Profondità di campo
La p. di c., o profondità di fuoco (ingl. depth of field), è la distanza tra il punto più vicino e il punto più lontano (rispetto all'apparecchio da ripresa) della scena inquadrata che appaiono nitidi sul piano focale e quindi sulla pellicola. In generale la p. di c. è tanto maggiore quanto minore è l'apertura del diaframma dell'obiettivo e la sua lunghezza focale, e quanto maggiore è la distanza di ripresa. Essa non va confusa con la profondità del campo che riguarda, invece, l'organizzazione dello spazio profilmico (ovvero di tutto ciò che sta davanti alla macchina da presa: v. profilmico) e la disposizione di elementi scenografici, oggetti e personaggi in modo tale da dare a questo stesso spazio una certa profondità. Attraverso l'applicazione di una tecnica determinata da diversi parametri e denominata panfocus (ingl. deep focus) la p. di c. si può aumentare per consentire la perfetta messa a fuoco dei diversi strati (l'avampiano, il piano intermedio e lo sfondo) su cui può costituirsi un'inquadratura.
Il cinema delle origini e dei primi anni del muto ‒ in conseguenza del tipo di pellicola diffusa in quegli anni, della luminosità degli obiettivi e della durata delle inquadrature che dovevano contenere molti elementi profilmici ed eventi narrativi ‒ faceva ampio uso di un'estesa profondità di campo. Tuttavia l'affermarsi del montaggio, che tendeva a frammentare l'azione in diverse inquadrature e quindi a concentrarsi di volta in volta su singoli particolari piuttosto che su ampie visioni d'insieme, mise in secondo piano questa possibilità di rappresentazione che cadde nell'oblio con l'avvento del sonoro. A determinare la sua scomparsa contribuirono anche fattori tecnici come l'uso della pellicola pancromatica che, meno sensibile alla luce della precedente ortocromatica, imponeva una maggiore apertura del diaframma e la presenza di macchine da presa sonore che non tolleravano le potenti, ma troppo rumorose, lampade ad arco tradizionali. Gli anni Trenta sono così quelli dell'eclisse della p. di c. estesa, pur con qualche autorevole eccezione rappresentata in Europa da Jean Renoir (le scene che si svolgono nel corridoio della villa di campagna dei La Chesnaye in La règle du jeu, 1939, La regola del gioco), negli Stati Uniti da John Ford (la conversazione fra Ringo e Dallas in cui l'uomo propone alla donna di andare a vivere insieme in Stagecoach, 1939, Ombre rosse), in Giappone da Mizoguchi Kenji (come testimoniano diversi passaggi di Gion no shimai, 1936, Le sorelle di Gion). La tendenza assolutamente dominante era però quella del cosiddetto soft focus, che ricorreva all'effetto flou tenendo a fuoco l'avampiano e sfocato lo sfondo (tecnica questa molto diffusa nell'uso dei primi piani).
A rilanciare la tecnica del panfocus fu il celebre Citizen Kane (1941; Quarto potere), diretto da Orson Welles e fotografato da Gregg Toland con obiettivi a focale corta, nuove e silenziose lampade ad arco e pellicole nuovamente ad alta sensibilità. Il primo a rendersi conto delle conseguenze espressive di tale ritorno alla p. di c. fu il teorico francese André Bazin. Il postulato di base su cui questi si muoveva era che il cinema dovesse rispettare la sua naturale vocazione fotografica alla rappresentazione del reale, mantenendone la connaturata ambiguità, insieme alla continuità spazio-temporale. Nasce da ciò la sua avversione per il montaggio, che si oppone a tale ambiguità forzando la rappresentazione delle cose verso un senso ben preciso (ogni inquadratura di una serie di immagini stabilisce cosa è più importante di una certa situazione: l'espressione di un volto piuttosto che il valore di un gesto). Di qui l'importanza della p. di c. estesa che, associata al piano-sequenza, ossia a un'inquadratura che da sola mostra un intero evento narrativo, dà del reale una rappresentazione in cui più elementi significanti sono presenti ‒ e tutti a fuoco ‒ in uno stesso tempo e spazio, garantendone così la molteplicità di significati possibili. Schematizzando si può affermare che un'inquadratura in soft focus dà allo spettatore una e una sola informazione, mentre un'immagine in deep focus ne può dare molteplici. Un film dal montaggio tradizionale è uguale per tutti gli spettatori che lo vedono, un film che ricorre invece al deep focus può essere diverso per ognuno di essi: perché nell'istante in cui uno spettatore osserva ciò che accade nell'avampiano, un altro, invece, può concentrarsi su un personaggio che si trova sullo sfondo. In sostanza mentre il montaggio classico guida lo spettatore passo dopo passo, inquadratura dopo inquadratura, verso un senso predeterminato, fosse anche solo quello della logica del racconto, il cinema in p. di c. lo costringe a farsi il proprio montaggio, a soffermarsi su quell'aspetto piuttosto che su quell'altro, a instaurare un rapporto con l'immagine filmica analogo a quello che ha con la realtà che lo circonda (dove nessun regista gli impone un oggetto e un senso particolari attraverso una successione organizzata di immagini), richiedendo allo spettatore un lavoro maggiore di quello invece necessario per il cinema con montaggio tradizionale.
Un'immagine di Citizen Kane può ben esemplificare quanto detto: quella relativa al momento in cui il piccolo Kane è ceduto dai suoi genitori a un tutore. Nel suo svilupparsi, l'inquadratura che rappresenta quest'evento si articola a un certo punto su tre piani: il bambino che, oltre una finestra, gioca sullo sfondo in mezzo alla neve; il padre in piedi, nel piano intermedio; la madre e il tutore seduti a un tavolo, in primo piano. Ecco così che allo spettatore si danno simultaneamente i tre nuclei drammatici intorno a cui si sta svolgendo la scena: il bambino ignaro di quel che sta accadendo, il padre che cerca debolmente di opporsi a quel che è stato deciso, la madre e il tutore risoluti invece ad andare sino in fondo. Quando poi anche il padre si avvicinerà all'avampiano e agli altri due personaggi seduti al tavolo, niente potrà più impedire il compiersi del destino del piccolo Kane. In questa inquadratura si è di fronte a una sorta di montaggio interno, in cui gli elementi principali di una certa situazione drammatica non sono mostrati in successione allo spettatore attraverso una serie di immagini dedicate a ognuno di essi, bensì tutti insieme nell'ambito di uno stesso piano. Tocca appunto allo spettatore scegliere di momento in momento a chi e cosa prestare la propria attenzione.Citizen Kane permise alla p. di c. di tornare a essere una figura diffusa nel cinema degli anni Quaranta, come nei film di William Wyler (tra i quali si ricorda The best years of our lives, 1946, I migliori anni della nostra vita), e dei decenni successivi. E se in quel periodo essa era limitata al bianco e nero, poi ‒ in particolare dagli anni Settanta ‒ è stato possibile applicarla anche alle pellicole a colori, la cui sensibilità era stata nel frattempo notevolmente accresciuta. Questa figura è usata ormai soprattutto da registi che del cinema di Welles riprendono la dimensione barocca e immaginifica come Tim Burton e i fratelli Joel ed Ethan Coen.
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