Psicofarmaci
Gli psicofarmaci, o farmaci psicotropi, sono una famiglia di sostanze assai importanti, con molte azioni a livello del sistema nervoso, alcune delle quali vengono sfruttate positivamente per la terapia delle malattie psichiatriche; anche se non risolvono e non esauriscono il problema terapeutico, certamente rappresentano un presidio fondamentale per il suo successo.
l. Terapia farmacologica delle patologie psichiatriche
Il cervello è bersaglio di molte sostanze che ne possono alterare la funzione e frequentemente anche la struttura, producendo quindi effetti passeggeri e reversibili oppure permanenti nel tempo. Tale variabilità dipende da vari fattori quali le caratteristiche delle sostanze, la dose e il periodo di assunzione; si pensi, per es., all'alcol che, se assunto in dosi modeste, provoca una piacevole euforia, a dosi più elevate determina effetti tossici e, quando le dosi elevate si protraggono nel tempo, porta alterazioni strutturali del cervello tali da diminuirne la funzionalità fino a produrre demenza. L'uomo ha imparato molto presto a utilizzare le sostanze presenti in natura per modificare le prestazioni del cervello: per es., l'oppio è presente nelle antiche farmacopee cinesi ed egiziane, i funghi allucinogeni erano usati nelle cerimonie religiose incas e l'effetto dell'alcol sul cervello è descritto nella Bibbia. Lo scopo è sempre stato quello di migliorare le prestazioni del cervello o di alleviare, se non proprio curare, le sue malattie. Anche la ricerca moderna, allo scopo di trovare psicofarmaci più attivi e selettivi, è partita dalle indicazioni presenti nella medicina tradizionale (il primo psicofarmaco fu, negli anni Cinquanta del 20° secolo, la reserpina derivata dalla Rauwolfia serpentina, chiamata in India erba della pazzia), affinandole e rivisitandole attraverso le nuove conoscenze scientifiche. I progressi ottenuti sono stati formidabili e hanno permesso il recupero a una vita dignitosa e umana di molti pazienti relegati prima in un mare di sofferenza e distaccati dal contatto con gli altri esseri umani e con l'ambiente. L'evoluzione degli ospedali psichiatrici (v. ospedale) ha rispecchiato questo progresso: nati come ghetti oppressivi e certamente poco terapeutici, sono oggi presidi temporanei, atti alla definizione di una terapia appropriata e a un intervento di emergenza nei casi acuti. In questi anni è stato possibile osservare un progressivo aumento della frequenza di patologie del sistema nervoso, presenti in circa una persona su 15. Le patologie psichiatriche più diffuse attualmente sono: le psicosi, i disturbi dell'umore e le nevrosi. Per psicosi, la cui forma più conosciuta è la schizofrenia, si intende una patologia cronica caratterizzata da un comportamento irrazionale e disorganizzato, con delusioni e allucinazioni associata a un pensiero disordinato, illogico, incoerente e incapace a cogliere la realtà circostante, anche affettiva. I disturbi dell'umore più rilevanti sono: la depressione e la sua versione bipolare, la sindrome maniaco-depressiva. La nevrosi più diffusa è la patologia associata ai disturbi d'ansia. In tutte queste patologie la farmacologia ha fornito armi assai utili e talvolta risolutive. Un ulteriore aspetto da considerare rispetto agli psicofarmaci è l'aumento drammatico dell'abuso di sostanze attive sul sistema nervoso centrale che spesso causano dipendenza, con gravi conseguenze funzionali e strutturali. Un corretto approccio alla terapia delle malattie psichiatriche dovrebbe prevedere sia un'opera di prevenzione, sia l'intervento terapeutico nel quale l'uso di farmaci psicotropi diviene elettivo o di supporto alla psicoterapia. Purtroppo la prevenzione delle malattie psichiatriche è un problema di difficile soluzione. Sempre più di frequente è necessario impostare un intervento terapeutico-farmacologico, che necessita perlopiù di essere protratto per tutta la vita del paziente. I farmaci psicotropi modificano il decorso delle malattie psichiatriche agendo su bersagli ben individuati e spesso in maniera abbastanza specifica. Questo ha permesso di chiarire molti aspetti dei meccanismi patogenetici delle malattie psichiatriche, anche se con il progredire delle ricerche si è potuto osservare che il risalire dal meccanismo d'azione dei farmaci alla patogenesi non sempre rappresentava la strada giusta, soprattutto perché parziale. I farmaci psicotropi agiscono principalmente sulla sinapsi, che è la struttura chiave della comunicazione tra i neuroni, potenziandone o riducendone l'attività. La fig. 1 illustra in modo schematico i punti di attacco dei farmaci psicotropi più importanti: gli enzimi che provvedono alla sintesi e al catabolismo dei neurotrasmettitori; il meccanismo di trasferimento e di immagazzinamento dei neurotrasmettitori nelle vescicole sinaptiche; il meccanismo di liberazione dei neurotrasmettitori; i recettori pre- e postsinaptici; il meccanismo di spegnimento dell'attività sinaptica attraverso la ricaptazione del neurotrasmettitore o mediante la sua distruzione; i canali ionici responsabili della diffusione dello stimolo lungo la membrana assonale. Farmaci specifici per i vari bersagli possono avere quindi un effetto unicamente su alcune vie nervose inibendole oppure potenziandole selettivamente.
a) Antipsicotici o neurolettici. I farmaci usati nel trattamento delle psicosi si distinguono in fenotiazine, tioxanteni, butirrofenoni e dibenzepine. Negli anni Novanta del 20° secolo sono state introdotte altre molecole eterocicliche, come la pimozide o il risperidone, che hanno dimostrato proprietà neurolettiche colpendo altri bersagli. Questi farmaci si differenziano tra loro per struttura chimica, cinetica ed effetti collaterali, ma possiedono tutti un analogo meccanismo d'azione e simili proprietà farmacologiche e terapeutiche. I neurolettici sono bloccanti selettivi dei recettori dopaminergici D₂ pre- e postsinaptici (D₂R) e, soprattutto le fenotiazine, i tioxanteni e la clozapina, anche del recettore D₁ postsinaptico (D₁R). Recentemente sono stati descritti altri recettori dopaminergici e quindi è possibile che essi siano parzialmente attivi anche su questi. Non è da escludere infine un interessamento anche dei recettori serotoninergici. Attraverso questa azione i neurolettici bloccano la funzionalità delle sinapsi dopaminergiche, soprattutto nelle regioni striatali e limbiche, nelle quali la dopamina viene sintetizzata, immagazzinata nelle vescicole sinaptiche e liberata al momento dello stimolo. La dopamina liberata stimola la cellula innervata attivando i recettori postsinaptici D₁ e D₂ e presinaptici D₂; questi sono importanti perché facilitano l'ulteriore liberazione di dopamina. I neurolettici, bloccando i recettori dopaminergici postsinaptici, contrastano l'azione della dopamina e quindi affievoliscono l'efficienza delle vie dopaminergiche soprattutto nell'area limbica. Nelle zone del cervello che sono deputate al controllo motorio il blocco dei recettori D₂ porta inizialmente a un aumento dei recettori stessi e a un'accresciuta sintesi e liberazione di dopamina. Questo fatto spiega in parte la tendenza alla diminuzione con il passare del tempo degli effetti extrapiramidali; di contro, gli effetti antipsicotici, i quali nascono invece dall'inibizione delle vie dopaminergiche nel sistema limbico, non si modificano nel tempo. Inibendo le vie dopaminergiche, i farmaci neurolettici modificano in modo specifico alcune funzioni del cervello: riducono l'iniziativa, l'interesse per il mondo esterno, l'affettività e le emozioni, senza alterare però le capacità intellettive; non sono dei sedativi, anche se alcuni di loro hanno proprietà sedative e a dosi elevate possono provocare sedazione profonda e limitazione nei movimenti. Nei pazienti schizofrenici producono una diminuzione dei sintomi allucinatori, dei pensieri disorganizzati e incoerenti e del comportamento aggressivo, mentre aumentano la collaborazione con l'ambiente. A tali effetti terapeutici si accompagnano spesso anche effetti neurologici.
Questi farmaci sono utili nel trattamento delle forme acute e croniche della schizofrenia e sono attivi fin dalle prime settimane. Essi sono anche utilizzati nella terapia di altre forme patologiche come la fase maniacale della sindrome maniaco-depressiva e la schizoaffettività. Le fenotiazine sono spesso usate negli stati acuti di grave agitazione psicomotoria e in casi di vomito severo. Le vie dopaminergiche nel cervello controllano non soltanto il sistema limbico, responsabile dell'affettività, ma anche il sistema nigrostriatale per il controllo motorio, la secrezione ipofisaria di prolattina e la chemoreceptor trigger zone, per il controllo dell'emesi. Inoltre i neurolettici hanno effetti su molti recettori adrenergici, colinergici, serotoninergici e istaminergici periferici. Appare quindi plausibile potersi aspettare una grande varietà di effetti farmacologici al di là di quelli terapeutici antipsicotici. Brevemente, gli effetti maggiori sono di tipo neurologico e riguardano il controllo motorio (effetti extrapiramidali) con distonie acute, acatisia, discinesia tardiva e spesso sintomi parkinsoniani; gli effetti endocrini sono mediati da un'aumentata produzione di prolattina che porta a disturbi del ciclo mestruale e della lattazione; sono da citare anche gli effetti ipotensivi e quelli a livello cardiaco, mediati dal blocco dei recettori adrenergici. Questi farmaci, molto potenti, sono assai utili nel controllare le psicosi, ma anche potenzialmente pericolosi. Farmaci di più recente generazione, come la clozapina e il risperidone, hanno minori effetti collaterali.
b) Antidepressivi. La depressione è una delle malattie più diffuse nella nostra società; si calcola che interessi circa il 10% della popolazione. È malattia molto grave che provoca una notevole sofferenza psichica e può portare, nel 10-15% dei casi, a tentativi di suicidio. Poiché spesso è sottovalutata dal paziente e dal medico, frequentemente non è diagnosticata e quindi non curata nel modo più opportuno. La sindrome depressiva è caratterizzata da sentimenti di tristezza e disperazione, da pessimismo, disistima di sé, perdita di concentrazione fino ad arrivare a idee suicide. Perlopiù a questi segni psichici si accompagnano anche sofferenze fisiche che si manifestano solitamente con calo di peso, anoressia, insonnia e perdita di libido. Nella forma maniaco-depressiva, periodi di depressione si alternano a periodi di intensa mania, caratterizzata da un eloquio fluente ed eccessivo, spesso incontrollabile, irritazione, iper-reattività, insonnia. Questa forma è meno frequente della depressione unipolare e beneficia di un trattamento misto tra antidepressivi e antipsicotici. Anche i sali di litio sono particolarmente indicati in quanto stabilizzano l'umore e aumentano il tempo che intercorre tra le crisi maniacali e depressive. Il meccanismo d'azione fondamentale con cui questi farmaci sembrano portare beneficio è l'aumento dell'efficienza della trasmissione adrenergica e serotoninergica nel sistema nervoso centrale. Essi ottengono questo effetto attraverso alcuni meccanismi ben definiti: 1) inibizione delle monoaminossidasi (MAO), enzimi deputati alla distruzione delle catecolamine e della serotonina; è chiaro che inibendo la distruzione di questi neurotrasmettitori la funzionalità delle sinapsi adrenergiche e serotoninergiche risulterà aumentata; 2) inibizione della ricaptazione delle catecolamine e della serotonina da parte delle terminazioni presinaptiche; in questo modo i neurotrasmettitori possono rimanere più a lungo nella fessura sinaptica ed eccitare più recettori e per più tempo; anche in questo caso l'efficienza di queste sinapsi sarà aumentata; esistono farmaci che inibiscono la ricaptazione di catecolamine e serotonina, altri più specifici che inibiscono selettivamente quella di noradrenalina o di serotonina; a seconda del loro meccanismo d'azione questi farmaci avranno indicazioni terapeutiche diverse; 3) attivazione diretta dei recettori postsinaptici adrenergici o serotoninergici; in questo modo i farmaci possono contribuire a rafforzare l'azione del neurotrasmettitore endogeno potenziando quindi l'efficienza della sinapsi. Peraltro, gli effetti terapeutici degli antidepressivi non sono completamente spiegati dai meccanismi d'azione sopra descritti. Sembra infatti che l'impiego di questi farmaci determini anche mutamenti nel cervello che non sono ancora del tutto noti; per es., non è chiaro il motivo del periodo di latenza di 2-3 settimane necessario per osservare gli effetti terapeutici di qualsiasi antidepressivo. L'effetto principale degli antidepressivi è quello di innalzare l'umore nel paziente depresso. Nella persona normale ciò non avviene e, semmai, si ha un effetto di sonnolenza o di leggerezza di testa. Gli antidepressivi triciclici, così chiamati per la loro struttura chimica, producono anche cambiamenti nel ciclo del sonno con diminuzione del sonno REM (Rapid eye movements) e quindi dei sogni. I disturbi di panico e di agorafobia, i disturbi severi d'ansia e le forme ossessivo-compulsive rappresentano un altro campo nel quale questi farmaci sono utili, soprattutto quelli che agiscono sui recettori serotoninergici. Molti antidepressivi, soprattutto i triciclici, hanno effetti sul sistema cardiovascolare e sul sistema nervoso periferico in quanto possono interagire con molti recettori. Il blocco del recettore colinergico muscarinico ha effetti sul sistema cardiovascolare, produce secchezza delle fauci, ritenzione urinaria; il blocco di recettori istaminergici produce sedazione; il blocco dei recettori adrenergici causa ipotensione posturale; il blocco della ricaptazione di serotonina provoca nausea, diarrea e riduzione di appetito; i farmaci che bloccano i recettori serotoninergici possono portare ad aumento di peso. Gli IMAO (inibitori delle monoaminossidasi) possono ritardare il metabolismo di molte amine che vengono introdotte con il cibo, come la tiramina (ricche di questa sostanza sono per es.: la pizza, la birra e i cibi insaccati e piccanti), quindi un pasto abbondante con questi cibi in un paziente trattato con IMAO può portare a crisi ipertensive talora anche gravi. I farmaci di ultima generazione sono maggiormente selettivi, di conseguenza presentano minori effetti collaterali. La terapia della depressione grave è molto difficile; deve basarsi, spesso in modo combinato, sia sulla psicoterapia sia sulla terapia farmacologica. L'utilizzo non controllato dei farmaci antidepressivi, come avviene di frequente per i derivati della fluoxetina (prozac), è da evitare in quanto queste sostanze sono molto attive e potenzialmente pericolose.
c) Ansiolitici. L'ansia è un fenomeno positivo che contribuisce a mantenere un'appropriata reattività verso l'esterno, soprattutto in condizioni di emergenza e stress. In alcune evenienze e in alcuni individui i sintomi ansiosi non sono in relazione a condizioni obiettivamente ansiogene, non sono sopportabili e generano sofferenza e incapacità relazionale. In questi casi la terapia dell'ansia si impone. Da sempre, l'uomo ha tentato di alleviare l'ansia con l'uso dell'alcol o dell'oppio; queste sostanze tuttavia non sono dei veri ansiolitici e producono soltanto una diversa percezione dell'ansia senza toglierla. La vera terapia dell'ansia inizia alla fine degli anni Cinquanta del 20° secolo con la scoperta, nei laboratori della Roche a Basilea, delle proprietà sedative e anticonvulsivanti del clordiazepossido, il capostipite delle benzodiazepine, a partire dal quale sono state ottenute in seguito numerosissime molecole con la stessa struttura di base. Solo recentemente sono stati scoperti altri farmaci, come, per es., il buspirone, che agiscono con un diverso meccanismo d'azione. Le benzodiazepine potenziano selettivamente l'azione dell'acido γ-aminobutirrico (GABA, Gamma-aminobutyric acid), il più importante neurotrasmettitore inibitorio del sistema nervoso centrale. Esse si legano a una subunità del recettore GABAergico che diviene quindi più facilmente attivabile dal GABA. Il recettore per il GABA è un canale permeabile al cloro e produce, quando è attivato, un'iperpolarizzazione delle cellule innervate rendendole meno sensibili agli stimoli eccitatori. Le benzodiazepine si legano soltanto ad alcuni sottotipi dei recettori GABAergici ed è per questo motivo che la loro azione è abbastanza specifica. I farmaci più recenti, come il buspirone, invece, sono inibitori del recettore serotoninergico del tipo 5HT1A. Il meccanismo con il quale questa inibizione porti a diminuire l'ansia non è ancora noto, né è del tutto provato che questi farmaci siano clinicamente veri ansiolitici. Oltre a un effetto ansiolitico, le benzodiazepine possiedono attività anticonvulsivante (per questo sono impiegate in terapia, con ottimi risultati, come antiepilettici), ipnogena (sono molto usate anche come sonniferi) e, a dosi molto elevate, miorilassante. Hanno tutte lo stesso meccanismo d'azione e la medesima attività, ma si diversificano per la durata dell'effetto, che in alcune è di poche ore, in altre di giorni. La scelta di quale benzodiazepina usare dipende quindi dalla patologia da curare: se riguarda la difficoltà a prendere sonno, si farà ricorso a un preparato a breve emivita; nella terapia antiepilettica, se ne utilizzerà uno a lunga emivita. Le benzodiazepine hanno pochi effetti collaterali o tossici; anche a dosi molto elevate non producono né coma né morte. Divengono tuttavia molto pericolose se sono assunte in associazione con alcol o altre sostanze deprimenti il sistema nervoso centrale: in tale evenienza infatti si instaura un reciproco effetto potenziante. Le benzodiazepine inoltre danno tolleranza e dipendenza dopo un uso anche relativamente breve, e ciò comporta che la loro azione diminuisca nel tempo e che alla sospensione del trattamento si osservino fenomeni di astinenza, anche se meno gravi di quelli provocati dagli oppioidi. Negli anziani si assiste talvolta a una reazione paradossa con aumento dell'irritabilità e confusione mentale. La terapia farmacologica dell'ansia è spesso lasciata al paziente, che tende ad assumere farmaci ansiolitici oltre misura, fino alla dipendenza psicologica e fisica. Essa dovrebbe essere, invece, sempre controllata dal medico ed essere limitata il più possibile nel tempo.
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