pronuncia
Pronuncia è il termine correntemente usato, anche dai non specialisti, per designare il modo di articolare i suoni di una lingua (si parla infatti di pronuncia della erre, di difetto di pronuncia, ecc.) e l’insieme delle caratteristiche fonetiche peculiari di una lingua (per es., pronuncia del tedesco, pronuncia meridionale, ecc.).
La nozione di pronuncia si definisce da un lato in opposizione a quella di scrittura (➔ alfabeto; ➔ grafia; ➔ ortografia), dall’altro a quella di rappresentazione fonologica (➔ fonologia): ma, rispetto alla scrittura, la pronuncia è meno stabile e più mutevole; rispetto alla fonologia di una lingua, ha carattere più variabile e per certi versi anche individuale, comunque meno codificato.
Designando genericamente il modo di parlare, la dizione, l’accento (si parla allora, ad es., di pronuncia chiara, trascurata, nasale), il concetto di pronuncia può racchiudere anche aspetti di tipo più schiettamente prosodico, denominati accento, cadenza, calata, cantilena. Si capisce pertanto come esso, pur essendo di dominio pubblico, non sia facilmente delimitabile in termini rigorosi.
I diversi tipi di pronuncia possono essere inquadrati in base allo stile d’eloquio adottato dal parlante. Dimensioni plurime si intersecano nell’analisi dei diversi stili di pronuncia.
Un aspetto rilevante è l’accuratezza dell’eloquio: una pronuncia può essere più o meno accurata, più o meno trascurata. Dal punto di vista dell’analisi fonetica (➔ fonetica), questi concetti sono stati ridefiniti a partire da Lindblom (1990), che ha elaborato la cosiddetta teoria H&H, secondo cui la qualità dell’articolazione si distribuisce lungo una scala, tra l’iperarticolazione e l’ipoarticolazione (ingl. hyperarticulation-hypoarticulation), cioè la pronuncia netta e precisa contro la pronuncia, trascurata e sciatta. Lo spazio tra i due poli è continuo e non discreto: al suo interno si collocano i vari tipi di pronuncia secondo il grado di maggiore o minore precisione articolatoria utilizzata. Siccome la comunicazione è un processo bidirezionale, alla massima precisione e al massimo sforzo articolatori messi in atto dal parlante che iperarticola corrisponde uno sforzo uditivo minimo da parte dell’ascoltatore; viceversa, al minimo sforzo articolatorio tipico di stili ipoarticolati è associato il massimo sforzo uditivo e cognitivo dell’ascoltatore, il quale tenderà a recuperare dal contesto extralinguistico le informazioni che gli occorrono per la decodifica.
Al polo della iperarticolazione fanno capo i cosiddetti stili di citazione (molto praticati nelle ricerche di fonetica per ottenere forme cosiddette prototipiche) e il parlato cosiddetto clear (clear speech), ovvero quel tipo di eloquio solitamente adottato in situazioni comunicative ‘difficili’: in contesti di rumore ambientale; nella comunicazione diretta al bambino (il ➔ baby talk), a soggetti non normoudenti, a stranieri (il ➔ foreigner talk); nel parlato ad alta voce; nel parlato emesso durante una comunicazione simultanea e in quello prodotto a grandi distanze dall’ascoltatore (per l’italiano, cfr. Calamai 2008). Si tratta di un parlato di tipo enfatico, in genere più lento e di maggiore intensità, con più pause e con segmenti vocalici più lunghi. Per quanto riguarda in particolare i suoi effetti acustici, si registra un tendenziale aumento della prima formante per le ➔ vocali e le sonoranti (➔ fonetica articolatoria, nozioni e termini di), una maggiore estensione dello spazio vocalico (Krause & Braida 2003; Smiljanić & Bradlow 2005), così come un aumento e una maggiore modulazione della frequenza fondamentale.
Al polo opposto si situa il parlato ipoarticolato, caratterizzato dalla massima imprecisione e trascuratezza articolatoria e dal mancato raggiungimento dei bersagli acustici: ad es., i foni sono altamente variabili e spesso ridotti; in particolare le vocali tendono a occupare spazi meno periferici e più centralizzati; talvolta sono omessi interi segmenti nella sequenza fonica.
La dimensione iperarticolazione-ipoarticolazione si intreccia con quella concernente il continuum formale-informale (➔ registro), che coinvolge tutti i livelli di lingua, non solo il dominio fonetico. In linea di massima il parlato iperarticolato è associabile a uno stile formale, quello ipoarticolato a uno stile informale. Detto altrimenti, la formalità dell’eloquio è veicolata anche dall’accuratezza della pronuncia.
Una dimensione ulteriore, collegata alle precedenti, è la velocità dell’eloquio (intesa come numero di sillabe pronunciate entro un certo lasso di tempo, solitamente un secondo): stili iperarticolati sono in genere collegati a basse velocità d’eloquio, stili ipoarticolati ad alte velocità d’eloquio. Studi di fonetica sperimentale hanno tuttavia dimostrato come sia possibile, per i parlanti, produrre un tipo di parlato accurato anche a velocità sostenuta e, viceversa, come sia possibile avere una pronuncia ipoarticolata pur all’interno di un parlato lento (Nolan 1996).
Una delle conseguenze più vistose del fatto che l’italiano è una lingua scarsamente parlata si ha sul piano fonetico. Manca uno standard parlato, perché la pronuncia dell’italiano che si è formata a partire dall’unificazione ha subito una forte interferenza delle fonologie locali: più che essere una vera e propria fonologia, dunque, è stata per molto tempo soltanto una mera pronuncia, ovvero una resa orale dello scritto (Mioni 1993; Schmid 1999; Bertinetto & Loporcaro 2005). Non esiste un corrispondente italiano della received pronunciation inglese: la pronuncia delle persone colte «in ogni regione è più simile alla pronuncia delle persone incolte della stessa regione che alla pronuncia delle persone colte di altre regioni» (Lepschy & Lepschy 1981: 13).
Risulta quindi difficile definire un unico sistema fonologico della lingua italiana: abbiamo almeno una ventina di fonologie differenti, dalla fisionomia più o meno marcatamente regionale (➔ italiano regionale). I regionalismi fonologici sfuggono alla censura del parlante: talvolta non ci rendiamo conto di quali e quante caratteristiche regionali affiorino anche in un eloquio sorvegliato. Difficilmente emergono nella lingua scritta, a differenza dei regionalismi morfologici, lessicali e sintattici; eppure mostrano a livello dell’oralità un potere molto elevato di caratterizzazione: è relativamente facile individuare la provenienza dei parlanti, anche a partire da segmenti di parlato di breve durata.
La storia linguistica dell’italiano è costellata da polemiche e da prese di posizione, anche intrise di pregiudizi e di campanilismi, in merito alla questione della pronuncia (➔ norma linguistica). Potremmo individuare, con un po’ di approssimazione, due filoni opposti: uno (sostenuto da studiosi come Giulio Bertoni, Arrigo Castellani, Piero Fiorelli, Giuseppe Malagoli, Ornella Castellani Pollidori, Carlo Tagliavini, Francesco Alfonso Ugolini), genericamente etichettabile come purista (➔ purismo; ➔ neopurismo), che propone una visione prescrittiva della corretta pronuncia, basata sull’italiano di Firenze o, in certi periodi storici, sull’asse Firenze-Roma (➔ aree linguistiche); uno, più tollerante e orientato ad affrontare la descrizione delle varie pronunce locali e regionali (Giulio C. Lepschy, Luciano Canepari), che risulta ispirato a «un massimo di liberalismo linguistico» (Lepschy 1978d: 103).
In realtà, l’opposizione alla pronuncia toscana viene da molto lontano e «data, si può ben dire, dalla nascita della questione della lingua italiana nel Rinascimento» (Sorella 2001: 9). Un modello di standard parlato sarebbe il cosiddetto fiorentino emendato, basato sulla pronuncia colta di Firenze, da cui vengono però espunti alcuni tratti marcatamente locali, come, ad es., la ➔ gorgia toscana. Il modello è stato poco praticato nell’insegnamento scolastico, poiché per certi versi artificioso (i fiorentini colti non si curano necessariamente di eliminare dalla pronuncia le loro peculiarità dialettali), e in pratica non è appreso da nessun parlante come lingua materna: vale piuttosto come punto di riferimento normativo. È solitamente usato da alcune categorie di ‘professionisti della parola’, da insegnanti particolarmente sensibili alla correttezza linguistica, nella recitazione teatrale, nel doppiaggio (➔ doppiaggio e lingua), nei notiziari radiotelevisivi nazionali (in alternanza, in tempi più recenti, a pronunce locali, specie romane o settentrionali). Tale pronuncia è consigliata dai manuali di ortoepia (quali Malagoli 1905 e Camilli & Fiorelli 1965), dai corsi di dizione (Fiorelli 1964; Tagliavini 1965), dai trattati di fonetica e dai vocabolari, in particolare il Dizionario d’ortografia e di pronunzia (Migliorini, Tagliavini & Fiorelli 1969; in sigla DOP), destinato – come si specifica nell’Introduzione – «in primo luogo agli annunciatori, ai lettori, ai presentatori, agli attori, a tutti in generale i professionisti del microfono». Al giorno d’oggi, la pronuncia dei ‘professionisti della dizione’ non corrisponde più esattamente a quella indicata dai dizionari della lingua italiana, e neppure a quella fornita dagli specifici repertori di ortoepia: pronunce alternative sono di gran lunga più tollerate (Galli de’ Paratesi 1984: 53; Canepari 19992: 21).
La storia del parlato teatrale, radiofonico, filmico, televisivo è anche la storia della progressiva emancipazione da un tipo di pronuncia spesso avvertito come inautentico (➔ lingua e media; ➔ radio e lingua; ➔ televisione e lingua; ➔ pubblicità e lingua). La radio e il teatro di prosa hanno rappresentato infatti per molti anni uno dei pochi luoghi di realizzazione della pronuncia modello: la pronuncia degli annunciatori radiofonici delle reti nazionali – così come quella degli attori nelle compagnie teatrali nazionali – è talvolta ancora priva di tratti regionali e altamente standardizzata. Il quadro cambia sensibilmente nelle radio locali, che danno ampia cittadinanza a pronunce regionali e substandard. Più del teatro, il cinema ha cercato di seguire le diverse anime della lingua reale: da un italiano uniforme e medio, per certi versi astratto, lontano sia dall’uso letterario sia dall’uso vivo, tipico del cinema degli anni ’30 del Novecento, si è passati nei decenni successivi a un italiano più attento ai registri e alle varietà locali. Un cammino parallelo, forse ancora più drastico, è stato seguito dalla televisione: dai modelli standard tosco-romani dei primi decenni della televisione pubblica (1956-1976) a una varietà di pronunce estremamente difformi, più o meno regionali, nell’epoca delle emittenti private.
Chi ripercorre le indicazioni dei manuali compie anche un cammino nella storia culturale e linguistica italiana. Si leggano a questo proposito le indicazioni di Malagoli (1905), che si proponeva di «offrire un’ordinata esposizione delle norme onde si regolano ora la nostra pronunzia, a cui si fa grave offesa fuori di Toscana» (p. VII): esse sono desunte «dall’uso vivo fiorentino», che si riferisce «non alla pronunzia dell’infimo popolo di Firenze [...] ma alla pronunzia della parte migliore di esso popolo, che ha corretto e temperato certe sue primitive particolarità, non gradite a’ buoni orecchi» (p. 2).
Il Prontuario di pronuncia e di ortografia di Giulio Bertoni & Francesco Ugolini, manuale ufficiale della radio in epoca fascista (il Prontuario uscì nel 1939; ➔ fascismo, lingua del), auspicava invece una sorta di compromesso tra pronuncia fiorentina e pronuncia romana (con una certa propensione per quella romana), proponendo di «rinunciare, nei casi di pronunzie discrepanti, a una sistemazione fondata sulla grammatica storica» e di scegliere l’uso «vivo» di Firenze oppure l’uso «vivo» di Roma:
I. Quando Firenze si accorda, come avviene quasi sempre, con Roma, si accetterà la pronunzia fiorentina e romana (per es. néve, fórno, mòdo, ecc.)
II. Questa pronunzia sarà accolta anche quando le altre città toscane non si accordino con Firenze (per es. nève a Siena, Pisa, ecc. contro néve di Firenze)
III. Quando Roma non si accordi con Firenze, due strade ci stanno aperte dinanzi: o accettare, sull’esempio dei nostri attori, la pronunzia fiorentina colta, come quella della culla della nostra lingua letteraria, ovvero accettare la pronunzia colta di Roma, come quella della Capitale in cui si foggia, con la storia, la lingua della patria
Noi proponiamo la pronunzia della capitale. […] Siamo convinti che, mentre la pronunzia di Firenze ha per sé il passato, quella di Roma ha per sé l’avvenire
L’enfasi sul valore simbolico della capitale e l’affermarsi della radio che proprio da Roma diffondeva le prime trasmissioni, con giornalisti nella maggior parte dei casi di provenienza romana, imposero le varianti di pronuncia romane accanto a quelle toscane, secondo quell’asse Roma-Firenze teorizzato proprio da Bertoni e Ugolini, a legittimare una «lingua toscana in bocca romana». Simili prese di posizione portarono a una certa tolleranza nei confronti delle varianti locali, rendendo nel contempo piuttosto provinciale la pronuncia toscana:
sancire l’accettabilità della pronuncia romana colta significava suggerire ai dirigenti della radio pubblica la possibilità di reclutare, in un’Italia ancora fortemente dialettofona, “voci” largamente disponibili nella stessa sede romana, tali da non richiedere un troppo lungo esercizio di ortofonia e nello stesso tempo – proprio per questo – sufficientemente naturali (Sorella 2001: 21).
Del resto, la forza della radio andava realmente imponendo la pronuncia romana, al punto che nel 1945 Migliorini propose di adottare in ogni caso la pronuncia sorda della s intervocalica (Migliorini 1945: 22); ➔ indebolimento. La questione viene ripresa da Tagliavini (1965: XII-XV), la cui posizione appare più orientata sulla pronuncia di Firenze:
Ma quale deve essere la pronuncia italiana unitaria? Si torna, in altre parole, in epoca contemporanea, a riproporre il problema in termini del tutto analoghi a quelli posti più di un secolo fa per la lingua scritta, per la lingua letteraria, e risolti con la riforma manzoniana. […] La lingua scritta […] è quella lingua che ha certamente il pieno diritto di chiamarsi italiana, perché è scritta e compresa da tutti gli Italiani, ma che, per le sue caratteristiche distintive, è essenzialmente toscana, anzi fiorentina. […] Non si tratta, si badi bene, di sottomettersi, in fatto di lingua, a una specie di «tirannide» di Firenze […], ma si tratta di adottare anche per la lingua parlata […] la stessa formula che lo sviluppo storico della lingua […] ha ormai consacrato per la lingua letteraria scritta […]. D’altra parte questa soluzione è già stata raggiunta, senza eccessivi sforzi e senza necessità di giustificazioni teoretiche, dal teatro. […] Anche la radio e la televisione hanno cercato annunciatori con buona pronuncia «esente da inflessioni dialettali» e in parecchi casi ci sono riusciti attraverso speciali corsi di preparazione fonetica e ortoèpica. Perché ciò che si ottiene nelle accademie di arte drammatica, nelle scuole di recitazione, nei corsi […] della RAI-TV non si deve poter ottenere anche nelle nostre scuole elementari e medie?
Una posizione più aperta è quella di Camilli (in Camilli & Fiorelli 1965: 15-22):
La pronuncia dell’italiano letterario […] varia principalmente secondo le regioni, le classi sociali, la qualità del discorso. […] Ma non c’è un luogo, né una classe, né un tipo di discorso che si possano prendere a esclusivo modello di buona pronuncia. Specialmente la questione del luogo a cui si dovrebbe attingere la pronuncia «vera» (Firenze) è mal posta. Da quando il tipo fiorentino s’è imposto all’Italia, tutte le classi sociali […] di tutta la penisola, hanno collaborato all’evoluzione e all’arricchimento dell’italiano. […] Dove c’è divergenza […], Firenze non ha alcuna autorità superiore. […] Non esiste un tipo di pronuncia assolutamente buono, e i diversi tipi riguardati come «buoni» valgono non per sé, ma secondo le persone, i modi, le circostanze. […] Chi si accinge a descrivere la pronuncia dell’italiano non può limitarsi a scegliere un tipo tenendosi solo a quello, ma ha l’obbligo di far conoscere tutte le varietà accolte nella repubblica dei ben parlanti. […] E siccome tra i diversi tipi di «buona pronuncia» ce n’è uno (quello che i nostri migliori attori attuano su la scena) da tutti nel suo ambito ritenuto eccellente e l’unico da consigliare a chi l’italiano debba apprendere, noi chiameremo questo tipo «pronuncia normale» e le raggrupperemo intorno le varietà normali e volgari.
Tuttavia, come precisa Fiorelli nell’apparato di note (Camilli & Fiorelli 1965: 16), la cosiddetta pronuncia normale descritta da Camilli
combacia fin nei particolari con quello che, «concordemente presentato dai teorici della fonetica italiana come la pronunzia tipo dell’italiano senz’aggettivi», nel suo aspetto di sistema fonologico è qualificato dal Dizionario Enciclopedico Italiano come «toscano» o più specificamente «fiorentino», in quanto coincide integralmente col sistema fonologico della parlata (popolare non meno che colta) di Firenze.
Parimenti, per Castellani (1980: 53) appare «ovvio che la pronuncia fiorentina sia considerata – in ciò che ha d’essenziale – come la pronuncia italiana per eccellenza».
Proprio sul concetto di «modello» concentra le proprie critiche Lepschy (1978b: 69-70), dal momento che in molti studi sulla fonologia dell’italiano manca una distinzione fra i diversi tipi di italiano e non è possibile intendere il fiorentino colto come «italiano senz’aggettivi»:
L’italiano ha varie pronunce regionali, e dichiararne una sola «italiana» significa compiere surrettiziamente un giudizio di valore addirittura prima dell’analisi, assimilando tale giudizio alle definizione stessa dell’oggetto da analizzare. […] Mi pare utile moltiplicare gli aggettivi che qualificano l’italiano, descrivere con la massima precisione gli italiani locali (e il fiorentino colto non è altro che uno di questi) i cui sistemi fonematici possono essere ben diversi.
Se è molto raro che un parlante italiano modifichi deliberatamente il proprio modo di parlare (a meno che non si tratti di categorie professionali quali attori, dicitori, radiocronisti), la questione diventa rilevante nella didattica dell’italiano a stranieri (cfr. § 8): quale pronuncia d’italiano insegnare a parlanti che non hanno l’italiano come madrelingua? Si pensi alle opposizioni fonologiche di scarso rendimento funzionale, quali, ad es., quelle relative alle ➔ vocali medie toniche, alle ➔ affricate alveolari e alle ➔ sibilanti sorde e sonore: in questi casi
le pronunce che secondo le descrizioni normative sarebbero non standard sono di fatto normali, vengono regolarmente accettate ed usate anche da parlanti colti e appartengono dunque […] a quello che usualmente si chiama italiano standard (Lepschy 2005: 17).
Si giunge in questo modo a una visione molto tollerante e antiprescrittiva, che auspica, nella scuola, l’insegnamento della fonologia, più che le regole della corretta pronuncia (Lepschy 1978d: 99). L’affermazione dell’italiano come lingua nazionale ha seguito del resto una vera e propria gerarchia, con il massimo di unificazione e standardizzazione nella scrittura e nella morfologia e con il minimo di uniformità nel lessico (si pensi all’inchiesta geolinguistica di Rüegg (1956), che mostrò appunto una elevatissima differenziazione lessicale) e nella pronuncia, dove le differenze regionali sono ancora estremamente marcate. A differenza della posizione definita puristica, per la quale solo la pronuncia fiorentina dell’italiano è corretta, per Lepschy & Lepschy (1981: 13) non esiste un problema serio di pronuncia per gli italiani, i quali «fanno benissimo a conservare, se vogliono, le loro pronunce locali».
Una prospettiva per certi versi simile è adottata da Luciano Canepari, i cui manuali e dizionari di pronuncia (vedi, ad es., Canepari 19992 e 20002) offrono spazio anche a diverse varianti: la pronuncia tradizionale di base toscana-fiorentina; quella «moderna, attuale, senza peculiarità», quella «accettabile», caratterizzata da una certa diffusione nell’Italia centrale, quella infine «tollerata», sempre localizzabile nel centro Italia, ma con una minore diffusione.
I punti di crisi nella pronuncia dell’italiano, che certificano per certi versi la decadenza del modello fiorentino, sono quelli solitamente non rappresentati nella ➔ grafia (cfr. § 5). Dei sette tratti fonologici indicati da Sabatini (1985: 156-157) per la definizione dell’italiano «dell’uso medio», tre riguardano appunto opposizioni fonologiche non rispecchiate nell’ortografia (timbro delle vocali medie, distinzione tra sibilante sorda e sonora, ➔ raddoppiamento sintattico). Il regresso della i prostetica (➔ vocale di appoggio) e della d eufonica, il regresso dell’➔ elisione e del ➔ troncamento, la dismissione della regola del dittongo mobile (➔ dittongo) sono le altre tendenze fonologiche che concorrono a rafforzare l’autonomia lessicale della parola (cfr. § 7).
Il sistema grafico dell’italiano è di tipo fonetico: rispetto a lingue come il francese e l’inglese, le differenze tra grafia e pronuncia sono piuttosto limitate (➔ lingue romanze e italiano). Si vedano le tabelle seguenti, che riportano i ➔ grafemi dell’italiano e la corrispondente realizzazione fonologica: sono pochi i fonemi omografi (tab. 1) e ugualmente pochi quelli eterografi, ovvero rappresentati con diversi grafemi o combinazioni di grafemi (tab. 2).
La ➔ grafia dell’italiano può essere fatta risalire, nei suoi aspetti principali, al Cinquecento: l’indirizzo fonetico impresso dai letterati «rappresentò, dopo la moda etimologizzante di stampo umanistico che si era imposta nel secolo precedente, una coraggiosa innovazione» (Maraschio 1993: 139). Tuttavia, fuori di Toscana, la pronuncia dell’italiano è diventata quasi ovunque una spelling pronunciation (Mioni 1982: 497; Berruto 1987: 97), ovvero una pronuncia basata essenzialmente sulla grafia (come, ad es., la pronuncia cami[ʧje] di camicie), con un ribaltamento per certi versi paradossale:
mentre [nel Cinquecento] sulla base del modello fonologico fiorentino è stato costruito un sistema grafico abbastanza coerente, oggi invece si tende a normalizzare sulla grafia una pronuncia nazionale ancora assai differenziata regionalmente (Maraschio 1993: 141)
Come osserva Migliorini (1990: 17), «la lingua parlata “di tinta scritta” è […] la norma, specie nell’Italia Settentrionale e Meridionale, in cui […] la lingua si apprende in minor parte per la via degli orecchi e in maggior parte per la via degli occhi».
Visto che la norma è data dalla grafia, le maggiori oscillazioni si riscontrano proprio dove questa è ambigua: l’assenza di accento grafico è all’origine della diffusione di forme quali mòllica e còncime; parimenti, il rapporto non biunivoco tra grafema e fonema è alla base di oscillazioni quali tr[e] ~ tr[ɛ], n[o]me ~ n[ɔ]me, [ʣ]aino ~ [ʦ]aino, na[s]o ~ na[z]o. Le diversità regionali acquistano un particolare rilievo nei casi in cui la grafia non rappresenta certe distinzioni fonetiche: le vocali medie (semichiuse e semiaperte), le sibilanti (sorde e sonore), le affricate alveolari (sorde e sonore), il ➔ raddoppiamento sintattico, le ➔ consonanti cosiddette lunghe per posizione (➔ quantità fonologica). Si tratta nella maggior parte dei casi di fonemi ➔ omografi che nella grafia tradizionale sono rappresentati dalla stessa lettera (‹e›, ‹o›, ‹s›, ‹z›). Il problema si pone anche per le ➔ semivocali, che hanno la medesima grafia delle vocali omorganiche ‹i› e ‹u›. Neppure il raddoppiamento fonosintattico, in genere non segnalato dalla grafia, viene realizzato nell’italiano dei settentrionali (se non in pronunce enfatiche, con regole peraltro non necessariamente coincidenti con quelle toscane), mentre è presente nel parlato meridionale, ma sempre secondo modalità locali diverse da quelle toscane.
In Italia dunque la fonologia toscana è stata assimilata nella misura in cui era chiaramente visibile nella grafia, e le varianti di fonemi non individuabili nell’ortografia sono regredite a regionalismi toscani (De Mauro 19702: 175; Sabatini 1985: 156). La grafia è stata dunque un freno alla ➔ gorgia toscana e a diversi altri fenomeni fonetici provenienti dal Nord (per es., lo ➔ scempiamento delle consonanti intense) e dal Sud (ad es., i raddoppiamenti delle [b] intervocaliche; ➔ raddoppiamento espressivo). Il carattere quasi fonematico dell’ortografia italiana (insieme al conservatorismo fonologico del toscano, così prossimo alla base latina) e la scarsa diffusione dell’italiano parlato, almeno fino agli anni ’60 del Novecento, sono all’origine dell’«imponente graficizzazione» (De Mauro 19702: 227) della fonologia italiana.
L’influenza della grafia sembrerebbe avvertibile anche sul piano stilistico: i processi fonetici non sembrerebbero tali da provocare differenze profonde fra il tempo più lento e quello più veloce, dal momento che la forma scritta dell’italiano costituirebbe un limite effettivo alle realizzazioni fonologiche: «ben poco si può aggiungere al numero di grafemi usati, in termini di numero di foni» (Gnerre 1976: 289).
Le pronunce locali e regionali sono ben tollerate e non subiscono pressioni sociali eccessivamente forti: le parlate (gli accenti o, popolarmente, le calate) qualificano il parlante da un punto di vista geografico prima che sociale.
La tolleranza di fronte a pronunce devianti è di gran lunga maggiore rispetto a quella che colpisce le deviazioni dalla norma grafica. In altre parole, le pronunce regionali (➔ italiano regionale) sono molto meno censurate rispetto alle grafie regionali: «chi scrive subbito è considerato un ignorante, chi dice [ˈsubbito] passa inosservato o quasi» (Serianni 2000: 10). Se per un parlante diventa possibile (e per taluni puristi, anche auspicabile) eliminare le caratteristiche articolatorie più macroscopiche della propria pronuncia originaria, più difficoltoso risulta modificare le strutture intonative (➔ accento; ➔ intonazione; ➔ prosodia), che spesso, inequivocabilmente, rappresentano una vera e propria ‘carta d’identità’: tutti in Italia parlano con un certo accento.
Gli studi sugli italiani regionali hanno mostrato come le differenze maggiori si collochino proprio sul piano fonologico, che riveste un forte potere di caratterizzazione, tra i vari italiani regionali e tra ciascun italiano regionale e l’italiano comune (➔ italiano regionale). Il ritardo delle ricerche d’impianto sociolinguistico nella Penisola e il carattere piuttosto conservativo di molti studi dialettologici (la ricerca del dialetto arcaico e più tipico) hanno impedito indagini quantitative sulle differenti pronunce di italiano e sulle forme di italianizzazione delle parlate locali e regionali, sul piano segmentale e prosodico. Esistono piuttosto studi su singole varietà locali, nei quali si trovano rassegne delle principali differenze rispetto al fiorentino (Sobrero 1988).
Tra le caratteristiche fonetiche che concorrono a caratterizzare una varietà, alcune particolarmente salienti appaiono veri e propri fenomeni bandiera, in grado di classificare il parlante come, ad es., milanese, bolognese, napoletano. A questi viene talvolta dato il nome di shibboleth. La parola si riferisce a un episodio biblico (Giudici XII, 5-6): per verificare se i fuggiaschi di Efraim appartenevano al popolo degli Efraimiti, i Galaaditi chiedevano loro di pronunciare la parola shibboleth che in ebraico significa «torrente»: se questi la pronunciavano male dicendo sibboleth, alla maniera appunto degli Efraimiti, allora venivano uccisi. Così, la pronuncia ama[h]a per amaca e B[æ]ri per Bari sono due shibboleth in grado di identificare il parlante rispettivamente come fiorentino e come barese.
Il numero e le tipologie degli italiani regionali divergono a seconda della prospettiva adottata (una rassegna in Sobrero 1988). Esistono senza dubbio caratteristiche e tendenze fonetiche che accomunano più aree geografiche (v. le cartine geofoniche di Canepari 19992). Per quanto riguarda la vitalità delle opposizioni relative alle ➔ vocali medie, in alcune parlate regionali si ha solo un timbro (ad es., nel Veneto, in Sicilia, in Sardegna); in altre, l’opposizione si manifesta in maniera diversa rispetto alla varietà toscana e mostra di subire condizionamenti sillabici e prosodici. Nelle parlate settentrionali la lunghezza consonantica (➔ quantità fonologica) non viene prodotta: a livello colto l’opposizione tra scempie e doppie mantiene una certa vitalità solo per quelle consonanti che risultano doppie anche dall’ortografia, mentre le consonanti lunghe per posizione, la cui lunghezza non è segnata graficamente, presentano al contrario una pronuncia prevalente scempia. Per le stesse ragioni, manca il raddoppiamento sintattico.
Un’altra opposizione di basso rendimento funzionale quale quella tra affricate alveolari sorde e sonore è neutralizzata in posizione iniziale in favore della variante sonora (questa caratteristica raggiunge anche le varietà centrali e meridionali). La sibilante in posizione intervocalica è sempre sonora. Nel Centro-Sud le consonanti [b], [ʤ], [j] sono di solito allungate in posizione intervocalica (per es., ro[bː]a «roba»). In opposizione alla pronuncia settentrionale, la sibilante in posizione intervocalica è sempre sorda. Il raddoppiamento fonosintattico segue regole parzialmente diverse da quelle fiorentine.
Nonostante la dimensione geografica sia la componente principale nella definizione e nell’inquadramento delle pronunce regionali, esistono anche variabili sociali strettamente collegate a quelle diatopiche. Le pronunce cosiddette devianti non sono tutte sulle stesso piano, anzi, alcune sono più accettate di altre perché socialmente più prestigiose. Già nella tassonomia individuata da De Mauro (19702), le quattro principali varietà d’italiano regionale sono ordinate secondo una gerarchia precisa: la varietà romana è senza dubbio favorita dal fatto di essere usata dalla radio e dalla televisione nazionali; quella settentrionale mostra un crescente prestigio, anche in altre parti d’Italia; quella toscana, al contrario, ha una forza espansiva limitata, dall’angusto orizzonte regionale; quella meridionale, infine, è valutata in maniera negativa persino dagli stessi parlanti del Sud, come hanno provato, in anni più recenti, le indagini di Baroni (1983), Galli de’ Paratesi (1984), Volkart-Rey (1990). Senza dubbio, non esiste un tipo di pronuncia dotato di prestigio indiscusso: in un secolo e mezzo di Italia unita si è tuttavia verificato uno spostamento del centro irradiatore di ‘prestigio fonetico’, da Firenze, a Roma, fino alle metropoli del Nord (Milano in particolare).
Il carattere inequivocabilmente scritto, fuori di Toscana, dell’apprendimento della lingua italiana è all’origine, secondo Migliorini (1990: 17 segg.), delle caratteristiche fonetiche e prosodiche dei ➔ neologismi e dei ➔ forestierismi. Si prenda il caso dell’etnico ceco: il timbro originario della vocale tonica è irrilevante, dal momento che
le parole nuove con e ed o toniche, entrando nella lingua […] tendono ad assumere la pronunzia aperta, conforme ad un uso scolastico già molto antico; ed è ben difficile che la pronunzia indigena riesca ad imporsi, tanto più se si tratta di parole apprese dai libri, in cui cioè la trasmissione “oculare” prevale su quella orale.
Il peso della scrittura è rilevabile anche nell’immissione di vocaboli colti di origine greca e latina, caratterizzati da nessi consonantici atipici per la fonologia dell’italiano: si pensi a parole come pseudonimo, eucalipto, pneumatico, subdolo, abside, abnegazione, aritmetica, etnologia, istmo, amnesia. In sostanza, i casi in cui la pronuncia toscana ha prevalso sono meno numerosi di quelli in cui ha vinto la scrittura. Detto altrimenti, l’italiano contemporaneo manifesta un consistente indebolimento della sua secolare capacità d’assimilazione fonetica (➔ adattamento). Il quadro è simile per quelle voci giunte nell’italiano da altre lingue: le poche parole entrate per tradizione orale sono state adattate alla fonologia dell’italiano (lanzichenecco da Landsknecht), mentre quelle penetrate per via scritta hanno mantenuto le strutture fonotattiche della lingua d’origine (Edmondo, Cremlino, tungsteno, bolscevico, trozkista, afgano), con conseguenze non secondarie sulla fonologia dell’italiano (basti pensare, ad es., al regresso della ➔ vocale di appoggio o al regresso dell’➔ assimilazione parziale nei nessi con consonante nasale), al punto da spingere Devoto a parlare di «un terzo sistema fonologico» in formazione (Devoto 19644: 149). Ma tra i ➔ forestierismi adattati nelle strutture dell’italiano (per es., fiordo) e tra quelli completamente estranei (per es., vodka) ci sono anche le parole che il neopurista Migliorini definiva metaforicamente meteche (Migliorini 1971), voci insediatesi stabilmente nel lessico italiano senza integrarsi nella fonotassi tradizionale (per es., alcol).
La pronuncia dei grafemi stranieri ‹j›, ‹w›, ‹x› presenta diverse oscillazioni, in parte legate alla lingua di provenienza dei prestiti, in parte legate al loro canale di immissione, di solito scritto e non parlato. Il grafema ‹j› vale [j] nei tedeschismi (per es., Jäger), [ʤ] negli anglicismi (per es., jazz), [ʒ] nei francesismi (per es., julienne). Il valore di ‹w› oscilla tra [v] e [w]: solitamente è [v] nelle parole italianizzate e che ammettono anche oscillazione grafica (per es., Wilma e Vilma), è sempre [v] nelle parole di origine tedesca (per es., würstel), è [w] in quelle di origine inglese o angloamerica (per es., windsurf). La lettera stessa è chiamata vu, al pari della lettera ‹v›, che dovrebb’essere invece chiamata vi (► lettere, nomi delle). Al grafema ‹x› corrisponde la pronuncia [ks] (o, a nord, [gs]) (per es., xenofobia); solo in certi nomi propri e toponimi di origine dialettale – ligure, siciliana e sarda – si mantiene una pronuncia differente (per es., Bixio è Bi[ʒ]o), ora sempre più spesso sostituita da [ks]. La pronuncia di ‹k›, invece, è sempre velare (per es., killer); la pronuncia di ‹y› assume il valore di approssimante palatale ([j]: per es., yacht).
In sintesi, i forestierismi vengono adattati a partire dalla forma scritta, letta secondo le norme ortografiche e ortofoniche tradizionali. Così, il peso della grafia determina il timbro delle vocali toniche (per es., bl[u] e non bl[ø], dal francese bleu, adattato anche graficamente in blu o, meno spesso, in blé); la pronuncia del nesso grafico ‹gn› come [ɲ] (per es., gnomico, gnoseologia); la ritrazione dell’accento nei forestierismi privi di accento grafico, interpretati come parossitoni in considerazione del fatto che in italiano l’accento grafico viene obbligatoriamente segnalato solo nelle parole ossitone (per es., cògnac e non cognàc). Il timbro delle vocali toniche in particolare è rivelatore del percorso – scritto e non parlato – compiuto dalla parola alloglotta verso l’italiano: tunnel è t[u]nnel, tram è tr[a]m. Negli ultimi anni si registrano tendenze diverse, anche in virtù della maggiore conoscenza dell’inglese tra gli italiani: trust è tr[a]st e welfare è (più o meno) [ˈwɛlfer].
L’immissione di prestiti non adattati ha conseguenze profonde sulla fonologia di giuntura (➔ sandhi), che si trova ad ammettere nessi consonantici un tempo impensabili per l’italiano (il quale prevedeva solo le uscite in sonorante): flirt pseudoserio, shock psichico, snob straordinario, quiz mnemonico (De Mauro 19702: 410-411). L’assenza di processi assimilatori è garantita dalla tendenza tipica dell’italiano postunitario a fissare in forme cristallizzate le sequenze fonemiche che individuano una parola (ivi), sempre più avvertita come elemento invariante (da qui, anche il regresso di forme quali colla «con la»; pella «per la»; ➔ preposizioni).
Le ➔ sigle hanno contribuito ad ampliare l’inventario dei nessi consonantici ammessi nell’italiano. Si pensi a quelle con nessi di nasale alveolare seguita da consonante bilabiale (ENPALS, ENPAS, INPDAI, INPS), le quali pare abbiano favorito una certa resistenza alle tradizionali assimilazioni di luogo (➔ nasali). Per quando concerne la loro pronuncia, questa può avvenire in due modi: o attraverso la compitazione (per es., PD [piˈdːi]), o come se fossero una parola a sé, soprattutto quando la sequenza è effettivamente pronunciabile (per es., FIAT [ˈfiat]).
Un filone di studi che riscuote crescente interesse riguarda non il modo in cui l’italiano reagisce agli influssi stranieri, ma il modo in cui l’italiano viene appreso e dunque pronunciato dagli stranieri (➔ acquisizione dell’italiano come L2; Canepari 2007). Le questioni relative agli aspetti fonetici dell’italiano degli stranieri possono essere affrontate con intenti didattici (quale fonologia dell’italiano insegnare?) o con finalità descrittive. Il collegamento tra le due prospettive è stretto, dal momento che accurate descrizioni fonetiche (specialmente acustiche e percettive) permettono di meglio comprendere i punti di interferenza e di attrito fra il sistema fonologico della lingua di partenza e quello della lingua di arrivo (vedi Costamagna & Marotta 2008). Alcune difficoltà riguardano quelle caratteristiche fonologiche meno frequenti in prospettiva tipologica, come, ad es., la lunghezza consonantica e le consonanti lunghe per posizione quali [ɲ] e [ʎ] (peraltro rispecchiate nella grafia da digrammi o trigrammi). Un problema ulteriore è rappresentato dalla non prevedibilità della posizione dell’➔ accento di parola, che è segnalato dalla grafia solo nelle voci ossitone (Maturi 2006: 130-133).
Su un piano glottodidattico, la proposta docimologica di Lepschy & Lepschy (1981) trascura le opposizioni fonologiche che variano su basi geografiche e, in caso di necessità di scelta, opta per un modello italiano settentrionale. Per le vocali medie si propone di non distinguere l’aperta dalla chiusa, scegliendo uno solo dei due timbri; per le sibilanti intervocaliche si raccomanda l’uso della variante sonora, più diffusa e «tendenzialmente più nazionale»; per le affricate alveolari in posizione iniziale si propone una pronuncia sonora; per il raddoppiamento sintattico la soluzione più semplice è quella di non adottarlo (Lepschy 1978d: 106-107).
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