Proprieta
di Walter Euchner, Walter Santagata, Antonio Gambaro
Filosofia e politica di Walter Euchner
Il rapporto tra proprietà e politica è uno dei temi più antichi della filosofia politica occidentale. Si discuteva se la nascita del potere politico potesse essere spiegata con la comparsa della proprietà privata, se questa favorisse o al contrario ostacolasse l'ordinamento razionale borghese, se la forma delle istituzioni politiche fosse condizionata dalla struttura della proprietà di una comunità; l'aspirazione alla proprietà e al guadagno era vista come causa di conflitti sociali e politici e del mutamento sociale.L'analisi sociofilosofica delle funzioni della proprietà affronta in prevalenza i problemi che si sono posti nel corso dello sviluppo della società occidentale. Solo raramente si tiene conto delle conoscenze derivate dallo studio di altri contesti culturali in cui la proprietà privata aveva un ruolo irrilevante, come ad esempio le 'società idrauliche', che erano costrette a concentrare gli sforzi collettivi nella costruzione e nella manutenzione dei sistemi di irrigazione (v. Wittfogel, 1957), oppure le forme di vita comunitaria proprie di alcune culture arcaiche. Lo studio di queste società è considerato di pertinenza dell'etnologia.In genere, inoltre, si trascura il fatto che nei testi del passato per 'proprietari' si intendono quasi sempre individui di sesso maschile; solo questi infatti erano considerati cittadini a pieno titolo, che sulla base del loro status di proprietari godevano di diritti politici. Questo problema è stato affrontato di recente nelle ricerche di orientamento femminista (v. Schröder, 1977).
La contrapposizione tra Aristotele e Platone sul significato politico della proprietà privata rappresenta uno dei momenti più alti del pensiero politico. Nella Repubblica Platone sostiene che in una comunità che incarna il principio della giustizia (come lo Stato ideale da lui descritto) la classe dei guardiani deve essere "desiderosa di sapere e filosofica" (376 b). Solo rinunziando a qualunque possesso però i guardiani possono sviluppare tali facoltà intellettuali. Giacché se fossero proprietari, resterebbero irretiti in interessi e conflitti per il denaro, e finirebbero in questo modo per rovinare la propria nobile "anima aurea", su cui si fonda la loro rivendicazione del ruolo di guida della società (415 a, 417 a-b, 465 c-d). La giustizia per Platone è realizzata in una polis in cui domina "la perfetta unità" (443 d). Ma una comunità in cui predomina la sete di guadagno è destinata a disgregarsi e a trasformarsi in una tirannia.Contro la concezione platonica secondo cui la condizione per realizzare uno Stato giusto è il comunismo tra le classi superiori, Aristotele afferma che una comunità in cui i cittadini non possiedono nulla costituirebbe una tirannia. Poiché l'armonia dei cittadini si ha non già quando questi sono tutti perfettamente eguali, bensì quando sono diversi e amichevolmente disposti gli uni verso gli altri; presupposto indispensabile perché ciò si realizzi è però il loro status di proprietari (Politica, 1261 a ss.).
La proprietà infatti - così si potrebbe interpretare il pensiero di Aristotele - serve alla formazione del carattere. Fa parte della natura dell'uomo preoccuparsi di ciò "che gli appartiene e che ama". Ma la proprietà è il presupposto anche per poter far del bene agli amici (1262 b, 1263 b). D'altro canto Aristotele condanna al pari di Platone l'eccessiva brama di guadagno. Solo una polis composta da cittadini di medio ceto, che conducono una vita il più possibile vicina alla semplicità rurale, consente di realizzare una vita buona e libera.
Cicerone anticipa sotto molti aspetti il pensiero borghese successivo, come attesta il suo influsso su Locke. Egli mitiga notevolmente la condanna aristotelica della brama di guadagno. Sebbene la proprietà non esista in natura, tuttavia ogni uomo ha il diritto di appropriarsi dei beni che questa offre. Cicerone illustra questo concetto con il famoso esempio dei posti a teatro. Se in un teatro, i cui posti potenzialmente sono di tutti, un individuo ne occupa uno, questo gli apparterrà (De officiis, I, 7, 20 s.; De finibus, III, 20). La ragione principale per cui gli uomini si associano in una comunità è per Cicerone l'esigenza di tutelare la proprietà (De officiis, II, 21, 73). Lo Stato dovrebbe intervenire il meno possibile nelle sfere della proprietà e dell'economia, ad esempio non dovrebbe emanare leggi redistributive in favore dei poveri (leggi agrarie e simili). Le posizioni di Cicerone possono dunque essere definite protoliberali.Tuttavia non si può ignorare il fatto che nella letteratura dell'età romana trova una continuazione anche la critica tradizionale della proprietà. Viene ripreso ad esempio il mito dell''età dell'oro', già noto in Grecia: un'epoca in cui gli uomini convivevano pacificamente, senza conoscere né proprietà né strutture di potere, in uno stato di armonia che alla fine sarebbe andato distrutto per via dell'avidità (Seneca, Epistola 90; Ovidio, Metamorfosi, I, 89 ss.; Tacito, Annales, III, 26).Secondo i Padri della Chiesa la proprietà privata non è un'istituzione dell'ordine naturale creato da Dio, ma una conseguenza del peccato originale. Alcuni di essi riprendono la critica della proprietà privata sviluppata da Platone, come ad esempio Crisostomo, secondo il quale i concetti di 'mio' e di 'tuo' sarebbero all'origine della discordia tra gli uomini (v. Farner, 1947, p. 72). In generale, tuttavia, da queste premesse non viene tratta la conclusione che la proprietà privata vada abolita; al pari del potere politico, essa deve essere accettata come un'istituzione conseguente al peccato originale che, canalizzando gli istinti peccaminosi dell'uomo, contribuisce a ristabilire la pace (questa è, ad esempio, la posizione di Agostino).
Le tendenze critiche nei confronti della proprietà privata presenti nella Patristica influenzeranno le concezioni della teologia di opposizione, ad esempio quelle degli ordini dei mendicanti, degli anabattisti, della corrente di sinistra degli hussiti (taboriti) nonché quella dell'avversario di Lutero, Thomas Müntzer (v. Troeltsch, 1923). Anche le utopie sociali (Moro, Campanella) sono impensabili senza la perdurante influenza della critica platonica della proprietà privata (v. Saage, 1991, pp. 15 ss.). Infine, anche gli esponenti del primo socialismo di stampo religioso subirono l'influsso di tale tradizione (v. Farner, 1969, p. 93).I primi, decisivi passi verso una legittimazione definitiva della proprietà privata risalgono a Tommaso d'Aquino. Egli sviluppa la tesi del diritto ecclesiastico secondo cui la proprietà, pur non avendo a fondamento la legge naturale, può nondimeno essere ammessa dal diritto positivo quale integrazione di tale legge riconducibile alla ragione umana (adinventio: Summa theologica, II, 2, q. 66, ad 1). Per spiegare il carattere razionale della proprietà Tommaso riprende l'argomentazione addotta da Aristotele contro Platone. Si potrebbe dire che Tommaso ha conformato la dottrina della Chiesa alle esigenze del contesto politico del tardo feudalesimo e dell'economia comunale. Anche il divieto di lucro del diritto ecclesiastico verrà infine fatto cadere.La teologia protestante respinge l'idea tomistica di un ordine naturale razionale, riprendendo invece la tesi agostiniana secondo cui "il governo terreno" (Lutero) ha il compito di reprimere gli inestirpabili impulsi dell'uomo a peccare. Melantone - colui che, secondo Schlatter (v., 1951, pp. 93 e 96), sviluppò in modo organico la teoria della proprietà privata di Lutero - considera la proprietà come una conseguenza del peccato originale, sancita però da Dio nel settimo comandamento. Questa concezione, assieme alle affermazioni della Genesi secondo cui Dio avrebbe ordinato all'uomo di assoggettare il mondo e di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, porterà all'etica protestante del lavoro, che fu un elemento importante dello sviluppo dell'economia capitalistica (v. Weber, 1904-1905).
Il dibattito sulla proprietà privata sviluppato nel Medioevo e nella prima età moderna ha come punto d'arrivo la tesi della illegittimità di ogni violazione arbitraria da parte del sovrano dei diritti di proprietà dei sudditi; un sovrano che attentasse sistematicamente a tali diritti deve essere considerato un tiranno (v. Schlatter, 1951, pp. 56 ss., 108 ss.).
Le teorie testé illustrate si muovevano sul terreno teologico, e tuttavia nelle loro argomentazioni il diritto di proprietà non appare come un diritto naturale autonomo. Per quanto legittima, infatti, la proprietà privata è un prodotto dell'uomo, a differenza della proprietà comune voluta da Dio e conforme all'ordine naturale. D'altro canto, di fronte ai rivolgimenti determinati dalla classe borghese emergente nel campo dell'economia, della scienza e della filosofia, appariva necessario emancipare dalla teologia anche la teoria della proprietà, formulandola in termini di diritto naturale e svincolandola il più possibile da postulati teologici.Sia per Grozio che per Pufendorf la proprietà privata è una figura giuridica autonoma, ma non le si possono attribuire i caratteri di un fatto naturale in quanto la sua assegnazione a determinati individui è opera dell'uomo. Tuttavia entrambi ritengono che la proprietà comune ricevuta da Dio dai primi uomini non sia che una breve tappa intermedia, sostanzialmente solo un passaggio logico necessario sulla strada che conduce alla proprietà privata. Per Grozio il primo atto di appropriazione si ha già nel consumo di cibo; lo stesso processo viene esteso poi all'appropriazione di oggetti quali il vestiario, il bestiame e infine la terra. Tuttavia queste forme di appropriazione, che non si esauriscono più in un semplice consumo, devono essere sancite da un accordo tacito oppure esplicito (De jure belli ac pacis, II, 2, 1, 5; II, 2, 2, 2 s.; v. Brandt, 1974, pp. 36 ss.). Anche Pufendorf sottolinea come non sia concepibile un atto di appropriazione senza accordo reciproco, in mancanza del quale gli altri non sarebbero tenuti a riconoscerne la legittimità (De jure natura et gentium, IV, 4, 4 ss.).
Il ruolo di principio strutturale svolto dalla proprietà privata emerge in modo particolarmente evidente nella teoria politica di Bodin. Pur non essendo un giusnaturalista in senso stretto, egli annovera la proprietà tra i diritti inviolabili del cittadino, considerandola uno dei fondamenti della comunità: "Abolire i due concetti di 'tuo' e di 'mio' significherebbe distruggere i fondamenti di tutte le repubbliche, che sono istituite principalmente per dare a ciascuno ciò che gli spetta" (Six livres de la Republique, VI, 4). Partendo da queste premesse, Bodin sviluppa una teoria delle forme di governo basata sullo status che la proprietà ha in una comunità. Egli distingue tre tipi di potere: quello monarchico, quello signorile e quello tirannico. Solo le forme di governo monarchiche sarebbero realmente legittime; ciò significa che il sovrano segue la legge di natura e rispetta la libertà naturale e la proprietà dei suoi sudditi. In una comunità così organizzata può dispiegarsi quella dialettica tra sfera privata e sfera pubblica che consente la realizzazione del bene collettivo. Nella monarchia signorile fondata sulla conquista ciò non avviene, con la conseguenza che per la servilità dei sudditi non può svilupparsi una libera esistenza dei cittadini (Six livres de la Republique, I, 2; I, 6; II, 2).
La proprietà privata costituisce l'asse portante della teoria politica di Locke, l'autore classico del pensiero borghese. Egli sviluppa le sue argomentazioni in termini sia teologici che giusnaturalistici: la proprietà privata è una conseguenza del dono del creato all'umanità e della prescrizione del lavoro, conformemente a quanto è scritto nella Genesi, ma anche del diritto all'autoconservazione. La novità essenziale della teoria lockiana risiede nel fatto che essa rinuncia al fondamento contrattuale della proprietà privata attribuendone la nascita al lavoro. Per Locke pertanto la proprietà esiste già nello stato di natura (Second treatise on government, cap. V). Chi lavora un oggetto vi incorpora il proprio lavoro, che indubbiamente gli appartiene, e in questo modo si appropria dell'oggetto stesso. L'introduzione del denaro sulla base di un tacito accordo dà origine ai rapporti di scambio, che nella descrizione lockiana assumono i caratteri tipici di una economia borghese fondata sul lavoro salariato e sull'accumulazione del capitale. Le istituzioni politiche derivate dal patto sociale servono principalmente a tutelare la proprietà (vita, libertà e beni: Second treatise on government, parr. 123 ss.). Per impedire abusi da parte dei sovrani, in particolare violazioni della proprietà dei cittadini, Locke ritiene necessari un sistema parlamentare e una divisione dei poteri. Contro i sovrani che violano ripetutamente il diritto alla proprietà privata i cittadini hanno diritto di resistenza, e persino una rivoluzione in questo caso può essere legittima.
Per i moralisti scozzesi influenzati da Locke (A. Smith, A. Ferguson, J. Millar) la comparsa della libera proprietà costituisce una fase decisiva dello sviluppo economico, che segna il definitivo superamento del feudalesimo e l'affermarsi dei meccanismi politici ed economici di una società borghese libera e prospera.
È merito della filosofia dell'idealismo tedesco aver sviluppato una riflessione particolarmente approfondita sui fondamenti della proprietà privata. Kant respinge l'idea di Locke secondo cui il lavoro può trasformare la proprietà comune in proprietà privata, pur riconoscendo che questa non è pensabile senza un precedente possesso collettivo della terra (communia fundi originaria). Per poter sfruttare la terra, però, il singolo individuo deve averla in suo possesso. Kant ne conclude che deve essere possibile "avere come mio un qualunque oggetto del mio arbitrio", o, detto altrimenti, la proprietà privata può coesistere con la libertà di tutti secondo una legge universale. Una soluzione diversa negherebbe la libertà stessa, cosa che Kant considera un'assurdità (Metaphysik der Sitten, I, 1, par. 2). La connessione istituita da Kant tra libertà, autodeterminazione e proprietà è alla base anche della sua dottrina politica. Solo chi è autonomo sotto il profilo economico, ossia proprietario (oppure chi entra al servizio dello Stato in qualità di esperto), ha un diritto di cittadinanza attivo. Tuttavia l'ordinamento giuridico deve essere concepito in modo da dare a chiunque l'opportunità di acquisire lo status della cittadinanza attiva (Metaphysik der Sitten, II, 1, par. 46; v. Brandt, 1974, pp. 167 ss.).
Hegel vedeva nella proprietà, frutto dei rapporti economici e giuridici della società borghese, la sostanza della personalità e della libertà. "Ma il lato per cui io come volontà libera sono a me oggettivo nel possesso, e per tal modo anche per la prima volta volontà reale, costituisce il verace e il giuridico in questo ambito, la determinazione della proprietà" (Grundlinien der Philosophie des Rechts, par. 45). La proprietà privata rappresenta un elemento fondamentale nella filosofia hegeliana dello sviluppo dialettico dello spirito oggettivo attraverso gli stadi intermedi dell'economia e dei meccanismi della società borghese sino ad arrivare alle istituzioni politiche (v. Euchner, 1973, pp. 132 ss.).
A partire da Hume e poi nel corso del XIX secolo le spiegazioni teologico-giusnaturalistiche e razionalistiche della proprietà privata appaiono sempre meno convincenti, e - soprattutto in Inghilterra - vengono integrate con argomentazioni di stampo utilitaristico. Alla tesi lockiana secondo cui il diritto di proprietà deriva dal lavoro Hume obietta che un oggetto non appartiene necessariamente a chi vi ha dispensato il proprio lavoro. Egli ritiene più probabile che l'accordo reciproco di rispettare la proprietà altrui sia derivato da considerazioni di utilità. Infatti gli uomini a un certo punto si sarebbero resi conto di non poter risolvere la loro situazione di conflitto permanente se avessero seguito senza limitazione alcuna il proprio desiderio di possesso; avrebbero capito inoltre che una società fondata sulla proprietà e sulla divisione del lavoro è in grado di produrre tutti i beni necessari. Il compito della politica sarebbe dunque quello di legittimare un ordinamento giuridico che garantisce il godimento indisturbato della proprietà privata (Treatise of human nature, III, 2, 2 s.).
Bentham, l'esponente più famoso dell'utilitarismo, applica al problema della proprietà privata il principio centrale della sua filosofia, secondo cui il benessere di una nazione consisterebbe nella maggiore felicità possibile per il maggior numero di individui. Per accrescere il benessere collettivo la via migliore sembrerebbe quella di una distribuzione il più possibile egualitaria della ricchezza. Tuttavia a ciò si può obiettare che una società egualitaria sarebbe meno produttiva di una società basata sulla ripartizione ineguale della proprietà e delle ricchezze, poiché l'ineguaglianza stimolerebbe l'operosità e la produttività. La politica pertanto dovrebbe rinunziare all'obiettivo dell'eguaglianza sociale, e mirare invece a migliorare la condizione sociale dei lavoratori.
Le teorie dell'età moderna delineate nel capitolo precedente si iscrivono in quella che potrebbe essere definita come l'interpretazione borghese della proprietà privata. Da esse va distinta un'altra corrente di pensiero, che possiamo chiamare 'neorepubblicana'. Pur riconoscendo la proprietà privata quale fondamento della società, gli esponenti di questo orientamento criticano la legittimazione dell'aspirazione al guadagno e al possesso illimitati.Le origini del neorepubblicanesimo possono essere fatte risalire al pensiero politico di Machiavelli. Distaccandosi dalla metafisica scolastica tradizionale, egli dichiara di voler considerare la natura umana così com'essa è realmente (Il Principe, cap. XV) e, al pari di Hobbes, individua nella brama di ricchezza e di fama uno dei suoi tratti fondamentali (Il Principe, cap. XXV; Discorsi, I, 37). Tuttavia, a differenza di Hobbes, Machiavelli non arriva alla conclusione che solo un Leviatano sarebbe in grado di tener a freno l'avidità e l'aggressività dell'uomo. Una buona costituzione e buone leggi potrebbero invece canalizzare l'istinto egoistico volgendolo a favore della comunità.
La forma di governo repubblicana si dimostra la più adatta allo scopo, in quanto tutelerebbe la proprietà dei cittadini e ne garantirebbe la libertà di opinione (Discorsi, I, 16). Queste libertà del cittadino si tradurrebbero anche in un vantaggio economico, poiché se gli individui non sono più costretti a vivere nel timore di essere defraudati dei frutti della loro operosità, si adopereranno per accrescere il proprio benessere, contribuendo con ciò ad aumentare la ricchezza pubblica (Discorsi, II, 2). Queste condizioni politiche costituirebbero inoltre un buon presupposto per il patriottismo dei cittadini, spronandoli a impegnarsi in prima persona nella difesa della patria.L'influenza di Machiavelli e, attraverso la sua mediazione, del pensiero degli antichi è evidente in Harrington. Contemporaneo di Hobbes, che criticò ferocemente, questi ebbe modo di ammirare nel corso dei suoi viaggi la libertà e la tolleranza che regnavano a Venezia e in Olanda.
L'importanza di Harrington è legata al fatto di aver individuato nella proprietà fondiaria l'elemento fondamentale del potere sociale e politico. Egli sviluppa questo concetto nella famosa teoria dell'equilibrio della proprietà (balance of property), che sta a fondamento della sua tipologia delle forme di governo. Quando un unico individuo detiene il possesso di tutta la terra, si ha una monarchia assoluta. Quando la nobiltà possiede più terra del popolo, si ha una monarchia mista (mixed monarchy). Quando invece l'intera popolazione di uno Stato è formata da proprietari terrieri, o perlomeno quando la nobiltà non esercita alcuna supremazia, si ha una libera repubblica (commonwealth).
Infatti, "dall'eguaglianza di proprietà deriva l'eguaglianza di potere, e l'eguaglianza di potere significa libertà non solo della repubblica, ma anche di ogni individuo" (The commonwealth of Oceana, I). Originale è inoltre la tesi formulata da Harrington secondo cui un regime politico può essere stabile solo quando vi è corrispondenza tra il balance of property e la sovrastruttura politica. Quando però, come in Inghilterra, la corona e la nobiltà cominciano ad alienare le proprie terre, ciò si traduce in una perdita di potere dei ceti sino a quel momento dominanti e in un corrispondente aumento del potere del popolo, ossia della Camera dei comuni (The commonwealth of Oceana, I, II) - una tesi, questa, che appare come una prefigurazione del materialismo storico.
Partendo da queste considerazioni, Harrington arriva alla conclusione che la forma di governo più adatta a garantire la libertà del popolo è quella mista, basata sulla divisione dei poteri tra un senato formato da saggi con funzioni consultive, una rappresentanza elettiva del popolo e un esecutivo. Secondo alcuni studi recenti la teoria di Harrington - una versione inglese dell'umanesimo borghese di orientamento repubblicano - avrebbe influenzato il primo costituzionalismo nordamericano in misura assai maggiore del pensiero di Locke (v. Pocock, 1975).
Senza soffermarci sul pensiero politico dei livellatori, iscrivibile anch'esso nell'orientamento neorepubblicano, passeremo direttamente a illustrare le teorie di Rousseau, l'esponente storicamente più significativo di questa corrente di pensiero.La critica della proprietà privata espressa da Rousseau è assai più radicale di quella formulata dagli autori neorepubblicani esaminati in precedenza. Se questi infatti si limitavano a condannare gli effetti corruttori della ricchezza, ma non la proprietà in se stessa, Rousseau le attribuisce invece una forza distruttiva. L'invenzione della proprietà privata e l'introduzione del ferro e dell'agricoltura sono ai suoi occhi responsabili degli errori del genere umano nell'ultima fase dello stato di natura, perché costituiscono il presupposto della produzione della ricchezza che ha risvegliato l'istinto egoistico dell'uomo. Il primo uomo che recintò un pezzo di terra reclamandone il possesso avrebbe avviato un processo funesto. Si è dimenticato che i frutti della terra appartengono a tutti e che la terra non appartiene a nessuno (Discours sur l'origine de l'inégalité, II).Tuttavia Rousseau non si riallaccia alla tradizione utopistica, i cui modelli politici escludono ogni forma di proprietà privata. Egli delinea invece un sistema di principes du droit politique, ossia i fondamenti di una costituzione repubblicana in cui possano dispiegarsi la libertà, la virtù e il patriottismo dei cittadini. L'esistenza della proprietà privata è però per Rousseau una condizione essenziale perché ciò possa realizzarsi, poiché l'età dello stato di natura in cui tale istituzione era sconosciuta è irrimediabilmente tramontata. Un cittadino che si lascia guidare dall'amour de soi, vale a dire da una sana coscienza del proprio valore, deve poter disporre di proprietà (Économie politique, III).
Alla base del contratto sociale quindi Rousseau pone non solo l'esigenza di preservare la libertà, ma anche quella di tutelare la proprietà privata (Contrat social, I, 6). Tuttavia la repubblica deve tassativamente ostacolare la nascita di una plutocrazia, poiché questa segnerebbe il prevalere di comportamenti egoistici che disgregano il fondamento della repubblica, la volonté générale (Contrat social, II, 15; IV, 1). Rousseau rievoca nostalgicamente i pregi della forma di vita semplice e virtuosa dei cittadini delle antiche repubbliche. La produzione di generi di lusso, la concentrazione della popolazione nelle grandi città e via dicendo affretterebbero il declino di una repubblica, evento che il fatalista Rousseau considera quasi inevitabile (Économie politique, II; Contrat social, III, 10).
Nonostante il profondo pessimismo cui è improntato, il repubblicanesimo di Rousseau ispirò non solo i teorici della Rivoluzione francese, ma anche gli esponenti delle sinistre repubblicane in tutta Europa nonché, attraverso Tom Paine, emigrato dall'Inghilterra in America, il pensiero politico americano. Il critico più deciso ed efficace del repubblicanesimo fu Burke, acerrimo avversario di Paine. Egli contrappone ai principî astratti di Rousseau e della Rivoluzione francese l'ordinamento costituzionale inglese, in cui tutte le forme di proprietà godono della massima tutela. Nella Francia rivoluzionaria invece il governo non è nelle mani dei proprietari, poiché qui l'abolizione della proprietà privata sarà inevitabile: un chiaro avvertimento alla borghesia europea, nella quale le simpatie per la Rivoluzione francese erano ampiamente diffuse.
Come rileva Marx, la Rivoluzione francese adattò la sovrastruttura politica alle esigenze economiche della società borghese. Da ciò prende le mosse, a partire da Babeuf, la critica del primo socialismo al dominio della proprietà e al nascente capitalismo industriale. Gli esponenti del primo socialismo si ricollegano spesso alla tradizione delle utopie e del cristianesimo chiliastico (è questo il caso di Saint-Simon e del suo allievo W. Weitling), ma anche al repubblicanesimo della Rivoluzione francese.Emendare il socialismo dalle sue componenti utopistiche per trasformarlo in una scienza è il proposito esplicito di Marx e di Engels. A tal fine Marx si serve della dialettica hegeliana e dello studio dell'economia politica classica. Il primo passo in questa direzione è un rovesciamento della teoria hegeliana della proprietà. Nelle condizioni della società borghese, afferma Marx (Ökonomisch-philosophische Manuskripte), la proprietà non è l'essenza della libertà, ma al contrario un potere sociale che aliena l'uomo - e in particolare il lavoratore - a se stesso, al suo genere (Gattungswesen). Marx arriva a questa prospettiva critica combinando il concetto di essenza umana sviluppato da Feuerbach con la teoria hegeliana dell'alienazione. Nel Capitale, infine, egli descrive come il sistema capitalistico espropri il lavoratore dell'attività produttiva, che originariamente gli apparteneva, ma che ora gli si contrappone come proprietà altrui, come processo di sfruttamento. La teoria dello sfruttamento viene sviluppata da Marx attraverso una rielaborazione critica della teoria del valore-lavoro degli economisti classici. Egli cerca di dimostrare che la produzione capitalistica finisce col negare se stessa, in quanto la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto determinerebbe crisi periodiche destinate a sfociare nella "espropriazione degli espropriatori", in una rivoluzione proletaria.
Due aspetti della teoria marxiana della proprietà meritano attenzione. In primo luogo, per 'proprietà' egli non intende esclusivamente la proprietà privata, bensì in generale "il rapportarsi del singolo alle condizioni naturali del lavoro e della riproduzione come a lui appartenenti" (Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, ed. 1953, p. 376). Solo i rapporti feudali e capitalistico-borghesi trasformano la proprietà in un potere sociale repressivo.In secondo luogo, la proprietà sotto forma di denaro e di capitale è diventata una potenza impersonale, il cui dominio non viene percepito. Apparentemente infatti lavoratori e capitalisti stipulano un contratto come individui liberi ed eguali; ma questa libertà e questa eguaglianza sono pura ideologia. Il capitalista è infatti una 'maschera', ossia impersona un ruolo in un sistema di rapporti apparentemente liberi che però nella sua dimensione politica tutela gli interessi della borghesia.Anche la critica della società borghese sviluppata dalle correnti anarchiche prende le mosse dal concetto di proprietà. Proudhon definisce "un furto" il capitale industriale, finanziario e commerciale: "la propriété, c'est le vol" (Qu'est-ce que la propriété?, 1840, cap. 1). A esso egli contrappone la proprietà dei produttori, che rinunziando alle istituzioni statali dovrebbero regolare i loro rapporti per via contrattuale (mutualismo).
Stirner, esponente al pari di Marx della sinistra hegeliana, concepisce gli uomini come esseri essenzialmente egoisti, che non dovrebbero lasciarsi opprimere né dalle autorità statali ed ecclesiastiche, né da idee morali tradizionali (Der Einzige und sein Eigentum, 1844).Il diffondersi delle correnti socialiste e anarchiche e l'organizzarsi di tali correnti nella Prima Internazionale dei lavoratori suscitò gravi preoccupazioni nella borghesia. Tocqueville, nel suo discorso all'Assemblea costituente del settembre del 1848, mette in guardia contro i pericoli del socialismo. Esso sarebbe in contrasto con i principî della Rivoluzione francese, che aveva dichiarato sacra la proprietà universalizzandola, e anche con la democrazia, in quanto intrinsecamente illibertario (De la démocratie en Amerique, in Oeuvres complètes, 1866, vol. IX, pp. 536 ss.).M.A. Thiers, contemporaneo di Tocqueville, nella sua opera De la propriété (1848) cerca con estese argomentazioni di confutare le idee socialiste e comuniste. Il costituzionalista inglese W. Bagehot, dal canto suo, si pronuncia contro il suffragio universale, il quale farebbe sì che "i ricchi e i saggi" abbiano meno voti "dei poveri e degli stupidi". Le classi lavoratrici andrebbero escluse dalla rappresentanza parlamentare, in quanto non hanno alcun ruolo nella formazione dell'opinione pubblica (The English Constitution, 1867, IV).Comte contrappone alle teorie socialiste un modello di società di tipo 'positivistico' e non 'metafisico' (come il repubblicanesimo di Rousseau e il socialismo che a esso si ispira). Tale modello presuppone il principio della proprietà privata, poiché essa secondo Comte corrisponde agli istinti egoistici dell'uomo. Per garantire la stabilità sociale occorre un sistema di istituzioni politiche in grado di tenere sotto controllo le crisi cui è soggetta una società fondata su tale principio. Le banche dovrebbero avere la funzione di dirigere la circolazione monetaria, mentre alla classe degli industriali, responsabili del progresso economico, va riconosciuto un ruolo guida. Comte però non è affatto favorevole al liberismo e attribuisce allo Stato ampie facoltà di intervento nell'economia. A suo avviso, inoltre, lo Stato deve essere strutturato gerarchicamente, e la guida politica andrebbe affidata a una classe politica ereditaria.
La visione autoritaristica di Comte trova il suo culmine nell'idea di una religione civile che dovrebbe legittimare il sistema politico.
L'attenzione per le istituzioni sociali propria di Comte appare una caratteristica generale della sociologia francese del XIX secolo. Se l'inglese Herbert Spencer sviluppa un modello di società improntato ai principî del liberismo e del darwinismo sociale, in cui l'aspirazione alla proprietà non deve essere ostacolata e il successo economico è segno del valore individuale, Durkheim mette l'accento sull'aspetto dell'istituzionalizzazione quale presupposto della stabilità sociale. Lo Stato per Durkheim non nasce da un accordo sociale stipulato tra individui, ma ha un fondamento morale collettivo, che rispecchia i valori sociali. Di tale fondamento morale fa parte anche la proprietà privata. Respingendo la tesi di Locke che riconduce le origini di quest'ultima al lavoro, Durkheim si riallaccia piuttosto alla concezione kantiana secondo cui la proprietà deve essere considerata una negazione necessaria della proprietà comune originaria. Essa inoltre sarebbe stata legittimata, o per meglio dire sacralizzata, allo stesso modo di un tabù religioso.
La società ha preso il posto degli dei, cui originariamente era attribuito il possesso della terra. Poiché però solo la proprietà individuale può essere sfruttata, è quest'ultima che finisce per affermarsi; la sacralizzazione originaria si sarebbe in questo modo tramandata (Leçons de sociologie, 1950, pp. 13 s.).
A differenza di Durkheim, che vede nella democrazia la forma di governo più favorevole all'affermarsi delle idee e dei valori collettivi, Mosca e Pareto, esponenti della teoria elitistica, criticano le aspettative di emancipazione democratiche e socialiste. Per quanto la ricchezza sia l'origine principale della formazione delle élites, le società plutocratiche sono però da condannare. Gli individui economicamente indipendenti, che hanno sufficiente tempo libero per dedicarsi a una riflessione approfondita sulle questioni politiche, costituiscono una élite: è questa, secondo Mosca, la formazione sociale più adatta a porsi alla guida politica della società. Per contro l'aspettativa del materialismo storico, che il collettivismo possa realizzare l'eguaglianza e la giustizia universale, viene definita da Mosca "assolutamente fantastica" (Elementi di scienza politica, 1896, II, 5, 3).
Di importanza capitale per la politica sociale moderna è la legittimazione della proprietà contenuta nelle encicliche papali (Leone XIII, Rerum novarum, 1891; Pio XI, Quadragesimo anno, 1931), le quali delineano un modello di società che si contrappone esplicitamente alle proposte socialiste per risolvere la questione sociale. Pur accettando la critica al liberismo economico e alla crescente concentrazione capitalistica, le encicliche respingono con decisione un'alternativa socialista, e difendono la proprietà privata con argomentazioni mutuate dalla tradizione aristotelico-tomistica. La collettivizzazione dei mezzi di produzione sarebbe ingiusta, e attribuirebbe allo Stato funzioni economiche che esso non è in grado di assolvere. Il modello alternativo proposto dalle encicliche sociali prevede la costituzione di proprietà gestite dai lavoratori, ad esempio con l'acquisto di terreni (case con orti, ecc.), ma anche con l'introduzione di salari con trattenute per investimenti, attraverso cui si realizzerebbe la compartecipazione dei lavoratori alla proprietà dei mezzi di produzione.Dopo la seconda guerra mondiale la dottrina sociale della Chiesa accetterà il ruolo dei sindacati e la cogestione operaia dell'azienda, segnando con ciò un avvicinamento tra le concezioni cattoliche e quelle della socialdemocrazia riformista e dei sindacati (Giovanni XXIII, Mater et magistra, 1961).
Le teorie illustrate sinora si basavano prevalentemente su un modello strutturale della politica improntato a una dicotomia tra Stato e società. Allo Stato in quanto organo di direzione politica veniva in genere riconosciuto il diritto di intervenire nell'ordinamento della proprietà, ad esempio per realizzare una perequazione sociale tra gli strati abbienti e quelli disagiati della popolazione, o per evitare concentrazioni del potere economico.Questo modello strutturale dicotomico è stato abbandonato a seguito della svolta impressa nelle scienze sociali dallo struttural-funzionalismo. Il mutamento di prospettiva è particolarmente evidente nel modello sociale elaborato da Parsons, il fondatore di questo indirizzo. In tale modello la società si suddivide in una pluralità di sottosistemi specializzati in varie funzioni, tra cui quella dell'adattamento - ossia la produzione delle risorse necessarie per l'adattamento del sistema all'ambiente esterno. Questa funzione è assolta principalmente dal sottosistema economico, del quale la proprietà privata costituisce uno dei caratteri strutturali.
Il denaro, risultato dello sfruttamento economico della proprietà, costituisce assieme al linguaggio e al potere un medium attraverso cui avviene l'interazione tra i sottosistemi sociali (v. Euchner, 1975, pp. 116 s.).
Luhmann porta alle estreme conseguenze la dissoluzione del modello dicotomico tradizionale Stato-società. Nella sua teoria, il mondo sociale si disgrega in una pluralità di sistemi: politico, giuridico, economico, ecc. Ognuno di essi a sua volta si riproduce con i propri mezzi sistemici (autopoiesi), delimitando se stesso rispetto al mondo esterno (v. Luhmann, 1988, p. 283). Di conseguenza un determinato sistema - ad esempio quello politico - non può guidarne un altro - ad esempio quello economico - con i propri mezzi. Ciò non significa che i sistemi non subiscano l'influenza del loro ambiente; l'assimilazione e l'elaborazione di queste influenze possono però avvenire esclusivamente con i mezzi specifici di un dato sistema (ibid., p. 334).Luhmann (v., 1993, p. 455) individua alcuni elementi che mediano l'influsso reciproco tra i sistemi - quello che egli definisce "accoppiamento strutturale". Tra tali elementi rientra anche la proprietà, che appartiene sia al sistema giuridico che a quello economico. Per Luhmann si tratta di un'espressione della scarsità di risorse, che genera la sfera dell'agire economico; questa a sua volta presuppone l'esistenza del denaro. Poiché nella teoria di Luhmann gli elementi strutturali portanti sono codificati in via di principio in forma binaria - ossia presuppongono sempre anche il loro contrario: la proprietà la non proprietà, il denaro la mancanza di denaro, ecc. - sorge anche la possibilità che determinati gruppi o classi sociali siano esclusi dal possesso di questi elementi, e ciò, nel caso della proprietà, può determinare situazioni di privilegio politico, come ad esempio il suffragio basato sul censo. È altamente improbabile quindi che si arrivi all'eguaglianza. A seguito della universalizzazione dell'economia monetaria i tentativi di organizzare la società attraverso la politica secondo Luhmann sono destinati a fallire; tali tentativi sarebbero espressione di "reminiscenze della vecchia Europa", tra cui vanno annoverate anche le idee socialiste (ibid., pp. 266 e 366).
Un approccio metodologico completamente diverso alla tematica della proprietà è quello del cosiddetto neocontrattualismo. Tale orientamento si rifà all'economia politica (v. Buchanan, 1975; v. Nozick, 1974), da cui mutua il concetto di homo oeconomicus che avrebbe un diritto illimitato alla proprietà. Ispirandosi ai giusnaturalisti del XVII secolo (nella fattispecie, Buchanan si rifà a Hobbes, Nozick a Locke), gli esponenti di questo approccio proiettano gli uomini in un ipotetico stato di natura, in cui sono costretti a riconoscere di essere incapaci di reprimere o regolare essi stessi i conflitti che scaturiscono inevitabilmente tra esseri mossi dall'egoismo. Nascono così "associazioni protettive" (protective associations), ai cui servizi ricorrono i singoli, dietro pagamento, per tutelare le loro proprietà e i loro diritti personali. Quando una di queste associazioni assume una posizione di monopolio, assume le funzioni di "Stato minimale" (v. Nozick, 1974, capp. 2 s.). Questa argomentazione sfocia nella tesi secondo cui lo Stato minimale possiede solo quelle competenze che gli vengono attribuite dagli individui interessati a tutelare i beni legittimamente acquisiti (proprietà e diritti personali). Una politica sociale redistributiva finanziata attraverso imposizioni fiscali decise da una maggioranza è illegittima, poiché sarebbe un'usurpazione dei property rights. Il bersaglio critico di queste teorie è chiaramente il Welfare State dell'era pre-reaganiana (v. Koller, 1990, pp. 281 ss.).
Anche la teoria della giustizia di Rawls (v., 1971) è impostata in termini neocontrattualistici, senza peraltro arrivare alle conclusioni di Buchanan e di Nozick, che finiscono per legittimare ineguaglianze economiche anche macroscopiche. Servendosi del principio dell'ottimo paretiano, Rawls ritiene giusta e legittima l'ineguaglianza economica e sociale - ad esempio le differenze di ricchezza e di potere - solo nella misura in cui va a vantaggio di tutti, e in particolare dei membri più deboli della società.Sebbene la teoria della giustizia di Rawls sia perfettamente compatibile con una politica sociale riformista, e anzi sia in grado di legittimarla, il suo approccio contrattualistico e individualistico ha suscitato le critiche di un gruppo di autori il cui orientamento teorico può essere definito 'comunitarismo' (v. Honneth, 1993). Secondo M. Walzer (v., 1983), ad esempio, non si dovrebbe assumere un principio di giustizia unitario, valido per tutti i beni sociali, poiché questi hanno un'importanza diversa da individuo a individuo. Anche la loro allocazione dovrebbe quindi avvenire in modo differenziato. Occorre impedire soprattutto che risorse quali il denaro e la proprietà, le cariche, l'istruzione e il potere vengano usate come strumenti di dominio su altri, o per estendere la propria influenza in altre sfere sociali. Ciò vale in particolare per il rapporto tra ricchezza e potere. Il potere politico dovrebbe essere affidato a quanti sono in grado di farne un uso ragionevole, e questi a loro volta devono poter essere controllati da coloro su cui viene esercitato il potere. Nell'allocazione del potere dunque le risorse di tipo non politico, come la ricchezza, le armi, l'istruzione o le cariche, non dovrebbero avere alcun ruolo. Inoltre la ripartizione del potere non dovrebbe fermarsi alle porte delle fabbriche. Walzer auspica quindi lo sviluppo di una democrazia economica (ibid., cap. 12).
Le interpretazioni strutturalistiche del rapporto tra politica e proprietà tendono a dissolvere quest'ultima in mere funzioni trascurando i soggetti reali, ossia i proprietari in carne e ossa con i loro interessi concreti, come ad esempio la spinta a conservare e accrescere le proprie ricchezze, o i tentativi di trasformare il peso economico in influenza politica, o di eludere le leggi vigenti in materia fiscale e valutaria. Tali teorie sottovalutano inoltre il peso reale dei conflitti sociopolitici, ossia gli sforzi non sempre riusciti di garantire uno standard di vita minimale, di estendere o di conservare la copertura assicurativa e di promuovere un'edilizia popolare, tutti obiettivi che non possono essere realizzati senza una politica fiscale redistributiva.
D'altro canto si va sempre più restringendo il margine per una politica di welfare nazionale nel quadro di un'economia capitalistica mondiale, che dopo il crollo del sistema sovietico si è definitivamente globalizzata. La dipendenza dai flussi finanziari internazionali e le oscillazioni scarsamente controllabili delle valute nazionali costringono i governi a una politica di bilancio restrittiva, imperniata sui tagli alle spese assistenziali. A ciò si aggiunge la concorrenza internazionale per la localizzazione economica, che limita ulteriormente il margine d'azione dello Stato.
L'analisi di questa situazione si scontra con la difficoltà costituita dal fatto che gli attori economici, i global players, sono difficilmente identificabili. I proprietari di capitali non compaiono come individui concreti, sicché di fatto il momento personale della proprietà appare marginale. L'approccio funzionalista, che sottolinea l'aspetto funzionale della proprietà, coglie dunque un fattore importante. Tuttavia i global players hanno "nomi e volti" (Brecht), ossia sono persone concrete con interessi specifici e preferenze politiche altrettanto specifiche che non dovrebbero sfuggire all'osservatore.
Nel frattempo ai centri di potere politici, ai governi nazionali - cui si sostituiscono in misura crescente istituzioni politiche internazionali, come ad esempio il Consiglio dei ministri e la Commissione dell'Unione Europea - si contrappongono centri di potere economico a livello sia locale che internazionale. Anche questa situazione limita il margine di controllo e di azione della politica. Ad aggravare ulteriormente il problema concorre la criminalità organizzata che opera a livello mondiale e che, come dimostra l'esempio della mafia, è in grado di infiltrarsi sia nella sfera economica che in quella politica (v. Müller, 1991).Né la scienza politica né la sociologia contemporanee possiedono ancora gli strumenti concettuali e teorici adeguati per interpretare e spiegare in modo esauriente i rapporti tra la proprietà privata intesa come facoltà personale di disporre di beni e il suo presentarsi a livello nazionale e internazionale sotto forma di denaro e di capitale, nonché i suoi rapporti con istituzioni politiche, nazionali e internazionali sempre più frammentate.
(V. anche Borghesia; Comunismo; Formazioni economico-sociali; Liberalismo; Marxismo; Nobiltà; Socialismo).
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Economia e sociologia di Walter Santagata
1. Introduzione
Le grandi questioni della proprietà assoluta o limitata, della proprietà pubblica o privata, giusta o ingiusta, della proprietà corruttrice degli animi o fondamento del progresso economico hanno diviso nei secoli le coscienze europee e di tutto il mondo moderno. Di volta in volta quei dilemmi sono stati risolti nei singoli contesti storici con la violenza delle passioni, con la freddezza del ragionamento o con la perentorietà della legge. Per questa ragione connessa alla differenziazione della realtà storica, il pensiero sistematico sulla proprietà non è un sistema chiuso; esso evolve secondo il corso della civiltà, al cambiare delle mentalità, delle tecnologie, delle istituzioni e degli interessi. Senza voler essere esaustivi, almeno tre ragioni spiegano il continuo slittamento di significati e di funzioni.
Per un verso, lo sviluppo demografico e la crescita dei redditi e della ricchezza hanno reso scarse risorse naturali che prima sembravano inesauribili. Molti beni della natura non soddisfano più liberamente i bisogni per la riproduzione della vita umana: sono diventati oggetto di contesa sociale (le acque marine, l'aria, il silenzio) (v. Bromley, 1991). In altre epoche gli effetti del contesto demografico sulle istituzioni della proprietà furono ancora più radicali. In Europa a partire dal XIV secolo, ad esempio, la crescita della popolazione e la conseguente abbondanza di forza lavoro fecero aumentare il valore relativo della terra, favorendo l'abbandono del sistema dei diritti feudali e il ritorno al più efficiente diritto di proprietà (v. North e Thomas, 1973).
Per un secondo verso, i cambiamenti del contesto economico, culturale e istituzionale modificano i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e le cose. Lo sviluppo della proprietà fondiaria e mobiliare, e l'accumulazione del capitale, legata alla crescita dei mercati e delle industrie, hanno prodotto enormi concentrazioni di ricchezza, grandi ineguaglianze e, di conseguenza, forti spinte a limitare la proprietà privata in nome, o nel miraggio, di una società più giusta. Inoltre in culture e contesti storici diversi il significato dei beni cambia radicalmente: il pane è stato merce o simbolo del corpo di Cristo; le cariche pubbliche sono state oggetto di compravendita tra privati o assegnate per dignità e competenza; la proprietà dei mezzi di produzione, prima collettiva, è stata poi oggetto di processi di privatizzazione.
Infine, perché l'evoluzione della tecnologia, della scienza e delle organizzazioni può rendere oggetto di appropriazione o di esclusione beni prima indisponibili, come la produzione intellettuale, un'orbita geostazionaria, una frequenza hertziana o un organo del corpo umano.La relatività storica del diritto di proprietà non indebolisce tuttavia la centralità della sua funzione economica e sociale. Senza regole generali e astratte che disciplinino il controllo sulle risorse e il loro uso, non può realizzarsi la condizione della libera disponibilità dei beni che è alla base del mercato, del meccanismo dei prezzi e dell'efficienza economica. Senza il riconoscimento sociale della facoltà di disporre delle risorse materiali e intellettuali, una comunità non può darsi principî di giustizia ed equità distributiva, definire in modo normativo la gerarchia esistente tra gli interessi della comunità e quelli dell'individuo e, in definitiva, regolare i rapporti di civile convivenza (v. Godelier, 1980).
2. Una dicotomia come premessa e come fine
Le due grandi questioni economiche e sociologiche sulla proprietà risalgono, con accenti differenti, agli albori del pensiero politico filosofico. Ridotte il più possibile a uno schema interpretativo essenziale, descrivono una dicotomia che è al tempo stesso la premessa e il fine delle scelte individuali e delle decisioni sociali.
Platone era profondamente convinto che la proprietà privata e gli interessi egoistici che dominano chi la accumula avrebbero corrotto il governo della Repubblica ideale. Egli propose, come è noto, la soluzione drastica del comunismo dei beni per la classe dei guerrieri e dei magistrati, affinché i governanti non cedessero alla confusione tra interessi privati e interessi pubblici. Da questa filosofia politica evolve il concetto di proprietà come istituzione, come regola dei meccanismi di funzionamento del corpo sociale nelle sue attività di produzione, di consumo e di scambio, ma anche come fattore di strutturazione del potere, che divide gli uomini in categorie e classi a seconda del suo possesso e definisce allo stesso tempo i loro rapporti in termini di relazione tra padroni e lavoratori.
Aristotele ribaltò la gerarchia dei giudizi, individuando nella proprietà privata la fonte degli incentivi individuali a un uso efficiente delle risorse scarse. Disse che la 'proprietà di tutti' equivaleva alla 'proprietà di nessuno' e che solo il possesso pieno ed esclusivo avrebbe spinto gli uomini a usare nel modo migliore - e più produttivo, aggiungeremmo oggi - beni naturali scarsi. Anche questa impostazione microeconomica prelude alla concezione della proprietà come istituzione. Ma la regola, ora, riguarda i comportamenti ottimali degli individui e la titolarità dei diritti di proprietà sulle cose, nel presupposto che l'esistenza di mercati e di diritti enforced renda possibile scambi reciprocamente vantaggiosi e garantisca un impiego efficiente dei beni economici (v. Alchian, 1965).
Le opposte tesi hanno alimentato un dibattito che vedrà schierati, in modo tutt'altro che compatto, da un lato coloro che considerano la proprietà privata e la sua distribuzione ineguale come un principio di disordine e di conflitto, e dall'altro lato coloro che la considerano un fattore di progresso economico e di benessere, un incentivo all'uso produttivo e ottimale delle risorse. Illustreremo le due tesi con alcuni rapidi riferimenti ai contributi più significativi, la cui scelta è stata dettata più che dal desiderio di una completezza reperibile solo in una storia della proprietà (v. Challaye, 1967; v. Rodotà, 1990²; v. Gambaro, 1995), da quello di sottolineare i punti di svolta di una evoluzione tutt'altro che lineare.
Lo sviluppo della proprietà fondiaria e della ricchezza mobiliare creò nei secoli le basi di grandi diseguaglianze. Da un lato i signori, i latifondisti e i feudatari, i banchieri e i mercanti; dall'altro i piccoli coltivatori, gli operai, i debitori e i poveri, i servi della gleba e gli schiavi. Contrastarono questa realtà tre diversi orientamenti critici: quello che vedeva la proprietà privata come disordine morale; quello della proprietà come disordine politico-economico e quello attuale della proprietà come disordine etico-sociale.Le prime opposizioni alle conseguenze sociali odiose dell'enorme concentrazione delle terre e dei beni mobili nacquero all'interno della Chiesa. San Francesco d'Assisi e la sua regola della povertà rappresentarono in assoluto la più aspra reazione alla gerarchia cattolica ufficialmente schierata a favore della proprietà privata. L'idea della proprietà come disordine morale fu, poi, ripresa dalle teorie utopistiche del Rinascimento (Tommaso Moro). Anche Tommaso Campanella nella Città del Sole, opera scritta in carcere nel 1602, ripropone l'etica della comunione dei beni.
Con l'ingresso nell'era moderna e con la rivoluzione industriale del XVIII secolo, il tema della proprietà entra nel dibattito politico-sociale (v. Proudhon, 1840). La questione della proprietà come disordine viene riformulata. Il disordine non è più percepito come degenerazione morale che nasce dall'avidità, dalla brama del potere che la ricchezza può offrire, ma viene fatto derivare dalla considerazione, che si vuole scientifica, che nella società capitalistica non si può realizzare la proprietà privata fondata sul lavoro. Tra i sostenitori di questa tesi Ferdinand Lassalle contribuì a elaborarne gli aspetti giuridici, Karl Marx e Friedrich Engels quelli politico-economici, sottolineando l'ingiusta appropriazione dei frutti del lavoro operaio da parte dei capitalisti. "Il comunismo non toglie a nessuno la possibilità di appropriarsi dei prodotti sociali; ma toglie la possibilità di asservire gli altri appropriandosi del loro lavoro" (v. Marx ed Engels, 1848, § 42). Non viene rifiutata la proprietà privata in sé, ma il quadro istituzionale del capitalismo come appropriazione del plusvalore e alienazione. In questa prospettiva il trasferimento della proprietà dei mezzi di produzione allo Stato, l'abolizione dell'ereditarietà, la nazionalizzazione dei settori cruciali per il controllo dell'economia sono un modo di riformulare il diritto alla proprietà in un contesto giusto, senza conflitti di classe.
Seguendo un approccio antropologico, Thorstein Veblen perviene a conclusioni non distanti dalle precedenti. Egli considera la proprietà come un fatto culturale, un simbolo del potere. La proprietà è un attributo di una casta superiore e parassitaria che domina la struttura sociale e che sfrutta questa posizione di privilegio per appropriarsi di ciò che la comunità produce in un contesto necessariamente collaborativo e partecipativo (v. Veblen, 1923).La ricerca di istituzioni che permettano di vivere in una società ben ordinata è il fine delle moderne e più influenti teorie delle scelte sociali. L'etica pubblica è il tema che fa da comune denominatore di autori di formazione diversa, che, d'altra parte, pervengono a conclusioni diverse sugli assetti collettivi desiderabili della proprietà privata e sull'indebolimento legittimamente ammissibile del diritto di proprietà. Nel cap. 5, dedicato alla teoria delle scelte sociali, esamineremo la logica distributiva e i principî di giustizia che regolano e indeboliscono il diritto di proprietà.
Sul fronte opposto troviamo la difesa della proprietà privata intesa come prerequisito per un uso efficiente delle risorse e motore del progresso economico fondato sul mercato e sulla libertà di scelta.Non tutti gli incentivi che inducono a comportamenti coerenti con il funzionamento ottimale del mercato dipendono però dal diritto di proprietà. Alcuni importanti vincoli informali come la reputazione, il rispetto della reciprocità, il senso di appartenenza a una comunità sono collegati a meri codici di condotta socialmente condivisi. Tuttavia l'azione individuale razionale, auto-interessata e utilitaristica si realizza appieno solo con l'istituzione della proprietà privata.
È, infatti, evidente che gli incentivi economici sono rafforzati: a) quando la proprietà è esclusiva; b) quando è estesa al frutto del bene posseduto; c) quando sono consentiti atti di disposizione liberi; d) quando ne è garantita la tutela attraverso un efficace processo di enforcement.All'origine del pensiero moderno a difesa della proprietà privata troviamo l'opera influente e autorevole di John Locke, lo sviluppo del pensiero liberale, ma anche l'elaborazione di una completa e rigorosa teoria assiomatica del mercato (v. Schumpeter, 1954; v. Debreu, 1959). Anzi questa elaborazione, prodotta con il concorso di molti autori secondo una logica incrementale dello sviluppo del sapere economico, può essere usata come criterio di periodizzazione che segna un modo diverso di concepire la proprietà e di definirne il ruolo.
Prima del suo completamento l'accento era posto sul tema della giustificazione del diritto di proprietà e sulla relazione proprietà-libertà. A questo proposito il pensiero di Locke è tre volte importante. In primo luogo perché giustifica la proprietà privata nell'ambito della legge naturale, in secondo luogo perché ne riconosce il ruolo di primo piano come istituzione fondamentale del contratto sociale, in terzo luogo perché offre una ragione della sua distribuzione ineguale. L'argomentare di Locke nel breve capitolo sulla Proprietà delle cose del Secondo trattato sul governo civile è essenziale. Dio ha dato la terra in comune a tutti gli uomini. Nello stato di natura la proprietà si realizza attraverso il lavoro e quindi, poiché ciascuno è padrone di se stesso e della propria attività lavorativa, la terra appartiene a chi lavora. Tuttavia questa legge naturale sarebbe vana se non diventasse un diritto legalmente protetto. Per Locke il contratto sociale che fa uscire l'umanità dallo stato di natura sancisce il riconoscimento legale del diritto di proprietà sulle cose. Diversamente chi sarebbero gli arbitri delle liti, chi impedirebbe i soprusi, la violenza e il dominio delle passioni? Sarà compito del governo regolare l'istituto della proprietà. D'altra parte la sua distribuzione non egualitaria deriva dagli stessi presupposti. Si pensi all'istituzione della moneta: essa agevola e moltiplica gli scambi e i commerci, ma non essendo un bene deperibile, può anche essere accumulata dando luogo a quelle ineguaglianze economiche che riflettono la diversità di preferenze e di attitudini degli uomini.
Sostenuta dall'argomento di Locke, si viene consolidando in seguito l'idea che la libera scelta nel disporre pienamente dei propri beni sia una componente costitutiva del diritto di proprietà. Ma non di qualsiasi forma di proprietà. Infatti, mentre la proprietà privata implica la più completa libertà nell'uso delle risorse, compatibilmente con una analoga libertà per gli altri, la proprietà collettiva è sì proprietà di tutti, ma tutti hanno il diritto di limitare l'altrui potere di disposizione con processi e interferenze discrezionali.
Completata l'opera della costruzione teorica del meccanismo di mercato, l'attenzione si sposta sull'efficienza, sullo scambio e sui limiti dei sistemi alternativi di proprietà. Esamineremo nel prossimo capitolo i legami tra proprietà e scelte individuali studiati dalla moderna teoria dell'azione razionale.
3. Proprietà e scelte individuali
In ogni comunità la proprietà è una fondamentale 'regola del gioco', che disciplina i rapporti tra individui e permette di attuare scambi mutuamente vantaggiosi. Si immagini per un istante che l'istituto della proprietà non esista. Chi lavora la terra non avrebbe alcuna garanzia di raccogliere i frutti della sua fatica. Se il vicino facesse valere indebite pretese sul raccolto, non ci sarebbero rimedi legali per tutelare il diritto di chi ha lavorato. Se questa fosse la regola, pochi coltiverebbero la terra; invece, se la terra fosse assegnata in proprietà, ciascun possessore avrebbe interesse a usarla nel modo più redditizio. La proprietà privata è, dunque, il prerequisito di ogni sistema economico decentrato, fondato su scelte individuali, atomistiche e razionali (v. Buchanan, 1993).
Si è detto che i beni scarsi sono oggetto di contesa sociale in quanto riflettono la contraddizione tra la limitatezza delle risorse e il desiderio illimitato di possesso. In questo senso la proprietà privata, attribuendo il potere di disporre delle 'cose', definisce la regola di questo potere e la sua distribuzione. Inoltre nel quadro di un'economia di mercato, le altre forme di proprietà (pubblica, comune) sono, si potrebbe dire, di minor pregio, perché non assegnano poteri privati e non inducono a decisioni efficienti.
L'ipotesi comportamentale dell'analisi economica neoclassica richiede che ogni individuo scelga, tra infinite alternative, le azioni che massimizzano la sua utilità; che non ci sia una gerarchia precostituita di preferenze e che ciascuno, data la dotazione di risorse in suo possesso, persegua con coerenza e istinto di sopravvivenza i propri fini. Con tali elementari postulati la microeconomia predice le scelte ottimali di un agente razionale semplicemente identificando i beni che compongono la sua funzione di utilità e definendo in qual modo l'evolvere delle circostanze sociali e tecnologiche modifichi lo stato di scarsità relativa dei beni, ossia l'insieme delle opportunità. Disponendo di tutte le informazioni necessarie, un individuo reagirà al cambiamento della struttura dei prezzi relativi (il tasso a cui un bene è sostituito con un altro), aumentando il consumo dei beni meno costosi. Nella ricerca del massimo benessere si effettuano così tanti scambi volontari finché non si raggiunge un punto di equilibrio e di completa soddisfazione. Ovviamente ogni scambio di mercato ha senso se produce benefici netti per le parti. Questa condizione mette in luce la funzione della proprietà privata che favorendo la stipulazione dei contratti, la negoziazione e il trasferimento delle risorse, riduce i costi delle transazioni e fa aumentare di conseguenza i guadagni realizzati dagli agenti.
In questo schema il diritto di proprietà è oggetto di una lettura economica. L'usus è la garanzia di sovranità del consumatore. Egli è sovrano nel decidere l'impiego delle proprie risorse al cambiare dei prezzi di equilibrio. Senza il riconoscimento pieno dell'usus non c'è allocazione ottimale delle risorse. Il fructus definisce la regola di appropriazione del rendimento delle risorse. Per suo mezzo è possibile effettuare il calcolo dei costi e dei benefici attesi e determinare l'allocazione intertemporale efficiente delle risorse. In sua assenza il futuro tende a essere sacrificato al presente. L'abusus consente la trasferibilità del bene e dunque la possibilità che esso sia impiegato da chi lo valuta maggiormente e che si presume ne avrà maggior cura: condizione anch'essa essenziale per un'allocazione ottima delle risorse.
Il mercato e la proprietà privata costituiscono, dunque, un sistema di regole idoneo ad allocare in modo efficiente beni scarsi e appropriabili. Ma è sempre vero, come sostenne Adam Smith, che una mano invisibile coordina tutte le azioni egoistiche individuali in un risultato armonioso per l'intera società? La risposta è negativa, perché in linea di principio non ci sono mercati per tutti i beni che si vorrebbe allocare.
I beni pubblici. - Un bene pubblico (public good) è un bene senza mercato definito da un duplice criterio: a) che tutti ne possano godere in egual misura, senza ridurne la disponibilità totale; b) che non sia possibile escludere qualcuno dal suo godimento, ovvero che non sia possibile dividerlo in parti eguali e venderlo a un prezzo unitario. Si tratta di beni che se fossero soggetti al regime della proprietà privata non verrebbero prodotti per un'ovvia mancanza di incentivi individuali e, se lo fossero, la quantità prodotta sarebbe inferiore alla domanda a causa degli incentivi egoistici alla non cooperazione. Se un bene non può essere diviso in unità di vendita, ne segue che: a) su ogni unità offerta non si può costituire un diritto di proprietà privata; b) non essendo possibile escludere nessuno dal suo godimento, non se ne può garantire il possesso esclusivo; c) non è possibile applicare un prezzo, né scontare il frutto di una valorizzazione nel tempo; d) il costo di un consumatore addizionale è nullo. Beni pubblici perfettamente puri forse non esistono, ma indebolendo il criterio dell'impossibilità di esclusione ci si rende conto della rilevanza di alcuni di essi: i beni ambientali (aria, acque marine e territoriali), la sicurezza e la difesa nazionale, le strade, la tutela sanitaria, i beni di informazione.
I caratteri propri dei 'beni pubblici' giustificano l'offerta gratuita in un contesto di proprietà pubblica; oppure la concessione di un sussidio affinché aumenti la produzione privata; oppure ancora una regolazione pubblica affinché si assegnino i diritti di proprietà relativi, come per le acque del mare o per una foresta. Ma se la regolazione legislativa dei beni pubblici crea nuovi diritti di proprietà, la stessa regolazione indebolisce i diritti di proprietà su beni privati. Ad esempio, un'impresa è limitata negli usi possibili delle sue risorse da una legge contro l'inquinamento ambientale che, all'opposto, attribuisce a tutti i cittadini i diritti d'uso su aria e acque.
Le esternalità. - Dai beni pubblici alle esternalità il passo è breve. Le esternalità, o economie e diseconomie esterne, sono interpretabili come benefici o costi la cui titolarità in termini di diritti di proprietà e doveri non è ben definita. Si consideri un'esternalità negativa come l'inquinamento acustico: chi può disporre del rumore in modo esclusivo? chi è titolare del diritto al silenzio?
I mercati sono istituzioni che permettono lo scambio dei diritti di controllo e di disponibilità piena su certe attività, quindi possiamo affermare che si ha una esternalità quando l'imperfetta attribuzione dei diritti o la loro non trasferibilità impedisce che si possa concludere uno scambio dei diritti di produrre esternalità. Viceversa l'esistenza di un mercato consente alle parti in causa il controllo e la negoziabilità su tutte le variabili che influenzano le loro decisioni. Inoltre, siccome i beni o i mali che creano esternalità hanno una dimensione naturalmente sociale, dovuta agli effetti esterni, la mancanza di mercati porta con sé squilibri e divergenze tra le scelte ottime per l'individuo e quelle ottime per la società.
Ad esempio, se la fonte acustica inquinante avesse la proprietà del bene 'rumore', i proprietari degli appartamenti localizzati nelle vicinanze, e deprezzati per la mancanza di quiete, non potrebbero reclamare alcun risarcimento; inoltre chi inquinasse potrebbe non tener conto dei danni causati. Varrebbe l'opposto se il silenzio appartenesse di diritto a tutti e la fonte inquinante facesse un uso delle sue risorse contrario alla conservazione del bene.Infine, mentre nella gran parte dei beni il diritto di proprietà è un fatto storicamente e giuridicamente acquisito, per altri beni l'attribuzione dovrebbe avvenire tramite una decisione pubblica. Usiamo il condizionale, perché un noto argomento di Ronald Coase (v., 1960) mette in luce una insospettata vitalità delle regole di mercato.
Il teorema di Coase. - Secondo Coase l'assegnazione dei diritti di proprietà sui possibili usi di un bene è irrilevante ai fini di una sua allocazione ottimale: sono sufficienti il mercato e l'attività privata. Quando gli operatori economici sono pochi, ossia il loro numero è così ridotto da permettere una chiara identificazione delle interdipendenze derivanti dalle scelte di ciascuno, quando non vi sono informazioni nascoste, quando sono assenti barriere che ostacolino la formazione di accordi e i costi di transazione sono nulli, è possibile ottenere spontaneamente l'internalizzazione delle esternalità pervenendo a esiti efficienti tramite la negoziazione privata. Coase giunse a queste conclusioni riprendendo il concetto di costo-opportunità e rilevando che in ogni situazione economica il danno subito per una esternalità negativa e il mancato guadagno derivante da una riduzione dell'attività che provoca quegli effetti esterni negativi sono due aspetti di uno stesso fenomeno.Ecco un semplice esempio: un costruttore, C, deve decidere l'altezza di un suo palazzo. Egli sa che ogni piano in più, facendo ombra su un campo di rarissime orchidee, provoca danni a un produttore di fiori, O.
I costi di O dipendono, dunque, anche dalla dimensione del palazzo di C. Immaginiamo che la legge imponga il risarcimento dei danni al produttore di orchidee. Secondo la logica della scelta efficiente il costruttore alzerà il suo palazzo sino a che il ricavo marginale dell'ultimo piano sarà superiore al danno marginale provocato.Supponiamo al contrario che O non abbia un diritto al risarcimento; egli sarà disposto a pagare C, affinché non aumenti l'altezza del grattacielo, sino a un valore inferiore o al massimo eguale alla perdita annuale di raccolto. Questo ipotetico pagamento è un vero e proprio costo se viene rifiutato dal costruttore. Questi deciderà, dunque, sempre secondo la stessa logica: ossia, se il ricavo derivante dall'incremento di un piano è superiore al suo costo, aumenterà l'altezza della costruzione. Ma, mentre prima il costo comprendeva il risarcimento, ora il costo comprende il riconoscimento del mancato guadagno. Quale che sia la regola legale (responsabilità o meno), ossia quale che sia il titolare del diritto di proprietà sull'ombra (esternalità negativa), tramite la contrattazione si raggiunge lo stesso risultato.
Secondo alcuni autori il cosiddetto teorema di Coase non sarebbe altro che una tautologia (v. Farrell, 1987): affermerebbe infatti che se gli agenti economici sono in grado di contrattare in modo perfetto, allora i risultati sono perfetti. La tautologia avrebbe, inoltre, un senso se fosse sempre vero che i costi di transazione sono nulli, ma sappiamo che così non è. D'altra parte anche con costi nulli è dimostrabile che la presenza di informazioni 'private' (ossia inaccessibili ad altri) rende la contrattazione spontanea incapace di condurre a esiti ottimali. Sotto questo profilo, dunque, il cosiddetto teorema di Coase, costituirebbe una ragione per un intervento regolatore dello Stato nell'assegnazione dei diritti di proprietà.
4. I diritti di proprietà
I diritti di proprietà, o property rights, sono diritti di disposizione sulle cose regolanti i loro possibili usi (v. Alchian, 1965; v. Cooter e Ulen, 1988; v. Barzel, 1989). Siccome gli usi dipendono dalla natura del bene e dal contesto istituzionale e organizzativo, i diritti di proprietà possono essere molteplici.
I diritti di proprietà sono prerequisito di un mercato efficiente quando condividono le seguenti caratteristiche. Universalità: la proprietà riguarda tutti i beni scarsi e desiderati; secondo l'impostazione neoclassica in tal modo un agente razionale terrà conto dei costi e dei benefici delle sue scelte. Esclusività: il proprietario ha un potere di disposizione esclusivo sul suo bene, e nessuno può usare il bene o modificarne le caratteristiche fisiche senza il suo consenso. Trasferibilità: un diritto di proprietà privato è trasferibile a terzi in cambio di analoghi diritti su altri beni; in tal modo i beni saranno allocati a coloro che ne fanno l'uso più efficiente, ossia a coloro che li valutano maggiormente. La trasferibilità dei diritti è un elemento di debolezza della proprietà pubblica, della proprietà comune e dell'usufrutto rispetto alla proprietà privata. Negoziabilità: ogni transazione contrattuale reciprocamente accettata è in linea di principio ammissibile. La legge può proibire certi scambi - ad esempio la vendita di droga - per ragioni etiche, ma paradossalmente, secondo la teoria neoclassica unicamente orientata all'efficienza, queste restrizioni indeboliscono i diritti e la loro funzione di coordinare la produzione e il consumo e di risolvere conflitti di interesse. Quando queste caratteristiche non sono rispettate si creano inefficienze.
Il confronto tra il sistema della proprietà privata e il sistema della proprietà comune mette in evidenza il fenomeno della 'tragedia dei commons' (v. Hardin, 1968). Quando la proprietà è goduta in comune, nessuno è titolare di diritti d'uso esclusivi e trasferibili. Senza trasferibilità non c'è un sistema di prezzi di mercato idoneo a capitalizzare (scontare) gli effetti futuri del modo in cui un bene sarà gestito. Senza trasferibilità, dunque, non si possono vendere i singoli diritti e non ci si può appropriare oggi dei frutti futuri di un'attività di investimento. La conseguenza ovvia di questo stato di cose sarà un minore interesse del proprietario ad avere la massima cura delle risorse comuni affinché conservino nel tempo la loro capacità di produrre ricchezza. I titolari dei diritti di proprietà su risorse a libero accesso saranno meno incentivati a non esaurire le capacità produttive dei pascoli, delle riserve di pesca, di caccia o delle foreste, perché la decisione su quanto produrre, quale tecnica usare e come investire è ovviamente influenzata dall'assetto della proprietà.
Se prevalesse un regime di proprietà privata i beni a libero accesso sarebbero sfruttati meno e si esaurirebbero più lentamente. La proprietà privata d'altronde può affermarsi quando aumenta il valore marginale delle risorse a causa di un incremento della domanda, o di una riduzione dei costi di enforcement. È la storia dei cacciatori di pelli di castoro del Labrador (v. Demsetz, 1967). Inizialmente la caccia non era regolata e tutti gli indiani vi avevano libero accesso. Quando la domanda aumentò, la ricerca del massimo prodotto individuale portò numerosi cacciatori europei a fare vere e proprie razzie di animali. Ogni cacciatore non era interessato a salvare un castoro-madre, perché presumeva che i suoi figli sarebbero stati preda di altri cacciatori. La mancanza di incentivi individuali alla conservazione del patrimonio comune ridusse di fatto a zero il tasso di riproduzione naturale e fu la causa dell'estinzione di una risorsa economica. In questo contesto divenne conveniente modificare il sistema dei diritti introducendo regole di proprietà privata. Da quel momento ciascuno cacciò nella propria riserva con una maggiore attenzione all'esauribilità della risorsa.
La proprietà comune riduce gli investimenti e incentiva l'accesso di coloro che vogliono sfruttare posizioni di rendita. Prevalgono attività ad alta intensità di lavoro e produzioni orientate a un rendimento immediato. Nel caso delle risorse comuni la situazione inefficiente deriva dalla mancata assegnazione dei diritti di proprietà. Ogni nuovo cacciatore trascura il fatto che la sua attività ridurrà il valore del prodotto ottenibile dagli altri, ossia il costo sociale della sua attività; non considera gli effetti esterni negativi delle sue decisioni.
Il grado di efficienza dei diritti (in particolare brevetti e copyrights) che disciplinano il mercato della produzione intellettuale è una questione aperta. Da un lato si sostiene che, senza un'adeguata protezione pubblica di invenzioni, opere d'arte e dell'ingegno, verrebbero meno gli incentivi a innovare o a creare; dall'altro lato si ribatte che la protezione legale genera di fatto situazioni di monopolio a favore dell'autore o inventore, il cui comportamento e i cui interessi sono posti al riparo dalle leggi della concorrenza (v. Landes e Posner, 1989; v. Posner, 1992⁴; v. Merges, 1995).Molte legislazioni hanno salomonicamente riconosciuto i diritti di proprietà a favore del creatore, ma con limitazioni: la protezione legale non è perpetua, ma limitata nel tempo; le grandi idee scientifiche, come le leggi della fisica o della chimica, non sono brevettabili e si possono brevettare solo le invenzioni non ovvie, come in modo anticipatore recitava la prima legge sui brevetti promulgata dalla Repubblica di Venezia nel 1474.
Oltre ai brevetti e al diritto d'autore, la proprietà intellettuale è tutelata dal segreto commerciale e dai marchi industriali (v. Landes e Posner, 1987). Mentre i marchi appartengono all'area della protezione legale, il segreto è una scelta privata. Sotto certe condizioni il segreto diventa una strategia ottimale per le imprese che in tal modo possono eludere il limite temporale fissato dalla tutela legale dei brevetti e, soprattutto, non sono obbligate a rivelare i loro processi produttivi innovativi.
La schiavitù, con la mancata libera disponibilità di se stessi, è stata un fenomeno sociale diffuso, riconosciuto e oggetto di forti scontri razziali e politici. Anche sul piano dell'analisi storico-economica non c'è un accordo generale sul giudizio di efficienza o meno del sistema schiavistico. La ricostruzione della schiavitù negra americana proposta da Fogel ed Engerman (v., 1974), ad esempio, è un tipico studio controcorrente in cui si sostiene che l'assetto generale delle forme di proprietà comprendenti la schiavitù sarebbe stato efficiente, sia sotto il profilo delle condizioni di nutrizione e di vita degli schiavi, sia con riferimento all'evoluzione del sistema economico. Tuttavia lo studio controfattuale della 'new economic history' di Fogel, per quanto si fondi su analisi quantitative sofisticate, non convince nello spiegare la secolare arretratezza del Sud degli Stati Uniti, che solo oggi mostra segni evidenti di crescita economica.La teoria economica ha messo in luce, invece, altri aspetti 'privati' della schiavitù e della sua estinzione partendo dall'ipotesi dell'incompletezza del diritto di proprietà sulla persona altrui (v. Barzel, 1977).
La schiavitù può essere interpretata come un rapporto di lavoro regolato da un contratto in cui una delle parti si impegna - o è forzata - a trasferire la propria forza lavoro ad altra persona per l'intero arco della sua vita o per un periodo più breve. L'analisi economica tende a dimostrare che la schiavitù è una forma di proprietà incompleta a causa delle asimmetrie informative e dei costi di transazione che i proprietari dovevano sopportare per controllare, con dispendio di risorse, l'attività lavorativa, l'impegno individuale e la fedeltà dello schiavo, messa in discussione dai continui tentativi di fuga. La ricerca di costi di transazione e di controllo inferiori aprì spazi al riconoscimento di diritti di proprietà sull'uso di se stessi e del proprio tempo a favore degli schiavi. Questi diritti e la possibilità di appropriarsi di parte del frutto del proprio lavoro vennero trasformati in risorse economiche che poi consentirono il riscatto del contratto. L'interpretazione di Adam Smith (v., 1776) del problema economico della schiavitù era stata diversa, sebbene anch'egli ne sottolineasse la generale inefficienza. Infatti, ritenendo che lo schiavo non potesse acquisire proprietà, ma solo il proprio mantenimento, egli sottolineò in più passi che il lavoro schiavile era inevitabilmente meno produttivo e più caro di quello di un uomo libero. L'eliminazione della schiavitù non derivò dall'imperfezione di un legame contrattuale come sostiene Barzel, ma dalla mancanza di incentivi individuali (diritto di proprietà sui frutti del proprio lavoro) che rendeva lo schiavo non 'innovativo' e non interessato a miglioramenti produttivi. Il sistema del lavoro libero mostrava in definitiva una superiore efficienza e come tale si affermò.Il problema dei diritti di proprietà sul proprio corpo deriva dallo sviluppo della scienza medica che ha enormemente aumentato la domanda di materiali provenienti dal corpo umano; una domanda drammatica che, se insoddisfatta, confligge con valori fondamentali legati all'esistenza degli individui; una domanda cui fa fronte un'offerta esigua. Una domanda di beni essenziali, la cui allocazione è oggetto di 'scelte tragiche', che il criterio dell'efficienza, da solo, non sembra in grado di aiutare.
L'allocazione tramite il mercato assimila le parti anatomiche alle merci, accetta il principio 'ciascuno è padrone del proprio corpo' e considera la proprietà privata alienabile come il regime giuridico più idoneo. Il mercato assegna il bene a chi lo valuta maggiormente, ma quando un individuo aliena in condizioni di necessità finanziaria materiali provenienti dal proprio corpo, è libero di scegliere razionalmente? Un esempio importante è riportato nello studio di Titmuss (1970) sull'allocazione del sangue. Titmuss ha mostrato che il sangue in vendita scambiato sul mercato è in genere di qualità inferiore rispetto a quello donato. Questo risultato inefficiente è dovuto al diverso sistema di incentivi che guida venditori e donatori. La presenza di un interesse economico spinge anche un malato consapevole a vendere il proprio sangue e aumenta il rischio di diffusione di un prodotto infetto.
Chi identifica la giustizia con l'efficienza si rivolgerà alle regole di mercato; altri, invece, cercheranno in ogni particolare ambiente storico la combinazione migliore di criteri allocativi (v. Calabresi e Bobbit, 1978). I principali criteri sono così classificabili (v. Elster, 1992): principî egualitari (eguaglianza, sorteggio, rotazione); principî correlati al tempo (code, anzianità); principî determinati dallo status (età, sesso, posizione sociale, religione, libertà); principî definiti da proprietà particolari (bisogno, efficienza, benessere); meccanismi basati sul potere (potere d'acquisto, influenza); sistemi misti.
Il tema dell'organizzazione economica e dei diritti di proprietà sui mezzi di produzione è stato oggetto di due grandi dibattiti teorici. Il primo, sull'opposizione mercato/pianificazione collettivista, si svolse nella prima metà del secolo tra Barone, von Wieser, Pareto, Hayek, Lange e Lerner (v. Schumpeter, 1954; v. Hayek, 1935). Il secondo, più legato alla struttura proprietaria dell'impresa, si sviluppò nell'ultimo dopoguerra.
Enrico Barone (v., 1908) avviò il dibattito classico con un'opera che Schumpeter definisce insuperata per rigore scientifico e valore aggiunto. Barone dimostrò che il ministro della produzione di uno Stato collettivista, in cui sono stabiliti, per esempio dalla costituzione, quali debbono essere i redditi dei cittadini, grazie ai segnali trasmessi liberamente dalla periferia del sistema economico al suo centro burocratico è in grado di far produrre le quantità di beni di consumo e di investimento appropriate, ossia analoghe a quelle prodotte in un mercato di concorrenza perfetta. Un risultato importante che estendeva le linee interpretative walrasiane dal mercato alla pianificazione.Tuttavia la praticabilità degli schemi di Barone è inversamente proporzionale alla loro astrattezza. Hayek, grande avversario di ogni economia fondata sul comando, sottolineò con forza sia il ruolo della proprietà privata come incentivo efficiente, sia l'impossibilità per un sistema collettivista di gestire l'enorme massa di informazioni necessaria a soddisfare le preferenze dei cittadini. Il mercato invece è il meccanismo che richiede il livello minimo di informazioni.In epoca più recente il confronto tra proprietà pubblica e privata si è concentrato sul ruolo delle imprese. Le imprese e i mercati sono forme organizzative diverse almeno sotto due profili: perché regolano i rapporti tra le persone che operano al loro interno secondo principî differenti e perché comportano costi di funzionamento ineguali.
Nelle imprese prevalgono le gerarchie e le relazioni di autorità tra diversi; nei mercati gli scambi tra eguali. Quando si usa il mercato per organizzare la produzione, occorre concludere contratti separati per ogni transazione e individuarne il prezzo conveniente, mentre nelle imprese l'imprenditore è in grado di organizzare il processo produttivo coordinando il lavoro di altri a un costo inferiore. In altre parole usare il mercato costa di più che usare un'impresa.Per quanto riguarda l'assetto della proprietà, la superiorità dell'impresa risiede nel fatto che è diretta da un proprietario-imprenditore, cui sono assegnati i profitti o il reddito residuo dell'attività produttiva. Vi è cioè qualcuno personalmente incentivato a controllare e coordinare il lavoro di tutti, riducendo la tendenza spontanea alla non cooperazione che si annida nelle logiche individuali della negoziazione tra eguali (v. Coase, 1937; v. Alchian e Demsetz, 1972).
L'assetto proprietario è dunque importante per capire perché esistono le imprese. Ma è determinante anche per definire le diverse tipologie di organizzazione produttiva e, soprattutto, per predire i comportamenti attesi di coloro che hanno l'autorità di prendere le decisioni (v. Alchian, 1965; v. Pejovich, 1990).Vediamo alcuni aspetti del confronto tra imprese a proprietà privata e a proprietà pubblica. In realtà ciò che le distingue è il diverso sistema di incentivi e penalizzazioni connesso alla trasferibilità dei diritti di proprietà. Se i diritti sono trasferibili, i profitti e le perdite capitalizzate sono attribuiti a proprietari responsabili. Ciò comporta più conseguenze. Innanzitutto, maggiore è la concentrazione dei costi e delle remunerazioni di un'impresa nelle mani di un individuo, maggiori saranno la dipendenza dello stesso individuo dalle sue attività e la sua responsabilità. Così, a seconda dell'assetto dei diritti di proprietà avremo un'autonomia individuale sempre più ampia passando dalla proprietà pubblica alla titolarità congiunta di una proprietà privata, fino alla proprietà privata esclusiva. In secondo luogo, si svilupperà la specializzazione di coloro che hanno maggiori competenze imprenditoriali e attitudine all'assunzione del rischio, i quali cercheranno di sfruttare appieno le loro capacità assumendo il controllo delle imprese di cui sono esperti. La proprietà pubblica non comporta una tendenza alla specializzazione della proprietà. In terzo luogo, la trasferibilità è collegata, tramite la dispersione dell'azionariato, alla separazione tra attività di controllo e assunzione del rischio. Questo fenomeno assume risvolti inquietanti per Berle e Means (v., 1932), che vi vedono la nascita di una nuova forma di assolutismo, capace di eludere le responsabilità di fronte ai proprietari e al mercato. Per i teorici dei diritti di proprietà la separazione suddetta favorisce la specializzazione nell'assunzione del rischio (proprietà) o nella gestione (controllo). Come sostiene Alchian (v., 1965, p. 107), "in regime di proprietà pubblica i costi di ogni decisione e di ogni scelta ricadono in misura minore che in regime di proprietà privata su colui che le ha assunte". I rischi vengono addossati all'insieme della collettività.Lo stesso schema analitico è applicato anche ad altri possibili confronti. Ad esempio si dimostra che le cooperative di produzione possono incorrere in un tasso di investimento inferiore a quello delle imprese a proprietà privata. La spiegazione (v. De Alessi, 1980) sta nel fatto che i soci dividono il reddito di esercizio, mentre gli azionisti di un'impresa a proprietà privata capitalizzano nella ricchezza attuale i guadagni futuri. Possono, quindi, in ogni momento vendere la loro quota il cui valore tiene conto dei guadagni futuri derivanti da un investimento. Invece, la decisione di un lavoratore-proprietario di rinunciare a una parte del salario in favore di un investimento che darà frutti in futuro dipende, oltre che dal tasso di rendimento atteso, dal monte salario che il lavoratore, a seconda della sua età, potrà accumulare. Siccome la durata del servizio è limitata da ragioni biologiche si sceglieranno salari più elevati e minori investimenti.
La scelta individuale per essere efficiente ha bisogno della proprietà privata. Per analizzare, ora, il ruolo della proprietà nelle scelte sociali, dobbiamo premettere alcune critiche alla concezione utilitaristica che è alla base di una certa idea del benessere collettivo (welfare).
Per quanto oggetto di un dibattito ancora aperto (v. Sen e Williams, 1982) l'utilitarismo, che identifica il bene nell'utile e il giusto nella ricerca del piacere, è una teoria debole quando è impiegata per valutare l'assetto sociale della distribuzione delle risorse. In realtà non è una teoria egualitaria in quanto il principio di J. Bentham "ciascuno conta per uno, nessuno più di uno" ha come oggetto individui privi di valore, considerati come mezzi e non come fini. Secondo l'utilitarismo, scopo dell'azione sociale è assicurare la più grande felicità al più gran numero di individui. Ma in realtà il calcolo utilitarista, che valuta in modo eguale il piacere e la soddisfazione delle più diverse persone, è compatibile con le distribuzioni più ineguali (v. Hart, 1979); pertanto il declino della fiducia nei suoi confronti si è accompagnato a un aumento di interesse per le teorie orientate a discutere il problema della proprietà e della sua distribuzione in termini di diritti (v. Waldron, 1988). Ogni scelta sociale deve essere congrua alla tutela dei diritti individuali, tra cui quello di proprietà, e deve giustificare eticamente qualsiasi loro violazione, anche se a favore del benessere generale.
La moderna analisi sociale della proprietà, se così si può definire il campo della scelta sociale in rapporto alla proprietà (v. Parijs, 1991), è un settore di studio a vocazione interdisciplinare. L'approccio economico è più datato e stilizzato (v. Quadrio Curzio, 1993, cui si rimanda per una rassegna esaustiva delle teorie economiche della distribuzione del reddito e della ricchezza). Le altre principali aree di ricerca sono quelle definite in alcuni contributi originali che, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, hanno scandito il dibattito internazionale. Li esamineremo in un ordine che riflette un progressivo indebolimento del diritto della proprietà privata.
La teoria dello Stato minimo vuole individuare la dimensione massima dello Stato compatibile con l'inviolabilità dei diritti individuali. Nella sua versione moderna più nota (v. Nozick, 1974) gli individui sono considerati entità dotate di diritti naturali assoluti, sono spazi moralmente protetti, i cui confini sono inviolabili. I (pochi) diritti assoluti e negativi di cui siamo titolari - diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà - "esprimono l'inviolabilità delle persone" e "riflettono il fatto che esistiamo come individui separati".Il problema di Nozick è duplice: in primo luogo spiegare le origini spontanee dello Stato e in secondo luogo determinarne l'estensione massima, relativamente alla tutela della proprietà privata e dei mercati. La nascita dello Stato minimo è ricostruita endogenamente come un processo di mercato.
La produzione di servizi di protezione dei diritti fondamentali - tra cui quello di proprietà - evolve verso un'unica organizzazione statale che si avvale di una minima attività di redistribuzione. Questa redistribuzione, che viola il potere assoluto di disposizione individuale sui propri beni, sarebbe la sola eticamente accettabile e l'offerta pubblica di qualsiasi altro bene o servizio violerebbe i diritti individuali dei cittadini. Ecco così presentarsi il problema redistributivo, ossia dell'indebolimento giustificabile del diritto di proprietà. Nozick sostiene al proposito la teoria del titolo valido, in base alla quale i beni sono sempre collegati a individui titolari di diritti e la distribuzione del reddito e della ricchezza è giusta "se la persona ne ha diritto in grazia dei principî di giustizia nell'acquisizione e nel trasferimento". Ciò che conta sembra essere solo l'eguaglianza davanti alla legge, che deve rispettare il fatto che esistono diritti particolari su cose particolari possedute da persone particolari.
La teoria del titolo valido è secondo la terminologia introdotta da Nozick una teoria storica e non dello stato finale. Una teoria della giustizia distributiva è storica quando afferma che la giustizia dipende dal modo in cui la distribuzione si è realizzata. Per contro altre teorie giudicano la distribuzione sulla base del modo in cui i beni sono ripartiti, ossia sulla base di una qualche regola strutturale che è indipendente dalla storia. Ora, a differenza di quanto avviene con i principî di distribuzione storici, "per mantenere un modello (finale) si deve continuamente ricorrere a interferenze per impedire alla gente di trasferire beni come meglio crede, oppure [...] per togliere ad alcune persone i beni che altri, per un qualche motivo, decidono di trasferire loro". I modelli finali sono instabili: è possibile che in definitiva qualcuno non abbia veramente diritto a ciò a cui ritiene di aver diritto.La teoria dello Stato minimo ha sollevato più problemi di quanti non ne abbia risolti. Nel panorama morale di Nozick, popolato da persone portatrici di diritti assoluti, l'insieme delle relazioni tra gli uomini in termini di eguaglianza o meno di ricchezze e redditi non conta. L'unica distribuzione della proprietà ammissibile è quella storica, legittimata dal diritto privato vigente.
Libertà, evoluzionismo istituzionale e mercato sono le lenti attraverso cui si svela il miraggio della giustizia sociale e si comprende appieno il valore del governo della legge. Hayek (v., 1982²), uno degli interpreti più autorevoli del pensiero liberale moderno, ritiene che il progresso dell'umanità sia un processo contraddittorio basato su strutture autoorganizzate, che evolvono naturalmente secondo un processo di prova ed errore. Il risultato, e la sostanza stessa di questo processo, è lo stabilirsi di un ordine spontaneo, che Hayek chiama cosmos, contrapposto a taxis, l'ordine costruito e imposto dall'alto che è il fine dei costruttivisti.
Con una lenta evoluzione che inizia agli albori dell'umanità l'uomo è arrivato, attraverso sentieri più volte seguiti e più volte abbandonati, alla 'grande società' in cui l'attività umana è regolata dal governo della legge, cioè da un sistema di regole generali e astratte che non interferiscono con i processi interattivi tra singoli. Nella 'grande società' è la rule of law, la nomocrazia, a essere usata come regola per il governo. La trasformazione della società tribale, indirizzata ai fini, nella 'grande società', orientata alle regole, avviene quando gli uomini comprendono che il baratto e lo scambio permettono una collaborazione pacifica, senza l'obbligo di definire dei fini comuni. L'ordine di mercato, la catallassi, non richiede un accordo sui fini: è un gioco a somma positiva il cui risultato dipende dall'abilità e dalla fortuna individuali. Il mercato, che di fatto riconcilia i fini dei diversi individui, è governato da mere regole di condotta e perciò ogni interferenza esterna crea dei privilegi nel senso che attribuisce benefici ad alcuni e impone oneri ad altri. La catallassi è, dunque, "un tipo speciale di ordine spontaneo prodotto dal mercato tramite individui che agiscono secondo le norme del diritto di proprietà, della responsabilità extracontrattuale e delle obbligazioni".
Il governo della legge non permette di compensare gli individui "secondo le idee altrui del merito o della ricompensa" (giustizia distributiva), ma solo "secondo il valore che i loro servizi hanno per i loro simili" (giustizia commutativa). In termini ancora più generali non ha senso parlare di giustizia sociale a proposito di un ordine spontaneo, perché il concetto di giustizia è un attributo specifico della condotta umana. Uno stato di cose non può essere considerato né giusto, né ingiusto, ma solo buono o cattivo, per cui il riferimento alla giustizia sociale o redistributiva è logico solo all'interno di una organizzazione, ma non in un ordine spontaneo. Per Hayek "non c'è bisogno di giustificare moralmente quelle distribuzioni specifiche di reddito o di ricchezza che non sono avvenute deliberatamente, ma sono il risultato di un gioco a cui si partecipa perché incrementa le possibilità di ognuno".
La giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali. Ogni persona, infatti, possiede un'inviolabilità fondata sulla giustizia "su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere" (v. Rawls, 1971). John Rawls non elabora una teoria della proprietà, ma del sistema istituzionale che ne definisce la distribuzione e i limiti eticamente ammissibili.
Le difficoltà connesse con lo stato di natura non sono solo quelle dell'inefficienza, ma anche quelle dovute all'accidentalità con cui madre natura distribuisce posizioni sociali e attributi individuali. La natura non è né giusta, né ingiusta, ma sarebbe ingiusto se la società civile accettasse il criterio della casualità. Così è realistico prevedere che si cercherà di mitigare gli effetti del caso sulla posizione individuale dei singoli con un insieme di istituzioni giuste.
Esamineremo ora prima il contesto in cui saranno selezionati i principî per la struttura fondamentale di una società ben ordinata, e poi il loro contenuto, ribadendo che nell'impostazione di Rawls tra contesto (posizione originaria) e contenuto (principî di giustizia) vi è una relazione molto stretta (contratto sociale unanime). Infatti si vuole dimostrare che in un contesto imparziale non solo vi è tendenza all'accordo, ma si sceglieranno unanimemente i principî di giustizia rawlsiani.
Affinché ciascuno possa scegliere in una situazione di libertà ed eguaglianza, si immagini che un velo di ignoranza copra tutte le menti, in modo tale che le singole persone non possano conoscere né prevedere quale posizione sociale e quali benefici potranno ottenere scegliendo un insieme di regole piuttosto che un altro. Le informazioni nascoste dalla cortina di ignoranza sono molte: tra di esse vi sono quelle riguardanti la generazione cui si appartiene, i gusti e la posizione sociale degli altri, l'assetto storico della proprietà e la conseguente distribuzione della ricchezza e del reddito.
Sotto il velo di ignoranza le persone sono nella cosiddetta posizione originaria, in cui tutti hanno le stesse informazioni e le stesse ignoranze e possono scegliere, all'unanimità, senza dover tener conto dei propri interessi egoistici. Nella posizione originaria gli individui, anche se perseguissero fini egoistici, non potrebbero farlo a favore di se stessi, ma dell'intera specie perché si trovano in condizione di perfetta eguaglianza e raggiungeranno le stesse conclusioni quanto alle regole del gioco o ai principî che devono essere inclusi nel patto sociale.
I principî unanimemente prescelti sono due. Il primo attribuisce a ogni persona un eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale compatibile con una simile libertà di tutti gli altri. Per il secondo le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere trattate in modo da offrire il massimo beneficio a chi è più svantaggiato (principio di differenza) ed essere collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità. I due principî non conducono a una distribuzione egualitaria delle risorse. "L'ingiustizia coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio dei più svantaggiati".
L'assetto sociale rawlsiano comporta una limitazione della proprietà privata realizzata con la tassazione del reddito e della ricchezza. Lo Stato, infatti, deve intervenire a rimuovere (redistribuendo) le diseguaglianze economiche e sociali che non sono giustificate da un beneficio per chi è più svantaggiato. L'indebolimento del diritto di proprietà è giustificato dalla ricerca di una società ben ordinata ed equa, anche se non è davvero facile rendere operativo l'artificio del velo di ignoranza e della posizione originaria e raggiungere un accordo unanime. L'assenza di informazioni che caratterizza la posizione originaria è oggetto di molte critiche, in quanto si ritiene che rappresenti una limitazione grave per chi sta per selezionare i principî di giustizia fondamentali.
Sfere di giustizia. - La teoria delle sfere di giustizia (v. Walzer, 1983) è una difesa del pluralismo e dell'eguaglianza, basata sull'assunto che la proprietà privata vada limitata non come problema in sé, ma per evitare che influisca negativamente su tutte le altre sfere di giustizia.
Secondo Walzer la realtà storica è differenziata e le teorie che intendono abbracciarla con un unico sistema o modello esplicativo rischiano di essere, loro malgrado, particolaristiche o inadeguate. Si pensi all'utilitarismo e al suo tentativo di porsi al di sopra di tutto per definire che cosa è giusto e che cosa è bene per l'intera umanità. Nessuno può staccarsi da sé, divenire altro da sé e fare il superlegislatore benevolente auspicato dagli utilitaristi. Si pensi alla teoria della giustizia di Rawls: come si può concepire un agente rappresentativo che nella posizione originaria sceglie i principî di giustizia universali?
Occorre, dunque, riconoscere l'eterogeneità dei significati dei beni prodotti in società ed epoche diverse. "Se i significati sono diversi, le distribuzioni devono essere autonome. Ogni bene sociale, o insieme di beni sociali, costituisce, per così dire, una sfera distributiva nella quale sono appropriati solo certi criteri e certi assetti". Ad esempio il denaro e il mercato possono essere un criterio accettabile nella sfera della produzione dei beni, ma non in quella della distribuzione delle cariche ecclesiastiche o politiche.
Ogni sfera influenza le altre, ma il principio critico sostenuto da Walzer è quello dell'autonomia relativa. Nessun bene dominante in una sfera deve dominarne un'altra. Il problema è che in quasi tutte le società e nelle diverse epoche alcuni beni sono stati dominanti in tutte le sfere: la proprietà terriera, il capitale, la scienza. Sono stati spesso monopolizzati, offrendo a chi ne detiene il controllo una posizione di supremazia sull'intero sistema distributivo: all'aristocrazia il monopolio della proprietà terriera, ai capitalisti il monopolio della ricchezza mobile, ai colti il monopolio dell'istruzione.L'ispirazione di fondo è di pervenire a una società egualitaria complessa, in cui nessun bene sia universalmente dominante. Così, se nell'ambito del potere politico un individuo detiene una carica superiore, non può usarla per ottenere vantaggi in altri ambiti e godere di una casa più bella o di un'istruzione migliore per i suoi figli. Dentro ciascuna sfera le diseguaglianze sono legittime.
Il risultato per quanto riguarda l'assetto della proprietà sarà la distribuzione di beni diversi ad associazioni diverse di uomini e donne, per ragioni diverse e secondo procedure diverse.
Contro la discriminazione. - Ronald Dworkin (v., 1977) sostiene una peculiare teoria dei diritti, secondo la quale dall'aspirazione all'eguaglianza come valore superiore discendono alcuni specifici diritti di libertà. Nella costruzione teorica di Dworkin la giustificazione dell'intervento dello Stato nella sfera economica privata nasce dal riconoscimento di un generale e inviolabile diritto alla non discriminazione.
Sullo sfondo dell'analisi sta un postulato di morale politica che afferma: lo Stato deve trattare coloro che governa con eguale considerazione e rispetto. In altre parole non si possono redistribuire risorse economiche in nome di una diversa considerazione degli individui - tutti, cioè, devono essere considerati come eguali - o di un diverso rispetto per le persone - tutti, cioè, devono godere di pari dignità, non esistono individui le cui preferenze sono più nobili, più sagge, più rispettabili. Questi elementi costituirebbero i postulati del concetto di 'giustizia liberale', ed è quindi logico chiedersi: quali ineguaglianze sarebbero permesse in uno Stato liberale giusto?
Per rendere operante il principio dell'eguale considerazione e rispetto è necessario che la valutazione utilitarista dei costi e dei benefici di una politica tenga conto anche della perdita di benessere di coloro che ne sarebbero danneggiati, in modo che tutti i cittadini vengano rispettati senza discriminazioni.
Tuttavia non sempre l'utilitarismo è un approccio ammissibile. È, infatti, viziato da un elemento 'corruttore': l'incapacità di distinguere tra preferenze personali e preferenze esterne. Le preferenze individuali personali sono per la distribuzione a se stessi di beni o di opportunità e sono relative a esigenze che riguardano la sfera privata. Le preferenze esterne concernono, invece, l'attribuzione di beni, opportunità e libertà agli altri. Quando si tratta di decidere collettivamente, attraverso regole di maggioranza, su questioni che riguardano l'interesse generale l'utilitarismo considera anche le preferenze esterne. Ma allora, così facendo, non si trattano tutti gli individui con uguale considerazione e rispetto. Si tende a individuare le libertà fondamentali sulla base della considerazione che esse devono essere salvaguardate non per ragioni procedurali, non perché il loro valore sia maggiore del benessere che si otterrebbe limitandole, ma perché in una votazione a maggioranza sarebbero sconfitte dalla presenza di preferenze esterne. È allora giustificato limitare il diritto di libertà e di proprietà per raccogliere risorse da impiegare contro la segregazione razziale, o pagare per l'istruzione e la salute di chi è stato discriminato e modificare l'assetto del diritto di proprietà limitandolo opportunamente.
Capacità e diritti. - La domanda 'eguaglianza di che cosa?' è il punto di avvio dell'analisi della distribuzione ineguale della proprietà fondata sulle differenti capacità di accesso ai beni e alle risorse (v. Sen, 1992). Ogni teoria etico-distributiva ha la sua risposta: eguaglianza di reddito, di risorse, di benessere, di diritti e di libertà. Ma l'oggetto dell'eguaglianza nasconde possibili aporie: due persone con le stesse risorse, ma culture, gusti e bisogni diversi avranno differenti livelli di benessere; l'insistenza dell'approccio libertario sulla garanzia di un'eguale tutela delle libertà individuali comporta il rifiuto dell'eguaglianza di stati finali in termini di redditi o di felicità.
La diversità umana (per età, sesso, capacità, talenti, predisposizione alle malattie) è la causa del fatto che l'eguaglianza rispetto a una cosa si trasforma in diseguaglianza rispetto a un'altra. La diversità umana ci obbliga a distinguere tra acquisizioni e libertà di acquisire. Per Sen la giustizia sociale deve fondarsi sulle capacità individuali, ossia sul grado di libertà che effettivamente abbiamo nel perseguire obiettivi che riteniamo importanti. Le capacità non vanno confuse con le risorse. Una persona disabile può avere molti redditi e ricchezze, ma poche capacità a causa della sua condizione fisica. Le capacità di base, come vivere una vita sana, partecipare alla vita della comunità, non sono correlate direttamente ai redditi e alle ricchezze.
Quindi la distribuzione della proprietà non ha rilevanza assoluta nel definire una società ben ordinata. Ciò che conta sono le capacità e i funzionamenti. "Giudicare l'eguaglianza - o anche l'efficienza - nello spazio dei beni primari (redditi, ricchezze, posizioni sociali, opportunità) equivale a dare priorità agli strumenti delle libertà rispetto a una qualche valutazione dell'estensione della libertà, e questo può essere in molti casi un limite".L'indebolimento della proprietà privata al fine di una maggiore giustizia sociale può risultare inutile se non è connesso alla realizzazione di un più generale diritto all'eguaglianza delle capacità. Rimuovere le incapacità personali nell'acquisizione dei beni comporta non solo interventi su diversità ascritte (salute, talenti), ma anche su diversità acquisite, come la povertà che domina gran parte della popolazione mondiale.
La moderna teoria delle scelte individuali procede all'interno di un modello strutturato e definisce con chiarezza il ruolo della proprietà nel sistema di mercato. La concezione della proprietà come incentivo economico è ben definita, sia per chi vi si oppone, sia per chi ne è affascinato. La moderna teoria delle scelte sociali redistributive è alla ricerca di un modello generale. I contributi significativi degli ultimi trent'anni hanno posto al centro dell'analisi i diritti, nel tentativo, non ancora compiuto, di superare con modelli e soluzioni razionali la concezione della proprietà come disordine sociale, senza trascurare, per altro, il valore della proprietà come incentivo economico.
(V. anche Capitalismo; Giustizia; Libertà).
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Diritto di Antonio Gambaro
Nell'ambito della scienza giuridica la nozione di proprietà si connota mediante valenze tanto numerose e complesse da renderne del tutto impossibile una sintesi concettuale unitaria. Ciò anzitutto perché le diverse tradizioni giuridiche si sono dotate di concettualizzazioni assai diversificate per affrontare tecnicamente i problemi della detenzione e della circolazione della ricchezza. Pertanto occorre anzitutto rassegnarsi al dato di fatto che non esiste, e non può esistere, una nozione giuridica di proprietà atta a racchiudere il nucleo comune dei vari modi in cui le situazioni di appartenenza si configurano nei diversi sistemi e nelle diverse tradizioni giuridiche.
Giova sottolineare come tale impossibilità attenga essenzialmente al solo linguaggio giuridico, poiché nel contesto di altre scienze sociali la parola proprietà indica, con ragionevole approssimazione, una serie definita di fenomeni e problemi sui quali si innestano le diverse visioni teoriche. La forte divergenza di tali visioni, specie quelle a carattere più marcatamente propositivo, non cancella la loro comune origine da riflessioni collettive e di lunghissima durata su un medesimo gruppo di problemi politico-sociali. Nel contesto delle scienze sociali diverse dalla giurisprudenza è quindi lecito riferirsi alla proprietà per identificare i problemi attinenti la fruizione e la ripartizione della ricchezza tra le persone.
Le valenze del discorso non sono naturalmente meno ricche e complesse di quelle veicolate dal linguaggio giuridico, e anzi sono apparse spesso assai più stimolanti intellettualmente perché nel problema della proprietà, così inteso, sono impliciti i problemi relativi alla cittadinanza e alla partecipazione politica, così come gli infiniti nodi problematici relativi alla giustizia distributiva. I nessi assai stretti tra proprietà e libertà, tra proprietà e uguaglianza, tra proprietà e forma di Stato, tra proprietà e struttura della famiglia, del clan, o dell'impresa, testimoniano l'ampiezza degli orizzonti dischiusi dalla riflessione sulla proprietà nel contesto delle scienze politiche e sociali. Né il dubbio critico termina con la sempiterna domanda su come la proprietà debba essere distribuita in una società giusta, in quanto esso si estende necessariamente alle questioni relative ai modi in cui una qualunque distribuzione iniziale dei diritti di proprietà si evolve per effetto dei comportamenti dei soggetti agenti. Tutto ciò non toglie che le conoscenze, idee, discussioni sul problema della detenzione e della circolazione della ricchezza accumulate per secoli nelle scienze umane possano essere sintetizzate, in ogni lingua europea, con la parola 'proprietà', in quanto in tutte le lingue di cultura la si riconosce come atta a indicare un insieme definito di problemi. Pertanto nei contesti suddetti il termine italiano 'proprietà' può essere tradotto non solo con i corrispondenti termini delle lingue neolatine propriété, propietad, propriedade ma anche con l'inglese property o il tedesco Eigentum, senza tema di provocare gravi fraintendimenti.Le tradizioni di ricerca che compongono le scienze sociali - dalla sociologia alla politologia, all'economia, alla filosofia etica - se pure risentono spesso nel loro lessico tecnico l'impronta della lingua in uso nell'ambiente culturale dominante, sono tuttavia largamente cosmopolite.
Le tradizioni giuridiche invece hanno cessato di essere anche parzialmente cosmopolite nello stesso periodo storico in cui hanno cessato di utilizzare il latino come linguaggio della giurisprudenza. All'interno delle tradizioni giuridiche occidentali il diritto è relativamente autonomo rispetto alla politica, alla religione e alla morale, nel senso che pur essendone assai influenzato, ne è analiticamente distinguibile. Da ciò deriva che ciascuna tradizione giuridica, avendo convissuto a lungo con altre tradizioni di pensiero nettamente cosmopolite dalle quali ha tratto non poche delle sue impostazioni metodologiche e non pochi strumenti del suo bagaglio intellettuale, conferisce alla medesima parola, come accade esemplarmente nel caso del termine proprietà, significati diversi a seconda che il contesto richieda di sottolinearne la valenza politico-filosofica oppure quella giuridico-tecnica.
Quanto si è sin qui rilevato fa intuire quali possono essere le difficoltà derivanti dal fatto che in molti ambiti i ragionamenti dei giuristi sono tributari di nozioni e impostazioni elaborate da qualche altra tradizione di pensiero. Valga per tutti l'esempio dell'ambito costituzionale, in cui la nozione di proprietà è stata pensata, nel suo momento originario, in adesione a concezioni di pretto stampo politico, le quali tornano continuamente in gioco anche nel momento interpretativo. Ogni volta ciò avvenga, la nozione di proprietà tipica di una data tradizione giuridica in senso tecnico si contamina con le nozioni provenienti dal pensiero filosofico, politico o economico. Simili fenomeni di ibridazione della nozione di proprietà sono interni alle prassi discorsive delle singole esperienze giuridiche e ne accrescono le complessità, ma la difficoltà maggiore non deriva dalla complessità intrinseca ai vari contesti semantici, quanto dalla inconsapevolezza dei parlanti, i quali vi si orientano solo d'istinto.
Negli anni cinquanta Felix Cohen era solito mettere in crisi gli studenti che seguivano i suoi seminari alla Yale law school chiedendo loro se concordavano sull'affermazione che la principale differenza tra il sistema americano e quello comunista consisteva nel fatto che il primo si fondava sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e il secondo l'aveva abolita. Ottenuto facilmente l'universale consenso su tale punto, Cohen chiedeva agli studenti di specificare la fondamentale differenza tra la posizione giuridica di una fabbrica di proprietà della United States Steel Corporation e quella di una fabbrica soggetta alla proprietà socialista nell'Unione Sovietica. Poiché tale questione comportava un rapido passaggio dall'analisi della proprietà come categoria politico-economica all'analisi della struttura del diritto di proprietà sotto il profilo giuridico, nessuno degli studenti riuscì mai a scomporre il problema nei suoi termini effettivi.
Per capire di che cosa stiamo parlando è dunque necessario anzitutto offrire un panorama delle diverse concezioni della proprietà presenti nel mondo sbarazzandoci di categorie e opposizioni che non hanno alcun significato giuridico.Una distinzione assai comune, non solo tra giuristi, separa ad esempio la proprietà privata dalla proprietà pubblica e da quella collettiva. Senonché queste forme dicono ben poco circa i modi effettivi di fruizione e ripartizione della ricchezza derivante dal godimento della terra. Nella categoria delle proprietà private infatti si inserisce anche tutto quanto appartiene a una persona giuridica connotata come privata, con la conseguenza che la proprietà di una cooperativa con un numero altissimo di soci sarebbe privata, mentre un bosco appartenente a una piccola comunità montana sarebbe proprietà collettiva.Un'altra distinzione separa la titolarità proprietaria dalla titolarità concessoria. Senonché questa opposizione può essere semplicemente formale, come avvenne per molte concessioni di origine feudale le quali conservarono il marchio della loro origine anche dopo la scomparsa del sistema. Alternativamente, la medesima opposizione può rinviare a contenuti sostanziali, come avviene per concessioni in precario di terre demaniali.
Molto comune, sino a quando sono durati i sistemi socialisti, è stata anche la distinzione tra proprietà socialista e proprietà di tipo capitalista. Senonché mentre l'opposizione tra i sistemi economici dei due tipi è stata ben netta e piuttosto pregnante, la pretesa di collegare, e anzi di fondare tale differenziazione sistemica su una simmetrica opposizione tra forme di proprietà è risultata foriera di equivoci.
Nel contesto dei discorsi giuridici appare pertanto conveniente prescindere inizialmente da simili opposizioni e cercare anzitutto di ricostruire - riconoscendone il condizionamento storico - le diverse ottiche con cui le varie tradizioni giuridiche hanno elaborato tecnicamente il diritto di proprietà.In questa direzione vanno innanzitutto esaminate le differenti impostazioni del discorso sulla proprietà collocabili all'interno della tradizione giuridica occidentale dei sistemi economici di tipo capitalistico o liberale che dir si voglia. Per comodità espositiva, e senza mancare di precisione, si può quindi fare riferimento alla tradizione di common law da un lato e alla tradizione romanistica dall'altro.
La distinzione fondamentale adottata dal diritto inglese in materia di law of property intercorre tra real e personal property. Grosso modo oggi questa distinzione corrisponde a quella tra proprietà immobiliare e proprietà mobiliare, ma in realtà questa analogia non è tecnicamente precisa. Infatti l'opposizione tra real e personal property risale al periodo formativo della common law ed è stata condizionata dal fatto che, allora, le posizioni giuridiche erano integralmente pensate dai giuristi in termini di rimedio. L'opposizione tra real property e personal property rinvia dunque alla natura delle azioni legali. Le appartenenze di carattere feudale erano infatti tutelate con azioni (writs) aventi carattere recuperatorio, ed erano perciò dette 'azioni reali' (real actions). Tutte le altre appartenenze erano tutelate con azioni a carattere risarcitorio, ed erano perciò considerate azioni personali (personal actions), in quanto era considerata 'personale' l'obbligazione risarcitoria.
A livello di rimedi la distinzione è scomparsa da gran tempo, ma le due categorie di proprietà si sono intanto cristallizzate poiché ognuna ha ricevuto una raffinata elaborazione sulla base della propria natura.
Poichè oggetto della real property furono inizialmente i possedimenti feudali, i concetti di fondo si adeguarono alla struttura feudale nel suo complesso. Tali possedimenti nascevano da una investitura, ossia da un atto solenne e pubblico in cui un signore (lord) assegnava al proprio vassallo un certo feudo. Il vassallo riceveva certi specifici benefici ritraibili dal feudo, mentre il lord riceveva i servizi del vassallo. Se, per ciò che riguarda i benefici e i servizi, il contenuto del rapporto doveva essere specificato e individuato nell'atto di investitura, la disciplina del rapporto era invece legata alla consuetudine. La titolarità di un feudo dava quindi diritto a esercitare ed esigere certi benefici tradizionalmente dovuti dalla popolazione locale al signore del luogo; ovviamente il medesimo territorio forniva benefici, o utilità, anche ad altri soggetti collocati nella catena dei rapporti feudali. Inizialmente quindi il feudo aveva natura territoriale, ma non fondiaria. L'attribuzione di un feudo non comportava che la terra di quel feudo appartenesse al feudatario, ma erano oggetto dell'appartenenza solo i vari benefici che gli venivano attribuiti con l'investitura.
Allo stesso modo, attualmente, il territorio di un Comune è lo spazio geografico in cui la municipalità esercita le sue potestà, ma sarebbe scorretto dire che quella terra appartiene al Comune, o alla Regione, o allo Stato, mentre è naturale dire che sebbene l'estensione del territorio sia individuata tramite i confini del Comune, su di esso si esercitano competenze municipali, provinciali, regionali, e dello Stato.Il carattere fortemente dematerializzato dell'appartenenza di diritti su utilità precise è ancora una delle idee portanti della concezione della real property. Perciò si deve sottolineare come in simile contesto il concetto di appartenenza non può coincidere con quello di tipo romanistico e diviene piuttosto sinonimo del concetto di titolarità. Ciò perché nel concetto di appartenenza di una cosa corporale a qualcuno, a esclusione di chiunque altro, è insita una nota di indefinitezza degli attributi proprietari, nota che invece difetta nel caso della titolarità di un diritto in quanto esso è definito in sé e non mediante l'identificazione della cosa corporale su cui si esercita.Venuto meno il carattere personale del rapporto di vassallaggio, la posizione del vassallo si cristallizzò in una posizione di diritto soggettivo indipendente dal rapporto con il lord, e quindi i benefici detenuti dal vassallo divennero perpetuamente suoi, ossia divennero il suo estate (dal latino status).
Poiché la common law inglese è stata per molti secoli il diritto delle persone di un ceto sociale piuttosto elevato è ovvio che gran parte delle questioni legali riguardassero gli estates.Inizialmente la tipologia degli estates fu multiforme, perché ciascun vassallo (tenant) cristallizzò i diritti che aveva sul suo feudo, ma poiché questi diritti discendevano da un patto individuale, le posizioni al riguardo erano svariate. Perciò il primo passo fu quello di ricondurre ciascuna posizione a un tipo. Successivamente però la varietà delle tipologie facilitò la ripartizione della ricchezza fornendo il materiale necessario a una tecnica giuridica la quale, mediante il calcolo degli estates, surrogò molte funzioni del contratto romanistico. In estrema sintesi tale tecnica si basa su un atto di attribuzione - che ricalca l'investitura originaria, ancorché in seguito alla scomparsa del rapporto feudale sia divenuto perfettamente unilaterale - accoppiato con un'opera di cesello e ritaglio condotta direttamente sul diritto attribuito.
Con una certa approssimazione si può dire che, mentre nei sistemi romanistici si lavora sul contratto, calibrando quindi il titolo alle necessità della singola fattispecie, nella tradizione di common law tale funzione è assolta dalla definizione dei property interests che vengono attribuiti.Il costo di questo sistema è quindi di carattere economico e sociale, perché con l'andar del tempo gli effetti dei vari ritagli e sminuzzamenti dei diritti immobiliari si accumulano, rendendo assai intricate le situazioni di appartenenza immobiliari.Perciò non stupisce che proprio a questo riguardo si siano manifestate le tendenze semplificatrici tipiche dell'epoca moderna. In Inghilterra la legislazione ha ridotto i tipi di estates validi per la common law a due soli tipi: il fee simple absolute, e i leasehold; gli altri sono tutelabili solo in equity.
Negli Stati Uniti, ove il mosaico delle legislazioni statali non consente una descrizione sintetica, la prevalenza di queste due forme di estates è in ogni caso assicurata dal costume giuridico.La seconda grande categoria della law of property è la personal property, circa la quale giova precisare che, a parte altre scansioni interne tecnicamente arcaiche, l'asse portante dell'intera disciplina è costituito dall'opposizione tra choses in action e in possession. Choses in possession sono quei beni mobili materiali che si possono godere direttamente, choses in action sono in genere diritti che possono essere tutelati solo con azioni giudiziali. Il nome deriva dalla posizione del diritto di credito, che può essere esercitato solo proponendo azione contro il debitore. La categoria oggi comprende una vasta gamma di diritti patrimoniali, dal diritto di autore (copyright) all'avviamento commerciale (goodwill), al know how, ecc. La lista a questo riguardo è sempre aperta essendo necessario solo che si tratti di una utilità definita, suscettibile di essere ceduta ad altri senza mutare natura.
La larghezza con cui la lista delle choses in action - e quindi la law of property - si apre a nuovi beni immateriali è una immediata conseguenza della concezione fortemente dematerializzata della stessa law of property.Da ciò discende un rafforzamento della tendenza di fondo della common law a essere property oriented, e infatti tutti i nuovi diritti che sono stati introdotti dalla rivoluzione industriale nel XIX secolo e dalla rivoluzione informatica nei nostri giorni possono essere agevolmente classificati tra gli oggetti della law of property. Ciò spiega perché, ad esempio, nei sistemi di common law, a iniziare da quello statunitense, il problema della tutela dei programmi per computer sia stato immediatamente incanalato verso la tutela mediante la concessione di copyright, mentre nei sistemi di civil law si sono manifestate perplessità e resistenze. Ciò spiega altresì perché nella dottrina nordamericana si sia proposto, senza successo peraltro, di concedere una qualche tutela costituzionale ai cosiddetti diritti sociali, sussumendoli nella categoria della property sotto il nome di new property.
L'ampiezza che la sua concezione dematerializzata conferisce alla law of property ha riscontri in numerosi settori dell'ordinamento. Qui giova richiamare subito l'attenzione sul fatto che essa consente di ritagliare situazioni 'proprietarie' -ossia situazioni che nelle categorie romanistiche si direbbero di 'diritti reali' - da fattispecie in cui il giurista romanista riesce a scorgere solo diritti di credito. Tale diversità di ottica non è di interesse esclusivamente teorico, perché è alla base delle diversità di struttura che caratterizzano il moderno mercato finanziario.Per completare il quadro è necessario menzionare la nozione di trust, ma difficilmente si può fornire in poche parole un'immagine adeguata dello schema del trust senza raccontare la storia della sua origine in seno alla giurisdizione di equity attribuita al cancelliere d'Inghilterra. In effetti la storia del trust è legata a filo doppio con la storia dell'equity.
Originariamente la common law non aveva e non poteva avere nel proprio repertorio di azioni tipiche alcun rimedio atto a proteggere le aspettative dei fiducianti, e questa lacuna consentí ai cancellieri del regno di esercitare in tale materia una giurisdizione vicaria guidata da esigenze di giustizia e di coscienza.Il dato fondamentale è che se qualcuno riceve un cospicuo patrimonio fiduciae causa, ossia senza dare nulla in cambio ma promettendo di amministrarlo con cura nell'interesse dell'altro (di cui evidentemente si è previamente conquistato la fiducia) e poi non mantiene la promessa fatta e approfitta dell'intestazione formale per godere del patrimonio acquistato gratis a proprio esclusivo vantaggio, costui, sotto il profilo del giudizio morale, commette una pessima azione.
Questo giudizio è spontaneo e non ammette sfumature. Perciò la materia dei trusts rappresentò il brodo di coltura ideale per la giurisdizione di coscienza del cancelliere, la quale sviluppò le sue tecniche e il suo repertorio di rimedi proprio in materia di trust. Nonostante il sofisticato tecnicismo di molti rimedi, la ratio di fondo della figura del trust è facilmente percepibile. Se qualcuno ha ricevuto qualcosa a causa della fiducia in lui riposta, deve mantenere i suoi obblighi fiduciari. Se non lo fa spontaneamente il giudice di equity lo costringerà a farlo mediante rimedi in forma specifica, oppure lo sostituirà nella sua funzione di fiduciario (trustee). Nel dare attuazione agli obblighi del fiduciario, però, il giudice di equity non ha bisogno di contraddire la common law secondo la quale il trustee è proprietario dei beni che gli sono stati trasferiti fiduciae causa; si limiterà invece a porre a tale titolarità limiti severi in due direzioni. In primo luogo il trustee non può approfittare della sua posizione proprietaria a proprio vantaggio, ma dovrà agire utilizzando tutti i poteri e le facoltà di un proprietario a vantaggio di altri.
In secondo luogo i creditori personali del trustee non potranno aggredire i beni del trust, poiché non fanno parte del patrimonio del loro debitore. Ne consegue che si istituisce sui beni facenti parte del trust un vincolo che, inerendo a un property right, è opponibile anche a terzi. I sistemi di civil law non sono mai riusciti a concepire alcunché di simile al trust, sia perché - ma si tratta della ragione minore e di quella meno consistente - le dottrine romanistiche fanno fatica a concepire che la somma dei poteri e facoltà di un proprietario possa essere funzionalmente destinata a vantaggio di altri; sia perché esse costruiscono tecnicamente i limiti imposti al fiduciario come altrettante obbligazioni che in quanto tali gravano su lui personalmente. Con due conseguenze: tali vincoli non possono gravare sulla situazione di appartenenza, escludendo in definitiva ogni possibilità di sequela dei beni che invece è riconosciuta nella law of trust sotto il nome di tracing; inoltre, ove il fiduciario si renda inadempiente ai suoi obblighi, questi verranno convertiti automaticamente in un debito risarcitorio espresso in una somma di denaro, ponendo ineluttabilmente il fiduciante sul piano di tutti gli altri creditori personali del fiduciario dei quali subirà il concorso.
Chiarito lo schema di fondo del trust, è però da aggiungere che esso si articola variamente in una serie di figure specializzate, ognuna delle quali gode di una propria disciplina particolare. Tra i tipi di trust più utilizzati figurano il trust for sale e il trust in bankruptcy, e, ancora, i trusts di garanzia. La vasta utilizzazione, sia da parte dei privati che da parte di giudici e legislatori, di quello schema testimonia la sua duttile utilità e candida il trust a essere una figura imprescindibile nel panorama degli strumenti giuridici di common law.
Ciò che sin qui si è passato in rapida rassegna è la sintassi tradizionale della law of property. Si deve però avvertire che negli attuali sistemi di common law si sono aperte nuove frontiere problematiche. Nel nostro secolo i problemi attinenti alla ripartizione della ricchezza terriera sono stati sostituiti da altri che attengono essenzialmente al rapporto tra il proprietario e i pubblici poteri, nonché il rapporto con gli altri soggetti interessati all'uso degli immobili. La disciplina urbanistica (land use), quella ambientale, i vincoli posti alle locazioni urbane, per non citarne che alcune, sono fonti di problematiche giuridiche di gran lunga più rilevanti di quelle dei family settlements.
Quanto all'esperienza americana, la presenza di una garanzia costituzionale della private property obbliga i giuristi a ripensare al tema della proprietà in una dimensione costituzionale in cui il loro linguaggio tecnico incontra quelli delle altre scienze sociali. Né si tratta di un aspetto di rara evenienza operativa, perché in realtà le discipline cui si è fatto cenno - che spaziano dall'urbanistica in senso stretto alla tutela ambientale e alla difesa delle fasce deboli della società - sono continuamente attraversate dalla nozione costituzionale di private property. Se a ciò si aggiunge che nell'esperienza americana il controllo giudiziale di costituzionalità delle leggi è diffuso, si avrà la percezione della rilevanza della tematica costituzionale nella pratica legale quotidiana.
Da ciò discende un avvertito bisogno di rivedere le impostazioni tradizionali al fine di renderle adeguate alle necessità dei casi giuridici contemporanei.
Al riguardo la dottrina della common law non esprime tendenze omogenee, ma anzi fortemente diversificate. Negli Stati Uniti infatti la lezione logica di Hohfeld (v., 1913-1916) ha contribuito a mantenere intatta, e anzi a sviluppare maggiormente, la visione non fisicalista della law of property, con la conseguenza di suggerire ipotesi anche assai arrischiate di una new property estesa anche ai social benefits (v. Reich, 1964). In Inghilterra, al contrario, la lezione di J. Austin ha contribuito a orientare le analisi teoriche in senso opposto individuando il cuore della nozione di property nella situazione di appartenenza relativa a beni corporali, estendibile per analogia anche ad altre forme di appartenenza (v. Honoré, 1961).
Si sostiene comunemente che il diritto di proprietà conosciuto nelle esperienze di civil law, ossia nelle esperienze giuridiche nate nell'Europa continentale e poi diffusesi in molti continenti, discenda dal diritto romano. Tale opinione andrebbe sottoposta a una radicale revisione critica, sia perché lo stesso diritto romano conobbe nel suo svolgimento storico una pluralità di concezioni della proprietà, sia perché è fin troppo facile accusare di ingenuità una visione storica che propone la rinascita di un istituto dopo secoli e secoli di oblio.
Prescindendo qui da tali obiezioni è però da ricordare un dato sintomatico. A differenza di quanto accade in tutte le altre tradizioni giuridiche, non è possibile rintracciare nella letteratura dei sistemi di civil law una concezione univoca del diritto di proprietà e della categoria dei diritti reali in generale, potendosi spesso solo far riferimento a concezioni maggioritarie e minoritarie.La differenza tra le diverse concezioni si traduce essenzialmente in un'opposizione tra coloro che pensano ai diritti reali come a un potere immediato sul bene, e coloro che, partendo dal postulato per cui il diritto non può concernere altro che rapporti tra essere umani, costruiscono la posizione del titolare di un diritto reale a partire dagli obblighi di astensione gravanti su qualsiasi altro soggetto.
Simili questioni di carattere spiccatamente concettuale suscitano interesse solo nella misura in cui sono il sintomo di perduranti modi di pensare alla proprietà i quali hanno la propria radice in modelli radicati nella storia del diritto comune europeo. Per convenzione si è soliti far riferimento alla concezione germanistica e a quella romanistica, anche se la realtà è assai più ricca di sfaccettature.
La ragione fondamentale della perdurante confusione di linguaggi teorici risiede nel fatto che le prime codificazioni moderne, ed essenzialmente il Code civil francese, intesero sì riformare gli assetti fondiari usciti frammentati e gravati dall'accumularsi di diritti di remota origine feudale, ma non vollero, o non seppero, disegnare un assetto integralmente coerente delle situazioni di appartenenza.
Il Code civil costruì quindi una proprietà fondiaria sul modello della proprietà allodiale, ma trascurò quasi del tutto di dettare una disciplina dei beni e assunse come implicita la categoria dei diritti reali alla quale non dedicò nemmeno una parola. I commentatori ottocenteschi però assunsero la proprietà fondiaria a modello di tutte le forme di proprietà, propagandando quindi l'immagine di un diritto individuale compatto e tendenzialmente assoluto, nel senso che i poteri del proprietario avevano come confini quelli fisici della cosa in sé.Naturalmente ciò era pensabile solo all'interno di un modello, come quello francese, in cui era sottinteso il carattere civile e non politico del diritto privato e del suo codice, e nel quale perciò era parimenti sottinteso - ancorché la lettera del codice a scanso di equivoci lo indicasse apertamente (art. 544 del Code civil) - che il cosiddetto dispotismo proprietario era tenuto a freno dalla puissance publique e dal suo diritto, ossia dal diritto amministrativo. Tuttavia le espressioni roboanti con cui taluni commentatori ottocenteschi esaltarono la rinascita della proprietà fondiaria allodiale, che taluno attribuì al genio della giurisprudenza romana, non mancarono di dare spazio ad alcuni equivoci e a usi propagandistici.
Sul piano giuridico è da osservare come, avendo gli occhi rivolti alla proprietà fondiaria, i commentatori ottocenteschi del Codice napoleonico accreditarono una concezione fisicalista del diritto di proprietà. Infatti, facendo coincidere i confini del diritto con quelli della cosa, pervennero addirittura a confondere il diritto con il bene corporale che ne era l'oggetto.In Francia questa visione si sovrappose alla lettera del codice, che in verità non la accredita affatto, ed entrò in crisi non appena lo sviluppo conseguente alla prima rivoluzione industriale contribuì a distogliere l'attenzione dalla proprietà fondiaria.
Già il legislatore rivoluzionario aveva proclamato il diritto d'autore "la plus sacrée des toutes propriétés" (legge del 19 gennaio 1791), sicché i giuristi positivi non ebbero in realtà mai dubbi sul fatto che la propriété littéraire et artistique avesse le stesse caratteristiche di un diritto di proprietà, respingendo le obiezioni dei pedanti tese a mettere in rilievo come non potesse dirsi proprietà un diritto su un bene incorporale e limitato nel tempo. Oltre alla proprietà letteraria anche quella industriale, con i suoi marchi e brevetti, modelli e disegni, venne ovviamente inserita tra le proprietà, e al suo seguito apparve la proprietà della clientela (v. Candian e altri, 1992, p. 238). Si trattò di un recupero di concezioni germanistiche ben radicate nel droit coutumier, e perciò non stupisce che accanto al molto di nuovo apparisse anche qualcosa di vecchio come la proprietà degli offices, dei titres de noblesse e del nome.
Non si può fare la storia del diritto di proprietà nell'Europa continentale del XIX secolo se non si distingue tra ciò che rimase scritto nei codici - molto poco -, ciò che proclamarono i dottrinari e tutto ciò che andò serpeggiando nel diritto vivente effettivamente applicato dai tribunali e dagli apparati amministrativi.
La dottrina francese del Novecento registrò la tendenza verso una proprietà dematerializzata, e archiviò l'identificazione tra proprietà e cosa corporale sostituendola con l'idea che l'appartenenza sia indipendente dall'integrazione del diritto in una cosa. In effetti l'idea che la propriété est la chose elle même era divenuta insostenibile perché nel frattempo si era preso coscienza di quanto fosse fuorviante caratterizzare il diritto dominicale come plena in re potestas. Troppe limitazioni provenienti dal cosiddetto diritto pubblico stavano a dimostrare come l'omnipotence absolue, e il dispotisme entier del proprietario fossero una chimera.
Perduto questo ancoraggio, non venne però del tutto meno il desiderio di mantenere una configurazione unitaria della nozione di proprietà, idonea a preservare il dialogo con altre discipline sociali per le quali la proprietà è sempre stata un istituto unico. In una atmosfera eccitata da visioni politiche radicali, questa tendenza trovò espressione nel capovolgimento delle visioni pregiuridiche di base. In luogo di un proprietario pensato come sovrano nel suo fondo, si immaginò la figura di un proprietario immerso nel pleroma della socialità comunitaria e quindi obbligato a impiegare le sue cose per la soddisfazione dei bisogni comuni, con riguardo sia alla comunità nazionale sia alle collettività secondarie.
Questa visione peraltro non contraddiceva il principio per cui spettava comunque al proprietario la gestione dei beni e perciò non aveva nulla a che spartire con le appartenenze di tipo collettivistico, ma intendeva invece organizzare i cosiddetti limiti del dispotismo proprietario in un principio di carattere generale e perciò suscettibile di applicazione pervasiva. Questo presupposto, che costituiva l'unico aggancio tra la teoria della funzione sociale della proprietà e la tecnica giuridica, si scontrava con il fatto che per molti aspetti i vincoli imposti all'attività del proprietario erano costruiti come obblighi derivanti da rapporti di tipo personale, mentre sotto molti altri aspetti erano costruiti come strutturalmente inerenti alla posizione dominicale in sé. Sicché sino a quando non si fosse del tutto superata la distinzione, fondamentale nei sistemi romanistici, tra diritti reali e rapporti obbligatori, era altamente improbabile che la visione della funzione sociale della proprietà potesse dotarsi di una configurazione tecnicamente costruita. Infatti ciò non avvenne. Ne sortì invece una formulazione metaforicamente evocativa in cui si raccomandava di aggiungere alla considerazione per la funzione individuale del diritto di proprietà anche la considerazione per la sua funzione sociale. L'espressione 'funzione sociale della proprietà', grazie al duplice requisito dell'indeterminatezza tecnico-giuridica e dell'ampia carica evocativa, fu subito destinata a una brillante carriera, con speciale riguardo al suo inserimento nei testi costituzionali ove maggiormente poteva esserne apprezzato il valore simbolico.
Su un piano più concreto il compito di demolire le conseguenze operative della visione ottocentesca del diritto di proprietà venne svolto, nella dottrina francese, dalla teoria dell'abuso del diritto, grazie alla quale si smantellò il dogma, mai peraltro preso troppo sul serio nella dimensione operativa, dell'immunità dell'agire proprietario ai fini della responsabilità civile. La successiva dilatazione della responsabilità civile e il suo porsi come meccanismo generale di riequilibrio tra posizioni giuridiche soggettive, nell'ottica di criteri finalizzati a scopi di utilità generale, sono stati fattori decisivi al fine di consentire alla dottrina francese di diffondere un'immagine non mitizzata del diritto di proprietà.
Se però il diritto di proprietà viene definito come qualsiasi altro diritto soggettivo, facendo riferimento al fascio di prerogative che di volta in volta lo compongono, non sembra esservi più alcuna necessità di mantenere la concezione fisicalista del suo oggetto. Al di là delle discussioni dottrinali, il linguaggio francese attuale registra la tendenza a rendere il termine propriété sinonimo di titolarità, e quindi a impiegarlo per significare che un diritto soggettivo appartiene a qualcuno.
Com'è noto il sistema tedesco sancito nel Bürgerliches Gesetzbuch (BGB) appare assai più coerentemente conforme alla tradizione romanistica di quanto non sia il Code civil francese. Questa caratteristica risalta in tema di diritto dei beni e di proprietà.
Il libro terzo del BGB, che contiene la disciplina del diritto di proprietà e degli altri diritti reali, è intitolato Sachenrecht (diritto sulle cose), ma il par. 90 BGB lapidariamente premette: "Sache im Sinne des Gesetzes sind nur körperliche Dinge", "cose nel senso della legge sono solo cose corporali". Questa scelta, perfettamente consapevole, fu resa limpida dal rigore sistematico con cui fu elaborata dalla dottrina pandettistica. In effetti la scelta del BGB di circoscrivere la nozione di proprietà e di diritti reali alle situazioni di appartenenza su beni corporali costituì una novità per la tradizione giuridica dell'area tedesca. Sia l'Allgemeines Landrecht prussiano, che l'Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch austriaco infatti avevano codificato il criterio opposto, ricomprendendo nel concetto di cosa anche i beni incorporali e i diritti in genere.
È importante tuttavia considerare come, a differenza di quanto accadde nella dottrina francese dell'Ottocento ove la concezione fisicalista della proprietà si impose in sintonia con la pretesa assolutezza dei poteri dominicali sui fondi privati, la concezione parimenti fisicalista dei pandettisti traesse origine da motivi di carattere puramente sistematico. Il loro maestro Savigny aveva infatti insegnato in un'opera rimasta famosa (Das Recht des Besitzes, 1803) che, una volta scrostate tutte le superfetazioni medievali e dell'usus modernus, il possesso poteva riferirsi solo a cose corporali, in quanto il cosiddetto possesso di diritti poteva ammettersi solo in riferimento a diritti reali limitati su cosa - corporale - altrui. Poiché in un sistema logicamente organizzato è inevitabile che il possesso si accompagni ai diritti reali come un'ombra, si ritenne parimenti inevitabile riservare la proprietà all'appartenenza di cose corporali, posto che queste sono le sole che possono essere effettivamente possedute.
La ragione più profonda è però da individuarsi nel fatto che la dilatazione del concetto di proprietà sino a farla divenire sinonimica di titolarità rende impossibile elaborare tale concetto a fini generativi. Infatti, come già scorse con lucidità John Austin (Lectures on jurisprudence or the philosophy of positive law, London 1885⁵, p. 777), parlare di proprietà dei diritti, i quali hanno già un proprio nome e una propria struttura tecnica, significa ammettere che il concetto di proprietà non aggiunge nulla a quella struttura. Se infatti si trasportassero e si applicassero ai singoli diritti i principî deducibili dal concetto di proprietà, se ne modificherebbe la relativa disciplina. Poiché ciò è logicamente impossibile, si dovrebbe ammettere che il concetto di proprietà è vuoto di conseguenze, ma in tal modo si contraddirebbe alla logica generativa su cui si fondava il sistema.In questo senso si deve quindi precisare che le nozioni tedesche di Eigentum (proprietà) e di Sachenrecht (diritto sulle cose), che si pongono agli esatti antipodi della nozione di property nella common law, sono il derivato necessario di un metodo, quello pandettistico, che volle portare alle ultime conseguenze le tendenze sistematizzanti sempre presenti nella tradizione della civil law e della scientia juris europea continentale.
Proprio questa origine aiuta a percepire i limiti della concezione consacrata nel BGB. Tramontata del tutto, e da lunga pezza, la metodologia pandettistica, la giurisprudenza tedesca attuale non è affatto disposta a farsi condizionare dalla sistematica del codice oltre un certo limite. Le soluzioni operative cruciali ne sono in effetti del tutto sganciate.Sempre con riferimento all'origine concettualistica del modello tedesco attuale, si rende più agevole cogliere l'ininfluenza della nozione codificata di Eigentum sulla disciplina proprietaria. Secondo il par. 903 "il proprietario di una cosa può, se non vi oppongono la legge o i diritti di terzi, disporre della cosa a suo piacimento ed escludere altri da ogni azione su di essa". A differenza di quanto avvenne in Francia e in Italia, ove una parte della dottrina civilistica avvertì come un tormento il continuo proliferare di discipline pubblicistiche dalle quali necessariamente derivavano limiti al dispotismo proprietario, la dottrina tedesca ha potuto in un primo momento sostenere che nessun limite disposto per legge poteva creare una contraddizione logica con la nozione codicistica. Sicché, superato il formalismo pandettista, è stata aperta la strada a una riflessione che, anche facendo leva sulla celebre previsione di cui al par. 159 della Costituzione di Weimar, poteva ripensare la struttura del diritto dominicale alla luce di più intense esigenze di socialità. Più precisamente si è trattato, nelle espressioni migliori della dottrina tedesca degli anni trenta, di promuovere una visione sociale del diritto dominicale all'interno di un'etica della responsabilità. Visione quindi etica e, insieme, storicamente fondata, ma soprattutto tesa a cancellare la caratterizzazione della proprietà come diritto soggettivo unilaterale la quale, a sua volta, rifletteva in un quadro tecnico l'idea politica che il diritto di proprietà dovesse essere un diritto soggettivo a contenuto indefinito. Vi fu però in quella dottrina anche una notazione fortemente anti-individualistica, la quale si trovò in sinistra consonanza con l'ideologia ufficiale del Terzo Reich. In effetti la terminologia con cui la dottrina postpandettista si contrappose ai propri predecessori fu caratterizzata da una non nascosta polemica anche ideologica. Risale ad allora lo stucchevole uso di marcare le contrapposizioni con la dottrina ottocentesca mediante una serie di metafore: visione dinamica contrapposta a visione statica; novecentesca contrapposta a ottocentesca; sociale contrapposta a egoista; anti-individuale contrapposta a individualistica; etica contrapposta a economica.
L'art. 14 della Legge fondamentale della Repubblica Federale Tedesca ha evitato di alimentare questa moda cancellando il riferimento alla cosiddetta funzione sociale della proprietà e prevedendo invece che essa possa 'obbligare'.Nelle sue linee di fondo quindi il percorso ideale dell'esperienza tedesca sembra essere analogo a quello francese, essendo segnato dalle medesime tappe che conducono dalla visione della proprietà come signoria assoluta sulla cosa - nel senso che rispetto a essa la volontà del proprietario è decisiva sotto tutti gli aspetti - al capovolgimento di questa immagine mediante i simboli evocativi della funzione sociale e del divieto di abuso, sino a pervenire a una più serena e meglio strutturata concezione di una proprietà la quale è anche centro di imputazione di obblighi e doveri.
5. Le concezioni attuali della proprietà nell'esperienza europea e italiana
Negli attuali sistemi giuridici dell'Europa continentale, ai quali ovviamente è vicina l'esperienza italiana, si osserva una marcata tendenza a risolvere la maggior parte dei problemi proprietari nell'esame delle diverse situazioni di appartenenza così come sono classificate dalle norme più significative. Ad esempio: la proprietà rurale, la proprietà edilizia, la proprietà delle cose di interesse culturale, la proprietà all'interno della disciplina ambientale, e via elencando. Si parla quindi frequentemente di un passaggio epocale dalla proprietà - al singolare - alle proprietà - al plurale. In effetti la maggior parte dei problemi giuridico-pratici che ineriscono alla gestione e utilizzazione dei beni debbono essere affrontati nel quadro di discipline normative complesse in cui si incrociano e si sovrappongono profili di diritto privato e, ancor più, più profili di diritto pubblico, come quelli attinenti al governo del territorio e delle sue trasformazioni.
D'altro canto si deve anche osservare come, indipendentemente da novità legislative, sia emersa, specie nell'ambito della dottrina, la consapevolezza che anche sul lato soggettivo esistono più forme proprietarie. La proprietà del gruppo familiare si articola non solo al suo interno, ma anche nei confronti dei soggetti esterni, secondo le regole proprie del gruppo familiare e non già secondo quelle della proprietà individuale. Parimenti la proprietà dei gruppi non personalizzati riflette nelle proprie strutture la disciplina di tali gruppi. Ancora, la proprietà delle persone giuridiche, compresa quella delle società di capitali, non corrisponde all'immagine di una proprietà individuale caratterizzata dall'elemento discretamente antropomorfico del 'godimento' proprietario. Infine, anche nei sistemi di civil law stanno emergendo, sia pure a fatica e non senza molte resistenze, forme di proprietà fiduciaria, le quali sono le uniche adatte ad accogliere il moderno fenomeno della gestione della ricchezza per conto altrui da parte di soggetti altamente specializzati.
Si è chiarito pertanto che la disciplina codicistica del diritto di proprietà è dettata sulla base dell'ipotesi più semplice in cui si considera una sola cosa e una sola persona in una isolata unità di tempo. Ma questa semplificazione è dettata dalle esigenze della tecnica legistica, tipiche della codificazione moderna caratterizzata da una relativa brevità e compattezza, e non contraddice perciò l'idea fondamentale secondo cui il diritto di proprietà è quella parte del diritto civile generale che predispone le tecniche di ripartizione dell'utilità delle cose tra le persone, mediante un ampio ventaglio di strumenti che, anche grazie alle possibilità combinatorie, forniscono il bagaglio tecnico essenziale di cui una società avanzata ha bisogno.
Schemi di ripartizione innovativi, come ad esempio quelli conseguenti alla diffusione del leasing o della multiproprietà, non sono altro che articolazioni dei modelli codicistici. In ciò si coglie la funzione propria di un qualsiasi codice civile, che è quella di raccogliere, filtrandole, le idee sperimentate nel passato per offrirle quale base ai moduli futuri.Tuttavia in questo quadro non mancano aspetti di configurazione unitaria del diritto di proprietà, i quali giustificano il ricorso (che ha funzioni sia esemplificative che organizzative) all'ipotesi semplice che contempla una sola persona e una sola cosa in una stessa unità di tempo. Tali aspetti unitari concernono essenzialmente i modi con cui le situazioni di appartenenza si acquistano e si perdono, ovvero i modi mediante i quali la proprietà circola tra le persone.
Nell'ottica del diritto civile generale è un altro elemento unificante stabilire le tecniche di tutela delle situazioni di appartenenza dei beni, poiché il momento del rimedio caratterizza la situazione sostanziale con riguardo alla sua funzione essenziale tipica. I rimedi infatti proteggono e quindi rendono proprie di ciascuno le utilità generate dalle cose, senza necessariamente interferire con la concreta ripartizione di esse tra le diverse persone. In questo senso, dunque, le tecniche rimediali servono solo a dare sostanza alle ripartizioni delle utilità che qualunque legislatore voglia operare in riferimento al diritto dei beni.
Nell'ottica del diritto costituzionale la posizione della proprietà cambia molto, poiché in questo caso non si tratta di muoversi all'interno di una tecnica legistica mirata a fissare la disciplina relativa alla ripartizione delle utilità dei beni, quanto di individuare la logica che presiede al riconoscimento del diritto di proprietà all'interno della tavola dei valori predisposta dalla carta costituzionale.
Questa funzione della normativa costituzionale varia in modo marcato in dipendenza del modello di carta costituzionale adottato. Riguardo ai diritti di proprietà si possono identificare due modelli costituzionali, tra loro assai diversi quanto al modo di intendere il ruolo e il senso della proprietà privata nel contesto di una carta costituzionale.Il primo modello trova il suo archetipo nel V emendamento della Costituzione federale americana approvato dal Congresso, insieme ad altri nove, il 25 settembre 1789. Sebbene questi emendamenti siano designati collettivamente con il nome di bill of rights, il V è quello che elenca con maggiore frequenza, in una caratteristica forma ellittica, i diritti inviolabili del cittadino. Per quanto ci riguarda più da vicino, esso dispone: "Nessuno può essere privato della vita, della libertà o della proprietà senza un giusto processo; né una proprietà privata può essere requisita per uso pubblico senza un equo risarcimento".
Il secondo modello trova il suo archetipo nella celeberrima Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, solennemente approvata dall'Assemblea costituente del regno di Francia il 26 agosto 1789, modello di numerosissime dichiarazioni dei diritti dell'uomo che fioriranno abbondantemente sino ai giorni nostri. I testi che riguardano il diritto di proprietà sono l'art. 2, che proclama: "lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione"; e l'art. 17, che nel testo originario prevedeva: "Poiché le proprietà sono inviolabili e sacre, nessuno ne può essere privato se non quando lo esige con evidenza la necessità pubblica, legalmente constatata, e a condizione di un previo giusto indennizzo".
Pochi testi sono stati oggetto di una massa di analisi -filologiche, storiche, politologiche e giuridiche - come quelli appena riportati. Eppure, se ognuna di tali analisi può insegnarci qualcosa, è anche da osservare come sotto il profilo dell'ermeneutica giuridica il soffermarsi ad analizzare le singole parole dei due testi, tentando di sceverarne l'origine ideologica e le potenzialità applicative, è un'operazione sterile.
Sotto il profilo lessicale è indubbio che la Déclaration appaia molto più enfatica del V emendamento nel sottolineare il valore della proprietà privata, di cui promette una più intensa protezione. Però storicamente le cose non sono affatto andate in questo modo, essendo anzi vero che il diritto di proprietà privata è stato, ed è ancor oggi, più efficacemente garantito nell'ordinamento giuridico americano di quanto non sia nell'ordinamento francese.La ragione di questa apparente inversione risiede nel fatto che i due testi non hanno identico valore normativo. Giova infatti osservare in riferimento al testo complessivo come nella Déclaration des droits non si possa trovare una lista di tutte le istituzioni di cui ha bisogno il cittadino di uno Stato liberal-democratico. Essa piuttosto pone in forma accentuatamente didascalica i fondamenti di un nuovo modo di concepire lo Stato e la cittadinanza, ricorrendo a forme espressive talmente efficaci da risultare ancor oggi feconde di conseguenze.A livello istituzionale quindi rimasero insoluti, anzi aperti a varie soluzioni, due problemi capitali. Il primo, di carattere genuinamente politico, concerne il modo di tradurre in un'organizzazione politica adeguata la prospettiva, percepibile nel sottofondo nella Déclaration, della promozione dei valori individuali attraverso la partecipazione alla sovranità. Il secondo concerne il modo di garantire il rispetto dei diritti fondamentali che la stessa Déclaration formula in modo schiettamente individuale.
Tutte le varie Costituzioni francesi si sono richiamate alla teoria della divisione dei tre poteri dello Stato: il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. In ciò il parallelismo con l'esperienza costituzionale americana sembra perfetto. Ma nell'accezione francese tutti questi poteri sono considerati come poteri delegati dal popolo sovrano, in quanto il corpo collettivo della nazione si è sostituito alla persona del sovrano ereditandone totalmente la sovranità così come la sacralità. In simile accezione la divisione dei poteri è uno strumento intelligente mediante il quale si prevengono e si controllano gli abusi dei delegati, ma ciò non mette in discussione il fatto che ogni esercizio del potere debba essere sempre riconducibile al corpo della nazione, al quale spetta oltre che un potere di delega anche un potere di controllo sui modi di esercizio dei poteri delegati. Il che in definitiva postula l'omogeneità dell'agire comunicativo - o più brevemente di linguaggio - di delegante e delegato. Gli atti di esercizio della discrezionalità governativa sono normalmente concepiti come azioni omofone a quelle dei cittadini, ed è questa la ragione profonda per cui tale discrezionalità può essere accettata anche all'interno di un sistema costituzionalmente fondato sul principio di legalità. Viceversa questa stessa accezione crea difficoltà quasi insormontabili al riconoscimento di un potere giudiziario, perché esso ha consistenza di potere solo se si riconosce, a monte, l'intrinseca indipendenza intellettuale del suo modo di operare. In altri termini: la teoria pura della divisione dei tre poteri, quale ad esempio quella accolta nell'accezione americana, deve fondarsi sul riconoscimento della relativa autonomia del diritto secondo la tradizione giuridica occidentale.
A quest'ultimo riguardo la vena profetica che si coniuga con la tonalità didascalica della solenne Déclaration des droits de l'homme et du citoyen fa intravvedere nello stile linguistico un percorso teorico opposto, che diffida dell'autonomia del diritto e della separatezza del linguaggio giuridico e confida piuttosto in un ammaestramento intellettuale che, attraverso le istituzioni dello Stato, la sua organizzazione scolastica, la sua attività onnipresente di promozione culturale, si cala mano a mano nella mentalità comune divenendo un fattore latente, ma non poco rilevante, in grado di orientare l'agire sia dei cittadini che degli apparati burocratici. Proprio questa scelta, però, esalta la discrezionalità tecnocratica della quale deve disporre una pubblica amministrazione efficiente per svolgere compiti che, coincidendo con quelli dello Stato, concretizzano altresì la volontà generale della nazione.
La Costituzione americana non concede nulla al mito della volontà generale che si manifesta in una assemblea nazionale. Per conseguenza, ripudia anche il mito della legge come strumento di manifestazione dell'onnipotenza della nazione e, al contrario, molto si adopera per imbrigliare il principio maggioritario settorializzando i centri del potere legislativo. Fondamentalmente essa traduce in regole di governo il pensiero pessimistico di molti padri costituenti, i quali ritenevano che il diritto di proprietà fosse congenitamente destinato a interessare una frazione minoritaria della popolazione, e trassero da ciò la conseguenza che occorreva ricercare a livello costituzionale un equilibrio tra principio maggioritario e tutela dei diritti individuali, equilibrio che doveva essere in una certa misura protetto contro i possibili esiti estremi della democrazia rappresentativa.
Nell'esperienza del costituzionalismo americano è prevalsa infine la visione di altri costituenti, i quali ritenevano che la concreta tutela dei diritti individuali, specie quelli racchiusi nella triade life, liberty and property, non dovesse essere il frutto indiretto di un accorto disegno costituzionale, ma dovesse invece risultare dal pieno rispetto di quel principio generale per cui l'azione politica è subordinata alla legalità. Se dunque si adotta il principio per cui la rule of law è superiore alla volontà politica della maggioranza e si inseriscono i diritti individuali nel testo di una costituzione rigida, ne risulterà che essi vengono collocati a un livello di legalità non intaccabile da parte dei legislatori se non tramite l'apposito procedimento di revisione costituzionale. In definitiva, in questa visione, la maggioranza non potrà affatto legiferare secondo la sua volontà, ma dovrà esprimere la propria volontà politica all'interno dei confini tracciati da una costituzione la quale incorpora i diritti individuali come i valori di fondo su cui si regge l'intera convivenza civile. Con ciò diviene compito dei giudici - i quali sono costituzionalmente sottratti al circuito rappresentativo, e quindi non sono necessariamente espressione della maggioranza del momento né sono necessariamente succubi di essa - vigilare affinché la legislazione non travalichi i suoi confini invadendo il territorio della legalità costituzionale.
Questa lettura della costituzione la considera rigida, in quanto spetta ai giudici sindacare la costituzionalità delle leggi. Solo all'interno di un sistema costituzionale basato su una costituzione rigida munita di sindacato di costituzionalità delle leggi si può propriamente parlare di una 'garanzia costituzionale' della proprietà privata. Tuttavia, poiché quasi ogni azione di governo finisce con l'incidere sulle proprietà private, tale garanzia costituzionale si connota necessariamente in modo diverso rispetto a gran parte dei diritti di libertà. Proprio il carattere antimaggioritario delle scelte affidate ai giudici costituzionali ne limita la libertà d'azione in materia di garanzia costituzionale della proprietà privata. In tale campo infatti la giurisprudenza di una corte costituzionale deve essere guidata non solo dai normali criteri di ermeneutica costituzionale nonché dai vincoli che discendono dal carattere giurisdizionale delle loro pronuncie, ma anche da un atteggiamento di prudenza politica che contempli la necessità di consentire alla maggioranza di esprimere in forma legislativa il proprio programma politico. Come storicamente fu dimostrato nell'esperienza statunitense durante la crisi del 1936, che vide la contrapposizione frontale tra l'amministrazione guidata da F.D. Roosevelt e la Corte Suprema federale, i giudici costituzionali, ove adottino in materia di garanzia delle proprietà criteri di valutazione basati sulla sola logica giuridica formale, limiteranno la libertà di governo della maggioranza ben oltre il limite tollerabile in un sistema politico a base democratica, facendo aderire a un modello antimaggioritario tutto quanto attiene al cosiddetto governo dell'economia. Il che è sicuramente assurdo.
Molti sistemi giuridici europei, tra cui quello italiano, a partire dal secondo dopoguerra sono passati da un sistema costituzionale flessibile, ricalcato sul modello francese, a un sistema costituzionale rigido, vigilato da un'apposita corte costituzionale. L'abisso culturale che esiste tra i due modelli è però troppo grande perché possa essere superato nel giro di una sola generazione.
La Costituzione italiana prevede all'art. 42 che: "1. La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. 2. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. 3. La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale".
Sul piano delle prassi interpretative la proposta, almeno culturalmente dignitosa, di considerare la funzione sociale della proprietà come direttiva collegata ai compiti di trasformazione che la Carta costituzionale assegna alla Repubblica, con speciale riguardo all'uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, comma 2, ha poi lasciato il campo a una interpretazione celebrativa della formula costituzionale che, procedendo da uno scambio logico in cui il concetto di funzione sociale viene attribuito, al limite anziché al diritto di proprietà, ne riscontra l'incarnazione ogni volta che il legislatore nel disciplinare l'uso di un determinato tipo di beni contraddica alla mitica onnipotenza proprietaria.
Più ancora si è frainteso il significato profondo di una costituzione rigida quando si è sostenuta l'idea che una garanzia costituzionale della proprietà privata non possa sussistere di fronte all'azione conformativa del legislatore ordinario, perché il diritto di proprietà è giuridicamente individuabile solo dopo tale conformazione e non prima. Questa strana inversione del sistema delle fonti si basa apparentemente su un argomento logico esegetico. Infatti, poiché nell'enunciazione costituzionale non è garantito alcun contenuto o ambito soliare dei diritti di proprietà, qualsiasi conformazione di essi non potrebbe mai ricadere nell'ambito di applicazione del terzo comma dell'art. 42. Al che peraltro è stato giustamente obiettato che l'inversione del sistema delle fonti presuppone che la superiorità della costituzione sia intesa in senso meramente formale, cosicché tra costituzione e legge ordinaria sussisterebbe un mero rapporto tra fonti normative che, pur graduate tra loro, sono tuttavia intercambiabili e variamente ricombinabili ai fini della determinazione in concreto della fattispecie legale. Questa visione del ruolo della costituzione corrisponde peraltro al modello francese, ossia al modello accolto nel previgente Statuto albertino, mentre si pone in antitesi con il senso di una costituzione rigida, la quale fonda un doppio ordine interno al sistema della legalità e separa quindi la legalità costituzionale, connotata come ordine di valori superiori, dalla legalità ordinaria.La prudenza giustifica l'orientamento costantemente seguito dalla Corte costituzionale, che rifiuta di sottoporre al vaglio di razionalità le scelte funzionalizzatrici del legislatore, salvo il caso estremo in cui l'apprezzamento dei fini di utilità generale sia inficiato da criteri illogici, arbitrari o contraddittori, ovvero che l'apprezzamento stesso si manifesti in palese contrasto con i presupposti di fatto indicati dal legislatore. Nel complesso peraltro la giurisprudenza della Corte costituzionale, nonostante alcune sentenze di accoglimento che hanno fatto clamore, pare del tutto aliena dall'introduzione di una garanzia forte della proprietà privata, non avendo nemmeno tentato di elaborare una visione teoricamente soddisfacente dei valori che possono riconnettersi al diritto di proprietà.
Solo recentemente del resto alcune voci dottrinali minoritarie, ancorché sostenute da un attento esame dell'elaborazione giuridica tedesca e americana, hanno suggerito di identificare il valore costituzionale della proprietà privata nel suo essere modo di inserimento e di integrazione, attraverso la mediazione del bene posseduto, nei rapporti sociali e in particolare nei rapporti economici. In questa direzione è peraltro da osservare come la dimensione costituzionale della proprietà necessiti di essere riferita al più ampio ventaglio possibile di forme di detenzione della ricchezza, posto che la partecipazione del proprietario ai processi di produzione sociale può appunto sostanziarsi nelle forme più svariate.
(V. anche Contratti e atti giuridici in generale; Diritto; Diritto ed economia; Giustizia; Impresa e società; Liberalismo).
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