia dell’atto di citazione che il locatore ha depositato unitamente all’originale notificato al momento della costituzione, è immediatamente esecutivo (art. 664, co. 3, c.p.c.) ma non è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Ai sensi dell’art. 664, co. 3, c.p.c. il decreto ingiuntivo può essere opposto ai sensi dell’art. 645 c.p.c. dinanzi allo stesso giudice che ha emesso il decreto, con il rito regolato nell’art. 447 bis c.p.c.; l’opposizione non toglie efficacia all’avvenuta risoluzione del contratto.
Il locatore, se non ha interesse a conseguire una pronuncia che ponga termine al contratto di locazione in caso di morosità, può anche instaurare un autonomo procedimento ingiuntivo, chiedendo solo il pagamento dei canoni e lasciando in vita il rapporto locatizio.
Il procedimento ingiuntivo può comunque essere promosso in tutti i casi in cui sia il locatore sia il conduttore vantano nei confronti dell’altra parte un diritto di credito risultante da prova scritta, comunque ricollegato al contratto di locazione (pagamento della tassa di registrazione).
I provvedimenti giudiziali di condanna (sentenza, ordinanza e decreto) emessi nel corso o al termine di una controversia locatizia si eseguono nelle forme disciplinate nel III libro del codice di rito civile.
Nessun particolare problema sorge allorché questi provvedimenti hanno ad oggetto il pagamento di una somma di denaro o l’esecuzione di un obbligo di fare. Nel primo caso si seguiranno le forme dell’espropriazione forzata (art. 483 c.p.c.) e nel secondo quelle dell’esecuzione forzata di obblighi di fare (art. 612 c.p.c.).
Problemi sorgono invece allorché il provvedimento è di condanna al rilascio di immobili, in quanto la disciplina contenuta negli artt. 2930 c.c. e 479, 605-611 c.p.c. deve essere integrata con altre disposizioni dettate in leggi speciali. In particolare oggi dobbiamo richiamare l’art. 56 l. n. 392/1978 e gli artt. 6 e 7 l. n. 431/1998.
Una volta notificato, ai sensi dell’art. 605 c.p.c., il precetto per rilascio, l’ufficiale giudiziario almeno dieci giorni prima dell’esecuzione deve comunicare data ed ora dell’accesso (art. 608, co. 1, c.p.c., così come modificato dalla l. 14.5.2005, n. 80), potendo anche utilizzare la forza pubblica per ottenere il rilascio coattivo. Se l’esecuzione deve avvenire nei confronti di più persone, l’avviso deve essere notificato ad ognuna di esse. L’avviso segna l’inizio dell’esecuzione (art. 608 c.p.c.).
Soggetto centrale di tale esecuzione è l’ufficiale giudiziario; il giudice è assente e ben potrebbe non intervenire mai, tanto è vero che non è prevista la formazione di un fascicolo di ufficio. Il giudice, che è il tribunale del luogo dove si trova la cosa (art. 26 c.p.c.), interviene soltanto allorché sorgono delle difficoltà che non ammettono dilazione (art. 610 c.p.c.) oppure allorché bisogna liquidare le spese dell’esecuzione (art. 611 c.p.c.).
Ciò posto dobbiamo dire che il sistema disegnato nel codice di rito fin dall’inizio si è dimostrato inidoneo a dare effettiva esecuzione ai provvedimenti di rilascio degli immobili ad uso abitativo e non abitativo. Gli ordini giudiziari di rilascio di immobili trovano attuazione quando sono spontaneamente eseguiti dal conduttore, mentre in caso di rifiuto l’ufficiale giudiziario si trova nella concreta difficoltà di fare rispettare l’ordine giudiziario, anche in considerazione della circostanza che la forza pubblica non sempre può fornire l’assistenza richiesta per la limitatezza dell’organico.
Ed infatti l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio ha avuto una storia travagliata, caratterizzata da una pioggia di interventi normativi che, spesso, con proroghe, differimenti, rinvii, sospensioni sono riusciti ad allentare una tensione che in certi momenti è stata particolarmente alta, ma che non hanno anche conseguito un effettivo equilibrio – forse sempre difficile da raggiungere – fra il locatore, che vuole rientrare nella disponibilità dell’immobile, ed il conduttore, che ha l’esigenza di non ritrovarsi privo dell’alloggio o del negozio o dell’ufficio.
La situazione attuale è regolata dalla l. n. 431/1998, anche se per alcune categorie di inquilini particolarmente disagiati il legislatore ha previsto, ancora recentemente, una sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio (v. da ultima l. 27.2.2015, n. 11).
Artt. 657-669 c.p.c.; l. 27.7.1978, n. 392; l. 9.12.1998, n. 431.
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