Psicoanalisi
Nel 1895, mentre a Vienna venivano pubblicati gli Studien über Hysterie di J. Breuer e S. Freud, atto di fondazione di una nuova disciplina e di un nuovo metodo terapeutico, la p., a Parigi avveniva la prima proiezione pubblica del Cinématographe dei fratelli Lumière. Nati insieme alla fine del 19° sec. il cinema e la p. hanno contribuito alla profonda trasformazione della percezione della realtà esterna e di quella interiore delle donne e degli uomini del secolo successivo.
Dalla loro invenzione e scoperta, si sono susseguiti numerosi gli eventi e le opere (pratiche terapeutiche, esperimenti, articoli, saggi, libri e film) che hanno accomunato ‒ per analogia, per modelli simili e per tratti specifici comuni ‒ quelle che si preannunciavano come la nuova 'scienza' (che tale non era ritenuta) e la nuova 'arte' (che tale non era considerata).
Le modalità principali in cui il cinema ha intrecciato il suo percorso con la p. possono essere circoscritte a tre ambiti: 1) la produzione cinematografica ispirata a temi psicoanalitici; 2) la teoria psicoanalitica del cinema; 3) l'interpretazione psicoanalitica dei film.La produzione cinematografica ispirata dalla psicoanalisi. ‒ Dopo un interessante e curioso film francese del 1912 di Léonce Perret, Le mystère des roches de Kador (riscoperto nel 1995 dalle Giornate del cinema muto di Pordenone), in cui il 'cinematografo' viene usato come strumento salvifico di psicoterapia, il primo importante impegno produttivo riguardante la realizzazione di film con argomento psicoanalitico è Geheimnisse einer Seele (1926; I misteri di un'anima) diretto da uno dei grandi registi del cinema muto tedesco, Georg W. Pabst, prodotto dalla UFA e realizzato con lo scopo dichiarato di introdurre ai 'misteri' della psicoanalisi. Sebbene Freud, come si evince dalle sue lettere, fosse contrario al progetto, il film di Pabst ebbe comunque come consulenti due psicoanalisti e allievi del fondatore della p., dapprima K. Abraham e poi, dopo la sua prematura scomparsa, H. Sachs. E si deve probabilmente a Sachs ‒ appassionato di cinema e per diversi anni analista dello scrittore W. Bryher, redattore, insieme a K. Macpherson e alla poetessa H.D. (analizzata da Freud), dell'importante rivista inglese di cinema "Close up" ‒ la presenza di una serie di articoli sul rapporto tra cinema e psicoanalisi (di cui alcuni scritti dallo stesso Sachs) apparsi su quella rivista tra il 1927 e il 1932.
Ispirati dalla p., più che a temi psicoanalitici, sono i film legati all'esperienza dell'avanguardia surrealista, come Un chien andalou (1929) e L'âge d'or (1930) di Luis Buñuel o La coquille et le clergyman (1928) di Germaine Dulac, nei quali gli avvenimenti si susseguono liberi da qualsiasi logica causale e razionale e secondo quella scrittura automatica che permetterebbe alle immagini di un film di avvicinarsi alle immagini di un sogno e all'espressione di desideri inconsci.
Dal cinema muto europeo i temi psicoanalitici (e psichiatrici) si sarebbero trasferiti ben presto nel cinema hollywoodiano sonoro del periodo classico e avrebbero fornito affascinanti pretesti e atmosfere per la creazione di nuovi procedimenti e di nuove strutture narrative ‒ oltre che di nuovi stereotipi ‒ nell'ambito di quasi tutti i generi cinematografici, attirandosi non poche accuse di volgarizzazione e di banalizzazione della p. stessa. Il rapporto tra paziente e terapeuta, i disagi mentali, i casi clinici, i traumi infantili, il senso di colpa o il triangolo edipico sono argomenti che si inserirono perfettamente nelle modalità narrative e tecniche di film noir o polizieschi, come Blind alley (1939; Vicolo cieco) di Charles Vidor, Spellbound (1945; Io ti salverò) di Alfred Hitchcock, The dark mirror (1946; Lo specchio scuro) di Robert Siodmak o Mirage (1965) di Edward Dmytryk; ma anche di melodrammi come Since you went away (1944; Da quando te ne andasti) di John Cromwell, Whirlpool (1949; Il segreto di una donna) di Otto Preminger o Splendor in the grass (1961; Splendore nell'erba) di Elia Kazan; di thriller psicologici come The seventh veil (1945; Il settimo velo) di Compton Bennett e Marnie (1964) di Hitchcock; di musical come Carefree (1938; Girandola) di Mark Sandrich o Lady in the dark (1944; Le schiave della città) di Mitchell Leisen; e di western come Pursued (1947; Notte senza fine) di Raoul Walsh. Infine vi sono film che riguardano esplicitamente la malattia psichica e l'istituzione psichiatrica come The snake pit (1948; La fossa dei serpenti) di Anatole Litvak, The cobweb (1955; La tela del ragno) di Vincente Minnelli, Suddenly, last summer (1959; Improvvisamente l'estate scorsa) di Joseph L. Mankiewicz, Shock corridor (1963; Il corridoio della paura) di Samuel Fuller o il film biografico Freud (1962; Freud, passioni segrete) di John Huston, fino ad arrivare a film sperimentali e d'avanguardia come quello diretto da Yvonne Rainer, The man who envied women (1985).Dagli anni Sessanta in poi si sono moltiplicati i film riguardanti, direttamente o indirettamente, la p., nel cinema americano e in quello europeo, sia nel cinema di genere sia nel cinema d'autore. Si possono citare, tra gli altri, titoli di film diversissimi, come Annie Hall (1977; Io e Annie) di Woody Allen, Ordinary people (1980; Gente comune) di Robert Redford, Still of the night (1982; Una lama nel buio) di Robert Benton, Analyze this (1999; Terapia e pallottole) di Harold Ramis, come anche La stanza del figlio (2001) di Nanni Moretti.
Forse la prima voce autorevole e pertinente a porsi delle domande sulle relazioni tra cinema e p. è stata quella di Lou Andreas-Salomé, amica di Freud e non ancora psicoanalista quando, nel 1913, mentre seguiva a Vienna le lezioni e i dibattiti della Società psicoanalitica annotava nel suo diario come la tecnica cinematografica fosse la sola in grado di permettere una rapidità di successione delle immagini corrispondente più o meno alle "nostre facoltà di rappresentazione" di cui "imita anche la sua versatilità". Rispetto alle rappresentazioni teatrali e "alla pesantezza del movimento simulato della vita sulla scena" il cinema consente "di abbandonarci più liberamente all'illusione". Inoltre "esso arricchisce i nostri sensi di una profusione di immagini, di forme e di impressioni da renderlo una sorta di dono […] una fuga verso l'arte" (In der Schule bei Freud: Tagebuch eines Jahres 1912/1913, 1958; trad. it. 1980, pp. 114-15).Le osservazioni della Salomé, ulteriormente sviluppate negli anni a venire, sono però una notazione privata (il suo diario fu pubblicato solo nel 1958), mentre come tappa antesignana, dal punto di vista teorico, si può indicare la pubblicazione, nel 1916, negli Stati Uniti, di un piccolo libro, The photoplay. A psychological study (trad. it. 1980), da parte di uno psicologo di origine tedesca, Hugo Münsterberg. L'importanza di questo libro è data dal fatto che per la prima volta si prende in considerazione lo spettatore in quanto soggetto (e non come puro e semplice campione sociologico) e quindi gli effetti psicologici che il linguaggio cinematografico determina su di esso, un linguaggio che riesce a imitare e a mimare, come notava la Salomé, le facoltà della mente. Secondo Münsterberg, infatti, il primo piano, il flashback e il montaggio sollecitano e materializzano processi mentali quali l'attenzione, la memoria, l'immaginazione e l'emozione, ed è lo spettatore che, attraverso elaborazioni soggettive, attribuisce al film i caratteri della realtà, unificando e completando la visione.Molti anni dopo la teoria psicoanalitica del cinema, anticipata parzialmente dalla filmologia, ed elaborata poi, principalmente, nelle riflessioni di Jean-Louis Baudry, di Raymond Bellour e di Christian Metz, arrivò a mettere in evidenza la riattivazione, nel rapporto tra schermo e spettatore, di meccanismi inconsci messi in luce dalla psicoanalisi. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, infatti, sulla "Revue internationale de filmologie" apparvero alcuni articoli significativi sul rapporto tra cinema e p., in particolare quelli di due psicoanalisti, Serge Lebovici e Cesare Musatti, ambedue dedicati all'analogia tra film e sogno e tra spettatore e sognatore, analogia che era stata rilevata in diversi interventi già negli anni Dieci e Venti (e nelle dichiarazioni di famosi registi come Jean Epstein e René Clair). Successivamente Metz sottolineò affinità e scarti tra film e sogno, mettendo in evidenza l'esistenza di un punto, di un momento ‒ là dove lo spettatore vive il film con particolare intensità e minore vigilanza (si dimentica che sta vedendo un film) e nel sognatore si aprono incrinature e interstizi ("sto sognando", "non è che un sogno") ‒ in cui le due situazioni, stato onirico e condizione spettatoriale, tendono a raggiungersi.
È a metà degli anni Settanta, con la pubblicazione del numero 23 della rivista "Communications" dedicato a Psychanalyse et cinéma, che si può parlare di una vera e propria svolta psicoanalitica nell'ambito degli studi cinematografici e dell'apertura di un nuovo, importante campo di ricerca. Ne sono i capisaldi due saggi di Baudry, apparsi uno su "Cinéthique" e l'altro su "Communications", e poi, soprattutto, la pubblicazione, nel 1977, del libro di Metz, Le signifiant imaginaire (tradotto in italiano nel 1980 con il titolo Cinema e psicanalisi), nato in ambito semiotico e in particolare di quella semiologia del cinema di cui Metz era stato fino ad allora il maggiore rappresentante. La teoria psicoanalitica (Psychoanalythic Film Theory in area angloamericana) e la semiotica sono infatti entrambe, secondo Metz, scienze dei processi di significazione.
Baudry e Metz hanno portato al centro dell'interrogazione psicoanalitica il cinema stesso, studiando i tratti caratteristici di un tipo specifico di significante, quello immaginario, inteso nel duplice senso che si basa sull'immagine (al cinema vi è la presenza dell'immagine mentre gli oggetti e i corpi reali sono invece assenti) e che riattiva l'immaginario.
Il libro di Metz è una sintesi, in parte originale, degli studi sul rapporto tra schermo e spettatore dal punto di vista metapsicologico, vale a dire in base ai modelli formali e ai concetti teorici che costituiscono il fondamento della psicoanalisi. In particolare lo studioso francese si sofferma sul gioco dell'identificazione tra il soggetto-spettatore e lo specchio-schermo, in cui il soggetto rivive il meccanismo infantile della formazione immaginaria dell'Io, che Jacques Lacan ha chiamato lo stadio dello specchio (Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je, 1966; trad. it. in Scritti, 1974, pp. 87-94). Durante questo periodo, che va dai sei ai diciotto mesi, l'infans (il piccolo d'uomo ancora privo di parola), vedendo la propria immagine riflessa in uno specchio, anticipa, sul piano visivo, l'unità del suo corpo, che invece, su altri piani, percepisce ancora frammentato e in pezzi. Questo fa sì che il bambino tenda ad alienarsi, a dividersi da sé stesso non riconoscendo, nell'immagine speculare, la propria immagine. L'Io quindi non esiste se non in quanto altro, in quanto immagine esterna, essa sola in possesso di una Gestalt, di una forma unitaria e perfetta.La teoria psicoanalitica del cinema ha sottolineato la doppia analogia che intercorre tra la situazione del bambino nello stadio dello specchio e lo spettatore cinematografico. Se lo spettatore davanti allo schermo sembra rivivere lo stadio dello specchio è perché al cinema vengono riattivate 'artificialmente' quelle stesse operazioni di alienazione, misconoscimento e illusione che hanno formato l'Io come 'istanza immaginaria'. Attraverso la mediazione dello specchio-schermo infatti le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi "si confondono con quell'immagine che portiamo in noi" (J. Lacan, Idéal du moi et moi idéal, in Le séminaire de Jacques Lacan. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1953- 1954), 1975; trad. it. 1978, p. 177), permettendo così allo spettatore sia di ritrovare lo stato di onnipotenza del narcisismo infantile, sia inoltre di accedere a un illusorio raggiungimento dell'Io ideale.
Nell'identificazione dello spettatore con il film ‒ un film che alletti i suoi fantasmi e risuoni nel suo inconscio ‒ è l'immagine (psichica e non materiale) del proprio corpo che inconsciamente egli vede, anche se è quello di un altro che lo schermo gli rimanda, poiché il corpo dell'altro come proprio corpo è un oggetto imprendibile ed eternamente in fuga. Analogamente alla scena del sogno, dove il sognatore appare sotto sembianze altrui o senza sembiante, o alla scena del mito di Narciso, dove il soggetto si specchia ‒ e si innamora della propria immagine ‒ senza riconoscersi, il film raffigura sempre, non una qualsiasi 'messa in scena', ma l''altra scena', la scena dell'inconscio, in cui il soggetto è comunque implicato.Al cinema, secondo Baudry, vi sarebbe una duplice possibilità di identificazione, l'una legata indissolubilmente all'altra: l'identificazione cinematografica primaria e quella secondaria. La primaria è l'identificazione dello spettatore con il proprio sguardo in quanto atto di percezione. È un'identificazione che corrisponde al narcisismo primario, all'amore verso sé stessi descritto dalla psicoanalisi. L'occhio del soggetto coincide con quello della macchina da presa che ha guardato prima ciò che lo spettatore guarderà poi, costituendosi così come soggetto trascendentale, o meglio, fonte di una visione onniveggente. Così come l'immagine allo specchio permette al bambino di costituirsi in una Gestalt 'immaginaria', primo abbozzo della funzione dell'Io, parimenti lo sguardo trascendentale dello spettatore riunisce e ricompone i frammenti discontinui delle immagini che passano sullo schermo in un'unità organica, in una storia di finzione nella quale identificarsi. Ed è proprio tale identificazione primaria che permette l'esistenza dell'identificazione cinematografica secondaria, rivolta più propriamente ai personaggi e alla storia. Lo spettatore infatti è immerso in un gioco identificatorio continuo, senza il quale non avrebbe la possibilità di riconoscere quello che passa sullo schermo; inoltre le immagini che egli vede non solo attivano processi di identificazione (lo spettatore si prende per il personaggio, si mette al suo posto), ma anche quelli di proiezione (per cui lo spettatore attribuisce ai personaggi sentimenti, desideri e paure che rifiuta di riconoscere come propri). È insomma nel continuo e duplice movimento interno/esterno che lo spettatore dà valore e significato a ciò che vede; è nella temporanea perdita dell'Io (divento qualcun altro, divento il personaggio del film che sto vedendo) e contemporaneamente nell'effimero potenziamento in un Io ideale (un Io coerente e unitario, che controlla e domina gli eventi) che sta il doppio movimento di fascinazione e piacere dello spettatore. Oltre allo stato onirico e all'identificazione speculare, lo spettatore riattiva nel rapporto con lo schermo altri due meccanismi inconsci, che riguardano il voyeurismo e il feticismo, considerati non nel loro aspetto patologico di perversione sessuale, ma in quanto modalità specifiche del piacere e della posizione dello spettatore e basati rispettivamente sulla distanza dall'oggetto desiderato e sulla sua mancanza/sostituzione.
Nel voyeurismo il piacere di guardare del soggetto-spettatore e l'erotizzazione del suo sguardo sono legati alla riviviscenza della scena primaria: momento fantasmatico dell'esperienza infantile in cui, nell'oscurità e nell'immobilità (analoga a quella della sala cinematografica), attraverso un'apertura fortuita, una porta socchiusa o un buco della serratura (tanto simili alla finestra dello schermo), ciascuno ha 'guardato', a distanza e inosservato (così come il film ignora lo spettatore), la scena proibita del rapporto sessuale tra i genitori.Nel feticismo lo spettatore riattiva quel meccanismo inconscio di difesa a cui Freud diede il nome di diniego o smentita (Verleugnung). Si tratta di un meccanismo psichico con cui il bambino cerca di tutelarsi da un terrore primigenio e inconcepibile: il 'terrore della castrazione'. Il cinema è indubbiamente uno dei luoghi privilegiati di investimento feticistico, a partire, come sottolinea Metz, dalla tecnica, che è 'prestazione', 'prodezza', 'esibizione' e che sottolinea e occlude, contemporaneamente, il vuoto e l'irrealtà su cui si fonda, producendo un 'effetto di realtà' superiore a qualsiasi altra forma di arte. Il cinema nasconde, grazie a un'operazione feticistica, l'irrealtà, l'assenza di ciò che lo spettatore sta vedendo: il film stesso diventa un feticcio, il sostituto di qualcosa che manca, poiché la presenza vissuta (registrata, riprodotta) di ciò che vediamo cela e sostituisce l'assenza reale.In questo regime di pieno/vuoto, di presenza/assenza, di differenze e sottrazioni, di immagini e scene che vengono offerte allo sguardo e immediatamente negate (e che è il regime specifico del sistema di significazione del cinema), si insinua, mimandolo a sua volta, il piacere dello spettatore, che rincorre un oggetto del desiderio sempre 'perduto', sempre impossibile da soddisfare.Incatenato al dispositivo della rappresentazione, come il prigioniero della caverna di Platone (v. dispositivo cinematografico), è questo il modello della visione cinematografica, il gioco a cui lo spettatore non può sottrarsi, pena la perdita del piacere, dell'identificazione nel doppio, della soddisfazione della pulsione scopica, dell'immersione nell'immaginario.
Dopo la pubblicazione del libro di Metz, in area francese e soprattutto angloamericana si sono avuti altri complessi sviluppi di cui non è facile dar conto data la loro ramificazione nei vari campi degli studi cinematografici. Per es. nel rapporto, portato avanti soprattutto dalla rivista inglese "Screen" negli anni Settanta, tra psicoanalisi e marxismo, secondo la concezione del filosofo L. Althusser, per il quale i sistemi di rappresentazione (e quindi anche il cinema) sono legati a un concetto di ideologia che chiama in causa processi inconsci; nelle teorie dell'enunciazione, in quanto luogo di circolazione del desiderio che, dall'autore, attraverso il testo, investe lo spettatore; e nelle teorie femministe (la Feminist Film Theory, ben rappresentata dalla rivista americana "Camera obscura" e dai lavori, tra gli altri, di studiose come Laura Mulvey, Claire Johnston, E. Ann Kaplan, Mary Ann Doane, Kaja Silverman, Sandy Flitterman-Lewis e Janet Bergstrom), che si sono lungamente soffermate sull'analisi della struttura fantasmatica del cinema classico, sull'uso del corpo femminile come oggetto di desiderio, sul ruolo della spettatrice e sulla funzione dello sguardo, all'interno relative alla problematiche della differenza sessuale.
Il ricorso alla p. per interpretare il funzionamento del film si colloca nella vasta e complessa area dell'analisi testuale. Sebbene più debole e meno sistematica rispetto all'elaborazione teorica generale, non sono mancati anche in questo campo alcuni modelli e punti di riferimento.
A partire dagli anni Settanta si sono sviluppate sostanzialmente due tendenze. Da una parte un approccio contenutistico e 'biopsicoanalitico' che, sulla scia dei lavori di Charles Baudouin e della psicocritica di Charles Mauron ‒ originate ed esercitate soprattutto in ambito letterario ‒ aveva come scopo di leggere i film direttamente come prodotti dell'inconscio e sintomi dell'autore, mettendo in rilievo temi e figure ricorrenti nell'opera di un regista e facendoli meccanicamente risalire a suoi traumi e complessi. Si tratta in questo caso più di una 'psicoanalisi dell'autore', o, con un metodo esattamente speculare, di una 'psicoanalisi del personaggio', che di un'analisi del testo. Si citano normalmente, a questo proposito, le analisi dell'opera di Sergej M. Ejzenštejn da parte di Dominique Fernandez (Eisenstein, 1975; trad. it. 1980) e di Hitchcock da parte di Donald Spoto (The art of Alfred Hitchcock, 1979), molto discusse e discutibili sul piano del metodo e ritenute ormai completamente superate.
Dall'altra parte invece si ha a che fare con letture del testo filmico in quanto luogo del 'predominio della lettera', del significante. Più interessanti e attendibili sul piano metodologico, tali analisi guardano alle modalità di scrittura del film, individuando un'analogia tra il linguaggio cinematografico e il linguaggio dell'inconscio, con un riferimento costante alle modalità dell'attività onirica, per cui ciò che è importante è il modo nel quale il testo è costruito, al di là dei significati che esibisce. Per es. Thierry Kuntzel (1972) elabora l'idea che il lavoro filmico sia assimilabile al lavoro onirico, mentre R. Bellour (1979), esercitandosi soprattutto su alcuni film di Hitchcock (per es. North by Northwest, 1959, Intrigo internazionale, e The birds, 1963, Gli uccelli), osserva come nel cinema classico prevalgano una struttura e una forma estetica basati su un gioco continuo di ripetizioni e variazioni, di simmetrie e asimmetrie, di equilibri e rotture che, al di là della dinamica apparente, svelano l'aggregarsi e il disperdersi di condensazioni e di spostamenti e alludono alla forma primordiale di ogni racconto, basato sull'itinerario edipico, sull'emergenza o l'esplosione del desiderio e sull'ineluttabile sottomissione alla legge. In ogni racconto (classico), al di là di tutte le sue possibili varianti, si narra sempre la stessa storia, quella che segna il destino del soggetto dell'inconscio, del soggetto desiderante e pulsionale, a cui Sofocle e Freud hanno dato il nome di Edipo.
Un'ulteriore teoria dell'interpretazione psicoanalitica del testo filmico ‒ al di là dell'analisi specifica di Bellour ‒ tenta di capire in che modo meccanismi che hanno a che fare con il linguaggio dell'inconscio, come la condensazione, lo spostamento e la raffigurabilità, indissolubilmente intrecciati l'un l'altro, operino sul significante del testo, consentendo aperture impreviste e significati inediti, in grado di offrire alla stessa p. nuovi spunti di riflessione per la sua teoria e la sua clinica.
A fronte di una lettura psicoanalitica che tende ad affidare al linguaggio filmico l'espressività per immagini dell'inesprimibile e che su questa linea di pensiero interpreta o comprende, ne esiste un'altra che lavora sull'ipotesi contraria, secondo la quale i film più eloquenti per l'indagine analitica sono quelli il cui stile e la cui qualità poetica mira ‒ per dirla con Roland Barthes ‒ a "inesprimere l'esprimibile", a mostrare nascondendo, o a rivelare mascherando. Tale cinema può essere segnalato non per i suoi contenuti sconosciuti o per i suoi significati ineffabili, ma per il suo sottrarre all'espressività comune e alla convenzionalità del segno contenuti e significati propri della soggettività di ciascuno, offrendoli ‒ attraverso l'inesprimere filmico ‒ alla sorpresa, alla scoperta e all'ambiguità.Un tentativo metodico rispetto al funzionamento del linguaggio cinematografico e alla lettura psicoanalitica delle figurazioni iconiche si ha nella seconda parte di Le signifiant imaginaire di Metz il quale ‒ collegando le riflessioni di Freud, di Lacan, di F. de Saussure e di R. Jakobson ed evidenziando le connessioni tra la p. (condensazione e spostamento), la linguistica (sintagma e paradigma) e la retorica (metafora e metonimia) ‒ mostra come il processo primario, in opera nei sogni, nei sintomi, nei lapsus e nei motti di spirito, sussista e lavori accanto all'andamento del processo secondario, vale a dire del processo vigile e razionale del discorso filmico. Metz, però, si limita a portare esempi in cui il processo metaforico e metonimico è evidente secondo le conoscenze linguistiche e retoriche. Mentre ciò che resta nell'ombra sono la condensazione e lo spostamento nel senso della deformazione e dell'alterazione, della latenza e non solo dell'evidenza. Nella catena dei significanti iconici si tratta infatti di sottolineare e di analizzare la quota di condensazione e di spostamento, cioè di rielaborazione, sostituzione e allusione presente in inquadrature e/o sequenze che agiscono linguisticamente nello stesso modo delle altre 'formazioni di compromesso' attraverso cui l'inconscio affiora, al di là della trasparenza linguistica e retorica. Attraverso l'analisi della 'perturbazione' del significante iconico, di percorsi figurativi alterati, cioè spostati o condensati, possono emergere, in sede di lettura testuale, significati e interpretazioni non immediatamente visibili. Il teorico della letteratura e critico letterario, F. Orlando scrive, a proposito della 'predominanza del significante' nel linguaggio poetico-espressivo: "... le analisi freudiane di sogni, lapsus, sintomi e motti di spirito mostrano che l'inconscio si permette qualunque mescolanza o slittamento da un significato ad un altro, se i significanti offrono la coincidenza anche più accidentale, la somiglianza anche più approssimativa, la possibilità anche più assurda di scomposizione" (Per una teoria freudiana della letteratura, 1973, p. 30).
Non mancano, oltre che in Francia, soprattutto in Inghilterra, negli Stati Uniti (in particolare nell'ambito delle teorie femministe) e in Italia (dove sono apparse anche alcune interpretazioni legate al lavoro dello psicoanalista cileno I. Matte Blanco), letture di film in cui la p. si pone come strumento privilegiato. Esse si sono esercitate, oltre che sul cinema classico americano di genere, anche su corpus di opere come quelli, per es., di Orson Welles, di Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Alain Resnais, di Stanley Kubrick o di Krzysztof Kieślowski nei quali, sia rispetto alle strutture linguistiche, alla scrittura e allo stile, sia a temi quali l'identità, la memoria, la maschera, il doppio o il triangolo edipico, oltre che il feticismo e il voyeurismo, la p. permette squarci di interpretazione critica e di illuminazione teorica altrimenti non raggiungibili.
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