Prova giuridica
Accade nel diritto e in particolare nel processo, come in altri campi d'esperienza, che una decisione debba essere presa sulla base di fatti. È la conoscenza di questi fatti che condiziona e influenza la decisione, e che comunque ne rappresenta in tutto o in parte il fondamento. Essi debbono allora essere stabiliti in modo attendibile e veritiero, mediante l'impiego razionale delle conoscenze disponibili e con metodi validi e controllabili.
Sotto questo profilo il contesto del processo e della decisione giudiziaria non è essenzialmente diverso da altri contesti; è però più specifico perché in esso valgono regole e principî che non esistono in altri contesti.
Un primo elemento di specificità è che nel processo occorre stabilire come si sono verificati i fatti che compongono una particolare situazione concreta, dalla quale deriva la controversia che il giudice deve decidere. I 'fatti della causa' sono fatti particolari e specifici determinati nel tempo e nello spazio: ciò induce a ritenere in larga misura inattendibile l'analogia che si è tradizionalmente delineata tra l'attività conoscitiva del giudice e quella dello storico. In quanto lo storico non si occupa soltanto della ricostruzione di fatti particolari, l'analogia non tiene. Essa serve solo a sottolineare che anche il giudice ricostruisce fatti passati (v. Taruffo, 1992, pp. 310 ss.).
Un altro importante elemento di specificità è che nel processo la ricerca e la raccolta dei dati conoscitivi che occorrono per stabilire i fatti debbono avere una durata e non possono protrarsi indefinitamente. Interest reipublicae ut sit finis litium, sicché bisogna che prima o poi (ma meglio prima che poi) l'indagine sui fatti si concluda e su di essi venga formulata una decisione finale. Questo fattore distingue la conoscenza giudiziaria dei fatti da quella scientifica: esigenze pratiche e giuridiche impongono limiti alla prima, mentre la seconda può proseguire indefinitamente (ibid., pp. 303 ss.). Un terzo fattore rilevante di specificità è il modo con cui vengono individuati i fatti che nel processo debbono essere conosciuti. Due modalità sono specialmente importanti a questo proposito. La prima attiene alla circostanza che la decisione giudiziaria è finalizzata ad applicare norme giuridiche a situazioni concrete. Allora il criterio fondamentale per determinare quali fatti debbono essere stabiliti nel processo è la regola giuridica che si considera applicabile come standard di decisione del caso. La seconda modalità attiene alla circostanza che i fatti del caso non sono definiti a priori: essi sono invece individuati e affermati ('allegati') dai soggetti che operano nel processo (parti, pubblico ministero, imputato, giudice) secondo particolari procedimenti regolati dalla legge.Essenzialmente il problema che si pone nel processo, e che il giudice deve risolvere, è che occorre stabilire se e come determinati fatti si sono verificati, al fine di applicare a essi una norma o regola giuridica che consenta di giungere alla decisione finale. Per far ciò il giudice deve accertare i fatti sulla base di validi e adeguati elementi di conoscenza. Questi elementi vengono denominati, nel linguaggio giuridico ma per derivazione anche in altri linguaggi, 'prove'.
Come si è già accennato, i fatti che debbono essere accertati nel processo sono quelli che vengono configurati dalle norme che si adottano come criteri di decisione. Una diffusa teoria afferma che, una volta individuata la fattispecie astratta cui si riferiscono queste norme, si ha la determinazione delle categorie di fatti cui esse si riferiscono. Dalle circostanze specifiche del caso particolare occorre poi enucleare la fattispecie concreta, ossia quei fatti che corrispondono alle categorie determinate dalle norme. In tal modo si giunge a stabilire quali sono i fatti giuridicamente rilevanti (o giuridici, o principali) (v. Taruffo, 1992, pp. 71 ss.; v. Engisch, 1960², pp. 19 ss.; v. Larenz, 1979⁴, pp. 262 ss.). Bisogna però considerare che nel processo l'individuazione dei fatti giuridicamente rilevanti è il risultato di un procedimento dialettico che può anche essere assai complesso, nel quale le norme applicabili vengono scelte e interpretate in funzione delle circostanze di fatto della particolare situazione, e i fatti del caso vengono selezionati e definiti in modo da poter essere qualificati in base alle norme che a essi si applicano (v. Engisch, 1960², pp. 22 ss.; v. Larenz, 1979⁴, pp. 255 ss., 283 ss.; v. Hruschka, 1965; v. Taruffo, 1992, pp. 75 ss.).
Molte complicazioni possono sorgere in questa operazione. Accade spesso che le norme siano formulate in un linguaggio vago e indeterminato anche per ciò che riguarda l'individuazione dei fatti cui esse si riferiscono (v. Taruffo, 1992, pp. 86 ss.; v. Luzzati, 1990). Le norme impiegano poi varie tecniche definitorie per individuare i fatti ai quali si riferiscono, spesso con implicazioni valutative (v. Taruffo, 1992, pp. 105 ss.). Occorre peraltro considerare che i fatti giuridicamente rilevanti non sono i soli ad avere rilievo nel processo ai fini della decisione. Accade spesso che la conoscenza relativa a un fatto principale si possa conseguire per via di inferenze derivate da altri fatti, che non sono 'giuridici' ma sono utili come base per conoscere indirettamente i fatti giuridici. Si tratta dei cosiddetti fatti secondari, o fatti semplici, o indizi (v. Taruffo, 1992, pp. 97 ss.; v. Cordero, 1993², pp. 545 ss.). Anche il fatto secondario dev'essere conosciuto e accertato, per poter essere assunto come premessa di un'inferenza idonea a produrre conclusioni attendibili su un fatto principale.
Un ulteriore chiarimento è poi necessario. Nel linguaggio corrente si usa parlare di fatti, circostanze, eventi, e così via, ma si tratta di espressioni ellittiche. I fatti non entrano nel processo nella loro materialità empirica, ma come oggetto di enunciati. Sono enunciati le allegazioni delle parti nel processo civile e le formulazioni dei capi d'imputazione nel processo penale; sono enunciati le dichiarazioni rese da testimoni o contenute in documenti probatori; infine, sono enunciati quelli che il giudice formula sui fatti in sede di decisione (v. Taruffo, 1992, pp. 91 ss.).
All'inizio del processo e nel corso di esso i fatti, principali e secondari, sono oggetto di enunciati ipotetici, ossia di proposizioni di fatto la cui verità o falsità è incerta. Su di esse, infatti, nessuna decisione è ancora stata formulata. L'oggetto del giudizio di fatto, globalmente inteso, è dunque costituito da un complesso insieme di enunciati ipotetici relativi a tutti i fatti principali e secondari rilevanti ai fini della decisione del caso.
Come già accennato, si ritiene comunemente che la prova fornisca al giudice gli elementi di conoscenza che servono a formulare un giudizio di verità o falsità in ordine agli enunciati che vertono sui fatti rilevanti per la decisione. Poiché siffatti enunciati sono in realtà ipotesi intorno ai fatti, si può dire che la funzione essenziale della prova consiste nel controllare e verificare tali ipotesi: la prova fornisce elementi conoscitivi in base ai quali l'ipotesi su un fatto può considerarsi vera o falsa (v. Cordero, 1993², pp. 530 s.). In questa prospettiva il problema della prova giuridica si articola in una serie di ulteriori problemi che vanno dalla tipologia delle ipotesi sui fatti alla struttura delle inferenze mediante le quali i dati probatori confermano o contraddicono tali ipotesi (v. Taruffo, 1992, pp. 217 ss., 252 ss.). Si potrebbe anche dire che la prova è lo strumento di cui ci si serve nel processo per rimuovere l'incertezza che caratterizza gli enunciati sui fatti rilevanti per la decisione. Ancora, si può dire che la prova è il metodo razionale che si impiega per conseguire decisioni veritiere intorno a questi fatti (ibid., pp. 1 ss.).
Va tuttavia sottolineato che questa concezione della funzione della prova presuppone una più generale teoria della decisione giudiziaria, che si può definire come teoria legale-razionale della decisione. Secondo questa teoria le decisioni giudiziarie possono, e quindi debbono, trovare fondamento nella legge e nella ragione. Per ciò che attiene al giudizio sui fatti, è necessario che la decisione sia il più possibile veritiera, poiché soltanto una ricostruzione dei fatti rilevanti conforme a verità può costituire la necessaria condizione per un'applicazione giusta della norma di diritto nel caso concreto (v. Taruffo, 1992, pp. 35 ss.; v. Ferrajoli, 1990², pp. 5 ss., 18 ss., 107 ss.). Tuttavia questa concezione non è ovvia, e presuppone la risoluzione di importanti e complessi problemi filosofici ed epistemologici. Così ad esempio essa non è condivisa da chi segue teorie irrazionalistiche o idealistiche o nichilistiche della conoscenza, poiché con tali teorie è incompatibile ogni concezione che ipotizzi la possibilità di un giudizio veritiero sui fatti (per un'analisi di questi orientamenti, v. Taruffo, 1992, pp. 8 ss.). La concezione in esame viene inoltre criticata, nell'ambito della dottrina giuridica, da chi ritiene che il fine essenziale del processo non sia di formulare decisioni fondate sulla verità dei fatti, bensì di risolvere conflitti, e ritiene anche che la verità non sia necessaria né opportuna, né possibile (ibid., pp. 16 ss., 24 ss.). Donde la tendenza abbastanza diffusa a ritenere che le prove siano in realtà strumenti retorici, e non conoscitivi: esse non sarebbero finalizzate a fornire al giudice elementi di conoscenza dei fatti, e sarebbero invece strumenti persuasivi di cui le parti e i loro avvocati si servono per indurre il giudice ad accogliere una versione dei fatti invece che un'altra (v., ad esempio, Giuliani, 1959 e 1988; v. Eberle, 1989). Si può tuttavia dimostrare che nessuna di queste concezioni è coerente con l'idea di una decisione giudiziaria giusta in quanto fondata su una valida applicazione di norme a fatti accertati in modo veritiero (v. più ampiamente Taruffo, 1992, pp. 36 ss., 323 ss.; v. Verde, 1988, pp. 586 ss.). Non è d'altronde difficile formulare un'idea di verità relativa, approssimata, vincolata e dipendente dai dati conoscitivi concretamente disponibili, che equivalga in sostanza alla conferma logica ed empirica, o alla falsificazione logica ed empirica, degli enunciati ipotetici che vertono sui fatti rilevanti per la decisione (v. Taruffo, 1992, pp. 58 ss., 143 ss.; v. Ferrajoli, 1990², pp. 18 ss.).
Ne risulta confermata la definizione della prova come strumento razionale per il conseguimento di giudizi veritieri circa l'esistenza dei fatti rilevanti. Risulta poi evidente che questa definizione è necessaria in ogni processo che intenda conseguire decisioni giuste e ispirate al principio di legalità.
La prova giuridica non si distingue dalle prove che si impiegano in altri campi d'esperienza in funzione di sue proprietà strutturali o ontologiche (v. Perelman, 1963; in senso critico v. Taruffo, 1992, p. 330). La prova giuridica è tale in quanto è oggetto di disciplina giuridica. Sotto il profilo ontologico e funzionale la prova giuridica non è specifica, e consiste di cose, inferenze ed enunciati non diversi da quelli che possono incontrarsi in altri campi. Non a caso si parla di 'libertà della prova' o di free proof proprio per intendere che anche nel diritto ogni elemento conoscitivo utile dovrebbe poter essere usato 'liberamente'. Tuttavia il diritto tende a disciplinare il fenomeno probatorio, per ragioni che in parte dipendono da esigenze connesse al funzionamento del processo, ma talvolta dipendono dalla tendenza a tutelare valori e interessi che poco o nulla hanno a che vedere con tali esigenze.Questa disciplina investe vari aspetti del fenomeno probatorio, che verranno analizzati più oltre. Qui si può sottolineare che essi riguardano principalmente l'ammissione delle prove al processo, la loro assunzione, e talvolta anche la loro valutazione.
In linea generale le prove vengono ammesse nel processo quando esse presentano un duplice requisito: occorre cioè che siano rilevanti e ammissibili. Norme che prevedono questi requisiti sono presenti, con varie formulazioni, in tutti gli ordinamenti. Per l'ordinamento italiano si vedano ad esempio l'art. 184 del Codice di procedura civile (v. Carpi e Taruffo, 1994³, p. 425) e, a termini rovesciati, l'art. 190 del Codice di procedura penale (v. Nobili, 1990, pp. 401 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 366 ss.).
Per rilevanza della prova si intende che la prova, per essere ammessa nel processo, dev'essere utile per l'accertamento della verità circa i fatti della causa. In ogni processo si segue infatti la regola per cui frustra probatur quod probatum non relevat: ragioni evidenti di economia processuale inducono a escludere quelle prove che appaiono superflue (v. Taruffo, 1970 e 1992, pp. 337 ss.; v. Verde, 1988, pp. 619 ss.; v. Patti, 1987, pp. 51 ss.; v. Cordero, 1993², pp. 531 s.).
Il concetto di rilevanza è più o meno complesso a seconda del tipo di fatti cui la prova si riferisce. Quando la prova verte su fatti principali, la sua rilevanza è sostanzialmente in re ipsa, poiché è ovvio che la prova di un fatto principale sia utile ai fini della decisione. Quando invece la prova ha come oggetto un fatto secondario, la valutazione della sua rilevanza implica un ragionamento più articolato. Come si è visto sopra (v. § 1a), il fatto secondario viene preso in considerazione nel processo quando esso può fungere da premessa per inferenze le cui conclusioni riguardino la verità o la falsità di un enunciato relativo a un fatto principale. Ne deriva che la prova che ha come oggetto un fatto secondario è rilevante, e quindi va ammessa, a condizione che tale fatto sia davvero utile per la conoscenza indiretta di un fatto principale. Si parla solitamente di rilevanza logica per sottolineare questo aspetto.
La rilevanza della prova corrisponde a un criterio generale di razionalità, per il quale l'accertamento dei fatti deve fondarsi su tutti gli elementi conoscitivi disponibili. Al riguardo viene formulato un principio di rilevanza in senso inclusivo, in funzione del quale ogni prova rilevante dev'essere perciò stesso considerata ammissibile al processo.
In un sistema puramente razionale la rilevanza della prova potrebbe rappresentare la condizione necessaria e sufficiente per la sua ammissione al processo. Accade invece solitamente che la legge subordini l'utilizzabilità di una prova a criteri più restrittivi, in quanto il legislatore prende in considerazione varie ragioni per le quali appare giustificato escludere una prova dal processo benché essa sia rilevante. A ciò provvedono regole giuridiche appositamente introdotte al fine di disciplinare l'ammissibilità della prova. Essenzialmente si tratta di criteri limitativi o di vere e proprie regole d'esclusione, in funzione delle quali si prevede che una prova rilevante venga preliminarmente esclusa dal processo (v. Cordero, 1993², pp. 569 ss.; v. Taruffo, 1992, pp. 343 ss.). Le regole d'esclusione hanno la natura e la giustificazione più diverse: talvolta si tratta di regole che mirano a privilegiare l'impiego di un tipo di prova escludendone un altro (come gli artt. 2721 ss. del Codice civile, che escludono la prova testimoniale per favorire l'impiego della prova scritta); talvolta si escludono prove di difficile e probabilmente erronea valutazione (come la hearsay rule angloamericana che esclude le testimonianze 'per sentito dire' perché la loro valutazione sarebbe difficile o impossibile); altre volte ancora il legislatore vuole tutelare interessi che ritiene degni di attenzione anche a scapito della ricerca della verità nel processo (come accade quando si prevede che non si possano provare in giudizio fatti coperti da segreti di varia natura). Queste regole mirano essenzialmente a limitare o a escludere l'uso di determinati tipi di prova, e introducono eccezioni alla regola generale espressa dal principio di rilevanza. Tale principio va dunque riformulato nel senso che ogni prova rilevante deve considerarsi ammissibile, purché essa non sia esclusa da un'apposita norma di legge (v. Taruffo, 1992, p. 351).
A proposito della disciplina giuridica della prova e della sua ammissione al processo si pone talvolta un ulteriore problema. Esso riguarda l'ammissibilità delle cosiddette prove atipiche o innominate, così chiamate proprio perché si tratta di prove non espressamente definite e disciplinate dalla legge. La soluzione di questo problema viene talvolta prevista da norme: così ad esempio l'art. 189 del Codice di procedura penale prevede che le prove non disciplinate dalla legge possano essere assunte, purché rilevanti, alla sola condizione che esse non pregiudichino la libertà morale della persona (v. Nobili, 1990, pp. 397 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 355 ss.; v. Cordero, 1993², pp. 573 ss.). Dove non esistono norme di questo genere, come nell'attuale disciplina del processo civile in Italia, si sostiene che il catalogo delle prove previste dalla legge deve considerarsi tassativo (v. Comoglio, 1985, pp. 171 ss.). Non pare tuttavia possibile dimostrare il punto cruciale di questa tesi, ossia che la presenza di una disciplina giuridica della prova rappresenti condizione necessaria della sua ammissibilità. In senso contrario opera inoltre il principio inclusivo di rilevanza che si è enunciato sopra, da cui discende che le prove non previste (e quindi non escluse) dalla legge debbono considerarsi ammissibili. In questo senso sembra essere orientata infatti la dottrina prevalente (v. Taruffo, 1992, pp. 378 ss.; v. Ricci, 1990), nonché la prassi giurisprudenziale consolidata (v. Verde, 1988, pp. 605 ss.).
Nel lessico giuridico pochi termini assumono una varietà di significati paragonabile a quella del termine 'prova'. Pochi termini, inoltre, vengono usati per designare un'analoga quantità di fenomeni diversi, benché accomunati dalla medesima funzione fondamentale. Un'analisi esauriente di tutte queste varianti sarebbe impossibile in questa sede; tuttavia sarebbe inattendibile ogni definizione del concetto di prova giuridica che non tenesse conto almeno dei suoi aspetti principali.
Un primo ordine di problemi deriva dal fatto che il termine 'prova' è di per sé polisemico, e viene usato in modi diversi anche nel medesimo contesto. Solo il riferimento al contesto del discorso consente di stabilire, di volta in volta, quale significato vada attribuito a quel termine.
Talvolta 'prova' viene usato nel senso di dimostrazione, e talvolta nel senso di esperimento. Il primo dei due sensi è prevalente poiché la funzione essenziale della prova è di fornire dati conoscitivi su cui fondare un giudizio di verità o falsità relativo ai fatti della causa. Naturalmente 'dimostrazione' va qui inteso in senso atecnico e non rigoroso: non si tratta della dimostrazione logica o matematica, ma del 'mostrare' che vi sono basi sufficienti per un giudizio razionale. Si pensa invece alla prova come esperimento quando la si considera come strumento per il controllo delle ipotesi sui fatti nel corso del processo, attraverso procedimenti di trial and error (v. Taruffo, 1992, p. 416).
Un'altra importante distinzione è quella che sussiste tra prova come elemento di conoscenza, prova come procedimento e prova come risultato. Nel primo senso si parla soprattutto di mezzi di prova per indicare tutto ciò che può servire a confermare o falsificare un'ipotesi di fatto. È ai mezzi di prova che si riferiscono i criteri preliminari di selezione costituiti dalla rilevanza e dall'ammissibilità. Ci si riferisce invece alla prova come procedimento quando si allude alle tecniche e alle modalità con cui nel processo avviene l'acquisizione o la formazione della prova. In questo significato 'prova' è sostanzialmente sinonimo di 'assunzione della prova' (v. § 4b). Infine, 'prova' indica spesso l'esito cui mette capo l'acquisizione delle prove integrata dalla loro valutazione da parte del giudice. Si ha prova quando il giudice ha stabilito che gli elementi di prova disponibili fondano l'attendibilità dell'ipotesi sul fatto. In questa accezione 'prova' significa dimostrazione raggiunta sulla base degli elementi di prova.
Ancora, vale la pena di distinguere tra prova come elemento di scoperta e prova come fattore di giustificazione. Si fa riferimento al primo significato quando si pensa alla prova come elemento conoscitivo destinato a consentire la formulazione di nuove ipotesi sui fatti e la loro verificazione. Si fa invece riferimento al secondo significato quando la decisione è già stata formulata, e il giudice si fonda sulle prove acquisite per giustificare il proprio giudizio.
Una distinzione assai diffusa, e probabilmente la più importante, è quella che si pone tra prove dirette e prove indirette. Si può definire diretta la prova che ha immediatamente a oggetto un fatto principale (ad esempio una testimonianza che verte su un fatto costitutivo), mentre è indiretta la prova che ha come oggetto immediato un fatto secondario (v. Taruffo, 1992, pp. 428 ss.). Talvolta si riconduce alla distinzione tra prova diretta e indiretta anche la distinzione tra prova storica e prova critica (v. ad esempio Carnelutti 1915, ed. 1992, p. 60; v. Cordero, 1993², pp. 551 ss.). Questa distinzione appare tuttavia incerta e non rigorosa, e quindi non particolarmente utile per una classificazione delle prove (v. Taruffo, 1992, pp. 434 ss.).
All'interno della categoria delle prove indirette si può poi isolare la sottocategoria delle prove sussidiarie, ossia quelle prove che vertono su fatti la cui conoscenza è utile per valutare l'attendibilità o il valore di un'altra prova (ibid., p. 432). Potrà così considerarsi sussidiaria, ad esempio, la prova che mira a dimostrare l'interesse di un testimone nella causa al fine di renderne evidente la scarsa credibilità.
Nella terminologia giuridica corrente si usa la distinzione tra prova diretta e prova contraria, per distinguere tra le prove che mirano a dimostrare l'esistenza dei fatti e quelle che mirano a dimostrarne l'inesistenza. Questa terminologia non è concettualmente errata, ma è inopportuna perché imprecisa. Si parla allora più propriamente di prova positiva o affermativa per indicare la prova che ha come oggetto un'ipotesi relativa all'esistenza di un fatto, e di prova negativa (o contraria) quando essa mira a dimostrare la fondatezza di un'ipotesi relativa all'inesistenza del fatto.
Il concetto di prova è assai ampio e indeterminato, e ciò che è o non è prova non può essere stabilito a priori e per definizioni o elencazioni astratte. Pare tuttavia utile dar conto almeno dei principali tipi di prova, individuando quelli di impiego più comune.
Testimoni. Il testimone è un soggetto 'terzo' ed estraneo al processo, che è a conoscenza di fatti rilevanti per la decisione. La testimonianza o prova testimoniale consiste essenzialmente nelle dichiarazioni che il testimone rende in giudizio intorno ai fatti di cui ha conoscenza. La legge prevede che il teste si impegni a dire la verità, e configura come reato la falsa testimonianza. La testimonianza viene acquisita nel corso del processo mediante tecniche procedimentali appositamente disciplinate dalla legge (artt. 244 ss. del Codice di procedura civile; artt. 194 ss. del Codice di procedura penale). Il suo valore si fonda sulla credibilità del testimone, ossia sulla valutazione che il giudice deve compiere circa la veridicità delle sue dichiarazioni. Nel processo civile la prova testimoniale è o può essere esclusa in materia contrattuale, quando il legislatore ritiene preferibile l'impiego di prove scritte (artt. 2721 ss. del Codice civile). Si ha incapacità a testimoniare, nel processo civile, quando il teste ha nella causa un interesse qualificato (art. 246 del Codice di procedura civile). Il testimone può astenersi dal deporre quando la sua testimonianza implicherebbe la violazione di un segreto (art. 249 del Codice di procedura civile; artt. 200 ss. del Codice di procedura penale; sulla prova testimoniale v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 534 ss.; v. Taruffo, 1988; v. Comoglio, 1985, pp. 297 ss.; v. Cordero, 1993², pp. 586 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, p. 394; v. Conso e Grevi, 1993³, pp. 213 ss.).
Le parti. Il 'sapere delle parti' viene acquisito al processo con varie modalità specificamente regolate dalla legge. Nel processo penale si ha l'esame delle parti, che si svolge con modalità analoghe a quelle che si adottano per l'esame dei testimoni (artt. 208 ss. del Codice di procedura penale; v. Cordero, 1993², pp. 626 ss.; v. Conso e Grevi, 1993³, pp. 219 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 404 ss.). Nel processo civile il 'sapere delle parti' viene utilizzato a scopi probatori con varie modalità e con diversi effetti. Anzitutto si ha l'interrogatorio libero delle parti, che serve a vari scopi di chiarificazione, ma che può anche produrre elementi di prova (artt. 183 e 420 del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 410 e 879 ss.; v. Taruffo, 1993, pp. 63 ss.). Si ha poi la confessione quando una parte ammette la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte. In base alla considerazione che nessuno ammette un fatto a sé sfavorevole se questo fatto non è vero, la legge attribuisce alla confessione un'efficacia vincolante per le parti e per il giudice, salvo alcune ipotesi in cui essa diventa liberamente valutabile (artt. 2730 ss. del Codice civile; artt. 228 ss. del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 515 ss.; v. Silvestri, 1988; v. Comoglio, 1985, pp. 326 ss.). Si ha infine il giuramento quando una parte effettua, su un fatto a lei favorevole, una dichiarazione asseverata da giuramento. Il giuramento si distingue in decisorio, quando è idoneo a far decidere in tutto o in parte la controversia, suppletorio, quando serve a integrare altre prove già acquisite ma non sufficienti per la decisione, ed estimatorio, quando serve a stabilire il valore di una cosa. La legge attribuisce al giuramento efficacia di prova vincolante per le parti e per il giudice (artt. 2736 ss. del Codice civile; artt. 233 ss. del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 522 ss.; v. Balena, 1993; v. Comoglio, 1985, pp. 343 ss.).
Documenti. Nel suo significato più ampio la nozione di documento include qualunque cosa che sia in grado di contenere o riprodurre un fatto o una dichiarazione relativi a circostanze rilevanti per la decisione (v. Patti, 1991; v. Denti, 1988, p. 714; v. Comoglio, 1985, pp. 253 ss.). Si parla di documenti riproduttivi o di riproduzioni meccaniche per indicare cose che riproducono fatti, circostanze o comportamenti, come fotografie, incisioni su disco o su nastro, film, videotapes, e così via (art. 234 del Codice di procedura penale; art. 2712 del Codice civile). Diversi sono invece i documenti scritti, caratterizzati dall'includere e rappresentare dichiarazioni espresse in forma scritta. Esistono molti tipi di scritture, e in vario modo tutte possono essere impiegate come mezzi di prova. La legge dedica particolare attenzione ad alcuni tipi di documenti scritti, ai quali si attribuisce particolare efficacia probatoria e che per questa ragione sono oggetto di specifica disciplina normativa. Si tratta anzitutto dell'atto pubblico, redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 2699 del Codice civile). Esso fa fede, finché non se ne dimostri la falsità, della sua provenienza e delle dichiarazioni in esso documentate, e quindi è per questi aspetti incontestabile (art. 2700 del Codice civile). La legge prevede che si possa dimostrare la falsità dell'atto pubblico, ma prevede per ciò un apposito procedimento denominato querela di falso (artt. 221 ss. del Codice di procedura civile; v. Patti, 1991, p. 8; v. Tommaseo, 1991, pp. 165 ss.; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 506 ss.; v. Comoglio, 1985, pp. 257 ss.). L'altro importante documento scritto è la scrittura privata, ossia ogni documento, che in linea di principio dev'essere sottoscritto, contenente dichiarazioni riconducibili all'autore della sottoscrizione. La scrittura privata fa prova della provenienza delle dichiarazioni in essa contenute da chi l'ha sottoscritta, se la sottoscrizione è considerata legalmente certa. Ciò accade quando la sottoscrizione è riconosciuta, espressamente o tacitamente, dal suo autore, ovvero quando essa è autenticata o verificata secondo le modalità previste dalla legge (art. 2702 del Codice civile; artt. 214 ss. del Codice di procedura civile). In qualche caso la legge riconosce tuttavia efficacia probatoria a scritture non sottoscritte (artt. 2707 e 2708 del Codice civile; sulla scrittura privata e sui modi per dare certezza alla sottoscrizione v. Patti, 1991, pp. 9 s.; v. Tommaseo, 1991, pp. 172 ss.; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 495 ss.; v. Comoglio, 1985, pp. 267 ss.).Vi sono poi ipotesi più specifiche: come le scritture contabili delle imprese, le copie degli atti e il telegramma (rispettivamente, artt. 2709 ss., 2714 ss., 2705 ss. del Codice civile; v. Comoglio, 1985, pp. 282 ss.).
Perizie e consulenze tecniche. Può accadere che l'accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti per la decisione richiedano l'impiego di conoscenze tecniche o scientifiche particolari, che non appartengono alla cultura media del tempo e del luogo in cui viene formulata la decisione. Spetta in ogni caso al giudice di stabilire se e quali conoscenze tecniche o scientifiche occorrano per decidere, e se egli stesso possieda o no tali conoscenze. Nel caso in cui il giudice ritenga di non essere in grado di usare le necessarie conoscenze extragiuridiche, dovrà servirsi dello strumento che la legge predispone a questo scopo. Nel processo penale esso si chiama perizia (artt. 220 ss. del Codice di procedura penale) e nel processo civile consulenza tecnica (artt. 191 ss. del Codice di procedura civile). In genere il giudice nomina il perito o consulente tecnico scegliendolo in appositi albi, ma può anche prescinderne purché indichi una persona dotata di particolare competenza. Possono anche essere nominate più persone. Il giudice formula i quesiti ai quali il perito o consulente deve rispondere, e disciplina i tempi e le modalità con i quali il perito deve svolgere il proprio compito. Il perito svolge tutte le attività e indagini necessarie, effettuando ove occorra esperimenti e analisi scientifiche, e conclude la propria opera redigendo una relazione, o consulenza tecnica, che sottopone al giudice e che contiene le risposte ai quesiti che il giudice aveva formulato, con le necessarie spiegazioni o giustificazioni. Le parti possono nominare i propri periti o consulenti, che potranno partecipare alle indagini svolte dal perito o consulente d'ufficio e formulare le proprie osservazioni. Secondo il principio tradizionale il giudice è peritus peritorum, e in tale sua qualità non può essere vincolato alle conclusioni formulate dal perito, ma deve invece sottoporre queste conclusioni alla sua valutazione discrezionale. Vi è in ciò una sorta di paradosso, poiché il giudice che nomina il perito ritenendo di non avere le conoscenze tecnico-scientifiche necessarie è lo stesso da cui ci si attende una valutazione critica delle conclusioni formulate dal perito. Tale paradosso è particolarmente acuto quando si tratta di prove scientifiche, ossia di prove che richiedono metodologie sofisticate, come le analisi spettrografiche o i test relativi al DNA. Esso può essere superato, sia pure con difficoltà, ammettendo che il giudice sia almeno in grado di valutare se la prova scientifica sia valida e attendibile sotto il profilo metodologico (sulla perizia penale v. Conso e Grevi, 1993³, pp. 223 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 413 ss.; v. Cordero, 1993², pp. 654 ss.; sulla consulenza tecnica v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 457 ss.; v. Vellani, 1988; sulla prova scientifica v. Taruffo, 1992, pp. 307 ss.).
Ispezione. Può accadere nel processo che il giudice possa e debba avere diretta percezione di circostanze o situazioni utili per l'accertamento dei fatti. Procede allora con le modalità che la legge espressamente prevede a questo scopo, ossia disponendo una ispezione (artt. 118 e 258 ss. del Codice di procedura civile; artt. 244 ss. del Codice di procedura penale) di persone, di cose e di luoghi (v. Trisorio Liuzzi, 1993; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 261, 561 ss.; v. Conso e Grevi, 1993³, pp. 231 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 429 ss.).
Esperimenti giudiziali. Il giudice può disporre che siano eseguiti calchi, copie o riproduzioni, e può anche ordinare che siano effettuati gli esperimenti occorrenti per stabilire se un fatto possa essere avvenuto in un determinato modo (artt. 261 s. del Codice di procedura civile; artt. 218 ss. del Codice di procedura penale; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 564 ss.; v. Cordero, 1993², pp. 650 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 411 s.).
Ricognizione. Strumento istruttorio tipico del processo penale è la ricognizione, che viene disposta quando occorra ottenere il riconoscimento di persone, di cose, di voci, suoni "o di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale". La legge regola le modalità con cui le ricognizioni debbono essere effettuate, al fine di assicurare per quanto possibile l'attendibilità del riconoscimento (artt. 213 ss. del Codice di procedura penale; v. Cordero, 1993², pp. 641 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 408 ss.).
Accanto ai mezzi di prova in senso proprio esistono altre fonti di conoscenza sulle quali il giudice può fondare il proprio convincimento relativo ai fatti, e che quindi rientrano nella nozione generale di prova giuridica. Si tratta di fonti tipicamente indirette di convincimento, che il giudice utilizza come premesse per inferenze miranti a formulare conclusioni circa i fatti. Esse includono qualsiasi fatto o circostanza che possa essere utilizzato come premessa di inferenze probatorie utili per l'accertamento dei fatti, e sfuggono quindi a qualsiasi classificazione o catalogazione aprioristica.
Queste fonti di convincimento vengono indicate con vari nomi. I più comuni sono: indizio, nel processo penale, e presunzione semplice, nel processo civile. A queste fonti di convincimento possono essere assimilati anche gli argomenti di prova di cui parla l'art. 116, comma 2, del Codice di procedura civile. Secondo la definizione fornita dall'art. 2727 del Codice civile le presunzioni semplici sono "le conseguenze che [...] il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto".Indizi, presunzioni semplici e argomenti di prova non possono che essere lasciati alla discrezionale valutazione del giudice: a lui tocca infatti di individuare, entro l'insieme di dati che vengono acquisiti al processo, quali si prestano a essere usati come "fatti noti" dai quali derivare inferenze relative a "fatti ignorati" che debbono però essere provati in giudizio. Il legislatore individua tuttavia il pericolo che questa valutazione ampiamente discrezionale degeneri nell'arbitrio, e quindi cerca di porvi dei limiti formulando criteri legali ai quali il giudice dovrebbe attenersi. Con una formula sostanzialmente identica gli artt. 2729 del Codice civile e 192, comma 2, del Codice di procedura penale prevedono che presunzioni semplici e indizi possano essere impiegati a fini probatori solo quando siano "gravi, precisi e concordanti". A prima vista si tratta di criteri sensati e ragionevoli. Essi sono però piuttosto vaghi, e non riescono in realtà a limitare la discrezionalità del giudice. Non a caso la pratica applicazione delle norme in questione lascia intendere che i giudici non se ne ritengono vincolati, e tendono a formulare valutazioni fondate soltanto sull'apprezzamento del caso particolare. La "prudenza del giudice" di cui parla l'art. 2729 del Codice civile è dunque il solo vero standard che determina l'impiego delle inferenze indiziarie e presuntive e la determinazione del loro valore probatorio (su indizi e presunzioni semplici v. Cordero, 1993², p. 579; v. Conso e Grevi, 1993³, p. 211; v. Siracusano e altri, 1994, p. 386; v. Taruffo, 1992, pp. 444 ss.; v. Comoglio, 1985, pp. 317 ss.; sugli argomenti di prova v. Ricci, 1988; v. Taruffo, 1992, pp. 453 ss.; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 258 s.).
La prova giuridica si inserisce tipicamente nella sequenza di atti che costituisce il processo. Una delle funzioni fondamentali del processo è d'altronde la decisione circa i fatti della causa da prendere sulla base delle prove, sicché è naturale che prova e processo si intreccino: al processo occorre la prova tutte le volte in cui bisogna giudicare su fatti, e la prova si articola e si inserisce nella sequenza procedimentale.In questa sede non è possibile analizzare tutti gli aspetti di questa connessione: molti di essi derivano dalla disciplina specifica dei singoli mezzi di prova, altri discendono dalla regolamentazione generale del processo e da quella dei singoli tipi di procedimento. Occorre allora limitare il discorso a una sintetica descrizione dei momenti fondamentali della disciplina processuale della prova.
Il primo momento fondamentale della vicenda che le prove conoscono nel processo è quello che riguarda il loro ingresso nella sequenza processuale. Tale momento dipende essenzialmente dall'iniziativa delle parti del processo. Nel processo civile si prevede che le parti deducano i mezzi di prova e indichino i documenti dei quali intendono avvalersi negli atti introduttivi della causa (artt. 163 n. 5, 167, 414 n. 5, 416 del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 356, 376 s., 867, 873), ma si ammette che ulteriori deduzioni avvengano anche nell'ulteriore corso del processo (artt. 184 e 420, comma 4, del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 425 ss. e 887). Nel processo penale la regola generale è pure che tocchi alle parti richiedere l'ammissione delle prove (artt. 190 e 493 del Codice di procedura penale; v. Conso e Grevi, 1993³, pp. 203 ss.; v. Nobili, 1990, pp. 401 ss.; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 366 ss.). In entrambi i processi il principio per cui spetta alle parti la deduzione delle prove (detto anche principio di disponibilità delle prove) è considerato fondamentale per la natura 'dispositiva' o 'accusatoria' del procedimento. Esso subisce limitate eccezioni, di portata più o meno ampia a seconda dei casi, determinate dalle ipotesi in cui la legge stabilisce che il giudice abbia il potere di disporre d'ufficio l'acquisizione di determinati mezzi di prova che non siano stati dedotti dalle parti. Questi poteri inquisitori sono tuttavia limitati a ipotesi specifiche (l'eccezione più rilevante è quella del processo del lavoro, in cui il giudice ha un potere quasi generale di disporre prove d'ufficio: art. 421, comma 2, del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 890 ss.). Questo sistema risale a scelte generali di politica del diritto e trova attuazione normativa in alcune regole fondamentali, come l'art. 115 del Codice di procedura civile (su cui v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 251 ss.; v. Comoglio, 1985, pp. 183 ss.) e l'art. 190 n. 2 del Codice di procedura penale (su cui v. Nobili, 1990, p. 402; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 378 ss.).
La prova dedotta o richiesta dalle parti dev'essere ammessa per trovare ingresso nel procedimento. I criteri secondo i quali il giudice deve provvedere in ordine all'ammissione della prova sono quelli, già esaminati in precedenza (v. §§ 2a e 2b), della rilevanza e dell'ammissibilità.
Una volta ammessa, la prova deve essere concretamente acquisita al processo. Di solito ciò richiede un insieme di attività processuali necessarie per l'acquisizione della prova, o più spesso per la sua formazione, nelle ipotesi in cui il mezzo di prova non esiste già prima e al di fuori del processo (come accade di regola per le cosiddette prove precostituite come i documenti e gli indizi). Queste attività sono disciplinate puntualmente dalla legge processuale. Esse si svolgono di solito in un'apposita fase del processo che viene denominata istruzione, istruzione probatoria, istruzione dibattimentale o in altri modi analoghi.In linea generale si può dire che l'assunzione dei mezzi di prova è guidata e governata dal giudice sulla base di appositi poteri di direzione dell'istruzione che la legge gli conferisce (ad esempio l'art. 202 del Codice di procedura civile) e termina di solito quando non vi sono più prove utili da assumere (art. 209 del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 484 s.). Esistono tuttavia vari 'modelli' di istruzione probatoria, con caratteristiche fortemente differenziate e tali da condizionare la struttura dell'intero processo (v. Comoglio, 1993, pp. 233 ss.). Si distingue così un'istruzione concentrata, di tipo dibattimentale, che è tipica del processo penale (artt. 496 ss. del Codice di procedura penale) ma che talvolta viene adottata anche nel processo civile (art. 420 del Codice di procedura civile). Vi è tuttavia anche un'istruzione non concentrata. Essa si svolge attraverso un numero variabile e indeterminato di udienze, che sono separate tra loro da intervalli di tempo talvolta lunghissimi. In questo tipo di istruzione l'assunzione delle prove avviene in modo frammentario, in vari momenti tra loro non collegati. Questo modello è tuttora tipico del processo civile ordinario, ed è una delle cause principali della sua durata eccessiva.
Sempre sul piano dei modelli generali vale anche la pena di distinguere a seconda delle tecniche che si impiegano per l'assunzione delle prove. Le modalità di assunzione della testimonianza rappresentano un buon esempio di questa distinzione. Il processo civile rimane ancora legato al metodo tradizionale fondato sull'interrogatorio del testimone condotto dal giudice. È il giudice che rivolge le domande al teste, sulla base di un'elencazione dei fatti oggetto della prova previamente redatta dalle parti; il giudice può rivolgere al teste domande dirette a chiarire i fatti, e le parti non possono interrogare direttamente il teste stesso (art. 253 del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 554 s.; v. Taruffo, 1988, p. 752). Il Codice di procedura penale adotta invece la tecnica, tipica degli ordinamenti di common law, imperniata sull'interrogatorio incrociato del testimone ad opera delle parti. Lo svolgimento dell'interrogatorio e del cosiddetto controesame dei testimoni è disciplinato dalla legge, che regola l'ordine delle domande rivolte al teste, il loro contenuto e la loro forma, nonché il ruolo che spetta al giudice. Il teste viene interrogato dal pubblico ministero o dal difensore che ne ha chiesto l'esame; successivamente egli viene interrogato dalle altre parti, e può poi esserlo nuovamente dalla parte che lo ha dedotto; il giudice controlla la regolarità dell'interrogatorio, e può rivolgere direttamente domande al teste (artt. 498 ss. e 506 del Codice di procedura penale; v. Cordero, 1993², pp. 597 ss.).
L'assunzione delle prove che si formano nel processo costituisce la parte essenziale dell'istruzione probatoria. Occorre tuttavia considerare che essa include anche altre attività dirette all'acquisizione dei mezzi di prova e al controllo della loro attendibilità: si tratta ad esempio dell'esibizione di documenti (prevista dagli artt. 210 ss. del Codice di procedura civile, su cui v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 486 ss.), della querela di falso e della verificazione di scrittura privata (previste dagli artt. 216 ss. e 221 ss. del Codice di procedura civile, su cui v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 501 ss. e 506 ss.), nonché della perizia o consulenza tecnica, delle ispezioni, degli esperimenti e di tutte le altre attività processuali dirette all'acquisizione degli elementi di prova occorrenti per la decisione.
La disciplina procedimentale della prova presenta alcuni aspetti che hanno grande rilevanza sotto il profilo delle garanzie costituzionali. Un aspetto molto importante consiste appunto nel considerare il fenomeno della prova in chiave garantistica. Il punto di riferimento fondamentale è costituito dai commi 1 e 2 dell'art. 24 della Costituzione, che prevedono rispettivamente la garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale e la garanzia della difesa.
Questa prospettiva conduce alla formulazione di due principî fondamentali, strettamente connessi, che attengono alla prova nel processo: il primo va sotto il nome di diritto alla prova; il secondo va sotto il nome di principio del contraddittorio nell'istruzione probatoria.Il diritto alla prova viene considerato come un aspetto fondamentale delle garanzie della tutela giurisdizionale e della difesa: la possibilità di 'difendersi provando' è strumento essenziale per chi intenda far valere un proprio diritto nel processo, e per chi sia chiamato a difendersi nel processo, civile o penale. Ne discende che tale possibilità non può essere arbitrariamente esclusa o limitata da alcuno, neppure dal legislatore ordinario. È tuttavia importante rendersi conto di quale sia l'oggetto e l'estensione del diritto alla prova che si riconosce alle parti. Anzitutto, esso include il diritto all'ammissione dei mezzi di prova, ovviamente alla condizione che essi siano ammissibili e rilevanti. Ne deriva che il giudice non può escludere un mezzo di prova di cui la parte intenda legittimamente servirsi. Problemi sorgono tuttavia a questo proposito non solo in relazione ai provvedimenti del giudice, ma anche in relazione alla disciplina legale dell'ammissibilità dei mezzi di prova. Come si è visto sopra (v. § 2b), la legge esclude vari mezzi di prova in varie circostanze, sulla base delle ragioni e delle esigenze più diverse. Rimane da stabilire tuttavia se e quando queste limitazioni o esclusioni possono apparire giustificate alla luce del diritto alla prova. Non tutti i limiti probatori sono di per sé ingiustificati o illegittimi; l'intera materia dovrebbe tuttavia essere riconsiderata alla luce del criterio per cui un diritto fondamentale, come il diritto alla prova, non può più essere violato o compromesso per qualsivoglia ragione, ma solo quando si tratti di tutelare diritti o valori fondamentali.
Un ulteriore importante aspetto del diritto alla prova è il diritto all'assunzione delle prove che sono state ammesse: è ovvio infatti che sarebbe inutile assicurare alle parti il diritto all'ammissione delle prove, se poi ad esse non si garantisse anche la possibilità di essere davvero acquisite al processo. Infine, si può ritenere che il diritto alla prova includa anche il diritto a che il giudice valuti le prove che la parte ha fatto ammettere e assumere. Sarebbe infatti inutile garantire l'ammissione e l'assunzione dei mezzi di prova se poi si considerasse il giudice libero di decidere senza prenderli in considerazione (v. Taruffo, 1984; v. Verde, 1988, pp. 590 ss.; v. Patti, 1987, pp. 38 ss.; v. Conso e Grevi, 1993³, p. 204; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 359 ss.; v. Nobili, 1990, pp. 401 ss.).
Il principio per certi versi reciproco a quello del diritto alla prova è quello del contraddittorio. Il contraddittorio è una manifestazione essenziale della garanzia della difesa, che va attuata in ogni momento e in ogni fase del processo e ne rappresenta la struttura dialettica fondamentale (v. Comoglio, 1989). Per quanto attiene alla prova il principio del contraddittorio implica tre conseguenze principali. La prima è rappresentata dal diritto alla prova contraria, ossia dalla possibilità di difendersi di fronte alle iniziative probatorie delle altre parti e del giudice (v. Taruffo, 1984, pp. 98 ss.). La seconda conseguenza è rappresentata dal diritto di opporsi e di eccepire rispetto alla rilevanza e all'ammissibilità delle prove dedotte da altre parti o disposte d'ufficio dal giudice. La terza conseguenza è rappresentata dal diritto di ogni parte di partecipare all'assunzione delle prove e di interloquire su di esse in ogni momento, e comunque prima che il giudice se ne serva per formulare la propria decisione sui fatti. Sono tuttavia numerosi gli aspetti della disciplina processuale della prova che appaiono in varia misura insoddisfacenti sotto questi profili (sul contraddittorio in ordine alla prova v. Taruffo, 1992, pp. 401 ss.; v. Comoglio, 1989; v. Tarzia, 1984; v. Siracusano e altri, 1994, pp. 362 ss.).
Esaurita l'assunzione delle prove, il processo giunge alla fase della decisione, in cui il giudice deve valutare le prove acquisite, e in base a esse formulare il giudizio finale sui fatti.
La decisione sui fatti è propriamente il risultato finale della valutazione delle prove. Valutare le prove implica comunque, da parte del giudice, un'attività che può anche essere assai complessa e delicata (v. Cordero, 1993², pp. 579 ss.; v. Taruffo 1992, pp. 266 ss.). Anzitutto il giudice deve stabilire se la prova è attendibile, ossia se è degna di essere considerata come un valido elemento conoscitivo. Il giudice deve dunque valutare la credibilità dei soggetti (testimoni, parti) che hanno reso dichiarazioni probatorie, e l'autenticità e genuinità dei documenti che sono stati prodotti (v. Taruffo, 1992, pp. 237 ss., 360, 431 s.; v. Cordero, 1993², p. 551). Una volta stabilito che la prova è attendibile, occorre valutarla sotto il profilo della sua efficacia ai fini del giudizio sui fatti, ossia determinarne il valore probatorio e l'effetto di conferma o falsificazione che essa può produrre in ordine alle ipotesi relative ai fatti. Anche questa valutazione può essere estremamente complessa, in particolare nel caso non infrequente in cui debbano essere accertati diversi fatti, e su ognuno di essi vi siano varie prove di diversa natura e tra loro contrastanti. I molteplici aspetti di questa valutazione, che rappresenta l'iter logico del giudizio sui fatti, non possono essere esaminati qui in modo analitico. Bisogna quindi limitare il discorso agli aspetti generali più importanti di essa.
Per vari secoli, e sino alla fine del XVIII secolo, il problema della valutazione delle prove da parte del giudice venne affrontato in un modo peculiare. La sfiducia nei confronti dei giudici da un lato, e dall'altro l'esigenza di razionalizzare la valutazione delle prove, portò a sviluppare e ad applicare il sistema delle prove legali. Con questa espressione si indicano le prove il cui esito non è lasciato alla discrezionale valutazione del giudice caso per caso, ma è prestabilito in linea generale e astratta. Il sistema della prova legale entra in crisi con le legislazioni illuministiche e con la formazione degli ordinamenti giuridici moderni, nei quali cambia la natura istituzionale e l'immagine sociale del giudice: tendenze razionalistiche mostrano come tale sistema fosse formalistico e contrario alla verità. Si afferma così, e diventa dominante, l'opposto principio detto del libero convincimento o della intime conviction, secondo il quale la valutazione delle prove dev'essere rimessa alla discrezionale valutazione (al 'prudente apprezzamento') del giudice nel caso concreto (v. Taruffo, 1992, pp. 368 ss.; v. Nobili, 1974; v. Walter, 1979; v. Cordero, 1993², pp. 556 ss.). Il principio del libero convincimento si afferma in modo generalizzato nel processo penale, dove tutte le prove (con poche e marginali eccezioni) diventano liberamente valutabili dal giudice. Esso si afferma invece in modo assai più lento, e solo parzialmente, nel processo civile, almeno in Italia e in altri ordinamenti che rimangono più legati alle formule tradizionali. La conseguenza è che il principio del libero convincimento viene proclamato anche nel processo civile italiano (art. 116 del Codice di procedura civile; v. Carpi e Taruffo, 1994³, pp. 255 ss.; v. Verde, 1988, pp. 590 ss.; v. Comoglio, 1985, pp. 188 ss.; v. Patti, 1987, pp. 147 ss.), ma rimangono tuttora vari e importanti residui del sistema delle prove legali.
Il principio del libero convincimento pone tuttavia una serie di gravi problemi in sede di concreta applicazione. Ne è infatti evidente la funzione negativa, consistente nell'escludere l'applicazione delle regole di prova legale. Esso apre tuttavia la strada a pericoli e degenerazioni, poiché la discrezionalità del giudice nel caso concreto può facilmente convertirsi in arbitrio incontrollato (v. Taruffo, 1992, pp. 370 ss.; v. Cordero, 1993², pp. 560 ss.; v. Patti, 1987, pp. 144 ss.).
Molte teorie sono state elaborate allo scopo di costruire schemi razionali per la valutazione delle prove. Di fronte al problema di risolvere l'incertezza che a priori caratterizza le ipotesi sui fatti della causa, e alla constatazione che il processo non può che ambire a stabilire una verità relativa intorno a tali ipotesi (v. Taruffo, 1992, pp. 217 ss.), una tendenza risalente, ma che trova importanti manifestazioni anche nella letteratura più recente, è quella di ricorrere ai concetti e al calcolo della probabilità quantitativa onde derivarne schemi e criteri di razionalizzazione della valutazione delle prove (per un'analisi di questa tendenza v. Taruffo, 1992, pp. 166 ss.; v. Patti, 1987, pp. 158 ss.). Vi sono tuttavia molte ragioni per ritenere che la teoria della probabilità quantitativa non sia adeguata a questo scopo, sicché pare maggiormente fondata la tendenza a utilizzare il concetto di probabilità logica come base per l'individuazione degli schemi razionali per la valutazione delle prove (v. Taruffo, 1992, pp. 199 ss.; v. Cohen, 1977). Si formulano così modelli di inferenza idonei a costituire i parametri razionali delle situazioni che nel processo possono presentarsi, e criteri per valutare l'attendibilità e l'efficacia dei mezzi di prova (v. Taruffo, 1992, pp. 221 ss., 232 ss., 252 ss.).
La fase finale di questo complesso ragionamento consiste nella scelta dell'ipotesi che appare più attendibile in ordine a ognuno dei fatti rilevanti per la decisione. L'ipotesi più attendibile è quella che appare suffragata da elementi di prova che le conferiscono un grado maggiore di conferma razionale. Il criterio fondamentale per la scelta dell'ipotesi destinata a rappresentare la decisione sul fatto è quello della probabilità logica prevalente, in funzione del quale è razionale scegliere come 'vera', tra più ipotesi possibili, quella che risulta logicamente più probabile delle altre (v. Taruffo, 1992, pp. 273 ss.; v. Cohen, 1977, pp. 252 ss.). Non è detto tuttavia che il criterio della probabilità prevalente sia sempre lo standard dominante nella formazione della decisione, poiché può accadere che si richiedano gradi più elevati di conferma dell'ipotesi sul fatto che viene assunta a base della decisione. È quanto accade ad esempio nel processo penale quando si prevede che i fatti vengano accertati, ai fini della condanna, beyond reasonable doubt.
La valutazione delle prove fornisce la base per la decisione finale sui fatti. Essa implica un complesso ragionamento con il quale il giudice sottopone a controllo le ipotesi sui fatti, stabilisce qual è il grado di conferma razionale che ogni ipotesi ottiene in base agli elementi di prova disponibili, e finalmente stabilisce qual è l'ipotesi che, risultando più attendibile, può essere razionalmente assunta come esito della decisione. Nell'ipotesi ottimale il giudice perviene a formulare una ricostruzione dei fatti veritiera e coerente, fondata in ogni sua parte sulle prove attinenti a ogni fatto.
Il giudice giunge di solito a formulare una decisione sulla verità dei fatti sulla base delle prove. Tuttavia questa non è la sola situazione che si può presentare a conclusione di un processo: può infatti accadere che la valutazione delle prove porti il giudice a stabilire che uno o più fatti inizialmente allegati non si sono verificati, ovvero a constatare che non vi sono elementi di prova sufficienti per formulare un giudizio attendibile circa la verità dei fatti. Poiché il giudice deve comunque decidere, non essendogli consentito di pronunciare un non liquet nel caso in cui i fatti rilevanti non risultino provati (v. Verde, 1988, pp. 628 ss.; v. Comoglio, 1985, pp. 194 ss.), occorre individuare criteri di decisione per i casi in cui la prova dei fatti non sia stata conseguita. Questi criteri vengono individuati dal legislatore, il quale si ispira al principio dell'onere della prova. Secondo questo principio chi afferma la verità di un fatto rilevante per la decisione ha l'onere di dimostrarne l'esistenza per mezzo di prove, mentre se non assolve a questo onere il giudice lo dichiara soccombente. Così l'art. 2697 del Codice civile prevede: "Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda". Come si dice comunemente, questo principio opera come 'regola di giudizio' quando appunto si constata che manca la prova dei fatti giuridicamente rilevanti, e opera come criterio per ripartire fra le parti le conseguenze della mancata prova di tali fatti (v. Taruffo, 1995; v. Verde, 1988, pp. 625 ss.; v. Patti, 1987, pp. 83 ss.). Questo principio non viene sempre applicato 'allo stato puro', poiché il legislatore interviene in molti casi, per mezzo di presunzioni legali, a modificarne gli effetti, e ammette che vengano introdotte modificazioni dalle parti (v. Taruffo, 1995, pp. 325 ss.; v. Patti, 1987, pp. 106 ss. e 181 ss.; v. Comoglio, 1985, p. 250). Al principio dell'onere della prova, e alla sua specifica disciplina nelle singole fattispecie, occorre far capo tutte le volte in cui venga a mancare la dimostrazione 'in positivo' di uno o più fatti giuridicamente rilevanti. Le regole relative all'onere della prova costituiscono, per così dire, una specie di norma di chiusura del sistema dei criteri che presiedono alla decisione giudiziaria. L'esito positivo delle prove porta a un giudizio di verità dei fatti rilevanti per la decisione, e quindi questa si fonda sull'applicazione della norma alla fattispecie concreta; tutte le volte in cui manca la prova dei fatti, la decisione viene invece formulata ricorrendo al principio generale dell'onere della prova o alle norme specifiche in cui esso si articola nei singoli casi. (V. anche Arbitrato; Giustizia; Probabilità: significato; Processo).
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