BALBO, Prospero
Nato a Chieri il 2 luglio 1762 da Carlo Gaetano e da Paola Benso, all'età di tre anni, per la morte del padre, fu accolto in casa del conte G. B. Lorenzo Bogino, secondo marito della nonna matema, Teresa Beraudo dei conti di Pralormo. Per la sua educazione fu determinante l'ambiente in cui si formò, sotto la guida del tutore; "l'indole del secolo" chiamava alle magistrature civili e alle prove e responsabilità politiche, e il Bogino, anche tra le amarezze e le disillusioni della politica, non esitava a deviare il B., che pure aveva una spiccata vocazione per le matematiche, da inclinazioni troppo esclusive, per incanalarne le attitudini conformemente al suo ideale educativo. Dopo aver frequentato i corsi di retorica e di eloquenza italiana con C. Denina, quelli di scienze naturali e di matematica con G. B. Beccaria, che lo ebbe carissimo tra i suoi allievi, il B. si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'università torinese, dove si laureò nel 1780.
Chiuso alle "idee innovatrici" mentre il resto d'Italia si apriva ai lumi e alle riforme il Piemonte di Carlo Emanuele III s'era adoperato, in quei decenni, nello sforzo d'integrare la controversia politico-religiosa del periodo vittoriano nella linea sanzionata dall'istruzione benedettina, che sembrava appagare l'esigenza pratica di un compromesso tra l'esercizio "giusto" della giurisdizione ecclesiastica e la salvaguardia di diritti e prerogative della corona. Ma l'equilibrio, che poteva soddisfare la corte e un ristrettissimo ceto di governo, lasciava scoperte ampie zone di passioni e d'interessi, portati ora ad attestarsi su posizioni non ufficiali. Le disponibilità, le occasioni e i problemi sollevati dal dinamismo della vita economica spingevano a modificazioni istituzionali, riforme legislative, riorganizzazioni strutturali. E queste spinte, intrecciandosi con i temi della cultura e i fermenti della vita spirituale, alimentavano le aspirazioni precisandone le tesi e definendone gli scopi pratici. Per vie meno evidenti, quasi "clandestine", la tradizione anticurialista dei canonisti torinesi si conservava, lungo una linea che dal Campiani al Chionio allo Spanzotti arriva al Berardi dell'Ideadel governo ecclesiastico, alimentata anche da motivi giansenistici che, attenuati di fervore religioso, operavano qui nel contesto generale delle tesi giurisdizionalistiche. Finché, per volontà di Vittorio Amedeo III, non fu consentita una più libera manifestazione antiromanistica, che ebbe il suo centro nella facoltà di legge dell'università torinese e i suoi esponenti più rappresentativi nei canonisti A. Bono e M. Baudisson maestri entrambi del Balbo.
Un anno dopo la laurea, il 30 maggio 1781, il B. era cooptato nel Collegio dei giureconsulti di Torino con una tesi d'ispirazione giurisdizionalista, che lodata dalle Efemeridi letterarie di Roma nel n. 32 del 1781 in un articolo inserito, pare, surrettiziamente, fu denunciata nel n. 36 dello stesso periodico come opera "tutta infetta di... Febroniano veleno" (p. 281).
Contro la riduzione immanentistica del reale operata dal giusnaturalismo, il B. respingeva sia la tesi groziana di un diritto avente fondamento nella natura umana in quanto natura sociale, come quella hobbesiana che dall'uguaglianza e libertà naturale aveva rigorosamente dedotto il principio egoistico. Analogamente ai neoplatonici e alle scuole sentimentalistiche, egli adattava il suo ideale etico civile in una visione dualistica che temperando lo stato di natura e la teoria contrattualistica nella gerarchia istituzionale, familiare e sociale, fatta derivare dalla volontà divina partecipe ed ordinatrice del contratto, si sforzava di recuperare un piano di autonomia etica appoggiato al principio solidaristico della "filautia" (Comes Prosper Balbus...,pp. 52 ss.). La tendenza a mitigare le coercizioni esterne sulla volontà individuale, nell'accordo coi poteri costituiti, rientrava nella comune esigenza di uomini e gruppi che aspiravano ad una zona di più intima libertà e ad un margine di personale iniziativa, come appariva fin nella rivendicazione del secret massonique,prospettata da un De Maistre in base alla priorità del diritto naturale sul diritto civile e politico. Ma tale sforzo per sottrarre l'individualità morale al duplice strumentalismo del modello utilitaristico e dell'etica cattolica tradizionale rimaneva pur sempre collegato con le tesi giusnaturalistiche per i fini del riformismo assolutista soprattutto in materia di politica ecclesiastica.
Attingendo alla comune coscienza giurisdizionalista dell'epoca, attenuata nel solco della tradizione piemontese dalla polemica di principî, il B. poneva l'accento sul fine spirituale della Chiesa di cui si contestava concordemente con un Pilati o un Fabro l'attitudine a un potere giurisdizionale e ad una forza coattiva qualsiasi. L'attribuzione al foro ecclesiastico, per concessione originaria dei principi, di procedimenti appartenenti alla competenza dei tribunali civili risultava da una confusione consuetudinaria dello spirituale e del temporale formalizzata nelle norme del diritto canonico. Tale deviazione era respinta dalla nuova coscienza giuridica, che priva tuttavia nel B. di spunti laico-separatistici, quali si riscontrano in un Roberto di Malines o in un G. B. Somis, era portata su una linea di giurisdizionalismo confessionista a ribadire per lo Stato la obligatio protegendi Ecclesiam (ibid.,pp. 83-94). Ma andando oltre l'identificazione formale autoritaria della legislazione con la volontà del legislatore, tipica del dispotismo regio, per cui la legge del sovrano di cui si riconoscesse la pubblica utilità poteva contraddire il diritto, il B. inclinava verso le tendenze di un riformismo antipragmatista, che per l'ordine giuridico auspicava un sistema coerente di principî e di deduzioni capace di garantire l'ambito di competenza delle diverse funzioni del potere. Sensibile alla nuova etica individuale e sociale, fin da questo momento egli vagheggiava un'articolazione dell'indivisibile potere monarchico in funzioni distinte, tale per esempio da impedire ad un sovrano di "esimersi dal debito" contratto coi sudditi confondendo "la qualità di legislatore con quella di debitore" (Sull'editto per la ritenuta dell'un per cento, 30 dic. 1799,in Arch. di Stato di Torino, Raccolta Balbo, vol. 14). Più ambiziosamente aspirava a definire quella sfera pubblica del diritto, non identificabile col potere dispotico, ch'è base della filangieriana "monarchia regolata", di "quel diritto pubblico della nazione - come dirà nel 1787 - che presso noi non è punto conosciuto".
Tra i promotori dell'Accademia dei Crescenti nel 1776, il B. fu nel luglio 1782 nel gruppo dei fondatori della Patria Società Letteraria, che, avendo come organo gli Oziletterari, promosse la Biografia Piemontese del Tenivelli (cui il B. apportò il contributo di accurate annotazioni) e sostenne l'iniziativa della Biblioteca Oltremontana. Nominato decurione della città di Torino nello stesso anno, si avvalse di questa carica per una riforma della legislazione statutaria in materia di successione testamentaria ispirata all'attenuazione del diritto di agnazione. Fedele a un suo ideale umanistico della funzione civile del letterato, il B. non si stancò nella Patria Società di sollecitare ad uno sforzo conoscitivo della realtà capace di incidere nel livello provincialistico della cultura piemontese e in generale nella tradizione retorica dell'accademismo italiano, per una presa di coscienza dei problemi, tecnici e politici, posti ad una monarchia resistente all'esigenza di regolare con spirito riformatore l'ordinamento politico statale. Dalla proposta, nel 1783, di un Dizionario storico naturale de' Stati del Re nostro,alle successive sollecitazioni a indagini economiche e studi legislativi, costante fu il suo richiamo a quella storia delle cose e degli istituti che, misurando l'impegno ed il coraggio civili del letterato, doveva servire al confronto fra le forze vecchie e nuove, "la libertà naturale de' sudditi e le ragioni signorili de' feudatari", "i deboli principi delle comunità e i tirannici dritti de' signori", tra "monarchia" e "despotismo" (discorso del 17 luglio 1787, in C. Calcaterra, Le Adunanze della Patria Società,p.158).
Nella tendenza però a impostare il problema della formazione di un regime di garanzie contro la subordinazione dell'ordine legale alla volontà dispotica, questa posizione rimaneva pur sempre impigliata nella fondamentale antinomia illuministica tra razionalismo e individualità. L'antitesi di motivi atomistici e di tesi assolutistiche rilevata nella filosofia politica toccava il pensiero economico nel punto dove si elaborava una teoria utilitaristica del prezzo che, finalizzando l'attività economica nella soddisfazione dei bisogni, metteva in crisi lo schema razionale assolutistico del benessere. L'attenzione che il B. portava al metodo matematico statistico, di cui l'economia politica "costituisce una delle più dirette e delle più utili applicazioni" (Nuove tavole di vitalizi di G. B. Vasco,in Scrittori classici italiani di economia politica, Milano 1804, XXXV, p. 453), gli era suggerita dalla stessa esigenza che, nell'ambito del sistema, spingeva i primi econometrici a verificare col procedimento analitico di una scienza obiettiva l'andamento della vita produttiva contrastando gli indirizzi rigidamente normativi delle politiche assolutistiche, segnatamente in campo monetario. Ma il calcolo dei bisogni e delle utilità, al di là del tentativo di ridurre le scienze morali a valori misurabili, non divergeva poi troppo dalla tendenza etica ad affermare i diritti dell'opinione e della passione, del costume e dell'individualità morale, e da quella estetica volta ad intendere, fuori del relativismo sensualistico e dell'intellettualismo, la creazione artistica in base al canone della "riproduzione congeniale" dell'opera poetica, che il B. mutuava dal Pope (cfr. Osservazioni sopra la "Clemenza di Tito" del Metastasio,in IFilopatridi, pp. 66-77). Rivolta alla storia la posizione soggettivistica, che in economia respingeva il rigido ordre naturelle dei fisiocrati, preferendo richiamarsi a Condillac e Smith, scopriva vichianamente l'individualità in polemica col razionalismo. Le lettere del Rabaud de Saint-Etienne al Bailly su "L'Istoria primitiva della Grecia" fornivano al B. (Sulle favole degli antichi, ibid.,pp. 61-65) l'occasione di contestare la validità della distinzione fissata nella retorica tradizionale tra linguaggio obiettivo e figurato. Sulla traccia vichiana della critica dei tropi, negava egli, per l'età arcaica, la proiezione favolosa di "enti immaginari" e di "personaggi metafisici" in una discordanza non componibile tra parole e cose. Ma risolvendo alla maniera del Vico i miti e le espressioni traslate in vere narrazioni non si limitava a dare una sanzione storica all'impossibile credibile. Spinto dall'esigenza critico-filologica affermatasi nella più avvertita storiografia settecentesca, egli riproponeva la sostanziale verità di ogni tradizione rovesciando i termini della polemica pirronistica con un richiamo al rigore metodico, che, indicativo nel suo formalismo dell'orizzonte culturale e politico del B., non intaccava la posizione propriamente illuministica di quanti, spregiatori in nome della raison della tradizione, si erano avvicinati alla storia senza "rispetto" rifiutandone, come per l'appunto il Rabaud, l'autorità di codice vincolante.
Eletto segretario aggiunto della R. Accademia delle scienze di Torino, il B. il 3 apr. 1788 si dimetteva dalle cariche nella Patria Società. Mentre nella vita statale urgeva la necessità di nuove soluzioni, tecniche e politiche, che imponevano una più ampia e aggiornata selezione del personale dirigente, la sfera della sua attività pubblica, anche se a livello di una carica accademica, si veniva allargando.
Negli anni che vanno dal 1788 alla fine del secolo si sviluppava in Piemonte un dibattito generale di politica economica e legislativa. Al centro erano questioni quali la crisi delle economie contadine e il sistema dell'affitto, l'attività manifatturiera e la disoccupazione operaia nei torcitoi, il pauperismo e il sistema assistenziale, l'immunità tributaria delle terre nobiliari ed ecclesiastiche e la perequazione fiscale, la legislazione bancaria e la politica monetaria, il vincolismo annonario e le libertà doganali. Nel suo andamento e tono il dibattito confermava l'improrogabilità di adeguamenti istituzionali alla evoluzione economica che, nel corso degli ultimi decenni, aveva rafforzato le posizioni di reddito - nobiliari e borghesi - legate alla valorizzazione dei prodotti agricoli, segnando in definitiva il primo avvio da una economia primaria non specializzata a una economia primaria specializzata produttrice di beni destinati al mercato estero. A questo dibattito il B. prendeva parte con un orientamento ispirato a principî liberistici. Ma diversamente dai liberisti aventi un'assoluta fiducia nella virtù stabilizzatrice del meccanismo di mercato, il B. - che aveva presente la distinzione tra l'economia come scienza "congetturale" e la politica economica come indirizzo normativo - rivelava una disposizione singolare, seppur comprensibile nell'attento studioso di Smith, al problema dell'accumulazione capitalistica, della formazione cioè di un surplus che sulla traccia smithiana egli vedeva procedere con la divisione del lavoro e gli incrementi di produttività. Nel suo orientamento antiprotezionista egli si differenziava dai teorici libero-scambisti della produzione naturale, che, fiduciosi come un G. B. Vasco nell'adeguamento della domanda all'offerta, si mostravano poco sensibili alla dinamica dello sviluppo industriale. Per il Vasco la convenienza economica, indifferentemente al tipo di prodotto, si misurava sull'efficienza produttiva e sul reddito d'impresa quali risultavano nella vicenda concorrenziale, per cui l'abbassamento della quota di profitto tendeva in definitiva a eliminare le imprese marginali. La impresa in crisi per carenza d'investimenti e profitti remunerativi, come il setificio di cui si discorreva, andava smantellata e abbandonata cercando soluzioni alternative d'impiego dei capitali. Mentre per il B., che considerava la seta torta un prodotto della trasformazione industriale il cui valore si determina in base al "soprapiù" creato dal capitale (Discorso intorno alla fertilità del Piemonte, in Mem. d. Accad. d. scienze di Torino, s.1, XXIV, 2 [1820], p. 57), la soluzione della crisi andava studiata evitando distruzione di ricchezza accumulata e dispersione di mano d'opera specializzata, aliquota essa stessa di investimenti produttivi. In questo schema di ragionamento incentrato sulla formazione del capitale produttivo i livelli di capitalizzazione raggiunti venivano a condizionare e a preparare lo sviluppo futuro. Perciò il B. concordava con chi, come M. Paroletti, mostrava "ragionatamente la assurdità di sostituire altra manifattura e... la necessità di trovare un soprapiù di lavoro in ragione del soprapiù di operai" (Bibl. Oltremontana, I, Torino 1789, p. 72). E suggeriva di sostenere la congiuntura, e a lungo periodo l'andamento e le alternanze del ciclo, con provvidenze di politica economica e sociale basate sulla creazione di casse di soccorso e sussidi di disoccupazione mediante il contributo proporzionale di padroni e operai; mentre richiamava ai limiti istituzionali che frenavano la propensione all'investimento (Discorso del 28 giugno 1789,in Opere varie,Torino 1830, pp. 305-316). In modo più concreto si adoperò per questo scopo progettando la Cassa de' censi, prestiti ed annualità,istituita dal Consiglio generale della città di Torino nell'aprile 1795, per attivare nell'ambiente piemontese forme di più moderna organizzazione creditizia (mutui ad interesse, rendite, vitalizi, assicurazioni). La crisi dell'industria serica segnava un momento importante nella valutazione della dinamica strutturale dell'economia piemontese e degli ostacoli creati all'iniziativa imprenditoriale da un contesto istituzionale che alla ricchezza in aumento, comprovata dagli indici dei tassi d'interesse, impediva opportunità d'impiego produttivo. Quando qualche anno dopo, nel 1794, un po, tutti in Piemonte saranno costretti ad affrontare gli effetti della svalutazione della carta moneta, salita in un biennio da 14 a 30 milioni, il B. imposterà un ampio discorso sulla necessità di rinnovare la base operativa istituzionale per la gestione della finanza pubblica. Senza attardarsi nella critica del fiscalismo patrimonialista ispirata a criteri di retta gestione amministrativa, il B. affermava un principio di finanza attiva volta, mediante la tassazione di tutti i redditi imponibili, compresi gli immuni patrimoniali feudali ed ecclesiastici, ad accrescere le risorse disponibili. Più decisamente, forse, rivendicava un nuovo regime di garanzie ipotecarie. L'attacco era qui diretto contro la consuetudine assolutistica di garantire i prestiti contratti dallo Stato con inesigibili ipoteche sui tributi, escogitazione che, oltre ad essere finanziariamente "illusoria", aveva scarse probabilità di riuscita nel clima esistente d'instabilità politica, mentre molti temevano ed altri speravano "una totale rivoluzione di cose". Il credito - era l'altro principio affermato dal B. - doveva essere garantito con ipoteca su beni reali in modo da consentire al creditore in ogni momento il facile pronto ed utile pagamento degli interessi oltre che il rimborso del capitale (Della necessità di un'ipoteca per li nuovi debiti dello Stato,in Raccolta Balbo, vol. 18). Per aumentare la disponibilità finanziaria dello Stato mediante il concorso privato non rimaneva, secondo il B., che fare appello al "patriotisme qui dans le fond ne devrait être que l'égoïsme bien réflechi des riches propriétaires" (Lettera al Souza Coutinho, ibid.).
Era cominciata intanto nel 1792 la guerra della Francia contro il Piemonte, costretto nel 1796 all'armistizio di Cherasco e alla successiva pace di Parigi (15 maggio). Chiamato nell'agosto del 1796 a sostituire all'ambasciata di Francia il Revell il 17 novembre il B. raggiungeva Parigi e il 30 dello stesso mese presentava le sue credenziali al Direttorio. Sulla linea della tradizionale politica espansionistica sabauda, sollecitata dai timori di costituzione di una "repubblica lombarda", le Instructions affidavano al B. il compito di trattare l'alleanza piemontese contro l'Austria sulla base di uno scambio territoriale tra la Sardegna, che il Piemonte era disposto a cedere alla Francia, e la Lombardia, il ducato di Mantova, e i territori rivieraschi da Savona a Nizza che la Francia avrebbe dovuto consentire al Piemonte di annettersi. Le proposte che G. F. Galeani Napione elaborava in quei mesi in due scritti famosi furono caldeggiate dal B. al Direttorio nel tentativo di dimostrare la convenienza per la Francia di fare dello Stato sabaudo una potenza capace di assolvere in Italia lo stesso ruolo della Prussia nell'area germanica. Ma le speranze dei governanti di Torino erano state di fatto frustrate dalle gesta di Bonaparte.
Invano il B. si sforzerà di ricordare al Delacroix, in una note confidentielle,del 26 genn. 1797, che la trattativa ora arenata era stata intavolata prima della battaglia di Arcole e che "c'était à l'instant de l'orage" che i Piemontesi avevano mostrato d'esser pronti a "s'embarquer sur le navire qui portait César et sa fortune" (Raccolta Balbo,Vol. 26). Nel giugno seguente aveva comunque consumato ogni illusione. Ora si trattava di sopravvivere e per questo, come scriveva a D. Priocca il 2 giugno 1797, occorreva confidare nella disposizione dei Francesi ad accettare l'alleanza piemontese senza perdere di vista, per le influenze giacobine già serpeggianti in Piemonte, il nesso tra assetto politico interno e prospettive rivoluzionarie. Si preoccupava il B. delle tensioni e dei pericoli esistenti in Piemonte dove un certo sviluppo economico moderno si era realizzato in un contesto istituzionale arretratissimo. Ora più che mai, sottolineava nella stessa lettera al Priocca, occorreva "contenter les sujets par tous les moyens possibles" non lesinando sforzi per risanare le finanze e il credito innanzitutto. Ma anche per riformare il sistema carcerario e la legislazione penale, riorganizzare l'esercito, riordinare la magistratura, estendere i poteri dell'autorità civile limitando le attribuzioni degli intendenti e accrescendo quelle dei consigli comunali. Il consolidamento dei legami del governo con le classi proprietarie, la limitazione del privilegio nobiliare e il favore e la considerazione prestati al ceto borghese e agli uomini di merito ad ogni livello sociale, una disposizione politica più aperta e liberale potevano forse riuscire a ristabilire un rapporto di fiducia già paurosamente incrinato (Raccolta Balbo, vol. 39). Ma se in quei mesi tumultuosi a Torino si faceva strada la convinzione che non fosse più possibile governare con gli strumenti della politica tradizionale, decretando imposte e aumentando l'emissione cartacea, e si emettevano precipitosamente editti diretti a colpire l'ordinamento economico feudale, non si volle intaccare tuttavia il regime privilegiato (che arrivava a impedire ai creditori di riscuotere i loro crediti dai nobili) modificando l'antica legislazione. Ad oscurare pericolosamente le prospettive si aggiungevano le tensioni della politica francese in quella vigilia del colpo di stato del 18 fruttidoro dell'anno VI, che segnava la ripresa della politica di espansione della Grande Nation. Osservatore informato ed acuto, il B. paventava lo sbocco di quegli eventi. Il 12 luglio scriveva al Priocca che se la rivoluzione aveva rovinato il Piemonte, la paura della controrivoluzione poteva finire di perderlo e, un mese dopo, considerava l'attacco alla monarchia piemontese solo questione di tempo, affidata alla strategia politico-militare del Direttorio e di Napoleone (ibid.). Le accuse che un "ancien collègue" nell'agosto 1798 muoveva al B. di adoperarsi solo per soddisfare gli appetiti territoriali sabaudi e favorire le mene restauratrici in Italia avevano a questo punto scarsa rispondenza con l'attività e i pensieri del Balbo. Questi se riconosceva di doversi rimproverare "la contenance hypocrite" osservata nel passato non credeva di poter essere accomunato a un ceto governante per il quale "l'art de gouverner les hommes se réduit à leur donner des exercices spirituels et à tuer ceux qui n'ont de quoi manger", a "un ministère destitué de vrais moyens réduit à la nullité politique" e costretto a "chercher dans la ruse et la cabale une issue à son avilissement" : "un gouvernement aidé par les prêtres - scriveva perentoriamente il B. - sera toujours inquisitorial et cruel: qui est cruel est lâche". Si poteva pretendere che avendo a che fare con un "tas de sots, d'exagérés et de fanatiques" egli prendesse "le ton de la raison et de la philosophie pour leur annoncer des vérités qui sont gravées à chaque coin de rue de notre Patrie ?". E tuttavia argomentando la sua difesa, intenzionalmente caricata forse di polemica anticlericale, il B. cercava di giustificare e scagionare l'operato della monarchia i cui errori erano da considerare più "de tripots des prêtres et d'ignorans que de combinaisons sérieuses en politique" (Véritable réponse... à la lettre de son ancien collègue,in Raccolta Balbo,Vol. 28).
La ratifica del trattato di pace seguita al fruttidoro non risparmiò, al momento della seconda coalizione, l'occupazione francese del Piemonte nel dicembre 1798. Decaduto dall'incarico, dopo aver respinto la proposta della Deputazione del governo provvisorio piemontese di rientrare in patria e rifiutato un incarico diplomatico della monarchia bavarese, il 25 febbr. 1799 il B. raggiunse Barcellona in attesa delle carte della legazione parigina, sottratte alla Deputazione, e degli ordini del re. Nel viaggio verso la Spagna lo accompagnava la donna sposata pochi mesi prima a Parigi, Maddalena Caterina des Isnard, nata in Avignone da una nobile famiglia originaria d'Asti, che era stata "sottogovernatrice dei figli di Francia" alla corte di Luigi XVI (la prima moglie del B. era stata Enrichetta Tapparelli dei conti di Lagnasco, morta nel 1792). Successivamente, col Priocca e F. di San Marzano, il B. si rifugiò a Minorca, che, tenuta dagli Inglesi, costituiva un rifugio più sicuro.
Dopo l'occupazione austro-russa del Piemonte, nel giugno 1799, appreso che il re si apprestava a tornare nei suoi stati attraverso la Toscana, il B. si recò a Firenze per attenderlo. Ma informato dal San Marzano della sua nomina nel Consiglio supremo di Stato a controllore generale delle Finanze, nel novembre 1799 rientrava a Torino. Stremato dalla lunga guerra il paese era intanto precipitato nel caos. "Ombra di governo", come lo definì il Carutti, il Consiglio, di fatto alle dipendenze di M. Melas e A. Zach, era ridotto alla funzione di reperire i fondi per conto degli occupanti, le cui richieste, nonostante le casse dell'erario fossero vuote, l'inflazione dilagante, il paese avviato verso la rovina, aumentavano sempre più. Lo sforzo del B., assunta la sua carica in sostituzione del Massimino, fu indirizzato in una duplice direzione. Di fronte all'Austria che mirava ad affermare un suo diritto sul Piemonte, prospettato in sede diplomatica come una necessità derivante dai cedimenti sabaudi, colle successive memorie del 15 dic. 1799 e del 3 e 12 genn. 1800 cercò di giustificare l'operato della monarchia dopo Cherasco, sostenendo che il trattato di pace e di alleanza firmato con la Francia, dopo aver esaurito ogni possibilità nella lotta, era stato imposto da una superiore necessità di conservazione statale. E ciò per rivendicare una maggiore autonomia all'esausto Piemonte, sul quale, avvertiva il 3 gennaio, non si poteva premere ulteriormente senza "una totale rovina dell'erario funesta al paese, più funesta ancora all'esercito che qui ha da vivere e guerreggiare" (Raccolta Balbo,vol. 15). Con gli strumenti della politica economica e finanziaria si proponeva di attuare un piano di emergenza volto a limitare le conseguenze dell'inflazione bloccando innanzitutto l'emissione cartacea che, nello scarto crescente coi prodotti, portava per la lievitazione dei prezzi, la svalutazione e il tesaurizzamento alla rarefazione dei beni e alla carestia (cfr. Memoriale del 15 luglio 1815,in Lettere inedite di Carlo Emanuele IV, pp. 30-38).
Posto di fronte alla prospettiva della paralisi economica, l'estremo rimedio parve al B. un provvedimento capace di riportare in circolo la moneta reale che il corso forzoso aveva occultato. Egli muoveva dalla convinzione che i valori monetari e i loro titoli rappresentativi si adeguano all'andamento del mercato, al di fuori di qualsiasi regolamentazione dei cambi, non essendo, come aveva scritto con accenti vaschiani nel 1790, "in arbitrio del principe i valori delle cose ovvero i segni di quei valori" (Giambattista Bogino,in I Filopatridi,p. 22), e non potendo, come aggiungeva ora, la moneta "aver un valor superiore all'intrinseco fuorché in forza del credito" (Delmodo di mettere in giro la moneta,in Raccolta Balbo,vol. 14). L'editto del marzo 1800 dava facoltà per l'appunto di fissare liberamente nei contratti i valori monetari, l'opposto dunque di quella legge del maximum per cui le derrate si vendevano al prezzo fissato in carta al valore nominale. Era un rimedio estremo, come ben sapeva il B., che, convinto esser meglio "permettere ciò che non si può impedire", non vedeva via d'uscita se non nel libero gioco delle forze di mercato accettandone anche effetti speculativi e conseguenze sul piano sociale per il danno ai detentori di redditi fissi e il vantaggio di grandi speculatori, proprietari terrieri, banchieri, fittavoli. L'ostilità del B. a una politica economica e finanziaria ridotta a misure amministrative era pari alla sua fiducia nella capacità relativa di recupero di un sistema di libertà contrattuale, il solo in grado comunque di rivitalizzare la circolazione monetaria reale evitando la paralisi totale (Minute di editto del marzo 1800, ibid.,vol. 14). Se l'editto del marzo 1800 non riuscì ad arrestare la svalutazione e i fenomeni di redistribuzione della ricchezza che ne derivavano, contribuì a bloccare la carestia attraverso la stessa manovra speculativa. L'operazione che avrebbe dovuto essere completata con una seconda legge fu, come narrerà il B. nel memoriale del 15 luglio 1815, "guasta e contrariata poi troncata a mezzo...".
Il B. che fin dal 12 marzo 1800 aveva confidato al San Marzano il suo timore di dovere rinunciare all'incarico, per dimostrare se non altro agli occupanti "l'inipossibilité absolue d'aller en avant" (ibid.),il 22 marzo presentava le dimissioni, respinte dal re che gli consentiva solo un periodo di riposo. Tale soluzione, poco accetta al luogotenente Revel per l'alta stima ch'egli aveva del suo controllore (cfr. ibid, vol. 17), non soddisfaceva il B. che si recava a Firenze per conferire col sovrano. Stanco e deluso pensava solo, come scriveva al Chialamberto il 30 giugno, di ritirarsi "in qualche città di Toscana finché siano più quiete le cose del Piemonte" (ibid., vol. 15). Ma un fatto nuovo doveva presto verificarsi, quando Marengo, cambiando i destini del Piemonte "anzi pure del mondo", venne a confermare "che niun riparo esser potea valevole contro i più strani rovesci di fortuna" (Memoriale del 15 luglio, p. 32).
Insediati i Francesi in Piemonte, il B. nel 1801 col Gerdil, il Robilant e il Morozzo fu escluso dall'Accademia delle scienze suscitando la protesta di Vittorio Alfieri. Ma dopo il decreto napoleonico che ingiungeva ai rifugiati di rientrare in Piemonte, pena la confisca dei beni, nell'agosto del 1802 il B. tornava a Torino, dove, secondo quanto egli racconta, fu "sollecitato di accettare qualche grande impiego". Lo stesso Bonaparte gli offrì le cariche di consigliere di Stato e di senatore imperiale ch'egli rifiutò adducendo gli obblighi familiari, segnatamente quelli derivantigli dall'educazione dei figli. Riuscito a sottrarsi a queste profferte, il B. dava vita intanto con Michele Saverio Provana, Filippo Grimaldi e Angelo Saluzzo a una scuola privata, frequentata da Cesare Balbo, Luigi Provana e Luigi Ornato. Per il resto interveniva su un terreno a lui congeniale con contributi di studio e pareri di esperto forniti all'amministrazione francese che gliene faceva richiesta: come nell'occasione di un dibattito svoltosi nel 1803 in materia di viticoltura e vinificazione, occasione al B. per sconsigliare l'applicazione di rigide norme amministrative su una linea di politica economica antivincolistica e produttivistica (cfr. Mémoire sur un projet... relatif aux bans de vendange,in Raccolta Balbo, vol.15), o col più famoso Discorso intorno alla fertilità del Piemonte,letto in Accademia il 16 febbr. 1804, originato dalla necessità di dissipare equivoci ed illusioni - quell'abusodei termini che porta all'abusodelle cose - circa la possibilità che il Piemonte potesse rimarginare presto le sue ferite in virtù di una naturale ricchezza ed "inesauribile" fertilità.
Se, come riteneva il B., con chiara percezione dei gradi d'intensità di un sistema agrario, fertile èun suolo "atto a produrre con minor coltura una eguale quantità di derrate" e ricco quello "atto a produr derrate di valore superiore", grano scadente, viticoltura diffusa, ma non altrettanto progredita, poco lino, più abbondante canapa, ma atta a far corde e grosse tele, delineavano un quadro poco confortante della realtà produttiva piemontese. Il Discorso escludeva la produzione risicola e serica, poiché per il riso l'annessione alla Cisalpina dei paese tra Sesia e Ticino aveva tolto al Piemonte gran parte del prodotto, mentre per la seta alla maggior richiesta sul mercato internazionale nell'ultimo cinquantennio era seguita la contrazione della domanda per la crisi delle fabbriche lionesi e la chiusura dello sbocco inglese nella congiuntura politica ed economica europea. Prodotto dell'investimento capitalistico, la seta soffriva, inoltre, della rarefazione sul mercato dei capitali. Alla fase di prosperità agricola, durata fino al 1790, che con l'elevato prezzo delle terre, il basso interesse del denaro, gli alti profitti e rendite aveva stimolato l'intensificazione degli investimenti capitalistici, era succeduta ora una fase caratterizzata da alti costi monetari e dal basso valore dei terreni che con la flessione dei redditi determinava l'abbandono delle colture (Discorso, pp.53-102). Anche se - si deve aggiungere - aveva avvantaggiato le categorie di reddito favorite dalla manovra speculativa e dal processo inflazionistico.
Le lodi del Menou per contributi e pareri dissimulavano appena la sollecitazione ad una più fattiva collaborazione, avviata nell'autunno del 1805 con la nomina del B. a rettore dell'Accademia (università) di Torino. Alla carica di rettore si aggiunse la qualifica di ispettore generale, allorché nel 1805 l'ateneo piemontese fu posto sotto la giurisdizione dell'università di Parigi, istituita nel 1806 non senza suggestione, come dirà il B., delle "grandes idées législatives" che avevano informato le costituzioni universitarie sabaude del 1772. L'ordinamento universitario piemontese sarà di fatto lodato per la sua "unité de système" dal Cuvier, che renderà omaggio alla capacità dimostrata nell'organizzazione degli studi dal B., che realizzava a suo dire "l'assemblage si rare des talents de l'homme de lettres, du savant et de l'homme d'état" (Orationesin Academia...,pp. 42-49). A restaurazione avvenuta il B. sarà accusato di aver favorito nell'università tendenze laiciste anticattoliche. Ma gli sarà facile ricordare che nel periodo del suo rettorato era stato ripristinato l'insegnamento della teologia e favorito l'espletamento del ministero religioso nell'ambiente universitario, in armonia del resto con la politica concordataria inaugurata da Napoleone nel 1801.
Alla caduta del regime napoleonico il B. fu chiamato in un primo momento a far parte del Consiglio di reggenza, presieduto dal San Marzano, che aveva avuto il compito di amministrare il paese in via provvisoria fino al rientro di Vittorio Emanuele avvenuto il 20 maggio 1814. In questo periodo, per incarico del Vallesa, egli apprestò con G. F. Galeani Napione la difesa diplomatica contro la mira austriaca, profilatasi al congresso di Vienna, di entrare in possesso, diretto o per mezzo dei suoi arciduchi, secondo le parole di Luigi XVIII, di tutta la parte settentrionale d'Italia (cfr. Ragionamento sopra il diritto eventuale della serenissima Casa Savoia Carignano alla successione alla Corona,in Raccolta Balbo, vol. 30). Ma il B. non si limitava a convalidare un diritto dinastico e al piano austriaco contrapponeva già la linea di un programma che, volto immediatamente a perorare l'annessione del Genovesato e del Piacentino, prefigurava il disegno del Regno dell'Alta Italia, di lì a poco esposto dal d'Agliè al Castlereagh, di quello Stato richiesto dalla nuova politica di equilibrio europeo per bilanciare le rivalità austro-francesi e contenerne le spinte nell'area italiana (Mémoire... envoyé à son frère; Mémoire de P. Balbo, ibid.). Il ritorno all'ancien régime,sanzionato nell'editto del 21 maggio 1814, e il consiglio del Cerruti a Vittorio Emanuele di rimodellare lo Stato sul calendario amministrativo sabaudo del 1798, escludendo coloro che per un verso o per l'altro avevano collaborato con l'amministrazione francese, procuravano qualche difficoltà al Balbo. Il quale fu costretto a difendere il suo operato col memoriale indirizzato al re, del 15 luglio 1815, in cui denunciò energicamente la politica oscurantistica attuata coi provvedimenti di chiusura dell'università e delle biblioteche. Ma nel 1816 la diffidenza della corte era caduta, se non l'acre risentimento dei retrivi, e il B., eletto presidente dell'Accademia delle scienze (carica mantenuta fino alla morte), fu, con credenziali del 15 ottobre, nominato ambasciatore a Madrid, dove lo seguì il figlio Cesare come applicato.
Per lo Stato sabaudo rafforzato della Liguria sembrava venuta l'ora, in politica estera, di assolvere vantaggiosamente alla funzione di ago della bilancia tra Francia e Austria. La precaria condizione politica francese non garantiva tuttavia abbastanza dalla pressione austriaca. Si imponeva pertanto di allargare la politica di alleanze consolidando da un lato i rapporti con Inghilterra e Russia, senza farsi illusioni sul protettorato delle grandi potenze, e affiancandosi dall'altro governi e stati di secondo ordine vicini per interessi e necessità al Piemonte (Istruzioni, 19 ott. 1818, in Arch. stor. del Ministero degli Affari Esteri, s. I. 3, fasc. 5). Ma le possibilità di tessere un'azione diplomatica in questa direzione furono scarse per il B. che a partire dal 1817 si trovò di fatto invischiato negli intrighi delle corti europee per i matrimoni di Ferdinando VII e dell'infante Carlo Ludovico.
Lontano da Torino, il B. non dimenticava intanto, tra le cure del suo ufficio, i problemi dell'organizzazione statale. Eliminati gli ordinamenti legislativi del periodo francese e spazzata via ogni parvenza di garanzia giuridica, ripristinati il diritto feudale e il regime vincolistico più rigido, ristretta nuovamente la base del governo al ceto aristocratico, una "generale ansietà" aveva preso il paese di cui si fece portavoce Ferdinando Dal Pozzo, che nella sua azione e denuncia ebbe l'incoraggiamento e il consiglio del Balbo (cfr. L. C. Bollea, Ferdinando, Dal Pozzo prima del 1821, in Il Risorg. ital., VIII [1915], p. 334).
Alla restaurazione dell'arbitrio non si rassegnavano tuttavia né i ceti che avevano rafforzato le loro posizioni per le occasioni aperte all'iniziativa economica dal mercato dell'impero, né gli uomini che, in questa "epoca seconda nelle rivoluzioni d'Italia", secondo la definizione del Botta, avevano compiuto una nuova esperienza formativa, inseriti nell'élite di governo e partecipi del potere politico in modo da "pouvoir toujours dire avec verité - col Marochetti -: Quorum pars fui" (cfr. L. C. Bollea, I rivoluzionari biellesi del 1821, in La rivoluzione piemontese del 1821, I, Torino 1927, p. 143). Quelle classi soffrivano di vedersi impediti i movimenti e gli uomini mai sopportavano la rinuncia alle responsabilità prima condivise e alle prerogative godute e pensavano già "ai mezzi di riavere l'influenza che [avevano] perduto" (I. Petitti di Roreto, Relazione storico-critica della rivoluzione del Piemonte nel 1821, ibid., p. 7). Prima di partire per la missione in Spagna il B. aveva denunciato al re la pericolosità di questo stato di cose ottenendo qualche correzione di un sistema che, con gli editti del 3 genn. 1816 sulla requisizione dei grani e con quello del 17 sett. 1816 sulla rescissione degli affitti, era ritornato all'interventismo più arbitrario. In base ad un suo progetto fu ricostituita in quell'anno la Cassa de' censi, prestiti ed annualità,embrione della Cassa di risparmio torinese sorta il 4 luglio 1827. Per fronteggiare il dilagante caos amministrativo e legislativo, indice e misura del bassissimo livello tecnico oltre che politico del ceto dirigente piemontese, il B. studiava intanto qualche soluzione meglio adatta a superare il limite del sistema assolutistico e della politica reazionaria, evitando i rischi delle forme costituzionali di potere. E pensava già alla istituzione di un consiglio di legislazione, che gli sembrava potesse preservare dai pericoli di una costituzione "qui peut étre bonne quand elle est faite, mais qui est toujours bien dangereuse à faire" (cit. in E. Passerin d'Entrèves, La giovinezza di Cesare Balbo, p. 109).
Per influenza del San Marzano alla corte di Torino maturavano intanto decisioni di più impegnative responsabilità per il Balbo. Agli inizi del 1818 il ministro degli Esteri piemontese informava l'amico del proposito di Vittorio Emanuele di nominarlo viceré di Sardegna, incarico non gradito al B., il quale mostrava di preferire altre destinazioni. Considerandosi comunque candidato al nuovo ufficio, tra il luglio e il settembre 1818 egli attese ad elaborare un complesso Parere sopra gli spagnuoli baroni sardi, sopra i diritti di signoraggio in Sardegna e particolarmente sopra il divieto delle chiusure,dove la necessità dell'abolizione della giurisdizione feudale e della riforma giudiziaria più che dalla tradizionale motivazione giuridica risultava da un'analisi attenta a indagare la natura e le implicazioni sociali di una struttura economica e di un assetto legislativo arretrati.
L'arresto alla barbara pastorizia ed il mancato passaggio all'agricoltura erano per il B. la conseguenza diretta di un ordinamento, definito dal patto tra i baroni e i loro agenti con i pastori e la massa dei non possidenti, diretto a mantenere un regime agrario che con la stagnazione economica determinava abusi e conflitti endemici di interessi. In Inghilterra, osservava egli, "si è da un pezzo trovato modo di conciliare la giustizia con la facoltà di chiudere quelle terre che prima doveano stare aperte. A siffatto provvedimento più che ad ogni altro si ha ragione di attribuire la meravigliosa prosperità dell'agricoltura inglese, la quale più che al traffico e alle colonie è causa principalissima della immensa ricchezza di quella nazione". Come, per contrasto, al regime della "mesta" più che a fattori esogeni, dalle guerre alla cacciata di mori ed ebrei alle migrazioni demografiche verso le Americhe, si doveva l'arretratezza e la miseria delle regioni della Spagna centrale (Torino, Bibl. reale, Mss. stor. patria, 188).
Chiamato alle più riposate incombenze dell'organizzazione degli studi con la nomina a capo del magistrato della riforma degli studi, il B. non ebbe per il momento modo di andare oltre l'analisi ed il suggerimento del suo Parere. Ma quando un anno dopo fu nominato primo segretario degli Interni si adoperò, nel quadro di un, ampia riforma legislativa, per l'abolizione del divieto di chiusura formalmente sanzionato col regio editto del 6 ott. 1820. Nella veste di capo del magistrato della riforma degli studi il B. si doveva distinguere per un'opera volta a eliminare le conseguenze della politica scolastica della restaurazione, richiamando sulla cattedra universitaria uomini come Giovanni Antonio Giobert e proseguendo l'aggiomamento dei programmi accademici, avviato dal Brignole e dal Galeani Napione, di cui l'autore del Simple récit volle successivamente fargli intera colpa.
La nomina del B. a ministro degli Interni, nel settembre del 1819, fu, secondo la testimonianza del Santarosa, un avvenimento che sembrò destare una grande speranza. L'uomo era aperto allo spirito del secolo, il politico esperto e capace di intendere le esigenze del paese. Il limite stava nella capacità di apprezzare convenientemente la forza dell'opinione. Nel rilevarlo il Santarosa coglieva il tipico tratto riformistico del Balbo. Ma lasciava in ombra la sensibilità del B. a forme e problemi nuovi della vita statale, lontana già dalla temperie dell'assolutismo illuminato, sensibilità manifestantesi anche in quella inclinazione, favorita dalla scarsa dialettica sociale e politica più che dal difetto di energia morale, a ripiegare su se stessa in uno spirito di moderazione e di rinuncia ch'era quasi una vocazione all'impotenza.
L'ideale del B. come si era venuto configurando nella lunga e composita vicenda a cavallo dei due secoli era pur sempre quello di una monarchia regolata nell'ordine giuridico costruito sul sistema di istituti e di garanzie di una nuova dimensione del diritto pubblico: parlamenti, stati, assemblee, consigli comunali e provinciali, organi di controllo, tutte insomma quelle "cose che monarchia da despotismo discernono", come aveva detto fin dal 1787, che dovevano prender forma nella legge scritta e positiva. Questo ideale era portato tuttavia, mancando dei punti di forza necessari nella debole e inarticolata. base sociale, ed essendo privo di riferimenti nella vita delle istituzioni e nella continuità dell'esperienza, a vagheggiare una tradizione di forme e istituti rappresentativi associati al principio monarchico, di ordini antichi di libertà, che qui potevano essere richiamati al più per ricordare col Santarosa che, avendoli la monarchia distrutti per sostituirvi un potere arbitrario, s'era in tal modo venuto a legittimare il diritto della rivoluzione. Qui nessun Beugnot poteva pretendere di rannodare la chaîne des temps col richiamo alla storia patria, che del resto era poco più di un espediente retorico anche in Francia dove la Carta octroyée aveva sanzionato in definitiva gli sviluppi dell'Ottantanove. Irrigiditi le funzioni della vita statale e il processo formativo del ceto dirigente, qui la monarchia era rimasta chiusa in quell'eccesso di autoritarismo che alla metà del sec. XVIII aveva attirato l'acuta critica di p. M. Doria.
Le difficoltà che all'azione di governo opponeva la pesante struttura statale erano aggravate dal fatto che il B. assumeva il suo ufficio in una condizione di emergenza, mentre il disagio dello spirito pubblico cresceva e si profilavano minacce di crisi e rivoluzioni. Postosi all'opera, in poco più di un anno, con gli strumenti ordinari di potere, egli realizzava un considerevole svecchiamento dell'edificio legislativo. La abrogazione della legge limitativa degli affitti, il riordinamento del debito pubblico, le disposizioni dirette alla tutela dei corpi amministrati, furono tra i provvedimenti più rilevanti attuati dal B., che, fin dal Consiglio di conferenza del 5 ott. 1819, aveva proposto in tema di legislazione ecclesiastica la riduzione e soppressione di benefici, decime e canoni. A stretto contatto col ministro delle Finanze Brignole e coadiuvato da Francesco Gambini, studiava intanto un programma liberistico di politica commerciale, riproponendo all'attenzione pubblica i termini del dibattito svoltosi in Piemonte nel 1788 sulla libera esportazione delle sete gregge e sollecitando il parere e il consiglio di uomini responsabili relativamente alla controversa questione. Ma soprattutto preparava la riforma degli ordini giudiziari nel quadro di un ampio rinnovamento legislativo.
Le carenze dell'ordinamento giudiziario preoccupavano particolarmente il B. che per lunga esperienza conosceva la gens de robe,una casta, a suo dire, sciocca e ridicola quanto i nobili erano ignoranti (cfr. la sua Véritable réponse),tributaria del potere sovrano oltre i limiti concessi ai "sovrani cristiani anche i più assoluti" (Cesare Balbo, cit. in E. Passamonti, P. B. e la rivoluzione del 1821 in Piemonte,p. 266). Restituire funzionalità a questo corpo anchilosato era per il B., conformemente alla sua visione politica, la condizione stessa per una strutturazione ed efficienza nuove del potere politico qui al suo limite più resistente. Istituita la giunta superiore di legislazione e definita in questa sede l'impostazione generale della riforma, il B. volle che la discussione e definizione delle proposte legislative proseguisse in due congressi, il primo formato da ministri e presieduto da A. Vallesa, l'altro da magistrati sotto la sua personale direzione. A un terzo congresso, indetto successivamente, fu demandata l'elaborazione di un progetto per il rinnovamento del Consiglio di Stato che il B. concepiva come un organo di controllo dell'attività di governo. Ma il proposito di riformare l'ordinamento giudiziario introducendo un principio di garanzia basato sulla inamovibilità dei giudici nel consiglio di giustizia e nei tribunali ordinari, e sui diritti della difesa e sul criterio della prova nel procedimento penale, si scontrava contro una fortissima opposizione. Fieramente avversato da G. Borgarelli nel congresso dei magistrati e con più scarsi consensi nel congresso ministeriale, dominato da C. Cerruti, il B. vide contrastate e respinte le sue proposte, che un De Maistre in nome di un più consentaneo principio del diritto pubblico monarchico aveva in qualche punto appoggiato richiamandosi a una formula, assolutistica che tenesse conto della distinzione tra il principio autoritario e la legge nella sua applicazione normativa. Per la lentezza dei dibattiti congressuali l'opposizione reazionaria riuscì a organizzarsi ed il B. che per la sua indole "si peritava nelle più gravi occorrenze di usare della pienezza del suo potere e del favore dell'occasione" (F. Sclopis, Storia della legislazione negli Stati del Re di Sardegna dal 1814 al 1847, in Mem. d. R. Accad. d. scienze di Torino,1861, s. 2, p. 27) fu costretto ad un'azione difensiva che finì coll'accrescere la tensione degli animi già pericolosamente agitati. Quando in occasione degli auguri di capo d'anno del 1821 il Borgarelli alla testa del Senato di Piemonte si alzò per prospettare al re il pericolo cui poteva. esporsi la monarchia per un mutamento sia pur minimo dell'antica legislazione, il B., che, senza ambizioni personali di potere, aveva un'alta coscienza di sé, decise di dimettersi. Egli non poteva consentire di vedersi sottratti i mezzi d'azione e con questi la dignità dell'ufficio e l'esercizio responsabile del proprio, giudizio: "Chiamato a mio malgrado a questa cura - aveva avvertito in Consiglio di conferenza qualche mese prima - io non rifiuto verun uffizio, ma non posso, epperciò solo non voglio sostenerne alcuno, ch'io non abbia tutto ciò che fa d'uopo. Non ricuso di perder la vita faticando e penando, ma non voglio e risolutamente il dico, non voglio perder l'onore. Honorem meum nemini dabo" (cit. in F. Lemmi, Il processo del Principe della Cisterna, Torino 1923, p. 36). Ma finì poi per cedere alle insistenze del re e del San Marzano accontentandosi della esclusione del Borgarelli dal congresso legislativo. Prevalse il richiamo al senso di responsabilità del grande funzionario nel più acuto stato di emergenza creatosi per la rivoluzione napoletana e per la conferenza di Lubiana che di quella crisi seguiva l'andamento e le ripercussioni sulla scala italiana. Ed affiorò forse l'estrema illusione di poter ancora vincere l'ostruzionismo dei retrivi e attuare le riforme che egli si era proposto e che nelle sue intenzioni costituivano l'alternativa non strumentale al liberalismo e alla rivoluzione.
Convinto come ogni conservatore illuminato che una politica di riforme nell'ambito economico e legislativo fosse, opportuna oltre che consentita in un regime di monarchie pure,servendo anzi a puntellarne le strutture, il B. si preoccupava tuttavia delle condizioni di sicurezza sociale e politica entro cui l'azione riformatrice deve esplicarsi. Consapevole della crisi statale - di quel "morbo contagioso e letale" del corpo politico diagnosticato nel Consiglio di conferenza del 3 luglio 1820 - egli premeva ora sulla parte sensibile del ceto di governo perché si accelerassero i tempi di attuazione dei nuovi indirizzi. A mano a mano che i giorni passavano, rimanendo i problemi insoluti, cresceva il timore, dettatogli dalla diffusione e radicalizzazione delle idee liberali, che l'insorgere improvviso di uno stato di necessità potesse sottrarre al governo l'iniziativa e il potere di decisione costringendolo a subire le pressioni di una congiuntura eversiva (cfr. lettera del 28 genn. 1821 al San Marzano, in E. Passamonti, op. Cit., p. 270). Gli incidenti scoppiati nell'ateneo torinese l'11 e il 12 gennaio, che avevano visto il B. in veste di ministro degli Interni e di preside dell'università svolgere opera di moderazione e pacificazione, di cui gli darà atto il Santarosa, dimostravano quanto ristretto fosse ormai il margine d'iniziativa. Ma le preoccupazioni del B. non trovavano rispondenza nella corte dominata dall'elemento aristocratico reazionario, da quella "demi-douzaine d'imbéciles", di cui egli parlava al San Marzano nella lettera del 28 gennaio. Questa resistenza, rischiando di acuire al limite della rottura il contrasto tra la casta governante e la parte liberale dell'opinione pubblica, suggeriva al B. l'opportunità di una iniziativa personale allo scopo di contrapporre all'estremismo liberale del ceto professionistico e in parte militare, che aveva nel suo programma l'applicazione della costituzione di Cadice, una soluzione di ricambio moderata. Conseguentemente nel gennaio 1821, coadiuvato dal figlio Cesare, elaborava progetti costituzionali ricavati dall'integrazione e fusione delle carte inglese, siciliana e francese, che riteneva più accetti per i modelli ispiratori ai liberali di parte aristocratica e meglio adatti alla tradizione del paese.
Avverso comunque a qualsiasi concessione fatta in stato di necessità, il B. accondiscese all'accantonamento di quell'abbozzo di carta statutaria modellata sulla costituzione inglese che il re si apprestava ad ammettere in terraferma sotto l'urto della sollevazione di S. Salvario. A sconsigliare per il momento qualsiasi iniziativa non era solo la superiore esigenza del principio di autorità e la ragione del prestigio monarchico, ma anche le sanzioni che da Lubiana minacciava la Santa Alleanza comprovanti la determinazione austriaca di garantirsi ad ogni costo la sicurezza dei possedimenti italiani. Ora non rimaneva che la difesa dello status quo anche a rischio di allineare i riformatori moderati sulle stesse posizioni dei retrivi.
La radicalizzazione programmatica del movimento insurrezionale per il prevalere dell'elemento borghese democratico su quello patrizio costituzionale sembrava offrire una giustificazione a oscillazioni e resipiscenze.Ma nella scelta passivamente operata si rivelava drammaticamente l'isolamento del B. e dei suoi amici - i Brignole, i Saluzzo, i San Marzano - che, privi di sostegno nel ceto nobiliare e senza contatti e collegamenti con i fautori, nobili e borghesi, dell'iniziativa, politica e delle soluzioni costituzionali, rimasero alla fine prigionieri delle loro diffidenze e dei loro timori, tra i reazionari che li denunciavano quali battistrada della rivoluzione e i novatori che li accusavano di strumentalismo politico e di malafede. Scontata l'illusione di pervenire con un atto della volontà sovrana e senza rotture a un regime di garanzie amministrative e a un nuovo equilibrio, non rimaneva che il ripiegamento e la recriminazione di chi, dopo essersi vanamente adoperato a conquistare il re alla necessità di "ricostituire" lo Stato, poteva dire d'aver lucidamente previsto il corso degli eventi (cfr. la lettera di Luigi Provana dei Sabbione al B. del 1° apr. 1821, in L. Ottolenghi, La vita e i tempi di Luigi Provana del Sabbione,Torino 1881, p. 86). Ma separare le idee di libertà e di costituzione dai programmi amministrativi non era dato nelle condizioni create dallo sviluppo sociale e dell'esperienza politica degli ultimi decenni. Pensare di rinnovare i codici senza mutare il "codice politico" si poteva solo ancora per un residuo di mentalità riformistica (I. Petitti di Roreto, p. 8). Né si trattava solo di definizioni programmatiche. Come dimostravano i federati cui fece difetto la stessa volontà per affrontare in scontro aperto i partigiani dell'assolutismo e decidere le sorti dell'"ordine antico di cose", cosicché nell'ora delle decisioni tutto fu lasciato di fatto al suo posto al punto che, secondo l'immagine di Giacomo Giovanetti, "il linguaggio stesso dei liberali era agghiacciato" (cit. in F. Patetta, La rivoluzione piemontese del 1821 giudicata da Giacomo Giovanetti, in La rivoluzione piemontese..., I, p. 509). Tra diffidenze e timori reciproci, riformatori legittimisti, liberali legalitari e settari finirono comunque coi neutralizzarsi a vicenda. Il nodo di contraddizioni contro cui si scontrava esaurendosi la volontà degli uomini si rivelò esemplarmente nella progettazione costituzionale che aveva impegnato le estreme risorse del Balbo. L'elemento borghese era debole e preoccupato forse di scatenare più vaste passioni, perché fosse dato sperare la preminenza di un funzionale potere d'assemblea, mentre il ceto aristocratico era troppo diviso, privo di esperienza politica e legato al regime arbitrario perché si potesse formare, come sapeva anche Carlo Alberto, una efficiente Camera di Pari. Ma nel fallimento si intravvedeva pure un elemento di prospettiva, sottolineato dalla tendenza stessa di ogni gruppo, di varia accezione politica, a volgere l'iniziativa altrui ai propri fini, con un calcolo politico ancora ristretto e l'obiettiva incapacità di predisporre i mezzi dell'azione.
Allorché il 16 marzo da Modena Carlo Felice proclamò la sua recisa opposizione "a qualunque cambiamento della forma di governo" il B., già dimissionario cogli altri ministri di Vittorio Emanuele, lasciò Torino rifugiandosi in Avignone presso i parenti della moglie. Nell'esperienza così conclusa egli aveva bruciato le sue illusioni e velleità di politico riformatore, per aver pensato che bastasse "accordare con franchezza ciò che è necessario", prima che per il favore, di cui gli farà colpa il Petitti, accordato ai liberali "in virtù delle sgraziate influenze" del figlio Cesare (Relazione storico-critica..., p. 8). Al B. potevano attagliarsi epigraficamente le parole che qualche tempo dopo il Cavour riferirà alla vicenda del Pralormo: "Un ministre chez nous est bien faible; il a si peu de force qui lui soit propre, car il ne représent rien; quelqu'habile qu'il soit ce n'est qu'un individu isolé, qui transmet et dirige une force dont le foyer est ailleurs" (lettera al conte di Pollone, del 1836, in F. Ruffini, La giovinezza del Conte di Cavour,II, Torino 1912, pp. 55 s.).
La bufera del '21 era passata ma i problemi rimanevano sul tappeto fatti più acuti dalle nuove lacerazioni. Ci si rendeva conto ora, secondo l'esatta diagnosi del B., che tutto ciò ch'era avvenuto e perdurava, come il fermento non spento dell'esercito, altro non era, come dirà il Revel, che la "maladie du pays". Spezzato "l'équilibre entre les classes de la société" sarebbe occorso molto tempo a ristabilirlo in mancanza dei contrappesi della società gerarchica.
Difficile si presentava comunque in questa condizione ogni opera che si proponesse a un tempo di "guérir l'esprit des révolutionnaires" e "les craintifs de l'exagération de la peur" (I. Thaon di Revel, cit. in M. Avetta, Uomini della Restaurazione. Il conte Ignazio Thaon di Revel, in La rivoluzione piemontese, I,p. 362). I principî sacri per uomini come i B., e tra questi primo fra tutti il rispetto dell'autorità sovrana, avevano scarsa presa oramai nell'animo di una generazione passata attraverso la rivoluzione (cfr. L. Sauli d'Igliano, Reminiscenze, I, Roma 1908, p. 271). A chi, come il Revel, invocava vigilanza e fermezza, qualcuno opponeva che più conveniente e opportuno sarebbe stato far uso di abilità evitando una persecuzione generale atta solo a confermare la larga influenza dell'azione rivoluzionaria (cfr. G. B. Pozzi, cit. in M. Avetta, p. 319). Anziché operare una qualche revisione dei metodi di governo, il regime di Carlo Felice inasprì il dispotismo aristocratico e la politica oscurantistica. E al B. si fece colpa d'aver consentito l'adozione del Compendio delle Lezioni di economia civile di Antonio Genovesi come testo universitario.
Dopo i moti del '21 il B., confermato nell'incarico peraltro onorifico di ministro di Stato, mantenne la presidenza della R. Accademia delle scienze e il seggio nel direttorio della Congregazione primaria di carità, di cui faceva parte dal 1820. Decadde invece da capo del magistrato della riforma degli studi e fu escluso di fatto da responsabilità dirette nella vita pubblica. Alla metà degli anni '20, tornava a meditare sui problemi dello Stato e sui temi della propria esperienza, richiamando la necessità di un punto d'accordo tra l'opinione e il governo. Forza reale o supposta, l'opinione pubblica aveva ormai un peso e una influenza "qu'il serait plus difficile de la combattre avec succès que de la diriger avec avantage". Egli rifiutava ancora il principio del governo rappresentativo per la prevenzione dei suo organicismo giuridico e politico contro la separazione dei poteri in cui credeva di riscontrare tutti i vizi dell'ideologismo. Ed anche per il timore del suo spirito conservatore dissenziente da una regola di libertà che, elevando gli individui e i ceti alla responsabilità legislativa, rischiava di mettere in gioco tutti gli interessi e tutte le passioni. Ma in qualche punto sembrava teso ad approfondire e ad allargare la sua visione antiassolutistica accogliendo le suggestioni se non le tesi d'una cultura meno formale, altrove impegnata a definire il contesto delle garanzie nella vita organizzata e con esse la tecnica dei limiti giuridici del potere. Anche se genericamente formulata, la sua rivendicazione della garanzia, di cui il patto sociale fissa la fruizione contro l'arbitrio, conteneva un più insistente richiamo alla selezione aperta, di merito, della classe dirigente oltre l'ambito degli ordini esclusivi e privilegiati.
Incentrata sul concetto di funzionalità statale ed efficienza amministrativa, essa si articolava in una visione dell'assetto istituzionale avente la sua base in un rinnovato Consiglio di Stato, nei corpi municipali autonomi e negli organi di controllo e di coordinamento finanziari e amministrativi precipuamente istituiti per attuare la giustizia nell'amministrazione dello Stato (cfr. Observations sur le Conseil d'Etat sous E. Philibert,in Torino, Bibl. Reale, Mss. stor. patria, 425). Ma nonostante spunti e fermenti nuovi non si usciva anche qui dal quadro di una teoria del monarcato. Gli istituti e le forme di rappresentanza nazionale rimanevano associati e subordinati al principio regio fuori della norma oggettiva, di quella potenza vincolante delle leggi rivendicata in un suo manifesto famoso dalla giunta democratica di Alessandria. Al vertice della scala gerarchica stava il monarca nella cui persona si sussumeva lo Stato in quanto oggettività concreta della volontà, di cui governo, giurisdizione, magistratura erano determinazioni. Delegando le sue funzioni - secondo la tesi del De Maistre enunciata qualche anno prima in appoggio a qualche proposta di riforma del B. - la sovranità riconosceva che nel governo politico non è dato sottrarsi a quell'esigenza d'ordine che Dio stesso si dà fissando nel governo del mondo leggi per sua volontà "ferme, invariabili e costanti". Per la più viva nozione della legalità, la più aggiornata idea della libertà civile e un senso maggiormente vigile dell'iniziativa, il B. si differenziava dal quietismo conservatore. Ma la articolazione delle funzioni del potere per consentire ai sudditi di fare giuridicamente e ordinatamente i loro interessi, anche per lui in definitiva era da ricercarsi fuori della soluzione costituzionale evitando di implicare il principio di legittimità che la critica liberale con B. Constant già contestava.
Già nel decennio, sul ritmo dell'intensificato sviluppo economico e sociale che aveva investito la società europea e cui il Piemonte non era estraneo, si notava un fervore nuovo di iniziative e di discussioni a livello di governo e nella più vasta sfera dell'opinione. La crescita e la pressione degli interessi impegnava nello sforzo di valutare e comporre le vedute settoriali in una visione meno frammentaria e particolaristica della politica economica statale e dell'ordinamento giuridico che ne costituisce la base operativa. Si profilava così una tendenza a scoraggiare l'antico sistema di privilegi e privative e si escogitavano nuove e più moderne forme di appoggio alla iniziativa imprenditoriale: dalle sovvenzioni per investimenti industriali ai premi di esportazione ai brevetti d'invenzione a una politica doganale più ampiamente manovrata. Momento di questa nuova fase fu il dibattito sulle trasformazioni tecniche dell'agricoltura, avviato all'inizio del 1830, cui il B. partecipava per condannare il privilegio industriale e perorare forme di intervento e di incoraggiamento governativi tali da lasciare sempre margine a quella concorrenza che "unica sicura e giusta regolatrice de' prezzi" giova "alle ricerche più diligenti, agli studi più profondi, al perfezionamento de' metodi più vantaggiosi, alla propagazione de' lavori meglio diretti, alla moltiplicazione de' successi più venturosi" (Considerazioni sopra il programma del signor Isidoro Caldani [27 genn. 1830], in Accad. d. scienze di Torino, Mss. 2490).
Lontano dalla vita pubblica per un decennio, con l'assunzione al trono di Carlo Alberto il B. tornava alle responsabilità politiche in qualità di presidente della sezione di Finanze del rinnovato Consiglio di Stato (18 ag. 1831), che sembrava realizzare una costante programmatica del suo pensiero politico.
Nelle intenzioni di Carlo Alberto e dello stesso Carlo Felice, il Consiglio aveva lo scopo rafforzare la funzionalità del governo quale organo di stimolo e controllo regi capace di contrastare l'"oligarchia ministeriale" e assicurare meglio la stabilità e l'integrità del potere monarchico. Pur sorta dalla necessità di aggiornare in qualche punto il quadro dell'autoritarismo, la rinnovata istituzione rivelava la sua debolezza e ambiguità nella pretesa di assolvere ad una funzione suppletiva dell'istituto di rappresentanza. La garanzia che il Santarosa, nella sua accesa polemica antisabaudista, esigeva come atta ad innervare i vecchi istituti, si dissolveva qui nella formula della tradizione assolutistica richiamata dal B., nella definizione stessa di un organo ripristinato per contribuire alla "discussione delle materie di legislatura e dell'altre di governo, sopra le quali per antichissimo costante istituto della Corona... piacque a' nostri predecessori di sentire il parere del Consiglio di Stato e d'aver il voto del Consiglio della Gran Cancelleria" (Projet de création d'un Conseil composé d'un Conseil d'Etat, d'un Conseil de la Grande Chancellerie et suprême Justice, composé de deux Chambres, savoir d'une Chambre de Requêtes et d'une Chambre de Révision,in R. M. Borsarelli, Nuovi documenti intorno alla rinascita del Consiglio di Stato nel 1831,in Rassegna stor. d. Risorg., XXIII [1936], p. 1387). La stessa inclinazione originaria dell'editto del 18 agosto verso un più articolato "regime consultivo", propria del B., era un segno delle tensioni politiche che il nuovo livello di sviluppo sociale procurava nello Stato sabaudo. In tal senso contribuiva sintomaticamente ad illuminare il ruolo storico dell'istituzione. E non tanto perché eludeva il problema centrale della forma che la legge deve avere nella forza vincolante della norma oggettiva - rivendicazione che poteva essere in anticipo sull'evoluzione reale - quanto per lo sforzo di mediare nuove esigenze non componibili in formule vecchie per quanto aggiornate.
Fatto come più cauto dall'esperienza compiuta e dal fallimento di più ambiziosi progetti riformatori, il B. si contentava ora di inquadrare le funzioni del Consiglio in un contesto di proposizioni estremamente moderate, soddisfatto dell'allargamento della base del potere monarchico che l'istituto consentiva. Il problema di migliorare le leggi adattandole ai nuovi bisogni era circoscritto entro i limiti della "sapienza governatrice" da cui non bisognava discostarsi procedendo "con circospezione di riguardi e con maturità di esame, per lasciare intatte le leggi da non toccarsi, per serbare il rispetto dovuto agli ordini antichi e per evitare le alterazioni di soverchio grandi e repentine" (ibid.).
Istituto sorto sotto la spinta di esigenze nuove e incapace tuttavia di contenerle, il Consiglio rispecchiava una realtà in movimento di forze e di idee che l'anacronismo del programma carloalbertino, qui al suo avvio, faceva meglio risaltare. Velleitaria rispetto a un tempo di crisi e di scacco della société aristocratique era la tendenza, propria di Carlo Alberto, a fondare la base politica statale nella funzione di un ceto aristocratico privilegiato. A garantire il processo formativo del ceto dirigente e con esso la continuità dello Stato non basterà neppure l'editto sui maggioraschi, soluzione incapace di riempire il vuoto della condizione politica piemontese. Le differenziazioni economiche e sociali non erano più contenibili entro i vecchi schemi giuridici. Per conservare e accrescere le posizioni acquisite necessitava accettare il gioco imposto dalle trasformazioni reali. I dibattiti nel Consiglio di Stato, registrando la pressione che saliva dal paese per una politica di svecchiamento legislativo a tutti i livelli, denunciavano lo scompenso non sanabile con gli strumenti tradizionali tra l'andamento dinamico della vita sociale e le forme di potere. Cauto nelle proposizioni politiche il B. partecipava a questi dibattiti con l'inclinazione di pensiero che ci è nota, non sospettando forse la carica eversiva delle sue tesi divenute idee-forza di ceti che tendevano ora a saldare la rivendicazione economica nel programma politico. Nelle sue prese di posizione, fino al 1° apr. 1835, quando ottenne d'essere esonerato dalla carica consiliare, si avvertiva l'accento forse più singolare del ritardo dei programmi politici sulla vivente realtà, che con diversa attenzione ai nessi tra economia e politica e più consono spirito di libertà altri ora sottoponeva ad esame e critica.
Gli ultimi anni fino al giorno della morte, che lo colse il 14 marzo 1837 da "cristiano filosofo", che, nell'ora estrema, poteva guardare "senza rimorsi" alla sua lunga vicenda (F. Sclopis, P. B., in IFilopatridi,p. 84), furono trascorsi dal B. in un nuovo fervore di attività. La nomina a presidente della R. Deputazione di storia patria, istituita il 2° apr. 1833, sembrò quasi riportarlo al tempo lontano della Patria Società Letteraria. Il gusto della storiografia scientifica, affinato nella cultura romantica, aveva creato, nel "secolo della storia", un entusiasmo di lavoro e di ricerca cui partecipavano in attiva emulazione gli studiosi privati, le istituzioni pubbliche e i principi stessi, che si credevano in dovere di intervenire a favoreggiare i nuovi studi. Mentre Carlo Troya andava percorrendo l'Italia "frugando biblioteche ed archivi", il B., che, a modo suo, era stato anch'egli un "apostolo vichiano" ed aveva un suo personale gusto dell'erudizione filosofica, si unì giovanilmente a questa gara civile del rinato spirito storico (cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, I,Bari 1947, pp. 1-20). E intervenne presso esponenti del patriziato e del clero perché depositassero nella Deputazione le carte degli archivi familiari e capitolari, sollecitò ricerche di documenti, contribuì con personali idee alla impostazione della raccolta degli Historiae patriae monumenta e del Codice diplomatico degli stati del re,stabilì contatti con studiosi italiani e stranieri per averne consiglio e aiuto. In quello stesso tempo veniva a maturazione un suo antico progetto. Il Dizionario storico-geografico,iniziato dalla Patria Società nel 1783 con una raccolta di contributi modesti, per affezione di memorie ricordata dal B. più tardi come "assai bella" (Notizie biografiche di Angelo Paolo Carena,in Torino, Bibl. reale, Mss. Misc. Patria,82/28), cominciava in quell'anno ad essere realizzato con la pubblicazione del primo volume della monumentale opera di Goffredo Casalis.
Sul finire di "una travagliata esistenza", a conforto quasi della poca salute e delle gravi occupazioni al servizio dello Stato, poteva credere il B. che "più lieta ventura" non potesse toccargli di questa che lo riportava "se non agli studi, che non è più fattibile, almeno a, pensieri ne' quali un mezzo secolo fa" si era assiduamente consumata "senza gran frutto" la sua "giovinezza" (cit. in A. Manno, L'Opera cinquantenaria della R. Deputazione di Storia Patria di Torino,Torino 1884, p. 3).
Fonti e Bibl.: Sull'archivio familiare, vedi la voce Balbo Cesare, in Diz. Biogr. degli Italiani;fondo altrettanto importante è la Raccolta Balbo in 34 volumi, conservata nell'Arch. di Stato di Torino, sez. 1ª. Carte sparse sono nelle diverse sezioni di manoscritti della Bibl. reale di Torino e dell'Accad. d. scienze di Torino. Per l'attività del B. nel Consiglio di Stato sono da vedere le Deliberazioni del Consiglio e le Adunanze della sezione di finanze nell'Arch. centrale di Stato, Roma, dal 1831 fino all'aprile 1835, e la più ricca serie relativa allo stesso periodo di Relazioni, deliberazioni, processi verbali, pareri,ecc., del Consiglio e della sezione di Finanze nell'Arch. di Stato di Torino, Sez. riunite. Per notizie biografiche generali si rinvia a F. Sclopis, P. B. narrato da F. S. (1838), in C. Calcaterra, IFilopatridi,Torino 1941, pp. 78-85; v. anche L. Sauli d'Igliano, Reminiscenze della propria vita. Commentario del conte L. S. d. I.,a cura di G. Ottolenghi, Roma-Milano 1908, I, pp. 261-447; importante per i dati biografici e i giudizi critici E. Passerin d'Entrèves, La giovinezza di Cesare Balbo,Firenze 1940, pp. 3-44, 109-167 e passim. Manca una biografia compiuta del B. e uno studio monografico della sua opera non potendosi considerare tale il lavoro compilativo di G. Durando, Principi di diritto, economia e finanza in alcuni scritti editi ed inediti di P. B. Torino 1940. La necessità di più ampi riferimenti a carte e testi inediti o poco noti consiglia di limitare all'indispensabile il richiamo di studi generali o più particolari di storia piemontese. Sull'ambiente giovanile e sulla formazione spirituale v. Innocentii Mauritii Baudisson In Regio Taurinensi Atheneo Pofessoris Orationes pro comite Prospero Balbo...,Augustae Taurinorunm d.; Comes Prosper Balbus ... ut in amplissimum J. C. Taurin. Collegium cooptetur,Augustae Taurinorum s. d.; C. Calcaterra, Ilnostro imminente risorgimento,Torino 1935, pp. 154-168, 260, 277, 338 e passim;Id., IFilopatridi, pp. 17-77; Id., Le Adunanze della Patria Società letteraria,Torino 1943 (utile per la informazione, quest'opera non è accettabile in linea generale per l'interpretazione); F. Venturi, note introduttive a G. B. Vasco e Francesco Dalmazzo Vasco in Illuministi italiani,III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani,Napoli 1958, pp. 757-767, 811-821; A. Bersano, Fermenti giansenisti in Piemonte durante, l'ultimo Settecento,in L'abate Francesco Bonardi e i suoi tempi,Torino 1957, pp. 301-343.
Per il periodo dell'ambasciata a Parigi v. D. Carutti, Storia della corte di Savoia durante la rivoluzione e l'impero francese,Torino 1892, I, pp. 372 ss., 493 ss.; Memoriale indirizzato al Re ... 15 luglio 1815,in Lettere inedite di Carlo Emanuele IV..., a cura di M. Degli Alberti, Torino 1909, pp. 30-38; sono da vedere i voll. 22, 24, 25, 26, 28, 29, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, della Racc. Balbo,cit.; la corrispondenza Balbo-Priocca, Torino, Bibl. reale, Mss. stor. patria,1121-1123, e in Arch. di Stato di Torino, sez. 1ª, Lettere Ministri Francia,fasc. 6. Per il dibattito di politica economica di fine secolo e il periodo dell'occupazione austro-russa v. G. Prato, L'evoluzione agricola nel sec. XVIII e le cause economiche dei moti del 1792-1798in Piemonte,in Mem. d. R. Accad. d. scienze di Torino,s. 2, LX (1910), pp. 33-166; Id., Le fonti storiche della legislazione economica di guerra. Il controllo statale dei cambi in Piemonte nel 1798, in Atti d. R. Accad. d. scienze di Torino,LIII (1918), pp. 948-969, 1343-1358; A. Fossati, Ilpensiero economico del conte G. F. Galeani-Napione (1748-1830), Torino 1936, pp. 73, 97, 144, 194; Id., Contributi alla storia della carta moneta. Nuovi studi sugli eventi monetari alla fine del sec. XVIII in Piemonte,Torino 1943, pp. 116-180; V. Pautassi, Gli istituti di credito assicurativi e la Borsa in Piemonte dal 1831 al 1861, Torino 1961, pp. 178-182. Il Transunto del B. sul concorso del 1788 è conservato nell'Arch. Balbo; le memorie del B. in Del credito pubblico in Piemonte 1794. Raccolta di varie scritture...,in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo, vol.18; [P. B.], Mémoire du Conseil Suprême au baron de Mélas au sujet de la disette (12 genn. 1800), Torino, Bibl. reale, Mss. Misc. 170/21; [P. B.], Mémoire sur la situation actuelle du Piémont et sur les événements qui l'ont précédé, 15 dic. 1799, in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo,Vol. 29 (in successive redazioni di cui una pubblicata in E. Passamonti, Un memoriale inedito di P. B. nel 1799, in Atti d. R. Accad. d. scienze di Torino,XLIX [1913-1914], pp. 939-951); Memoria di P. B. indirizzata al generale Mélas (3 genn. 1800), in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo, vol. 15; Scritto letto da P. B. al Consiglio il 9genn. 1800, ibid., vol. 14; [P. B.], Della quantità di bassa moneta esistente in Piemonte (settembre 1800), ibid.; Parere del Conte Balbo al Consiglio, del 22 maggio 1800, ibid. vol. 17; Scritto del 24 maggio 1800 di P. B., ibid.;[P. B.], Del modo di mettere in giro la moneta e di provvedere le regie casse (gennaio 1800), ibid., vol. 14. Per il periodo dell'occupazione francese v. Orationes in Academia Taurinensi habitae Anno 1810die IV, IX aprilis quibus diebus amplissimi viri Cuvier Coiffer Balbus..., Augustae Taurinorum s. d.; P. B. rettore dell'Accademia,in Torino, Bibl. reale, Mss. Misc. Vernazza,19-261; Università di Torino, carte diverse 1806-1821, lettere,in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo,Vol. 43. Per i primi anni della Restaurazione v. Mémoire de P. B. envoyé à son frère à Paris (1814), Mémoire de P. Balbo (1814), in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo,Vol. 30; Memoriale indirizzato al Re..., 15 luglio 1815cit. Per l'ambasciata a Madrid v. N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea dall'anno 1814 al 1861, Torino 1865, I, pp. 259-262; Ambasciata del conte P. B. in Spagna 1816-1818, in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo, vol. 44; Istruzioni al conte P. B. inviato a Madrid (19 ott. 1816); Dispacci di Vitt. Em. I al Balbo (15 marzo 1817), in Arch. Stor. del Min. d. Affari Esteri, Roma, s. l., buste 3, 5. Per la riforma legislativa v. la raccolta fattizia di documenti a stampa conservata nella Biblioteca Reale di Torino con il titolo Legge proposta nel 1820; A. Aquarone, La politica legislativa della Restaurazione nel Regno di Sardegna,in Bollett. stor. bibl. subalpino,LVII (1959), pp. 21-50, 332-359; Minute diverse di Lettere Patenti per la formazione di un Consiglio di Stato preparate da un Congresso nel 1821, in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo,vol. 31 bis. Per i moti del '21 e la politica della restaurazione, oltre agli studi citati alla voce Cesare Balbo (fondamentale quello di E. Passamonti, P. B. e la rivoluzione del '21in Piemonte,in La rivoluzione piemontese del '21. Studi e documenti,II, Torino 1927, pp. 190-348), v. il saggio introduttivo di F. Sirugo a C. Cavour, Scritti di economia 1835-1850, Milano 1962, pp. IX-XCI; Mémoire du comte Ministre de Etat, P. B. en réponse au libelle intitulé: Simple récit..., in A. de Beauchamps, Histoire de la Révolution du Piémont,Paris 1821, pp. 117-136. Sul Consiglio di Stato V. C. Ghisalberti, Contributi alla storia delle amministrazioni preunitarie,Milano 1963, pp. 147-183, che richiama i principali studi in proposito; per interventi e prese di posizione del B. in sede di Consiglio e di sezione di Finanze v. Arch. centr. d. Stato, Roma, Deliberazioni del Consiglio 1833, vol. 3°; Sezione di Finanze, Adunanze 1832, voll. 1 e 2; per la discussione sulla tariffa doganale svoltasi nel 1833-34 v. i voll. 4, 5, 6 delle Deliberazioni e Adunanze, ibid.,e la serie dei Processi. verbali,in Arch. di Stato di Torino, Sez. riun. Per la bibliografia degli scritti economici del B. si rinvia a L'economia degli Stati italiani prima della unificazione. Stati Sardi di terraferma (1700-1860), saggio bibliografico a cura di F. Sirugo, Milano 1962; per gli altri scritti editi v. A. Manno, L'opera cinquantenaria della R. Deputazione di Storia patria di Torino..., Torino 1884, pp. 146-148; oltre a quelli indicati v. i seguenti inediti: Aperçu statistique du Piémont à différents époques depuis 150ans (Firenze, marzo 1801), in Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo,vol. 17; Scritto in forma di editto suggerito dalla Riflessione intorno al sistema attuale delle R. Finanze di G. F. Galeani-Napione. 1796, ibid..; Diritto di macina (maggio del 1800), ibid. Mémoire ... relatif aux bans de vendange et aux vins altérés (1803); ibid. vol. 15; Della moneta di carta in Piemonte (30 luglio 1814), ibid.,vol. 31; Del credito e del debito verso la Francia (2 apr. 1819), ibid.; Introduzioni alle Descrizioni delle province di Vercelli, Asti e Ivrea,Torino, Bibl. reale, Mss. st. patria,849, 850, 852; Observations sur le Conseil d'Etat sous E. Philibert,ibid., Mss. st. patria,425; Parere sopra gli spagnuoli baroni sardi, sopra i diritti di signoraggio in Sardegna e particolarmente sopra il divieto delle chiusure (In Madrid dal 7 luglio al 7 sett. 1818), ibid., Mss. st. patria,188; Regole per la formaz. di un dizionario geografico degli Stati di Sua Maestà..., in Arch. d. Accad. d. scienze di Torino, Mss.,817; De la Propriété littéraire des auteurs (Lettera a Giuseppe Vernazza, del 30 giugno 1812), ibid., Mss.,1069; Annotazioni d'un accademico sopra lo scritto intitolato "Osservazioni d'Isidoro Caldani sul confronto delle due memorie sporte l'una da esso, l'altra dal signor Bonafous a nome della Società Faucille di Lione tendenti ad introdurre nelli Stati di Sua Maestà li pozzi trivellati" (21 genn. 1830); Considerazioni sopra il Programma del Sig. Isidoro Caldani (27 genn. 1830),ibid., Mss., 2485 e 2490.