Proletariato
di Massimo L. Salvadori
Il termine ha avuto origine in età romana. Esso indicava, nell'ambito della divisione della popolazione di Roma operata da Servio Tullio nel VI secolo a.C., la classe inferiore: quella che seguiva alle cinque classi di possidenti che tra loro si differenziavano per ricchezza, capacità contributiva e funzione militare. 'Proletari' erano i cittadini della sesta classe, privi di beni materiali, possessori unicamente di figli (proles), censiti per capo (capite censi) ed esclusi dal servizio militare (sarà Mario nel corso delle guerre civili a dare per primo le armi ai proletari). Plauto nel Miles gloriosus adoperò spregiativamente la parola per indicare chi apparteneva alla feccia del popolo.Scomparso nell'età medievale, il termine ricompare nel XVI secolo in Inghilterra per designare lo strato inferiore della società. Il giurista Thomas Smith, nel dividere la società inglese in quattro classi, definì la quarta come costituita da "coloro che gli antichi Romani chiamavano capite censi, proletarii o operarii".Il termine, tradotto in volgare, ebbe una certa circolazione nel XVIII secolo. Lo si trova in Bernard de Mandeville, Montesquieu, Rousseau, nel Dictionnaire des travaux e nell'Enciclopédie. Esso venne utilizzato per un verso in riferimento alla storia romana, per l'altro con un'accezione spregiativa, che assimilava i proletari ai plebei, agli emarginati senza arte né parte.
Da Robespierre a von Stein.Occorrerà attendere la Rivoluzione francese perché il termine entri in circolo con un nuovo significato secondo cui il proletario è l'appartenente a una classe di lavoratori disperati ma virtuosi, esclusi dai diritti, cui occorre riconoscere e dare uno 'stato'. Questo significato 'positivo' continua però ad affiancarsi a quello 'negativo'. Tanto che nella stessa parola si trova già contenuta in nuce la distinzione che verrà fatta successivamente tra 'proletario' e 'sottoproletario': il primo inserito nel processo produttivo e portatore, quantomeno potenzialmente, di una propria coscienza civile e politica; il secondo parassita e incline alla corruzione. Robespierre nel luglio del 1793 parlò dei "cittadini proletari" come di "una parte numerosa e importante della società", "forse la più numerosa", "la cui sola proprietà risiede nel lavoro" e ai quali la Rivoluzione non ha dato "ancora quasi nulla", mentre ha "fatto tutto a favore delle altre classi". Il 7 fruttidoro dell'anno II, P.-J. Chasles alla Convenzione, per indicare i proletari legati al processo produttivo, impiegò l'espressione "classe operaia", affermando che era giunto il momento di darle "tutta la protezione che merita", trattandosi di una "classe virtuosa che difende le frontiere, che a partire dal 1789 sopporta tutto il peso della Rivoluzione". Intravvediamo dunque qui un proletariato formato da lavoratori, da individui privati di giusti diritti. In Marat, invece, è presente la differenza di ruolo che sarebbe in seguito emersa con l'esplicita distinzione tra proletari e sottoproletari. Una distinzione che il leader rivoluzionario mantiene però ancora nell'ambito dello stesso termine, in quanto contrappone i proletari che vivono "del lavoro delle proprie mani" ai "proletari fannulloni", i quali compongono lo strato degli emarginati e dei parassiti.
Nei testi degli autori della congiura degli Eguali il termine 'proletario' compare solo assai sporadicamente, come ad esempio nel Manifeste des plébéiens (1795) di Babeuf, per indicare colui la cui forza lavoro è oggetto di sfruttamento. Nel linguaggio dei congiurati i soggetti del conflitto politico-sociale sono indicati secondo il vocabolario tradizionale. In "Le Tribun du Peuple" (6 novembre 1795) Babeuf si esprime nei seguenti termini: la rivoluzione è "una guerra dichiarata tra patrizi e plebei, tra i ricchi e i poveri", tra "oppressori e oppressi". L'insieme degli abbandonati e traditi, di coloro che lottano per i propri diritti conculcati è indicato come "plebe", "popolo". I punti principali di riferimento, per descrivere l'anatomia della società e delle sue classi, non sono ancora il meccanismo di produzione e la posizione di fronte al capitale industriale, ma il governo politico e la distribuzione della ricchezza in rapporto genericamente a chi ha e a chi non ha mezzi materiali e potere. Anche il Manifesto degli Eguali, steso da S. Maréchal nel 1797, identifica il soggetto dell'"ultima rivoluzione" nel "popolo", ovvero nella "grande maggioranza" che lavora e suda "al servizio e per il piacere di una piccola minoranza". Le "disgustose distinzioni" che devono finalmente sparire sono quelle "fra ricchi e poveri, fra grandi e piccoli, fra padroni e servi, fra governanti e governati". Ciò cui la repubblica degli Eguali vuole porre fine è l'ingiustizia messa in atto dagli "egoisti", dagli "ambiziosi", da coloro che "possiedono ingiustamente", da quanti sono "indifferenti alle sofferenze altrui", dagli "amanti del potere assoluto", dai "vili sostenitori dell'autorità arbitraria". F. Buonarroti individuerà le componenti del popolo cui si sarebbero rivolti i congiurati nei piccoli proprietari, nei commercianti in difficoltà, nei braccianti, nei lavoratori, negli artigiani, insomma in "tutti gli infelici che le nostre istituzioni viziose condannano a una vita sovraccarica di fatiche, di privazioni e di pene". Comunque in "Le Tribun du Peuple" l'espressione proletario sta a indicare colui cui occorre fornire il necessario per vivere. Il termine prenderà a circolare anche in Italia nel periodo rivoluzionario. Ad esempio, nei verbali delle sedute della Municipalità di Venezia dell'ottobre 1797, si dice che presto in Italia "non vi saranno più proletari, atti soltanto a generar uomini vittime de' monarchi, di aristocratici, ma uomini liberi ed energici".
La definizione dei proletari come classe dei lavoratori sfruttati nel quadro della società industriale compare nel linguaggio dei socialisti premarxiani nel primo ventennio dell'Ottocento. Laddove R. Owen usa l'espressione working classes, Saint-Simon fa ricorso direttamente al termine 'proletari', già intorno al 1816, per indicare la massa di quanti vivono senza proprietà nell'ambito della società divenuta 'industriale'. In uno scritto del 1829 Saint-Simon afferma che gli economisti hanno individuato "l'esistenza nella società di una classe di proletari", la cui condizione si fonda sull'"eredità della miseria". "Oggi - aggiunge - la massa intera dei lavoratori è sfruttata dagli uomini di cui utilizza la proprietà". Si pongono così le premesse, nell'età della rivoluzione industriale e dei conflitti politici ed economico-sociali a essa legati, di una concettualizzazione che vede comparire come sinonimi i termini: proletari, lavoratori, membri delle classi lavoratrici o, al singolare, della classe operaia; e dell'idea che il conflitto politico e sociale abbia i suoi protagonisti non più genericamente nei ricchi e nei poveri, ma specificamente nei capitalisti e nei proletari-lavoratori. Nel 1825 T. Hodgskin, con un linguaggio che potremmo definire premarxiano, scrive al proposito: "Capitalisti e lavoratori costituiscono la grande maggioranza della nazione, sicché non esiste un terzo potere che si insinui tra loro. Essi devono e dovranno decidere da sé il conflitto".Nello stesso anno J. Gray osserva che "la quantità della ricchezza ottenuta dalle classi lavoratrici è il minimo con cui si può acquistare il loro lavoro". C. Fourier dal canto suo accomuna poveri, classe operaia, classe povera, popolo.
A imprimere una svolta decisiva non solo al termine 'proletario' ma anche, si noti, a 'proletariato' sono la Rivoluzione del 1830 in Francia e i moti di Lione del 1831. Nel 1831 l'operaio orologiaio Béranger stendeva, indirizzandola alla Camera dei deputati, la Petizione di un proletario. Nello stesso periodo, sempre in Francia, compariva l'espressione 'democrazia proletaria', come sinonimo di progetto di eversione sociale radicale, in contrapposizione a 'repubblica'; e si prendeva a parlare di una 'questione del proletariato': una questione non solo economico-sociale, ma anche ideologica e politica. A farlo è anzitutto L.-A. Blanqui. I proletari sono per lui sia gli esclusi dai benefici della ricchezza che producono e dai diritti di partecipazione politica, sia coloro la cui missione storica è ormai quella di lottare contro la società che li emargina. Secondo l'uso che ne fa Blanqui, l'espressione 'proletario' appare tanto nel senso generico e tradizionale di povero quanto in quello più specifico di operaio che si contrappone al capitalista. Il riferimento di Blanqui è dunque per un verso di tipo ancora tradizionale, per l'altro di tipo nuovo. Il primo significato apparve nel corso del processo intentato nel 1832 contro la società degli Amici del popolo, quando Blanqui al presidente della Corte d'assise che gli chiedeva quale fosse la sua professione, rispose: "Proletario", uno dei "trenta milioni di Francesi che vivono del loro lavoro e che sono privi di diritti politici", che conducono "la guerra tra i ricchi e i poveri" e ne rappresentano le vittime che pagano per tutti. Il proletario è colui che "è restato estraneo a tutto". Il secondo significato emerge quando Blanqui usa 'proletario' come equivalente di lavoratore che lotta contro il capitalista.
Ormai la parola era andata diffondendosi; e il riconoscimento di questa diffusione venne assai significativamente sancito nel 1835 dal suo accoglimento nel Dictionnaire de l'Académie française, nel quale proletario è definito, molto genericamente, chi "negli Stati moderni" appartiene alla schiera di coloro che "non hanno fortuna alcuna né una professione sufficientemente remunerativa".Un'analisi davvero innovativa è stata fatta da Simonde de Sismondi nei suoi Studi intorno all'economia politica (1837-1838). Egli distingue il proletario antico da quello moderno: l'uno un non lavoratore, che viveva a spese della società; l'altro un lavoratore, sulla cui attività nell'era industriale vive la società. Dice Sismondi: "Il cambiamento fondamentale sopraggiunto nella società in mezzo all'universale gara creata dalla concorrenza, e per effetto immediato di questa gara, si è l'introduzione del proletario fra le umane condizioni, del proletario il cui nome, accattato dai Romani, è antico, ma affatto nuova si è l'esistenza. Nella romana repubblica i proletari erano le persone sfornite di sostanza, le quali non pagavano il censo e non concorrevano a coadiuvare la patria se non colla prole che le somministravano. [...] Del resto il proletario di Roma non lavorava; ché, in una società in cui vige la schiavitù, il lavoro mercenario è di scorno per gli uomini liberi; e viveva quasi del tutto a spese della repubblica mercé le distribuzioni, che questa faceva, di viveri. Ora, all'incontro, potrebbesi quasi dire che la società vive a spese del proletario, vale a dire di quella parte della mercede delle sue fatiche, la quale a lui viene tolta. E in effetti il proletario, secondo l'ordine che la crematistica tende a stabilire, deve restar aggravato egli solo di tutto il lavoro della società, né dee posseder cosa alcuna, né vivere d'altro che della sua mercede".Ciò detto, Sismondi passa a esaminare le radici della dinamica del conflitto tra i detentori della rendita terriera, del profitto capitalistico e del salario: "La società, secondo la scuola crematistica, dividesi, quanto è al lavoro che produce la ricchezza, in tre classi di persone, proprietari delle terre, capitalisti, e manovali o proletari. I primi danno la terra, i secondi la direzione, e i terzi la mano d'opera, la fatica; ai primi si aspetta in cambio la rendita o pigione, ai secondi il profitto, ai terzi il salario; ognuno di loro procura di trarre a sé la maggior parte possibile del prodotto totale, e la loro lotta reciproca fissa la proporzione tra la rendita, il profitto e il salario". I proletari costituiscono il soggetto centrale di un celebre scritto polemico di Lamennais, La schiavitù moderna (1839). Sono proprio i proletari - egli vi afferma - i nuovi schiavi: coloro che soffrono dell'oppressione del potere e politico ed economico, che "la fame pone nella dipendenza assoluta dal capitalista" e che "lo Spartaco degli schiavi moderni" è chiamato a liberare.La condizione del proletario e l'analisi dei mezzi per cambiarla nel contesto generale delle relazioni tra capitale e lavoro divengono altresì il tema esplicito e centrale dell'opera, destinata a esercitare grande influenza, di L. Blanc, Organizzazione del lavoro (1839).
Nel corso degli anni trenta e quaranta dell'Ottocento si intensifica il ricorso al termine 'proletari' anche nella letteratura tedesca dedicata alla condizione dei poveri e alla questione sociale; e nel secondo di questi decenni comincia a entrare nell'uso il termine collettivo proletariato. F. Diesterweg lega i proletari non solo alle condizioni di precaria esistenza e di esclusione politica, ma al loro concentrarsi nelle fabbriche e nelle città industriali in Inghilterra e in Francia. F. von der Marwitz descrive i proletari come appartenenti "a una classe affatto nuova, finora sconosciuta", caratterizzata dall'essere "senza patria". Nel saggio del 1844 sul socialismo e l'educazione culturale, K. Grün definisce proletariato il Quarto stato e il socialismo lo strumento della sua formazione culturale, destinato a fondare "la nuova epoca, la nuova vera cultura": "il futuro del mondo". Anche M. Stirner, nello stesso periodo, parla di proletariato. Per lui il "cosiddetto proletariato" è formato da coloro che costituiscono il substrato del pauperismo, composto dai "vagabondi spirituali", i nemici dei borghesi, ovvero "la classe degli irrequieti, incostanti, volubili", chiamati "teste inquiete". H. Bensen pubblica nel 1847 un saggio intitolato Die Proletarier, comprendendo in questa categoria una vasta gamma che va dagli operai di fabbrica ai braccianti, ai poveri, ai soldati semplici, ai piccoli impiegati, fino ai banditi. K. Biedermann collega strettamente pauperismo e proletariato.
L'analisi della condizione del proletariato nella società capitalistica trova la sua prima organica e moderna espressione nel lavoro di L. von Stein, autore di tre opere che sono a questo riguardo fondamentali: Der Socialismus und Communismus des heutigen Frankreichs. Ein Beitrag zur Zeitgeschichte (1842), Die soziale Bewegung der Gegenwart (1848), Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich von 1789 bis auf unsere Tage (1850). Egli - e qui sta l'elemento che lo accomuna ai comunisti, a Engels e Marx - collega direttamente la condizione oggettiva del proletariato, in quanto classe formata da coloro che nulla posseggono al di fuori della propria forza lavoro, a quella soggettiva ovvero alla coscienza di classe e alla lotta che, in conseguenza dell'opposizione di interessi tra capitale e lavoro, porta la classe proletaria a mettere in discussione in maniera radicale i rapporti economico-sociali e politici. Ciò che caratterizza il proletariato e lo differenzia dalla massa dei poveri è la "coscienza", "la comunanza di volontà" e di valori. Von Stein poi stabilisce un nesso organico tra il proletariato moderno, il processo di industrializzazione e i problemi politici e sociali che da questo derivano. Ma lo studioso tedesco si differenzia nettamente dai comunisti per il fatto di respingere la prospettiva rivoluzionaria, vista come deleteria per il destino dell'industria e della società, e di essere fautore della riforma sociale, da lui considerata l'unica via percorribile al fine dell'elevamento del proletariato.
Nel corso della seconda metà degli anni quaranta, il concetto di proletariato fu profondamente rielaborato dai comunisti e in particolare da F. Engels e da K. Marx. In primo luogo il termine viene definitivamente svincolato dal significato generico di popolo, plebe, classe povera, ed è usato per indicare una classe nuova: nata dalla rivoluzione industriale, legata al processo di valorizzazione del capitale, collocata fisicamente nelle fabbriche e nei centri urbani industriali, costituente con la borghesia - nei cui confronti si trova in relazione antagonistica - l'altra grande componente della società moderna. In secondo luogo si attribuisce al proletariato una funzione rivoluzionaria diretta a eliminare una volta per tutte, mediante l'abolizione delle classi, le radici della conflittualità sociale che aveva segnato la storia precedente. In conseguenza il proletariato è visto come la classe che, mentre occupa nella società capitalistico-industriale un ruolo particolare in quanto forza lavoro, ha del pari una missione storico-universale che la rende "classe generale", in quanto ha il compito di cambiare dalle fondamenta e irreversibilmente l'intera organizzazione dei rapporti tra gli individui e le classi sociali, ponendo fine alla 'preistoria' dell'umanità.La prima grande analisi storico-sociologica della condizione del proletariato come classe nata dalla rivoluzione industriale inglese e della sua diffusione, condotta da Engels tra il 1844 e il 1845, apparve sotto il titolo La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845).
Proletariato e classe operaia moderna sono sinonimi nel linguaggio di Engels, che definisce così il carattere del proletariato moderno: "La storia della classe operaia in Inghilterra ha inizio nella seconda metà del secolo scorso, con l'invenzione della macchina a vapore e delle macchine per la lavorazione del cotone. Queste invenzioni, com'è noto, diedero l'impulso a una rivoluzione industriale, una rivoluzione che in pari tempo trasformò tutta la società borghese, e la cui importanza storica comincia solo ora a essere riconosciuta. L'Inghilterra è anche il terreno classico di questo rivolgimento, che fu tanto più grandioso quanto più procedette silenziosamente, e perciò l'Inghilterra è anche il paese classico per lo sviluppo del principale risultato di quel rivolgimento, il proletariato. Il proletariato può essere studiato in tutti i suoi rapporti e da tutti i lati soltanto in Inghilterra".
Engels prosegue sottolineando che, laddove in precedenza poteva avvenire che l'operaio si trasformasse in artigiano e piccolo borghese, in conseguenza della scomparsa del vecchio artigianato e della crisi storica della piccola borghesia questa possibilità era ormai definitivamente preclusa: ora colui che nasceva operaio non aveva altra prospettiva che di seguitare a vivere come un proletario per tutta la vita.Proprio questa condizione fa sì che i singoli operai formino "una classe reale e stabile della popolazione" con una sua fondamentale omogeneità, che crea i presupposti perché l'agire sociale dei suoi componenti nel corpo generale della società acquisti un suo senso proprio e specifico. Quindi, a differenza degli strati popolari non omogenei, "soltanto il proletariato" è "in grado di intraprendere movimenti autonomi". Il proletario, "venduto come una merce", è lo "schiavo" della nuova epoca. Spinto a entrare in concorrenza con il suo simile, privato della pur quanto mai precaria sicurezza di cui godevano i servi della gleba e gli schiavi veri e propri, egli reagisce formando proprie associazioni. Lottando contro lo sfruttamento da parte della borghesia, i proletari incarnano "la forza e la capacità di sviluppo della nazione". Chi propriamente compone il proletariato moderno? Gli operai di fabbrica, i minatori, gli operai agricoli.Mentre Engels, figlio di imprenditore, scopriva il proletariato moderno attraverso l'inchiesta sulle condizioni degli operai inglesi, il dottore in filosofia Marx vi arrivava nel 1843-1844 scrivendo l'Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in cui si poneva il problema della "possibilità positiva dell'emancipazione tedesca".
Marx individuava il presupposto di questa emancipazione nella formazione di una classe, il proletariato, che, collocata nella società borghese, è tesa al suo superamento in quanto non è esponente di alcun vecchio interesse di ceto e lotta contro i mali generali della società poiché "non può emanciparsi senza emancipare se stessa da tutte le altre sfere della società e quindi senza emancipare tutte le altre sfere della società". Lo scopo del proletariato è "il superamento dell'attuale ordine del mondo" mediante la "negazione della proprietà privata", fondamento della società borghese. Il proletariato fornisce alla filosofia le sue armi "materiali", mentre questa fornisce a quello le sue armi "spirituali". Nei Manoscritti economico-filosofici (1844), assumendo come punto di riferimento l'economia politica 'borghese', Marx imposta il suo discorso sulla condizione di alienazione in cui il lavoratore è posto nel meccanismo di produzione capitalistico. L'economia politica "considera soltanto come lavoratore il proletario, cioè colui che, senza capitale e rendita fondiaria, vive puramente del suo lavoro, e di un lavoro unilaterale e astratto". Ora, mentre spiega che "tutto si compra col lavoro", l'economia politica spiega altresì che il lavoratore, nell'universale scambio delle merci, "deve vendere se stesso e la sua umanità". Di qui, in primo luogo, la degradazione del proletariato e la sua condizione di alienazione in una società che lo abbassa a cosa e si impadronisce della sua forza lavoro di uomo riducendola a energia puramente materiale, completamente sottratta a chi la possiede e posta sotto il comando di chi la compra in quanto merce. Di qui, in secondo luogo, la necessità - si dice nell'Ideologia tedesca (1845) - che la massa operaia sia spinta a costituirsi in un movimento che diffonda "la coscienza comunista" e si faccia leva di una rivoluzione che liberi "la classe che è soggiogata" "da tutto il secolare fango in cui è immersa", rendendola "così capace della creazione di una nuova società". Nelle pagine conclusive della Miseria della filosofia (1847) Marx definisce la lotta tra proletariato e borghesia nei termini di una "vera guerra civile" destinata a trasformare la lotta da economica, dove il proletariato è una classe "non ancora per se stessa", in lotta direttamente politica, nel corso della quale esso "si costituisce in classe per se stessa".
In questo contesto Marx afferma che "la condizione dell'affrancamento della classe lavoratrice è l'abolizione di tutte le classi", la creazione di una società senza classi in cui "non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il riassunto ufficiale dell'antagonismo nella società civile". La lotta per la società senza classi acquista dunque il carattere di "una rivoluzione totale".La funzione politica rivoluzionaria del proletariato diventò la base dell'azione organizzata dei comunisti. Negli Statuti della Lega dei comunisti (1847) si lancia la parola d'ordine: "Proletari di tutti i paesi, unitevi!", la quale indica appieno come gli ideologi e gli organizzatori della lotta proletaria considerino pienamente acquisito il ruolo internazionale degli operai, lo sviluppo della cui coscienza porta con sé il superamento della dimensione nazionale. Nei Principî del comunismo Engels dice che "la rivoluzione comunista non sarà quindi una rivoluzione soltanto nazionale, sarà una rivoluzione che avverrà in tutti i paesi civili". E nell'Atto di fede comunista (1847) spiega che la società fondata sulla comunità dei beni deve essere preparata "illuminando e unendo il proletariato".
Nel Manifesto del partito comunista (1848) Marx ed Engels diedero un'interpretazione del processo di modernizzazione economico-sociale, e del rapporto al suo interno tra passato, presente e futuro, che poneva al centro il ruolo del proletariato, destinato dal movimento storico a trasformarsi da classe in sé in classe per sé, vale a dire da figura del modo di produzione capitalistico a soggetto privilegiato del sovvertimento dell'ordine costituito e della creazione del comunismo. Mentre costituisce una brillante analisi scientifica della moderna dinamica economico-sociale, il cui valore è stato pienamente riconosciuto in seguito anche da grandi studiosi non marxisti quali anzitutto Weber e Schumpeter, il Manifesto si configura d'altra parte come una sorta di 'storia sacra' in cui il proletariato rappresenta il 'popolo eletto' che, muovendo da un moderno Egitto in cui è schiavo, marcia verso la Terra promessa liberando se stesso e l'intera umanità. Il capitalismo getta il proletariato nella degradazione, ma il proletariato - liberandosi da tutti i valori e pregiudizi della vecchia società, diventando cosciente di sé, mobilitando le proprie forze, producendo un'avanguardia di guide coscienti, i comunisti, aumentando il proprio numero in conseguenza del processo inarrestabile della proletarizzazione di tutti gli strati piccolo-borghesi - assurge a forza rivoluzionaria in quanto "movimento indipendente dell'enorme maggioranza nell'interesse dell'enorme maggioranza".
È importante sottolineare come nel Manifesto la caratterizzazione del proletariato si delinei attraverso la sua distinzione non solo dalla borghesia e dai vari strati piccolo-borghesi, ma anche da quello strato infimo che viene definito 'sottoproletariato'. Quest'ultimo, al pari del proletariato, viene considerato in rapporto alla sua collocazione sia nella stratificazione sociale sia nel processo rivoluzionario. Esso è costituito dagli "strati più bassi della vecchia società", di cui "rappresenta la putrefazione passiva". Marx ed Engels usano insomma il termine per un verso al fine di definire ciò che secondo la terminologia tradizionale veniva chiamato plebe, la quale, priva di risorse - compresa quella che deriva dalla vendita della propria forza lavoro - viveva ai margini della società e in modo parassitario; per l'altro verso al fine di indicare uno strato 'paria' e, per così dire, il Giuda della rivoluzione proletaria. Infatti, essi dicono, il sottoproletariato (Lumpenproletariat) "viene qua e là gettato nel movimento da una rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie".In seguito, nel primo libro del Capitale (1867), Marx analizzò le 'leggi' dello sviluppo capitalistico, i suoi meccanismi di formazione e i modi del suo allargamento, dando un contributo di eccezionale importanza storica alla luce della tesi generale che "l'accumulazione del capitale è l'aumento del proletariato".
Nell'opera di Marx ed Engels la questione dell'"aumento del proletariato" occupa un posto centrale in relazione alla dinamica dello sviluppo capitalistico e ai suoi esiti. Questa dinamica non soltanto aveva prodotto la proletarizzazione crescente di strati quali i piccoli proprietari e della campagna e della città, che erano stati espropriati dall'avvento della grande produzione e messi a disposizione del capitale come manodopera libera e salariata (e alla storia di questo processo Marx diede un contributo tra i più importanti); ma era destinata a culminare in un processo di generale proletarizzazione, tale da contrapporre la grandissima massa dei proletari a un pugno di grandi magnati aventi ormai nelle proprie mani, per effetto di una gigantesca concentrazione dei capitali, l'intero controllo della proprietà dei mezzi di produzione.
Nel delineare il processo di accumulazione del capitale, Marx spiegò nel Capitale che, a un certo punto dello sviluppo, sarebbe venuta a determinarsi un'incontrollabile contraddizione tra "la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro" da un lato e "il loro involucro capitalistico" dall'altro. Allora il processo di accumulazione capitalistica, la generale proletarizzazione, la diffusione sempre maggiore nelle masse di una coscienza anticapitalistica si sarebbero saldati nei loro effetti, così da creare le condizioni, dopo l'"espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori", "dell'espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo". L'esito del processo rivoluzionario socialista sarebbe stato, abolendo la proprietà, di mettere al servizio della società gli effetti positivi della concentrazione dei mezzi di produzione e della socializzazione del lavoro.Fin dagli scritti precedenti il 1848 Marx aveva spiegato, in termini filosofici, come il proletariato cosciente costituisse la classe destinata ad assumere un ruolo 'generale', a restituire l'umanità a se stessa, ponendo fine all'alienazione in cui, secondo diverse forme, la divisione in classi colloca sia l'oppressore sia l'oppresso. Nel Manifesto Marx ed Engels espressero in termini dichiaratamente politici quale sarebbe stato il ruolo del proletariato dopo la rivoluzione sociale ovvero dopo il fenomeno che nel Capitale viene descritto come espropriazione degli espropriatori. Il proletariato, agente della salvezza dell'umanità giunta all'estremo della sua degradazione, si sarebbe trasformato da classe oppressa in classe deputata a guidare la costruzione del nuovo ordine della generale pacificazione sociale. "Il primo passo della rivoluzione" sarà "l'elevarsi del proletariato a classe dominante". Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive.Il potere proletario viene presentato come 'conquista della democrazia', in quanto espressione della grande maggioranza; come 'dittatura', in quanto strumento della soppressione dei rapporti sociali, politici ed economici borghesi; come mezzo di superamento tendenziale di ogni forma di oppressione, e quindi della stessa dittatura proletaria, in quanto volto ad abolire "le condizioni d'esistenza dell'antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe", ogni forma di Stato e di potere politico.
L'esito finale - affermano Marx ed Engels - sarà "un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti".
Marx ed Engels hanno dato, come si è detto, un contributo eccezionale all'analisi delle condizioni del proletariato ovvero della classe operaia nell'ambito della concreta storia dello sviluppo capitalistico. Al tempo stesso essi lo hanno posto al centro di una futura storia ipotetica, in quanto soggetto rivoluzionario e agente della trasformazione socialista, e qui il proletariato assume il carattere di un'astratta categoria ideologico-politica. Marx ed Engels, però, non hanno mai ammesso un simile mutamento, poiché la storia futura da essi delineata costituiva nella loro concezione un corso necessario, prevedibile grazie alla "scienza dello sviluppo sociale".
Naturalmente mai condiviso dalla scienza 'borghese', lo schema marxiano venne messo radicalmente in discussione all'interno dello stesso movimento operaio e socialista organizzato, in primo luogo tedesco, dal 'revisionismo', corrente sviluppatasi originariamente in Germania nell'ultimo decennio dell'Ottocento. Il revisionismo derivò la propria denominazione dalla convinzione dei suoi sostenitori che occorresse 'rivedere' il marxismo, in relazione soprattutto alle tesi sulla proletarizzazione e i suoi effetti, tesi che Marx aveva sviluppato avendo alle spalle un fortissimo e amplissimo processo di proletarizzazione, di portata secolare. Al pari di Marx, i revisionisti si confrontarono in primo luogo con l'esperienza inglese, ma in una fase in cui da un lato lo sviluppo capitalistico determinava la comparsa di ceti medi di tipo nuovo sia nel settore dei servizi (strati impiegatizi) che in quello produttivo (imprese piccole e medie), dall'altro l'organizzazione sindacale e politica della classe operaia, in relazione alle possibilità offerte dallo sviluppo produttivo, diventava veicolo efficace del miglioramento delle retribuzioni e delle condizioni di vita degli operai; pertanto essi sostennero che quel processo era destinato a subire un drastico mutamento di tendenza. I revisionisti - che trovarono il loro principale portavoce teorico in E. Bernstein, autore di I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899) - respinsero la tesi che la concentrazione capitalistica avvenisse in modo da determinare una crescente proletarizzazione, impedire il miglioramento non solo relativo ma anche assoluto delle condizioni di esistenza del proletariato, distruggere tout court i ceti medi, provocare una crisi strutturale insuperabile del capitalismo e quindi un inasprimento dei contrasti di classe destinato a produrre il rovesciamento rivoluzionario violento dell'ordine esistente e la dittatura del proletariato.
Non si trattava, in effetti, di una semplice 'revisione', bensì di un attacco al cuore dello schema marxiano della rivoluzione e delle sue premesse. La strategia dei revisionisti in relazione al socialismo era quella del gradualismo, delle riforme, del rivendicazionismo sindacale, della difesa e dell'allargamento delle istituzioni democratiche prodotte dal liberalismo borghese, dell'alleanza degli operai e dei socialisti con i ceti medi e i liberaldemocratici contro i conservatori e i reazionari. Bernstein invocò "il coraggio di emanciparsi da una fraseologia che di fatto è superata" e di intraprendere la strada di "un partito riformista democratico-socialista".Il revisionismo provocò un dibattito accesissimo all'interno del movimento socialista internazionale. E a difendere in prima fila il marxismo ortodosso e la 'scientificità' delle previsioni di Marx furono Karl Kautsky, Rosa Luxemburg, Georgij Plechanov. Tra gli ortodossi si collocò formalmente, in nome della prospettiva rivoluzionaria, anche Lenin; il quale però procedette di fatto a un proprio revisionismo circa il modo di intendere il ruolo storico del proletariato. In Che fare? (1903) e in Un passo avanti e due indietro (1904), indotto dall'esigenza di dare risposta alla questione di come i marxisti potessero agire in una condizione matura per una rivoluzione democratica ma non proletaria, egli diede una risposta 'scandalizzante', attaccata da Trockij, Luxemburg, Martov.
Partendo dall'idea che la classe operaia, la cui spontaneità tendeva al mero rivendicazionismo economico, non era in grado con le sue sole forze di pervenire a una coscienza socialista; che la coscienza di classe poteva "essere portata all'operaio solo dall'esterno", vale a dire dagli intellettuali socialisti; che l'azione rivoluzionaria poteva essere organizzata unicamente da "rivoluzionari di professione" nel quadro di una struttura centralistica, il partito (sostituendo così alla dottrina del movimento autonomo del proletariato il principio elitistico), Lenin elaborò una sua teoria della rivoluzione democratica, nella quale si sosteneva che i capi ideologici e i rivoluzionari di professione dovevano guidare il partito, il partito il proletariato, il proletariato le masse contadine, in vista di un ordine democratico radicale atto a promuovere lo sviluppo capitalistico in un paese ancora arretrato, per passare infine alla rivoluzione socialista nazionale nel contesto della rivoluzione socialista internazionale. Secondo lo schema leniniano, il proletariato era, insomma, organicamente incapace di diventare una "classe per se stessa" se non mediante l'azione del partito guidato dagli intellettuali marxisti e dagli organizzatori 'giacobini'.
La posizione di Lenin era opposta a quelle sia della Luxemburg, che esaltava la spontaneità rivoluzionaria del proletariato, sia di Georges Sorel, teorico del sindacalismo rivoluzionario e critico intransigente della degenerazione parlamentare dei partiti socialisti, che in Riflessioni sulla violenza (1908) esaltava l'azione di massa, lo sciopero generale, e definiva la "violenza proletaria, esercitata come pura e semplice manifestazione del sentimento della lotta di classe", "una cosa di grande bellezza ed eroismo", in grado di "salvare il mondo dalla barbarie". Dopo la Rivoluzione bolscevica in Russia nel 1917 e dopo la costituzione di regimi comunisti, a partire dal 1945, nei paesi dell'Est europeo, in Cina, in Vietnam e a Cuba, il proletariato è stato proclamato 'classe dominante' e la forma del potere consolidato una 'dittatura del proletariato'. Stalin nelle Questioni del leninismo (1928) aveva parlato insieme di "dittatura del partito" e "dittatura del proletariato", affermando che la seconda è più ampia della prima ma che "il partito realizza la dittatura del proletariato". In effetti, nei nuovi regimi il potere cadde completamente nelle mani del partito comunista e il proletariato acquistò il carattere di un mito-simbolo del tutto separato dalla concreta classe operaia, diventando la fonte della legittimazione ideologica del potere. La proletarizzazione delle varie forme della vita associata assunse la natura di un dovere individuale e collettivo.
Di qui la conclamata proletarizzazione dell'etica, dell'arte, del costume, al servizio della costruzione del comunismo nel quadro dello 'Stato proletario' e sotto la guida del partito unico comunista.
Nei paesi capitalistici europei, tra le due guerre, il mito del proletariato rivoluzionario venne rilanciato dal movimento comunista internazionale soprattutto in relazione agli effetti politici ed economico-sociali della crisi del primo dopoguerra e della crisi seguita al 1929. Questo rilancio non avvenne soltanto nelle sfere dell'ideologia e delle politiche di partito: esso trovò altresì le sue radici nei movimenti di strati importanti della classe operaia soggettivamente orientatisi nel loro agire sociale in un senso attivamente anticapitalistico. In Germania l'idea di un ruolo storicamente privilegiato del proletariato, diretto a rifondare l'economia su una socializzazione rivoluzionaria avente le sue cellule primarie nei 'consigli operai', trovò il suo significativo esponente in K. Korsch.
In Italia un analogo progetto fu elaborato dal movimento torinese dei consigli di fabbrica e dal suo ideologo Antonio Gramsci. Questi, rielaborando e sviluppando spunti leniniani, teorizzò il concetto di 'egemonia' e di 'dominio' del proletariato, vale a dire un progetto di direzione complessiva della società da parte del proletariato, chiamato - secondo la definizione che ne diede negli anni trenta nei Quaderni del carcere - a "essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo". Il proletariato, secondo Gramsci, deve mirare a essere "dirigente dei gruppi affini e alleati" (gli intellettuali rivoluzionari o progressisti e i contadini poveri) e "dominante" nei confronti dei "gruppi avversari che tende a 'liquidare' o a sottomettere anche con la forza armata".Il proletariato si trovò del pari al centro dell'analisi teorica condotta nel primo dopoguerra da G. Lukács. Il quale dapprima ne esaltò - particolarmente in Storia e coscienza di classe (1923) - l'autonomia come classe che si rende totalmente libera da ogni influenza a essa esterna, così esprimendo la propria potenza rivoluzionaria; poi, convertitosi al leninismo, fece interamente dipendere la coscienza di classe dei proletari dalla guida dei comunisti definiti "la coscienza di classe del proletariato fattasi figura visibile".
L'assunzione del proletariato a categoria puramente ideologica divenne del tutto evidente nella Cina maoista, fortemente arretrata dal punto di vista economico e sociale, dominata dalle masse contadine, con un proletariato ridottissimo. Secondo il maoismo, formatosi come teoria negli anni venti e trenta, in assenza del proletariato la Rivoluzione cinese doveva trovare la propria forza primaria nei contadini poveri, guidati però dal 'partito del proletariato', il partito comunista, guidato a sua volta dalla scienza rivoluzionaria internazionale del proletariato. Il proletariato rivoluzionario divenuto cosciente di sé, teorizzato da Marx, veniva così trasformato in un ente essenzialmente astratto, in una sorta di 'Dio ideologico', avente nei sacerdoti di partito i suoi interpreti.
Per un processo di traslazione dai rapporti di classe a quelli tra nazioni, a opera dapprima dei nazionalisti, all'inizio del secolo, e più tardi dei comunisti e dei nazionalisti del Terzo Mondo, il termine 'proletario' è stato usato largamente per indicare, in chiave in un primo tempo imperialistica e in un secondo tempo antimperialistica, gli Stati o le popolazioni povere sfruttati dagli Stati ricchi.Nel 1910 E. Corradini enunciava nei seguenti termini il concetto di 'nazione proletaria': "Ci sono nazioni proletarie come ci sono classi proletarie; nazioni cioè, le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi".
Giovanni Pascoli, a sua volta, contrappose le nazioni proletarie alle nazioni 'borghesi' e nel 1911 definì l'Italia tesa alla conquista della Libia la "grande proletaria". In questo senso il termine, usato tra gli altri anche da Gabriele D'Annunzio, entrò in circolo prima nella corrente nazionalistica italiana e poi nell'ideologia fascista. Un esempio lo si trova nel discorso con cui Mussolini il 10 giugno del 1940 annunziò l'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Con una evidente traduzione in senso nazionalistico della guerra di classe, dopo aver giustificato "la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l'oro della terra", "la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto", Mussolini definì l'Italia, lanciatasi contro "le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente", insieme "proletaria e fascista".
Mentre i nazionalisti e i fascisti sopprimevano l'idea della lotta tra le classi esaltando quella della lotta tra paesi plutocratici e paesi proletari, in epoca successiva i comunisti dei paesi arretrati saldarono l'una all'altra. Una formulazione specifica di questo orientamento venne data nel 1965 da Lin Biao, in un discorso con cui esaltò il passaggio dell'iniziativa rivoluzionaria dai paesi sviluppati, divenuti 'città' del mondo, ai paesi poveri, privi degli strumenti dello sviluppo economico e relegati al ruolo di 'campagne' del mondo. Sicché, concludeva, "è dalla lotta rivoluzionaria dei popoli d'Asia, Africa e America Latina, dove vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, che dipende la causa rivoluzionaria mondiale".
La Chiesa cattolica e più in generale la cultura sociale cattolica mutuarono dal linguaggio dei socialisti e dei comunisti i termini 'proletario' e 'proletariato' e li utilizzarono largamente nel trattare della 'questione sociale' o della 'questione operaia'.Esempi assai significativi di questa utilizzazione li troviamo anzitutto in alcune encicliche papali dell'ultimo secolo. Nella Rerum novarum (1891) di Leone XIII occupa un posto centrale il problema delle "relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro" e degli "opportuni provvedimenti per i proletari". Vi si descrive l'opposizione della "classe dei ricchi" o dei forti alla "classe proletaria" o dei deboli. L'uso del termine è assai impreciso, in quanto i proletari sono per un verso tutti i poveri, per l'altro gli operai in senso proprio. Nella Quadragesimo anno (1931) Pio XI tratta dei mezzi idonei ad assicurare "l'elevazione del proletariato" e parla della "condizione proletaria" in cui si trovano individui "ridotti a una infima condizione di vita", distinguendo però tra questa specifica condizione e il 'pauperismo' in generale. Paolo VI in Octogesima adveniens (1971) fa riferimento alla formazione di "nuovi proletariati" che sorgono in condizioni di emarginazione e degradazione umana e sociale per effetto dell'immigrazione urbana. Giovanni Paolo II usa nella Laborem exercens (1981) il concetto di proletarizzazione per indicare la perdita di status di strati precedentemente medi, e nella Centesimus annus (1991) accenna all'egemonia che il marxismo ha esercitato per circa un secolo su parte del movimento dei proletari nella lotta contro l'oppressione.
L'intima e indissolubile commistione stabilita dal marxismo tra il proletariato inteso come sinonimo della classe operaia nei rapporti tipici del modo di produzione capitalistico e il proletariato come soggetto che incarna il movimento rivoluzionario della società borghese in direzione della società comunista ha fatto sì che il termine si sia caricato di una valenza fortemente e prevalentemente ideologica. In conseguenza - ha notato L. Gallino - "nella sociologia moderna, estranea o avversa al marxismo in quasi tutti i suoi indirizzi, il termine proletariato è stato quasi ignorato, ad onta della cospicua tradizione ottocentesca delle inchieste sulla condizione operaia". Si tratta di un'affermazione esatta, ma da intendersi con le opportune cautele e tenendo presenti le dovute eccezioni. A partire da W. Sombart.
Profondamente influenzato da Marx, di cui si considerò in certo senso un continuatore, Sombart dedicò una particolare attenzione al ruolo del proletariato nella società industriale e nei conflitti da questa generati. Lo fece, in particolare, in Socialismo e movimento sociale nel secolo XIX (1896) - in seguito rielaborato sotto il titolo Der proletarischer Sozialismus (1924) -, nella sua opera maggiore, Il capitalismo moderno (1902), e nel saggio Das Proletariat (1906). Il modo in cui Sombart si occupò del proletariato fu propriamente quello indicato da Weber quale tipico dell'indagine sociologica: "intendere in virtù di un procedimento interpretativo l'agire sociale" in quanto "atteggiamento umano" di individui che nel loro agire esprimono "un senso soggettivo" in riferimento "all'atteggiamento di altri individui". Sombart indicò nel proletariato una delle classi sociali fondamentali, accanto all'aristocrazia feudale, alla piccola borghesia e alla borghesia. Comprendere il proletariato nella sua duplicità di soggetto portatore di una specifica ideologia, il socialismo, e di "movimento sociale moderno", cogliere le caratteristiche della sua identità ideologica e psicologica, analizzare le forme e la direzione del movimento rappresentava per lui un compito specifico e importante delle scienze sociali.Un interessante riferimento al proletariato fece F. Tönnies in Comunità e società (1887), indicando in esso il prodotto moderno della trasformazione del vecchio 'popolo', "stimolato al pensiero e alla consapevolezza delle condizioni alle quali è incatenato sul mercato del lavoro", spinto a unirsi "in unioni e partiti per compiere un'azione sociale e politica", in virtù della quale queste unioni "diventano soggetti attivi della società".
Un'attenzione complessivamente sporadica e marginale al proletariato dedicò invece M. Weber. Accenni si trovano nel saggio del 1892 sulla condizione dei lavoratori agricoli della Germania oselbica, nella Prolusione del 1895, in pagine sparse del carteggio e in Economia e società (1922). In quest'ultima opera Weber parla per un verso del proletariato moderno con l'intento di assimilarne l'atteggiamento 'razionalistico' in materia di religione, "nella forma dell'indifferenza e del ripudio", a quello della borghesia moderna; per l'altro degli "strati del proletariato economicamente più bassi, più instabili" in quanto, per contro, portati al pari degli "strati della piccola borghesia proletaroide" a cedere all'influenza della religione. Un passo assai significativo è contenuto nella Sociologia della religione. In esso Weber nota che "come il concetto di 'cittadino' mancò dappertutto fuori dell'Occidente e quello di 'borghesia' mancò fuori dell'Occidente moderno [...], così mancò anche il 'proletariato' come classe, e doveva mancare perché mancava appunto l'organizzazione razionale del lavoro libero come impresa". Quindi, al di fuori dell'Occidente, essendo assente "l'antitesi moderna tra imprenditore della grande industria e libero lavoratore salariato", [...] "non poteva neppure esistere una problematica del genere di quella del socialismo moderno". Alla classe operaia nel suo movimento politico Weber dedicò pagine rilevanti nella conferenza del 1918 su Il socialismo. Qui, dove definisce il Manifesto di Marx ed Engels "una realizzazione scientifica di prim'ordine" nonostante i suoi errori di previsione, ma anche "un documento profetico", Weber discute dell'analisi marxiana, del ruolo storico del proletariato, delle correnti rivoluzionarie, del revisionismo e del bolscevismo, mostrando un acuto interesse per l'aspetto chiliastico della mentalità rivoluzionaria degli operai ovvero del senso del loro agire intenzionale, sottolineandone il carattere necessario e inevitabile: "Sono dell'opinione che un mezzo per estirpare dal mondo la fede e le speranze socialiste non esiste. Tutti gli operai saranno sempre socialisti, in un senso o nell'altro".
Un grande rilievo occupa invece il proletariato, esaminato in relazione non già allo sviluppo economico-sociale ma a quello politico-ideologico, nell'opera di R. Michels. Già militante socialista, Michels si occupò del proletariato assumendo come punti di riferimento essenziali da un lato i tipi di risposta dati al problema dell'organizzazione del proletariato dai partiti socialisti e dai sindacati operai, dall'altro le forme della coscienza anticapitalistica. Condividendo nell'essenziale l'impostazione di Sombart, Michels in numerosissimi studi, tra i quali Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano (1905) e La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911), pose in primo piano la questione del rapporto tra coscienza proletaria, movimento organizzato e partito politico alla luce della tesi - chiaramente espressa in quest'ultima opera - che "non è l'esistenza delle condizioni oppressive, bensì piuttosto la sua percezione da parte degli oppressi che costituisce il movente delle lotte di classe". Di qui, per lo scienziato sociale, l'interesse a studiare la coscienza anticapitalistica delle masse, le sue cause e i suoi scopi, i suoi contenuti e le sue forme; elementi che Michels studiò con un precipuo interesse per la tipologia dell'organizzazione e alla luce della "legge ferrea delle oligarchie".
Un serio tentativo di trattare dal punto di vista delle scienze sociali il tema 'proletariato' è stato quello compiuto da G. Briefs, autore di un importante saggio comparso nel 1931 sull'Handwörterbuch der Soziologie ed esponente di primo piano della sociologia dell'azienda. Ciò che caratterizza la classe operaia moderna - osserva Briefs - è il fatto di costituire "un grande movimento sociale" che ha trovato nel definirsi proletariato il proprio nom d'honneur o nom de guerre. Dove non esiste l'ideologia del proletariato non esiste neppure, come negli Stati Uniti, il proletariato stesso; il quale trae la propria esistenza dalla relazione tra l'aspetto oggettivo, ovvero le condizioni di lavoro, e quello soggettivo, ovvero l'orientamento politico-sociale ispirato dalla coscienza di classe. Le masse proletarie non costituiscono soltanto "il mero fondamento materiale di un possibile gruppo sociale", ma anche un'associazione di individui unitisi in un movimento e contraddistinti dal fatto di essere "portatori di reazioni di vario tipo". Bisogna perciò comprendere "nel proletariato in senso sociologico quello strato di proletari che dalla propria condizione di vita economica e sociale è spinto a sviluppare specifiche reazioni". Sicché il concetto sociologico di proletariato abbraccia una pluralità di comportamenti sociali, nel contesto generale di una società diversificata. Di qui la conclusione che, in una società in cui eserciti la propria dittatura, il proletariato cessi di essere tale "in senso sociologico".
L'analisi sociologica del proletariato si misura pertanto in relazione: a) alla diversità e alla globalità delle condizioni della società capitalistica e alla tipologia delle forme organizzative e degli scopi che esso si dà (sindacato, partito, orientamento rivoluzionario totalizzante, orientamento rivendicativo gradualistico e solidaristico, sindacalismo rivoluzionario, ecc.); b) al fatto che esso può esercitare il proprio ruolo in paesi capitalistici sviluppati o in paesi poco e sottosviluppati. Briefs ha altresì impostato l'analisi dei fattori che determinano la spinta alla 'sproletarizzazione'. Questi fattori egli li individua in processi che, nella loro molteplicità, tendono a dissolvere o a contrastare l'autonomia e la stabilità del proletariato come cosciente movimento sociale unitario nella società capitalistica: processi quali nella società sovietica l'abolizione del capitalismo, e nei paesi capitalistici l'imborghesimento degli strati superiori, le tendenze e gli ordinamenti corporativi, le istituzioni sociali dello Stato - che, mentre migliorano le condizioni materiali dei proletari, ne minacciano d'altra parte la spinta alla solidarietà sulla base del senso dell'insicurezza -, lo sviluppo dei nuovi ceti medi che contrasta il processo di proletarizzazione impedendo il confronto senza mediazioni tra borghesia e proletariato previsto da Marx.
Esattamente vent'anni dopo il saggio di Briefs il problema del ruolo delle classi medie nel capitalismo avanzato americano venne affrontato da C. Wright Mills in Colletti bianchi (1951). Mills si poneva esplicitamente il problema se la sempre più massiccia trasformazione dell'impiegato in lavoratore salariato - separato "dal prodotto del proprio lavoro", al pari dell'operaio "alienato dal prodotto del suo lavoro", e collocato ormai in una "posizione strutturale [...] sempre più simile" a quella del lavoratore di fabbrica sia per reddito sia per livellamento della specializzazione - fosse tale da giustificare la tesi avanzata da studiosi e ideologi di indirizzo tardomarxista secondo cui andava formandosi una 'nuova classe operaia' ovvero un nuovo proletariato. Nel respingere questa posizione Mills ha sottolineato due aspetti della differenziazione qualitativa dei colletti bianchi dal proletariato come "movimento sociale". Egli ha osservato, in primo luogo, che il contesto in cui si compie il processo di routinizzazione e di qualificazione delle prestazioni della massa dei colletti bianchi è quello della razionalizzazione burocratica descritta da Weber; in secondo luogo che, in conseguenza, non si assiste alla trasformazione degli impiegati salariati nullatenenti e alienati in un soggetto politico, bensì alla loro persistenza in uno stato di apoliticismo e subalternità. La storia dei colletti bianchi è "priva di eventi". Se pure gli impiegati "hanno interessi comuni", questi non sono tali da farne "una classe omogenea"; sicché "se avranno un futuro, non sarà certo opera loro", essendo la loro una tendenza a seguire "il blocco o movimento che risulti più chiaramente vincente".
Muovendo da una problematica per molti aspetti analoga a quella di Mills, lo studioso marxista americano H. Braverman, nel suo libro Lavoro e capitale monopolistico: la degradazione del lavoro nel XX secolo (1974), giunge ad assimilare direttamente gli strati impiegatizi salariati, trasformati in "proletariato commerciale", al proletariato di fabbrica. Premesso di voler studiare il proletariato "come classe in sé e non per sé", respinta "l'arbitraria concezione di una nuova classe operaia", stabilito che occorre studiare "la classe nel suo insieme", Braverman esamina i fattori che portano i lavoratori d'ufficio a diventare parte costitutiva del proletariato. Il lavoro d'ufficio vede la "riduzione del lavoro mentale allo svolgimento ripetitivo della stessa limitata serie di funzioni", così da creare un'equivalenza con le funzioni svolte dalla "mano d'opera dell'operaio parziale in produzione", fino all'eliminazione del "processo mentale" e alla prevalenza del lavoro manuale. La routine d'ufficio si converte in "un processo lavorativo simile a quello che si svolge in fabbrica". Laddove il proletariato industriale è stato il prodotto del capitalismo premonopolistico, il lavoro impiegatizio proletarizzato è il prodotto del capitale monopolistico. Ne è derivata la formazione di "un'immensa massa di salariati" e "l'apparente tendenza alla nascita di un grande 'ceto medio' non proletario si è risolta nella creazione di un grande proletariato in forma nuova": un "proletariato commerciale". Tanto che i lavoratori d'ufficio e i lavoratori di fabbrica "formano una massa continua di lavoro che, attualmente, a differenza dai tempi di Marx, ha tutto in comune".
Un uso del tutto anomalo e fuori dalle correnti interpretative di matrice marxista, diretta o indiretta, ha fatto della categoria 'proletariato' A. Toynbee in A study of history (1934-1954). Nella sua concezione il proletariato non ha nulla a che fare con il rapporto tra operai e capitalisti nel capitalismo moderno. Esso è una categoria introdotta per indicare in generale la condizione degli esclusi, presente in ogni tempo e forma di società, i quali si trovano in una risentita opposizione alla "minoranza dominante". Questa la definizione che Toynbee dà di proletariato: "qualsiasi elemento o gruppo sociale che in certo modo sia componente, ma non partecipi di una data società in un qualunque periodo della storia di essa".A questa condizione partecipano - egli spiega in riferimento al mondo greco-romano - gli esclusi del più vario tipo (esiliati, disoccupati, liberi cittadini sradicati, aristocratici emarginati, appartenenti a corpi politici in disgregazione, cristiani, barbari, ecc.), poiché "il vero marchio del proletario non è la povertà né la nascita umile ma la convinzione - il risentimento che questa convinzione ispira - di essere diseredato dal suo posto ancestrale nella società". "Impoverimento spirituale" e "impoverimento materiale" sono i fattori costitutivi del proletariato. Toynbee poi divide il proletariato in "interno" ed "esterno". Il primo si colloca entro una civiltà, il secondo al suo esterno. Entrambi devono il loro fondamento genetico a "un atto di secessione della minoranza dominante di una civiltà che è crollata"; senonché l'uno "continua a essere geograficamente mescolato con la minoranza dominante dalla quale è diviso da un abisso morale", mentre l'altro "è non solo moralmente alienato ma anche fisicamente diviso dalla minoranza dominante da una frontiera che si può segnare sulla carta geografica". In tal modo il proletariato - il cui stato oggettivo è quello dell'alienazione e lo stato soggettivo quello del risentimento diretto nei confronti di ogni minoranza dominante - diviene un'entità presente in tutte le civiltà, al di fuori del loro grado e tipo di sviluppo economico, sociale e istituzionale.
Nel definire il proletariato Toynbee prendeva quindi dal marxismo l'idea dell'alienazione e del risentimento contro l'ordine esistente, ma sostituiva al meccanismo storicamente determinato dello sfruttamento capitalistico la posizione di dominio delle minoranze in tutte le civiltà della storia.
Come nell'Ottocento e in gran parte del secolo seguente la formazione e lo sviluppo della classe operaia nel sistema della grande fabbrica e la costituzione e l'azione delle organizzazioni politiche e sindacali variamente legate al movimento operaio costituirono le cause che diedero grande forza al proletariato, così negli ultimi decenni del Novecento la riduzione progressiva del peso della grande fabbrica nel sistema produttivo, la drastica diminuzione del numero degli operai proprio nei paesi maggiormente sviluppati, la crescita dei servizi e dei processi di automazione nei luoghi di produzione, la riduzione in posizioni di crescente marginalità delle forze politiche che si ispirano al marxismo nei paesi capitalistici, e infine il crollo epocale del sistema comunista nell'Unione Sovietica e nei paesi europei dell'Est hanno provocato, nel concorso dei loro effetti, prima la crisi e poi la scomparsa del proletariato come movimento politico e sociale autonomo e rivoluzionario.
Alla fine degli anni sessanta e nel corso degli anni settanta la categoria del 'proletariato' ha avuto un rilancio di carattere esteriore e propagandistico da parte di gruppi eversivi - specie europei e latino-americani-neoleninisti, neotrockisti e maoisti -, espresso in elaborazioni di carattere essenzialmente ideologico e agitatorio. Questi gruppi, di fronte alla riduzione quantitativa della classe operaia nelle aree di capitalismo avanzato e alla sua di gran lunga prevalente deradicalizzazione politica ovvero al ritorno della classe da "per sé" a "in sé", hanno tentato di rivitalizzare il movimento rivoluzionario facendo appello in primo luogo agli strati più poveri e instabili, vuoi urbani vuoi agrari, delle società capitalistiche. Essi hanno cercato di mobilitare, in quanto soggetto rivoluzionario, il 'nuovo proletariato' - formato in larga misura da operai di recente immigrazione nei grandi centri urbani e da emarginati tradizionalmente considerati dai marxisti 'sottoproletari' - contro il proletariato 'imborghesito' e 'spoliticizzato' e le sue organizzazioni sindacali e politiche. Anche per questa via la vicenda del 'proletariato moderno', portata all'attenzione della cultura storica, politica e sociologica da von Stein, Engels e Marx, è giunta al suo esaurimento.
(V. anche Borghesia; Capitalismo; Classi e stratificazione sociale; Classi medie; Comunismo; Marxismo; Operai; Socialismo).
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