Professioni
di Willem Tousijn
Nel linguaggio corrente il termine italiano 'professione', così come il suo equivalente francese, viene usato assai spesso in senso generico per indicare una qualunque occupazione lavorativa. Talvolta, tuttavia, lo stesso termine e i suoi derivati (professionista, professionale, e così via) vengono caricati di un significato più ristretto ed esclusivo, con la precisa intenzione di distinguere una 'professione' dalle altre generiche occupazioni e in particolare dai 'mestieri'. Questo processo di attribuzione di un significato esclusivo, che tende a individuare le 'professioni' come un sottoinsieme dell'insieme 'occupazioni', ha condotto nella lingua inglese alla distinzione tra profession e occupation.
Secondo Carr Saunders e Wilson (v., 1954), il termine profession compare in Inghilterra nel XVI secolo, a designare l'attività lavorativa nei tre campi della teologia, del diritto e della medicina. Le lingue del mondo antico, che pure conosceva le figure del sacerdote, del giurista e del medico, non possedevano un termine corrispondente. Ciò si può spiegare con le trasformazioni che l'esercizio delle tre attività subisce nel corso del Medioevo, in particolare con la nascita e lo sviluppo di una nuova istituzione sociale: l'università. Nelle tre facoltà superiori di teologia, legge e medicina i candidati alle tre professioni subiscono un processo di formazione prolungato e formale che conferisce loro non soltanto e non tanto un patrimonio di conoscenze specialistiche (all'epoca relativamente ristretto e di dubbia validità ed efficacia, almeno in medicina), quanto una cultura generale di carattere elitario. Se si tiene presente l'assoluto predominio della Chiesa sulla cultura dell'epoca, ben espresso dalla prescrizione per studenti e professori universitari di prendere almeno gli ordini minori, si comprende come l'esercizio di queste attività tendesse quasi a confondersi con la 'professione' della propria fede.
Con il processo di secolarizzazione che investe il mondo della cultura e le università il termine 'professione' perde progressivamente i suoi connotati religiosi, ma mantiene un significato elitario ed esclusivo con il quale penetra, nel corso del XIX secolo, nel nascente sistema capitalistico, subendo contemporaneamente un'estensione a nuove occupazioni. Questo passaggio pone innanzitutto il problema della continuità ovvero della discontinuità nell'evoluzione di lungo periodo delle professioni, questione assai discussa da storici e sociologi (in genere su fronti contrapposti), sulla quale torneremo più avanti. Ma esso solleva anche altri interrogativi importanti: quali sono le occupazioni che vengono definite come 'professioni'? In qual modo nasce e si sviluppa il fenomeno dell'attribuzione di uno status elitario ed esclusivo?
Il punto da spiegare non è soltanto la posizione elevata che le professioni occupano nella scala del prestigio sociale. Il loro esercizio è regolato dallo Stato con meccanismi diversi da quelli delle altre occupazioni. In Italia ciò è particolarmente evidente: gli articoli 2229 e seguenti del Codice civile (raccolti sotto il titolo Delle professioni intellettuali) nonché una serie di leggi specificamente dedicate a una o più professioni ne determinano le condizioni di esercizio, a cominciare dall'obbligo di iscrizione in albi o elenchi tenuti da ordini e collegi professionali. La prima legge di questo tipo, relativa alla professione forense, risale al 1874. Attualmente (1995) sono una trentina le professioni così regolate. Tra di esse troviamo medici e ostetriche, notai e consulenti del lavoro, geometri e biologi, giornalisti e maestri di sci, fino ai recentissimi 'tecnologi alimentari'. Alcune sono professioni molto ristrette, nelle quali gli iscritti agli albi sono poche centinaia (attuari, agenti di cambio), ma altre contano decine o centinaia di migliaia di praticanti. In totale gli iscritti agli albi sono (all'inizio degli anni novanta) oltre 1.100.000, pari a circa il 5% della popolazione attiva. Numerose sono le occupazioni che premono per ottenere dal Parlamento un analogo riconoscimento: amministratori di condominio, tecnici di laboratorio, interpreti, logopedisti, sociologi, ecc.
Anche questo fenomeno (l'intervento regolativo dello Stato) richiede di essere descritto e spiegato. I giuristi hanno ampiamente discusso la peculiare natura giuridica delle professioni intellettuali (v. Piscione, 1959; v. Lega, 1974; v. Catalani, 1976; v. Rossi, 1979), ma dal punto di vista sociologico sorgono numerosi interrogativi. Quali sono le reali funzioni svolte dagli ordini e dai collegi professionali? Come mai alcune occupazioni ottengono questa forma di riconoscimento statale, mentre altre (la maggioranza) ne sono escluse? Quali differenze esistono nei meccanismi regolativi adottati nei diversi paesi? Quali effetti sociali ed economici sono generati da tali meccanismi regolativi?
Le difficoltà che le professioni sollevano per l'analisi economica emergono già nell'opera di Adam Smith. La ricchezza delle nazioni, pubblicata nel 1776, contiene una critica dei monopoli occupazionali, considerati come ostacoli al libero movimento della forza lavoro. Curiosamente tale critica, diretta principalmente contro le corporazioni e contro l'istituto dell'apprendistato, non si estende alle professioni. Nel caso dei medici e degli avvocati le restrizioni all'accesso e le limitazioni della concorrenza sono considerate necessarie per assicurare ai professionisti ricompense adeguate alla delicatezza delle loro funzioni e alla fiducia che i clienti ripongono in loro. "Noi affidiamo la nostra salute al medico, la fortuna e talvolta anche la vita e la reputazione all'avvocato e al procuratore. Tanta fiducia non si potrebbe sicuramente riporre in persone di condizione bassa o vile" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 104). Viene così individuato da Smith (ma non sviluppato) un tema che sarà analizzato a fondo solo molto più tardi: quello della fiducia, necessaria affinché le relazioni di mercato, almeno in alcuni settori (i servizi professionali), possano funzionare.
Meno riguardi di Smith hanno avuto per le professioni gli economisti liberisti contemporanei. In loro l'avversione per ogni forma di limitazione della concorrenza e di restrizione nell'accesso alle occupazioni coinvolge esplicitamente anche le professioni. Già negli anni quaranta una rigorosa analisi condotta negli Stati Uniti da Milton Friedman e Simon Kuznets (v., 1945) pone a confronto i redditi dei professionisti con quelli dei non professionisti e dimostra empiricamente che la posizione privilegiata dei primi è da ricondursi all'azione di due potenti fattori di distorsione del mercato: i meccanismi di abilitazione professionale e le discriminazioni nell'accesso agli studi (costo elevato, disponibilità di informazioni e di reti sociali adeguate). Anche senza sposare la posizione estrema di Friedman, favorevole a una totale abolizione delle leggi di abilitazione, non sono pochi gli economisti che ritengono che gli interessi dei clienti sarebbero meglio tutelati attraverso l'indebolimento dei monopoli professionali.
I padri fondatori della sociologia dedicarono scarsissima attenzione alle professioni. Nonostante la conclamata centralità del concetto di divisione del lavoro nelle loro analisi del sistema capitalistico, l'aspetto specifico della divisione del lavoro tra occupazioni appare trascurato. Con il procedere dello sviluppo capitalistico la grande maggioranza dei lavoratori si trova a prestare il proprio lavoro in grandi organizzazioni, private o pubbliche, nelle quali la divisione del lavoro è governata dal principio burocratico-amministrativo ed è espressione del potere del management. I concetti proposti per descrivere e interpretare questo fenomeno, come quello di classe sociale (Marx) e quello di burocrazia (Weber), lasciano nell'ombra le professioni.Apparentemente Émile Durkheim si differenzia su questo punto dagli altri due grandi padri della sociologia: nei suoi lavori le professioni occupano un posto rilevante, in particolare nella Prefazione alla seconda edizione de La divisione del lavoro sociale, pubblicata nel 1902. Egli muove dalla constatazione che, dopo un secolo di sviluppo capitalistico e di progresso continuo della divisione del lavoro, "lo scatenarsi degli interessi economici è stato accompagnato da una rilassatezza della morale pubblica. [...]
È dunque di estrema importanza giungere a una regolamentazione, a una moralizzazione della vita economica, in modo che i conflitti che la travagliano possano terminare e gli individui possano smettere di vivere in un vuoto morale, nel quale si indebolisce la loro stessa moralità individuale" (v. Durkheim, 1950; tr. it., p. 34). Il rimedio a questa situazione non può essere trovato nello Stato, troppo distante dalle attività sempre più specialistiche di una divisione del lavoro complessa, ma può venire dallo sviluppo delle corporazioni professionali, in grado di fornire, attraverso la loro morale professionale, "un vero e proprio decentramento della vita morale".Accenti simili ritroviamo nell'opera di Richard H. Tawney in Inghilterra. Egli auspica che l'attività industriale possa diventare una professione, in quanto quest'ultima è costituita da "un corpo di persone che portano avanti il loro lavoro secondo certe regole volte a proteggere gli interessi della comunità" (v. Tawney, 1921; tr. it., p. 120). Né in Durkheim né in Tawney, tuttavia, possiamo trovare un'analisi storica, empiricamente fondata, del ruolo delle professioni nei loro paesi ai loro tempi. Nulla sappiamo, dalle loro opere, su quanti fossero e cosa facessero medici, avvocati, architetti, ingegneri e gli altri professionisti inglesi e francesi dell'epoca.
Occorre arrivare agli anni trenta per veder apparire sia il primo studio empirico di ampia portata sulle professioni (v. Carr Saunders e Wilson, 1933), sia i primi contributi a quella che diventerà una vera e propria teoria delle professioni (v. Parsons, 1939).Lo studio di Carr Saunders e Wilson ricostruisce l'evoluzione storica di ben 22 professioni inglesi e si pone quindi, sul piano empirico, come riferimento obbligato per gli studi successivi. Sul piano teorico esso risente dell'influenza di Tawney e contribuisce a diffondere quell'immagine apologetica delle professioni che emergeva, allora, dalle prime ricostruzioni storiche commissionate dalle associazioni professionali o scritte da qualche illustre esponente anziano di una qualche professione.La teoria funzionalista delle professioni, così come emerge da vari contributi di Talcott Parsons, Bernard Barber, William J. Goode, costituisce una delle applicazioni più sviluppate e coerenti dello schema teorico di base della scuola funzionalista. Essa concepisce le professioni come occupazioni orientate al servizio, che applicano un corpo sistematico di conoscenze a problemi che sono altamente rilevanti per i valori centrali della società, come la salute e la giustizia. L'elevato grado di competenza scientifica necessario per esercitare le professioni solleva un problema speciale per il funzionamento equilibrato della società: il cliente non è in grado di giudicare la qualità della prestazione del professionista, e spesso non è nemmeno in grado di fissare obiettivi precisi e concreti al lavoro che gli richiede.
Questa asimmetria della relazione produttore-consumatore è particolarmente pericolosa per l'equilibrio complessivo della società, data la natura dei valori e degli interessi in gioco: "poiché la conoscenza generalizzata e sistematica procura un potente controllo sulla natura e sulla società, è importante per la società che tale conoscenza sia usata principalmente nell'interesse della comunità" (v. Barber, 1963; tr. it., p. 96).La soluzione a questo problema è trovata in un duplice meccanismo: da un lato l'orientamento al servizio (o alla comunità) che animerebbe le professioni, assicurato attraverso un particolare processo di socializzazione al quale sarebbero sottoposti i candidati all'esercizio delle professioni stesse; dall'altro il controllo formale e informale esercitato dalla comunità dei colleghi, soprattutto attraverso i codici etici. In cambio la società garantisce ai professionisti vantaggi e privilegi, quali un reddito e un prestigio sociale elevati, e protegge l'autonomia delle professioni dalle interferenze dei 'laici' (v. Rueschemeyer, 1964).
Così come è stata esposta, l'analisi funzionalista delle professioni può essere ricondotta alla teoria funzionalista della stratificazione sociale, di cui costituisce un caso speciale: il meccanismo di controllo e di ricompense sociali può essere considerato come uno dei meccanismi della stratificazione sociale, concepita come strumento attraverso il quale le società si assicurano che le posizioni sociali più importanti siano responsabilmente occupate dalle persone più qualificate. Anche la ben nota analisi di Parsons del rapporto medico-paziente (v. Parsons, 1951, cap. X), costituisce una puntuale applicazione dei concetti propri della teoria funzionalista: "La salute è inclusa tra i bisogni funzionali del singolo membro della società per cui, dal punto di vista del funzionamento del sistema sociale, un livello generale di salute troppo basso, cioè un'alta incidenza di malattia, risulta disfunzionale. Ciò deriva in primo luogo dal fatto che la malattia rende incapaci a svolgere efficacemente i ruoli sociali [...]
La professione medica costituisce un meccanismo del sistema sociale per far fronte alle malattie dei suoi membri [...], è organizzata sulla base dell'applicazione della conoscenza scientifica ai problemi della malattia e della salute, cioè al controllo della malattia" (ibid.; tr. it., pp. 438 e 440).Non manca, nei teorici funzionalisti, la considerazione dell'aspetto dinamico del fenomeno professionale. Lo sviluppo di nuovi livelli e nuovi tipi di conoscenza scientifica tende a far crescere sia il numero dei professionisti, sia quello delle professioni e delle occupazioni che aspirano a essere riconosciute come professioni. Ciò induce Goode ad affermare che "una società che si industrializza è una società che si professionalizza" (v. Goode, 1960, p. 902) e Parsons a considerare lo sviluppo delle professioni come il più importante cambiamento avvenuto nel sistema occupazionale della società moderna (v. Parsons, 1968). Affermazioni, queste, che saranno ampiamente sviluppate dai fautori delle teorie tecnocratiche e dell'avvento della società postindustriale (v. Bell, 1973).
Non sempre si riscontrano, nei lavori sulle professioni che possono essere ricondotti alla matrice funzionalista, dei riferimenti precisi ed espliciti alla teoria esposta. Molto spesso tali lavori iniziano distinguendo le professioni dalle altre occupazioni in base a un certo numero di attributi (v. Greenwood, 1957). Ciò ha indotto qualcuno a individuare un vero e proprio 'approccio per attributi', meno astratto e più descrittivo dell'approccio funzionalista. Il guaio è che manca l'accordo su quali e quanti debbano essere gli attributi tipici delle professioni. Geoffrey Millerson (v., Dilemmas..., 1964), esaminando i lavori di 21 autori, ha messo insieme una lista di 23 attributi: nessuno di essi però è accettato da tutti gli autori, e nessuna lista presentata da un autore coincide con quella di un altro. A risultati simili giunge la rassegna di Marc Maurice (v., 1972). Ma la lacuna più grave di queste elencazioni di attributi è che, a differenza di quanto avviene nell'approccio funzionalista, raramente viene discussa la coerenza interna della lista, ossia la relazione tra i diversi attributi, la loro importanza relativa, la loro diversa rilevanza teorica (v. Johnson, 1972).
La definizione del professionalismo come insieme di attributi speciali, nobilitata in chiave funzionalista o meno, implica il riconoscimento del fatto che le differenze tra le professioni e le altre occupazioni sono differenze relative: tutte le occupazioni sono collocabili su un continuum, o su una scala di professionalismo, in base al grado relativo di possesso degli attributi speciali (v. Barber, 1963). Ciò conduce a definire alcune occupazioni, che possiedono soltanto parzialmente gli attributi delle 'vere' professioni, come 'semiprofessioni' (v. Etzioni, 1969), oppure 'professioni marginali', o 'incomplete'. Non mancano neppure tentativi di quantificare il grado di professionalizzazione di varie occupazioni mediante una scala costruita in base al possesso dei diversi attributi speciali (v. Hall, 1968; v. Hickson e Thomas, 1969).Ma il riconoscere che il professionalismo è una questione di grado apre anche la strada, in una prospettiva diacronica, all'idea che le singole occupazioni acquisiscano i diversi attributi del professionalismo in diversi momenti nel corso della loro evoluzione storica. Diventa allora rilevante domandarsi se sia rintracciabile una sequenza comune di fasi o stadi attraverso cui siano passate tutte le professioni. Già recepita da uno dei più accreditati e diffusi manuali di sociologia del lavoro degli anni cinquanta (v. Caplow, 1954), quest'idea viene portata al successo dal contributo di Harold Wilensky, che ne fornisce una verifica empirica applicandola alla storia di ben diciotto professioni americane. Secondo Wilensky il processo di professionalizzazione è formato da una successione di cinque fasi: comparsa di una certa attività lavorativa come occupazione a tempo pieno, istituzione di scuole di formazione specialistica, nascita di associazioni professionali (in genere prima su basi locali, poi a livello nazionale), ottenimento dell'appoggio dello Stato a protezione dell'attività professionale (per lo più una qualche forma di monopolio dell'attività o di protezione del titolo occupazionale), elaborazione di un codice etico formale. Nella storia delle professioni "chiaramente riconosciute" è dunque rintracciabile "una progressione costante di eventi, un cammino lungo il quale esse hanno tutte viaggiato fino alla terra promessa del professionalismo" (v. Wilensky, 1964; tr. it., p. 119).
L'analisi di Wilensky è stata oggetto di una serie di critiche sul piano empirico come su quello teorico. La sua impostazione rimane sostanzialmente di tipo funzionalista, e quindi soggetta alle critiche dirette contro la teoria funzionalista, delle quali ci occuperemo più avanti. Sul piano empirico è stato osservato che la sequenza da lui individuata sarebbe storicamente e culturalmente specifica: non reggerebbe al di fuori degli Stati Uniti, e anche qui varrebbe soltanto per alcuni gruppi di professioni ma non per altri (v. Goode, 1969; v. Abbott, 1988). In realtà la questione rimane aperta, perché la verifica empirica dell'ipotesi di Wilensky dipende da come si rende operativa la sequenza di fasi, cioè dipende da quali avvenimenti concreti (istituzione di scuole professionali, associazioni e così via) si vanno a cercare nella storia delle professioni e da quale significato si attribuisce a tali avvenimenti. Questo ci conduce a una obiezione teorica già sollevata da Goode e ribadita da Abbott: se le fasi della professionalizzazione vengono definite come una serie di 'primi eventi' (la prima scuola, la prima associazione professionale, e così via), si rischia di costruire sequenze che perdono di vista i processi sociali più complessi e profondi che determinano la professionalizzazione, le forze nascoste di cui quegli eventi sono il prodotto visibile, nonché i soggetti sociali che promuovono e quelli che ostacolano sia gli eventi sia i processi profondi. E ancora: Wilensky non spiega adeguatamente le ragioni per le quali le varie fasi si succedono in quel determinato ordine. Per esempio, perché la nascita della prima scuola dovrebbe precedere quella della prima associazione? Inoltre i suoi primi eventi confondono livelli geografici diversi: negli Stati Uniti "non c'è un'unica storia della professionalizzazione, ma almeno tre: una storia nazionale, una a livello di Stato e una storia locale" (v. Abbott, 1991, p. 358). Non sempre gli eventi locali si sommano fino ad assumere un rilievo nazionale.
Nel corso degli anni settanta la teoria funzionalista delle professioni viene sottoposta a una serie di critiche, a partire dalle quali matura una vera e propria svolta teorica.L'attacco muove dall'osservazione che la definizione di professione adottata dai funzionalisti, e ancor più quelle adottate nell'approccio per attributi, coincidono con la definizione che i professionisti stessi forniscono della propria attività. Le caratteristiche 'speciali' delle professioni, in realtà, sono espressione dell'ideologia dei membri delle professioni stesse e in particolare delle loro élites, per le quali svolgono una funzione di legittimazione dei privilegi occupazionali. Viene accuratamente smontata, in quanto non corrispondente alla realtà della pratica professionale, gran parte della mitologia professionale: la peculiarità della formazione ricevuta, la scelta della professione come 'vocazione', l'altruismo e l'ideale di servizio alla società, l'impossibilità del cliente di valutare la prestazione professionale, la capacità delle professioni di autoregolarsi attraverso i propri codici deontologici (v. McKinlay, 1973; v. Roth, 1974).
L'affermazione dell'ideologia professionale viene spiegata con la sua affinità con l'ideologia dominante nelle società borghesi: comune è il riferimento a valori come l'individualismo, l'etica del lavoro, l'eguaglianza delle opportunità, la libera iniziativa, l'armonia degli interessi.Il cuore dell'analisi funzionalista viene attaccato contestando la validità e l'universalità di alcune assunzioni.
La prima di queste è l'assunzione, derivata dal rilievo che i funzionalisti attribuiscono all'esistenza di valori condivisi per l'equilibrio della società, che la conoscenza generale e sistematica utilizzata dalle professioni sia di uguale valore per tutti i gruppi della società. Una seconda assunzione contestata è che la società possieda meccanismi tali da assicurare che i depositari della preziosa conoscenza professionale siano misteriosamente imbevuti di spirito comunitario, necessario a far sì che essi la usino nell'interesse di tutti, e che questo spirito comunitario sia sostenuto dalle elevate ricompense assicurate dalla società stessa. Infine viene contestata, in particolare a Parsons, una sopravvalutazione del grado in cui la razionalità domina il contenuto della pratica professionale e le relazioni che il professionista instaura con i colleghi e i clienti. In sintesi, il grande limite della teoria funzionalista è quello di non prendere in considerazione le relazioni di potere esistenti nel fenomeno professionale (v. Johnson, 1972).
Negli anni cinquanta e sessanta, contemporaneamente alla diffusione dell'approccio per attributi e della teoria funzionalista, si sviluppa un approccio alternativo che nasce proprio dal rifiuto di accettare acriticamente l'immagine delle professioni presentata dalle professioni stesse. Questo approccio, i cui fondamenti si trovano nei lavori di Hughes (v., 1958) e Becker (v., 1962), non giunge fino alla formulazione di una vera e propria teoria delle professioni come quella funzionalista, ma è ricco di stimoli e suggerimenti fecondi anche per la ricerca empirica. Esso è riconducibile alla scuola sociologica dell'interazionismo simbolico, la cui prospettiva di studio della società, in contrasto con quella 'a camicia di forza' adottata dal funzionalismo, assume come punto di partenza gli attori sociali e i processi attraverso i quali, nella reciproca interazione, essi interpretano e definiscono la realtà. Il termine 'professione', in questa prospettiva, va considerato non come descrittivo ma come categoria della vita quotidiana, che implica un giudizio di valore e di prestigio. Lo sterile dibattito che mira a definire il concetto di professione va abbandonato, in quanto non si tratta di un concetto scientifico e neutrale, bensì di un folk concept: una parte del vocabolario disponibile ai membri dei vari gruppi sociali per interpretare e definire la realtà sociale.
Si comprende quindi come l'attenzione degli studiosi che si richiamano a questo approccio tenda a concentrarsi su comportamenti e processi microsociologici. Tra le ricerche più note ricordiamo quelle sui processi di formazione e socializzazione professionale (v. Becker e altri, 1961; v. Lortie, 1966) e quelle sui complessi meccanismi di conflitto e di negoziazione che governano la vita dell'ospedale, organizzazione nella quale interagiscono diversi gruppi, professionali e non professionali (v. Strauss e altri, 1963). Di notevole importanza è anche un contributo che ha messo in luce il carattere segmentato delle professioni e la loro mancanza di unitarietà interna (v. Bucher e Strauss, 1961), il che contraddice la concezione delle professioni come comunità, concezione sostenuta dalle professioni stesse e dai teorici funzionalisti (v. Goode, 1957).
L'approccio simbolico-interazionista, tuttavia, riuscì solo a scalfire il predominio delle prospettive di tipo funzionalista e tassonomico e rimase minoritario nello studio delle professioni. Il suo limite maggiore, al di là delle riserve sull'uso sporadico e talvolta superficiale dei dati empirici, risiede nella grave sottovalutazione del peso delle condizioni storiche e strutturali sulla base delle quali si manifestano i processi di professionalizzazione.
È nel corso degli anni settanta che si delinea, sulla base di una serie di contributi non esplicitamente collegati tra loro, un approccio alternativo che supera i limiti delle impostazioni precedenti. L'aggettivo 'neoweberiani' usato per identificare questi contributi sta a indicare il comune riferimento, diretto o indiretto, esplicito o implicito, al concetto di chiusura, con il quale Weber definisce in Economia e società il processo mediante il quale i concorrenti per determinate opportunità economiche, per esempio i produttori di certi beni o servizi, formano una "comunità di interessi" nei confronti dell'esterno e riescono a regolare a loro favore le condizioni di mercato restringendo l'accesso dal lato dell'offerta. Riemerge con forza, quindi, anche sull'onda del nuovo clima politico dell'epoca, la tematica dei monopoli occupazionali sollevata per la prima volta da Adam Smith, mentre l'immagine positiva delle professioni alimentata dalla teoria funzionalista lascia il posto a un'immagine negativa di gruppi corporativi arroccati nella difesa dei loro privilegi economici e sociali.Gli elementi fondamentali del nuovo approccio sono tre: l'accento sul carattere storicamente contingente del fenomeno professionale, il recupero della tematica del potere, esclusa dai funzionalisti, e l'importanza attribuita alle strategie dei soggetti collettivi, cioè delle professioni stesse in quanto gruppi sociali organizzati. I primi due elementi sono particolarmente sottolineati da Terence Johnson (v., 1972), secondo il quale con lo sviluppo della divisione sociale del lavoro e l'emergere di competenze occupazionali specializzate si vengono a creare nella società relazioni sistematiche di interdipendenza, ma anche di distanza sociale. La relazione produttore-consumatore viene così a essere caratterizzata da un certo grado, variabile, di incertezza, per ridurre la quale sorgono varie istituzioni e meccanismi sociali. Le relazioni di potere determineranno se l'incertezza sarà ridotta a spese del produttore oppure del consumatore.
Certe occupazioni sono associate con problemi di incertezza particolarmente acuti, a causa della peculiare posizione del consumatore: è il caso della medicina, che comporta l'intrusione in aree di tabù sociali (accesso al corpo umano) e di particolare significato culturale (nascita, morte), e in cui i consumatori forniscono un tipo di domanda ampia, eterogenea ed estremamente frammentata. Queste occupazioni hanno dato origine, storicamente, a diversi meccanismi sociali di controllo dell'incertezza: il professionalismo è uno di questi. Lungi dall'essere espressione dell'intima natura di particolari occupazioni, esso è una forma, tra altre, di controllo occupazionale, nella quale il produttore ha il potere di definire i bisogni del consumatore e il modo di provvedervi. In altre condizioni, quando il potere si sposta dalla parte del consumatore, il professionalismo cede il posto a forme di patronato: tra queste spiccano il patronato oligarchico (professionisti al servizio di un'élite aristocratica, come nel caso degli artisti, dei medici e degli architetti al servizio delle corti italiane o inglesi nel XVI e nel XVII secolo), e il corporate patronage (professionisti al servizio di un solo o di pochi grandi clienti, come si è verificato per una parte degli avvocati in molti paesi industriali avanzati). Un terzo tipo di controllo occupazionale si ha quando un terzo soggetto sociale interviene nella relazione produttore-consumatore con una funzione di mediazione, arrogandosi almeno una parte del potere di definizione dei bisogni e del modo di provvedervi. Gli esempi storicamente più significativi sono la Chiesa (in passato), l'imprenditore capitalistico e lo Stato.
Se si concepisce il professionalismo come fenomeno di potere (o di controllo occupazionale) storicamente contingente, si apre la strada per lo studio delle condizioni storiche che sono alla base della sua affermazione, ossia per una riconsiderazione dei processi di professionalizzazione, intesi ora come processi mediante i quali i produttori di certi servizi riescono a imporre il proprio controllo sull'occupazione. Il lavoro più influente in questo senso è lo studio di Magali Larson Sarfatti (v., 1977), condotto sull'esperienza americana e inglese. Qui il professionalismo viene concepito come il frutto di una strategia di professionalizzazione messa in atto dai membri di alcune occupazioni, o da una parte di essi. Più precisamente, si tratta di un 'progetto professionale' costituito da due processi: un processo di creazione e controllo del mercato dei servizi professionali e un processo di mobilità sociale collettiva, ossia di innalzamento collettivo dello status sociale di un'occupazione. Questi due processi sono costruzioni analitiche distinte che possono essere 'lette' sullo stesso materiale empirico, cioè sulle storie occupazionali. Attraverso questi due processi le professioni moderne sono emerse dai legami personali di dipendenza caratteristici delle formazioni sociali precapitalistiche e si sono organizzate sul modello del mercato per scambiare i loro servizi per un prezzo. La strategia di creazione e controllo del mercato è un compito complesso che include vari subcompiti sia dal lato dell'offerta, sia dal lato della domanda. Tra questi ricordiamo: l'individuazione di un servizio ben preciso, parzialmente standardizzato e differenziato da altri servizi simili; il controllo del processo di 'produzione dei produttori'; l'unificazione e la stimolazione della domanda. Lo strumento decisivo che permette la realizzazione di tutte queste condizioni è costituito dalla formazione e dal consolidamento di un'adeguata base cognitiva. Sono la natura, l'ampiezza e la solidità di questa base cognitiva che consentono di rivendicarne l'esclusività e quindi di costituire forme di monopolio legalmente protette. Anche l'etica professionale costituisce uno strumento importante ai fini della monopolizzazione, con funzioni sia interne alla categoria, di subordinazione degli interessi individuali a quelli collettivi della professione (limitazioni alla concorrenza e alla critica tra colleghi), sia esterne, di legittimazione dei privilegi professionali di fronte al potere politico e all'opinione pubblica (v. Berlant, 1975).
Una conseguenza importante di questa impostazione è che essa individua elementi di forte discontinuità tra le professioni moderne, che sono prodotti sociali relativamente recenti, e quelle tradizionali emerse nell'epoca medievale o addirittura tramandate dal mondo antico. La continuità reclamata dalle professioni stesse è più formale che sostanziale, è usata essenzialmente come fonte di prestigio sociale e vale principalmente per alcuni elementi tradizionali incorporati dalle professioni moderne: leggende, simboli, formule rituali (come il giuramento di Ippocrate per la professione medica), e perfino alcuni vocaboli del gergo professionale.
Date le premesse teoriche weberiane di cui si è detto, non potevano mancare i tentativi di ricomprendere la tematica delle professioni all'interno di analisi più generali della stratificazione sociale. Frank Parkin (v., 1979) ritiene che nella società capitalistica moderna la borghesia sia individuabile proprio in base all'adozione di meccanismi di esclusione sociale, di cui i principali sono le istituzioni della proprietà nonché le qualificazioni e le credenziali accademiche e professionali: la proprietà impedisce l'accesso ai mezzi di produzione, il credenzialismo a posizioni-chiave nella divisione del lavoro. Anche per Randall Collins (v., 1979) lo sviluppo delle professioni va inquadrato nella crescita del credenzialismo che, lungi dall'indicare il trionfo della meritocrazia tecnocratica, è soltanto una variante dei processi di stratificazione sociale che si verificano attraverso la monopolizzazione delle opportunità. Per Noel e Jose Parry (v., 1976), infine, l'ascesa delle professioni configura un processo di mobilità sociale collettiva che deve indurre a rivedere e integrare le teorie tradizionali della mobilità sociale, la cui unità di analisi è sempre stata il singolo individuo.
Un importante contributo al nuovo approccio proviene anche dai numerosi lavori di Eliot Freidson (v. i contributi in bibliografia), non direttamente legati all'influenza weberiana in quanto centrati non sul controllo del mercato bensì sul controllo del processo lavorativo. Per Freidson le professioni sono occupazioni che hanno assunto una posizione dominante nella divisione del lavoro al punto da poter operare in condizioni di autonomia, senza sottostare a quelle forme di controllo burocratico-amministrativo che si sono sviluppate nelle organizzazioni complesse (private o pubbliche). Tale autonomia, organizzata e legittimata (anche sul terreno giuridico), riguarda innanzitutto la sfera dei giudizi tecnici e dell'organizzazione del lavoro, ma può diventare anche, come nel caso della medicina, una dominanza sulle occupazioni ausiliarie che si formano nella stessa area della divisione del lavoro. Anche Freidson, dunque, come già Johnson, pone l'accento sul potere delle professioni. Il suo volume del 1986, Professional powers, include una preziosa descrizione analitica dei meccanismi istituzionali attraverso i quali la conoscenza formale viene tradotta in potere (credenzialismo, tribunali, comitati governativi di vario tipo, fissazione di standard produttivi, implementazione delle politiche governative), descrizione che lo induce a rigettare sia la tesi del dominio di una nuova classe di tecnici, sia la tesi opposta dell'impotenza e del declino delle professioni.
Come altri fenomeni sociali, anche il professionalismo non è sfuggito a interpretazioni contrastanti circa la sua evoluzione nel tempo. Dapprima si è affermata l'interpretazione positiva o ottimistica: abbiamo già ricordato la posizione assunta, in proposito, dai sociologi funzionalisti, ripresa, con argomenti assai simili, anche da qualche storico. Harold Perkin, per esempio, nella sua opera significativamente intitolata The rise of professional society, scrive che "viviamo in una società sempre più professionale" e che tra il 1945 e il 1970 la società professionale ha raggiunto la sua massima espansione (v. Perkin, 1989, pp. 2 e 405). Di fronte alla rilevante crescita numerica, comune a tutti i paesi avanzati, delle professioni, dei professionisti e delle occupazioni che premono per ottenere lo status di professione, alcuni autori pervengono a una sorta di universalizzazione del modello professionale, facendo delle 'forze professionali' uno dei fattori propulsivi di un mutamento epocale: la transizione alla 'società postindustriale' (v. Bell, 1973).
Posizioni di questo genere vanno incontro a serie difficoltà di varia natura. La crescita numerica delle professioni e dei professionisti è incontestabile, ma non equivale di per sé a una universalizzazione del modello professionale. In Italia, per esempio, il numero complessivo degli iscritti agli albi professionali è cresciuto molto negli anni settanta e ottanta, ma corrisponde, come si è detto sopra, a poco più del 5% dell'occupazione complessiva (senza contare il fatto che non tutti gli iscritti agli albi esercitano effettivamente la professione). Per di più, si tratta di un insieme di professioni alquanto eterogenee tra loro, e anche al loro interno, sotto molti profili: forme di esercizio della professione (dipendenti pubblici, dipendenti privati, liberi professionisti, forme miste), titolo di studio (laurea oppure diploma), tipo di protezione statale (monopolio assoluto dell'esercizio della professione, monopolio parziale, poteri di 'firma', mera protezione del titolo professionale), livelli di reddito, di potere, di prestigio sociale. Tutto ciò crea non poche difficoltà agli organismi di governo e di rappresentanza degli interessi delle singole professioni e spiega la scarsissima incidenza degli organismi di collegamento interprofessionali. Quanto alle 'aspiranti professioni', infine, si può osservare che anche questo è un insieme assai eterogeneo. Non tutte queste occupazioni riusciranno a ottenere il riconoscimento statale e lo status di 'professione intellettuale', e non tutte lo vogliono: per alcune di esse (per esempio: consulenti aziendali, pubblicitari, informatici) il luogo privilegiato dell'azione sociale non è lo Stato o il sistema politico, ma i mercati del lavoro professionali, la formazione di competenze si giova più della pratica che delle istituzioni scolastiche, le barriere all'ingresso non sono formali ma informali (v. Luciano, 1989).
La prospettiva pessimistica sull'evoluzione delle professioni è stata espressa in varie forme. La prima utilizza il concetto di proletarizzazione, che fa parte della teoria marxista delle classi sociali, e può essere ulteriormente distinta in due versioni, una 'forte' e una 'debole'. Secondo la versione forte i professionisti sono ormai dei lavoratori dipendenti e in quanto tali hanno perso sia il controllo delle finalità generali e delle scelte politiche concernenti il loro lavoro, sia il controllo del contenuto tecnico dei compiti che svolgono. Analogamente a quanto era accaduto in precedenza agli operai, il loro lavoro è stato progressivamente burocratizzato e dequalificato e le loro condizioni di lavoro sono sempre più simili a quelle della classe operaia, inclusa l'esperienza della disoccupazione (v. Oppenheimer, 1973; v. McKinlay e Arches, 1985). Questa ipotesi appare semplicistica e manca di un'adeguata evidenza empirica che la sostenga. La realtà del lavoro quotidiano dei professionisti, benché poco studiata, non sembra manifestare una tendenza alla degradazione e alla dequalificazione, il management (pubblico o privato) dal quale i professionisti dipendono è riuscito a controllare la sostanza del loro lavoro solo in misura assai limitata. Inoltre l'ipotesi forte della proletarizzazione confonde la specializzazione del lavoro, molto spinta in alcune professioni (come nella medicina dove ha investito le stesse specialità mediche, che si stanno ulteriormente frammentando), con la sua dequalificazione: non sembra davvero il caso di considerare dequalificato un chirurgo che si specializza in trapianti di cuore.
Di fronte a queste difficoltà, alcuni marxisti hanno attenuato l'ipotesi della proletarizzazione formulandone una versione 'debole': il lavoro dei professionisti sarebbe stato assoggettato al controllo dei capitalisti per quanto riguarda le finalità generali, ma non è stata tuttavia intaccata la loro autonomia tecnica. Si può così distinguere una 'proletarizzazione tecnica' da una 'proletarizzazione ideologica': mentre il proletariato ha sperimentato entrambe, i professionisti hanno evitato la prima e subito soltanto la seconda (v. Derber, 1982). Anche questa seconda versione, tuttavia, appare poco convincente: il tipo di controllo al quale sono sottoposti i professionisti, anche quando lavorano come dipendenti, non è assimilabile a quello subito da operai e impiegati esecutivi, la loro partecipazione alle scelte organizzative è in genere rilevante (specialmente per quanto riguarda le questioni tecnologiche) e non di rado essi ricoprono ruoli gerarchici di rilievo, dai quali vengono spesso cooptati nel top management. Infine, entrambe le versioni della proletarizzazione concentrano la loro attenzione sulla posizione lavorativa dei professionisti in quanto singoli, trascurando da un lato il potere delle professioni in quanto soggetti sociali organizzati e istituzionalizzati, e dall'altro la dimensione della relazione tra professionisti e clienti.
Più attente alle diverse dimensioni del problema e, almeno nelle intenzioni, all'evidenza empirica, sono le altre ipotesi di tipo pessimistico sul destino delle professioni. L'ipotesi della deprofessionalizzazione si fonda sulla crescente importanza e diffusione dei seguenti fenomeni: frammentazione del lavoro professionale; erosione del monopolio della conoscenza per effetto della tecnologia dei computer, che rende tale conoscenza più facilmente accessibile, e della divulgazione attuata dai mezzi di comunicazione di massa; rivolta dei clienti, sempre meno propensi ad atteggiamenti di tipo deferente verso l'autorità professionale e più inclini alla disobbedienza, anche in virtù dei crescenti livelli di istruzione; controlli sulla qualità delle prestazioni e fissazione di standard professionali (v. Haug, 1973 e 1988).
Ancora più pessimistiche, ma con argomentazioni diverse, sono le conclusioni di una vasta ricerca comparata condotta sull'evoluzione di tre professioni (medici, avvocati, ingegneri) in vari paesi (v. Krause, 1988): l'autore sostiene che la sorte delle professioni potrebbe essere quella di una morte lenta, sotto il peso delle soverchianti forze del capitalismo organizzato e dello Stato, entrambi impegnati, anche se con qualche differenza tra un paese e l'altro, in uno sforzo di razionalizzazione capitalistica.
Anche queste ultime posizioni sono state criticate da chi, come Freidson, ribadisce la capacità delle professioni, di fronte agli attacchi provenienti dallo Stato, dal capitalismo organizzato e dai clienti, di riorganizzarsi per conservare la loro autonomia e i loro privilegi. Molti dei fenomeni in discussione, comunque, attendono ancora il sostegno di adeguate ricerche empiriche.
Negli anni novanta il panorama degli studi sulle professioni presenta alcuni elementi di novità che da un lato, nel loro complesso, costituiscono un arricchimento del quadro concettuale, dall'altro hanno minato alcune delle certezze acquisite nei due decenni precedenti, dominati dalle analisi neoweberiane. Le nuove sfide provengono sostanzialmente da tre direzioni: i dubbi sollevati sull'utilità della categoria weberiana di chiusura sociale; un nuovo fervore di studi storiografici sull'argomento, che ha riproposto, sotto molti aspetti, quel conflitto tra storici e sociologi già registratosi in altri settori di studio; l'allargamento del campo di analisi a una prospettiva comparativa che faccia uscire la sociologia delle professioni dall'area geografica nella quale è nata, quella di cultura anglosassone.
Il riferimento alla categoria weberiana di chiusura sociale è stato criticato sotto due profili: da un lato si è sostenuto che il concetto di chiusura sociale è troppo generale e si applica anche ad altri fenomeni sociali che poco hanno a che fare col professionalismo; dall'altro che esso è troppo restrittivo in quanto non tutte le professioni perseguono, e tanto meno conseguono, obiettivi di monopolizzazione, e non tutte le strategie adottate dalle professioni sono strategie di chiusura sociale. In tema di tariffe professionali e di pubblicità, per esempio, è più corretto parlare di formazione di cartelli aperti (v. in proposito vari contributi raccolti in Burrage e Torstendahl, 1990).
Vi è stata di recente una ripresa di interesse da parte degli storici (anche italiani) per lo studio delle professioni, che hanno posto in dubbio innanzitutto l'idea, condivisa da molti sociologi, di una sostanziale discontinuità tra professioni premoderne e contemporanee e dell'esistenza di uno stretto legame tra la nascita delle professioni moderne e l'avvento del sistema capitalistico. Su questo punto il dialogo tra storici e sociologi sembra tuttora bloccato dalle reciproche e opposte accuse: gli storici oppongono alle generalizzazioni dei sociologi le loro dettagliate ricostruzioni empiriche che li inducono a sottolineare gli elementi di continuità con il passato e la complessità dei processi di mutamento, mentre ai sociologi i lavori degli storici appaiono semplici narrazioni di fatti, prive di qualunque preoccupazione concettuale e teorica.L'egemonia scientifica del modello di professionalismo angloamericano è stata spezzata dalla comparsa di studi più sistematici e approfonditi su altri casi nazionali dell'Europa continentale, in particolare sulla Germania e sull'Italia, paesi nei quali i processi di professionalizzazione sono stati caratterizzati da un ruolo assai più incisivo, se non preponderante, dello Stato. Per il caso tedesco si è parlato di 'professionalizzazione dall'alto', avviata dallo Stato sin dalla fine del XVIII secolo (in Prussia) mediante pesanti interventi di riforma dei meccanismi di formazione e di accesso alle professioni, interventi che si susseguono per tutto il XIX secolo (v. Cocks e Jarausch, 1990; v. Jarausch, 1990; v. McClelland, 1992). Comuni all'esperienza tedesca e a quella italiana sono il ruolo decisivo giocato dallo Stato nel promuovere l'espansione del mercato dei servizi professionali, e la relativa debolezza, in confronto all'esperienza angloamericana, dell'azione delle associazioni professionali (v. Tousijn, 1987). Anche la lingua tedesca, tra l'altro, come l'italiano e il francese, non possiede un termine specifico atto a distinguere le professioni dalle altre occupazioni: la parola Beruf mantiene in parte, piuttosto, l'antico significato di 'vocazione', di origine luterana.
Anche uno studio del caso messicano (v. Cleaves, 1987) ha mostrato la scarsa applicabilità della letteratura angloamericana al di fuori dei paesi di origine, per varie ragioni. In Messico il consolidamento dello Stato, all'inizio di questo secolo, precedette la crescita delle professioni, che furono costrette, per trovare spazi di sviluppo, a 'fondersi' con lo Stato stesso. In un paese in via di sviluppo come il Messico, le professioni non controllano il proprio progresso tecnologico: dipendono dall'estero, e ciò entra in conflitto con il forte nazionalismo che caratterizza il paese. Le associazioni professionali sono troppo numerose, deboli e in concorrenza tra loro e con i sindacati, e non sono in grado di imporre standard qualitativi né sulle prestazioni professionali né sui programmi formativi. Come risultato di questi fattori, il prestigio sociale delle professioni è tutt'altro che stabile e sicuro.
Altri contributi storiografici suggeriscono di distinguere la 'crescita delle professioni' dalla 'professionalizzazione': l'espansione numerica di una professione può comportare un abbassamento della qualità delle prestazioni, e in certi casi lo sviluppo di un aspetto della professionalizzazione contrasta con lo sviluppo di altri aspetti, come mostra uno studio del clero inglese nel periodo 1570-1730 (v. Hawkins, 1989).
Nel loro complesso questi e altri contributi recenti sembrano suggerire l'abbandono di definizioni troppo rigide e generali del concetto di professionalizzazione. Le indicazioni emerse per la costruzione di un nuovo e più adeguato concetto possono essere così sintetizzate: a) evitare sia un approccio troppo volontaristico, tutto ridotto alle strategie degli attori, sia il pericolo opposto di un appiattimento del ruolo autonomo delle professioni all'interno di processi più ampi e generali, siano essi l'espansione del capitalismo (come in certi contributi marxisti) o le trasformazioni dello Stato; b) evitare di concentrare l'attenzione esclusivamente sui processi di controllo del mercato e di istituzionalizzazione delle professioni, trascurando i mutamenti che avvengono sul posto di lavoro, nella concreta pratica professionale. Il processo di professionalizzazione si sviluppa su tre arene (v. Abbott, 1988): sistema giuridico, opinione pubblica, luogo di lavoro. Il peso relativo delle tre arene può variare nel tempo e da un paese all'altro; c) evitare, nello studio dell'evoluzione storica delle singole professioni, l''assunzione dell'indipendenza' (ibid.): ogni professione è in realtà impegnata in una incessante battaglia per la propria 'giurisdizione professionale' contro altre occupazioni confinanti; d) evitare un'altra assunzione, quella dell'unidirezionalità: il processo di professionalizzazione non è un percorso lineare che finisce con un 'traguardo' (il riconoscimento statale) o con uno 'stadio finale' (lo status di professione), ma è un processo permanente di negoziazione e di conflitto che ciascuna occupazione, in quanto soggetto collettivo e organizzato, sostiene innanzitutto con le altre occupazioni (sulla base cognitiva), ma anche con lo Stato e con i clienti stessi (in difesa della propria autonomia e per il controllo del mercato professionale). In altre parole, la professionalizzazione è un processo complesso, che può avanzare, fermarsi, o anche regredire. Ciò vale sia per le singole occupazioni, come hanno mostrato per esempio le alterne vicende dei farmacisti e delle ostetriche (in vari paesi), sia per il complesso delle professioni in un singolo paese, come risulta dal caso tedesco (v. Jarausch, 1990).
(V. anche Artigiani; Classi e stratificazione sociale; Classi medie; Dirigenti; Interazionismo simbolico; Magistrati; Militari; Ordinamenti giudiziari e professioni giuridiche).
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