Psicofarmacologia
Sommario: 1. Introduzione: a) sviluppo della psicofarmacologia dal 1980 a oggi; b) definizione e articolazione della psicofarmacologia. 2. Classificazione degli psicofarmaci. 3. Scoperta dei nuovi psicofarmaci e loro sviluppo. 4. Il progresso delle conoscenze sul meccanismo di azione degli psicofarmaci: a) la neurotrasmissione; b) i neurotrasmettitori; c) i recettori. 5. Gli psicofarmaci usati in terapia: meccanismo di azione, efficacia e problemi connessi al loro impiego: a) i farmaci per il trattamento della schizofrenia (o antischizofrenici o antipsicotici o neurolettici); b) i farmaci antidepressivi; c) i farmaci usati nel trattamento dei disturbi bipolari dell'umore (stabilizzanti dell'umore); d) i farmaci usati nel trattamento dell'ansia; e) i farmaci per le demenze senili. 6. Gli allucinogeni o psicotomimetici. 7. Gli psicofarmaci di abuso e il loro uso a scopo ricreazionale. 8. Psicofarmacologia e società. □ Bibliografia.
1. Introduzione
a) Sviluppo della psicofarmacologia dal 1980 a oggi
Negli anni trascorsi dalla stesura dell'articolo dedicato alla psicofarmacologia, pubblicato in uno dei volumi precedenti (v. psicofarmacologia, vol. V), si sono registrati importanti progressi nel trattamento delle malattie mentali e nella comprensione del meccanismo d'azione sia degli psicofarmaci usati nella terapia delle malattie mentali che dei farmaci di abuso. Essa si è avvantaggiata della straordinaria espansione delle conoscenze nel campo delle neuroscienze avvenuta nell'ultimo decennio, che può essere vista come la realizzazione in ambito biologico del classico ‟nosce te ipsum", conosci te stesso. Conoscenza di se stessi intesa come comprensione dei meccanismi genetici, neurochimici ed elettrofisiologici che sono alla base dei processi cognitivi, del pensiero e pertanto del comportamento e della sua patologia.
L'approfondimento delle conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso porta a una migliore comprensione delle cause e dei meccanismi patogenetici delle malattie neurologiche e psichiatriche. Ciò ha un'importante ricaduta sulla psicofarmacologia, in quanto permette un'approfondita comprensione del meccanismo di azione dei farmaci già in uso, un loro più accurato impiego terapeutico e l'identificazione di possibili siti d'azione di nuovi farmaci, di cui facilita la progettazione e lo sviluppo. D'altra parte la psicofarmacologia rappresenta uno degli aspetti applicativi più rilevanti delle neuroscienze, in quanto i farmaci costituiscono dei fondamentali strumenti per la comprensione dei meccanismi del funzionamento del cervello.
I progressi della psicofarmacologia fra il 1978 e il 1994 sono sintetizzati in due volumi dell'American College of Neuropsychopharmacology, dal titolo Psychopharmacology. The third generation of progress (v. Meltzer, 1987) e Psychopharmacology. The fourth generation of progress (v. Bloom e Kupfer, 1995): la terza e quarta generazione cui viene fatto riferimento sono le ultime due che si sono succedute dopo quella che, negli anni cinquanta, ha rappresentato la nascita della psicofarmacologia, con la scoperta dei primi antipsicotici, antidepressivi e ansiolitici. I volumi, di più di 2.000 pagine ciascuno, ben dimostrano l'ampiezza raggiunta dalle conoscenze in questo campo e ne sanciscono la suddivisione in due parti, quella preclinica, che è la premessa conoscitiva fondamentale per lo sviluppo della seconda, quella clinica. L'ampliamento delle conoscenze, ad ambedue i livelli, continua con ritmo incalzante.
La descrizione delle origini della psicofarmacologia, del contesto culturale che ne ha accompagnato lo sviluppo, i riferimenti letterari antichi e moderni all'uso degli psicofarmaci rendono il precedente articolo una utile premessa a quello attuale, che ne segue lo schema aggiornandolo punto per punto.
Le motivazioni che hanno originariamente fornito l'impulso alla ricerca degli psicofarmaci, determinando così la nascita della psicofarmacologia, sono le stesse che ritroviamo alla base di tutti i successivi sviluppi della disciplina: il desiderio, che sembra insito nell'uomo, di disporre di sostanze capaci di modificare le proprie condizioni psichiche e alterare il rapporto con la realtà, e la necessità di farmaci per curare o controllare le malattie psichiatriche. A questi due fattori possiamo aggiungere il desiderio di conoscere la natura, il meccanismo e gli effetti di sostanze che possono modificare radicalmente il comportamento dell'uomo. ‟La mente, dicono, governa il mondo. Ma chi governa la mente? Il corpo giace alla mercé del più onnipotente di tutti i potentati - il chimico. Dammi [...] la chimica [...] e con pochi grani di polvere mischiati al suo cibo quotidiano posso ridurre la mente di Shakespeare [...] fino al punto che la sua penna scriva le più abbiette sciocchezze che abbiano mai sporcato carta", scrive Wilkie W. Collins (v., 1980) in The woman in white.
b) Definizione e articolazione della psicofarmacologia
La definizione della psicofarmacologia fornita nel precedente articolo rimane valida; essa può tuttavia essere riscritta in maniera più articolata: la psicofarmacologia è quella parte della farmacologia che utilizza i farmaci, e altre sostanze chimiche, per studiare il funzionamento del sistema nervoso, per prevenire e trattare le malattie mentali, l'abuso di farmaci, l'alcolismo, e comprendere in che modo sostanze psicoattive di uso non terapeutico, voluttuario o ‛ricreazionale', modificano l'umore, i processi mentali, l'attività motoria e le funzioni endocrine e neurovegetative. La somministrazione e l'assunzione di psicofarmaci, infatti, ha innanzitutto scopi terapeutici, talvolta di pura ricerca, ma molto spesso si assumono sostanze di uso sia legale, quali alcool, nicotina, caffeina, sia illegale, quali marijuana, cocaina ed eroina, a scopo puramente ‛ricreazionale' - termine recente che sostituisce quello di ‛voluttuario'.
La psicofarmacologia è suddivisa in psicofarmacologia di base, o preclinica, e clinica. La prima studia soprattutto i meccanismi di comunicazione mediante i quali i neuroni eseguono le operazioni necessarie per adeguare il comportamento alle richieste dell'ambiente e per svolgere le attività nervose superiori, incluso il pensiero, che sono il bersaglio dell'azione degli psicofarmaci. La seconda studia le applicazioni terapeutiche degli psicofarmaci e le conseguenze tossicologiche del loro abuso e, attraverso l'uso di tali farmaci, cerca di capire i meccanismi patogenetici delle malattie mentali. La psicofarmacologia affronta oggi anche gli aspetti epidemiologici dell'uso degli psicofarmaci (farmaco-epidemiologia) e il problema di una corretta valutazione del rapporto fra i benefici derivanti al paziente e alla comunità dal loro uso terapeutico e i loro costi diretti e indiretti (farmaco-economia).
2. Classificazione degli psicofarmaci
Nella tab. I sono elencate le principali categorie di psicofarmaci; di ciascuna categoria chimica sono riportati solo i farmaci più diffusi. Dal confronto fra questa tabella e quella riportata nel precedente articolo emergono due elementi di novità: è cambiata una parte dei farmaci in ciascun gruppo terapeutico ed è comparso un nuovo gruppo di farmaci, quello per le demenze senili.
Il criterio di classificazione utilizzato in questa tabella può a prima vista sembrare confusionario, in quanto si basa sul principale uso della sostanza considerata; fanno eccezione gli allucinogeni, che sono stati considerati una categoria a sé stante perché, pur essendo usati spesso a scopo ‛ricreazionale', talvolta per motivi di carattere religioso e rituale, costituiscono un gruppo di sostanze di grande interesse per la ricerca neurobiologica; in alcuni casi, come in quello degli anticolinergici, le allucinazioni che essi provocano sono quasi sempre un effetto collaterale, tossicologico, dell'uso terapeutico che ne viene fatto o della loro assunzione accidentale. Nell'ambito di ciascuna categoria le sostanze sono state raggruppate talvolta secondo tradizionali criteri chimici, in altri casi in base al principale meccanismo d'azione, oppure secondo criteri medico-legali o ancora tenendo conto del loro profilo terapeutico e tossicologico. La classificazione che ne è risultata ricalca quelle più comunemente usate nella trattatistica e ha il vantaggio di essere facilmente compresa da medici e non medici. La suddivisione degli antipsicotici in tipici e atipici è diventata abituale, anche se poco comprensibile a prima vista, perché presuppone la conoscenza del fatto che tutti gli antipsicotici meno recenti hanno ‛tipici' effetti collaterali uguali ed effetti terapeutici che si esercitano solo su una parte della sintomatologia. Gli antipsicotici ‛atipici', di recente introduzione, inducono effetti collaterali meno gravi e hanno un impiego terapeutico più ampio. Per gli antidepressivi è in uso anche una classificazione in antidepressivi ‛di prima' e ‛di seconda generazione': la prima generazione comprende in pratica solo gli antidepressivi triciclici, mentre tutti gli altri, in particolare i bloccanti della ricaptazione della serotonina (o 5-idrossitriptammina, 5-HT), costituiscono la seconda generazione.
Il confronto tra le due tabelle rivela anche alcune esclusioni e nuove inclusioni. Sono rimasti fuori dalla nuova classificazione la reserpina e alcuni farmaci, ormai di secondaria importanza, per il trattamento dell'ansia. Riguardo alla reserpina, nulla vi è da aggiungere a quanto già scritto; la sua importanza terapeutica è marginale, anche se in molti paesi è ancora prescritta come ipotensivo e sedativo, e tuttavia essa costituisce tuttora un utile strumento di ricerca. Molto più numerosi i farmaci recentemente introdotti: alcuni nuovi antipsicotici, diversi antidepressivi e parecchie nuove sostanze di abuso, indice della continua ricerca, da parte della nostra società, di evadere dalla realtà attraverso i farmaci. Alla categoria degli psicofarmaci usati a scopo ricreazionale è stata aggiunta la nicotina, della cui capacità di indurre dipendenza e danni alla salute è stata presa coscienza. È stato inoltre introdotto il gruppo dei farmaci utilizzati nel trattamento dei disturbi della memoria che caratterizzano la demenza di Alzheimer e la demenza vascolare.
3. Scoperta dei nuovi psicofarmaci e loro sviluppo
Lo sviluppo recente della psicofarmacologia manca del fascino che circonda il susseguirsi di scoperte - nelle quali ricerca e casualità si sono mischiate in parti uguali - che ha caratterizzato la storia della disciplina nel periodo che va dal 1943, anno della scoperta dell'LSD, al 1958, anno in cui furono introdotti in terapia il clordiazepossido e il diazepam, ben più noti al grande pubblico con i nomi commerciali di Librium e Valium, entrati nell'uso comune. Nel giro di pochi anni furono scoperti i primi antipsicotici, antidepressivi e ansiolitici e cambiò radicalmente la terapia delle malattie mentali. A differenza di quel periodo, negli ultimi anni abbiamo assistito a una straordinaria espansione delle neuroscienze, soprattutto a livello preclinico, a un continuo miglioramento dell'uso dei farmaci, con lo scopo di aumentarne l'efficacia e ridurne gli effetti collaterali, e all'introduzione di un numero ridotto di nuovi farmaci, che tuttavia tendono a sostituire gradualmente, con vantaggio, i farmaci precedenti. La scoperta di questi nuovi farmaci non deriva ormai più da occasionalità, ma è il frutto delle conoscenze di biologia molecolare, della sintesi mirata di nuove molecole, di accurate, lunghe e costose sperimentazioni cliniche. Alla base di tutto ciò sta la richiesta da parte della società, e di conseguenza degli organi di controllo che essa esprime, che i nuovi farmaci siano più attivi, o quantomeno più sicuri, di quelli già esistenti e che il loro costo sia giustificato dai benefici terapeutici. Tuttavia, se guardiamo in prospettiva lo sviluppo della psicofarmacologia negli ultimi anni, vediamo emergere importanti progressi sia nella conoscenza che nel trattamento delle malattie mentali.
Nel campo degli antipsicotici si è diffuso l'impiego dei prodotti a lento rilascio (long acting), i quali permettono un migliore controllo dei pazienti, garantendo che la terapia venga attuata. Vi è stata inoltre la reintroduzione della clozapina e l'introduzione del risperidone: questo è in realtà il primo dei nuovi antipsicotici, definito ‛di prima linea', introdotto in terapia alla fine degli anni settanta, al quale si è aggiunta, nell'autunno del 1996, l'olanzapina, un analogo della clozapina. La terapia dei disturbi affettivi si è arricchita di molti nuovi farmaci, i principali dei quali appartengono al gruppo degli inibitori della ricaptazione della 5-HT. Il prototipo di questi farmaci è la fluoxetina, introdotta negli Stati Uniti nel 1987 e successivamente in Europa. Altri farmaci importanti introdotti negli anni ottanta sono stati il trazodone, il bupropione, i molti analoghi della fluoxetina e i recentissimi inibitori selettivi, reversibili, delle monoamminossidasi. Infine, va ricordato l'inserimento nella terapia psichiatrica di due ben noti farmaci antiepilettici, carbamazepina e valproato, impiegati dapprima soprattutto per il trattamento delle forme depressive bipolari, ma successivamente anche per quello delle forme unipolari. Gli sviluppi nel campo della terapia dei disturbi dovuti all'ansia sono stati caratterizzati da una revisione diagnostica e terapeutica. Da un lato il timore di indurre dipendenza dalle benzodiazepine, dall'altro la constatazione che gli attacchi di panico rispondono meglio al trattamento con antidepressivi che con ansiolitici, hanno portato la medicina ufficiale a rivedere l'uso di questi ultimi farmaci e a trattare molte forme di ansia con antidepressivi. Pertanto il numero di nuovi ansiolitici si è molto ridotto; possiamo qui ricordare l'alprazolam, una benzodiazepina triazolica, utilizzata anche come antidepressivo, e il buspirone, l'unico ansiolitico non benzodiazepinico di introduzione relativamente recente.
4. Il progresso delle conoscenze sul meccanismo di azione degli psicofarmaci
a) La neurotrasmissione
Le conoscenze dei principî generali della neurotrasmissione - il complesso meccanismo elettrochimico mediante il quale gli impulsi nervosi sono trasmessi da un neurone all'altro nel sistema nervoso centrale e periferico - non sono cambiate negli ultimi anni, ma quelle dei loro meccanismi molecolari si sono enormemente ampliate (v. neuroscienze: Basi molecolari della comunicazione neuronale, vol. XI). Il precedente articolo psicofarmacologia (v., vol. V) mantiene la sua validità come documento dell'evoluzione delle conoscenze in questo campo; le informazioni in esso contenute non sono errate, alla luce delle conoscenze odierne, ma solo incomplete e superficiali. Esso è ormai del tutto superato per quanto riguarda i recettori e i loro meccanismi molecolari, i canali ionici, i meccanismi di ricaptazione. Il principio che gli psicofarmaci agiscano modificando in modi diversi la neurotrasmissione, nell'ambito di sistemi neuronali più o meno specifici, è tuttora generalmente accettato. Le numerose modalità riportate, mediante le quali gli psicofarmaci possono alterare la neurotrasmissione, non hanno subito modificazioni, ma sono state molto meglio definite a livello molecolare.
b) I neurotrasmettitori
Le ricerche condotte negli ultimi anni hanno chiarito e definito il ruolo di molte delle sostanze presenti nel cervello che venivano definite come ‛neuroregolatori', un termine oggi molto meno usato in quanto ritenuto troppo generico. Al gruppo delle sostanze definite ‛neurotrasmettitori', il cui ruolo è stato pienamente confermato, ne sono state aggiunte altre, in passato non definite con certezza. Nella tab. II sono elencati i principali neurotrasmettitori, assieme alle principali condizioni patologiche nelle quali si ritiene che la loro carenza o il loro eccesso abbiano un ruolo patogenetico. Il ruolo di diversi neurotrasmettitori è ancora da precisare, anche se sono stati identificati i neuroni che li contengono; è stato inoltre dimostrato che sono liberati dalle terminazioni nervose in seguito alla depolarizzazione prodotta da un potenziale di azione e che agiscono su specifici recettori.
Si ritiene oggi che la trasmissione delle informazioni fra neuroni possa avvenire non solo in maniera puntiforme, da neurone a neurone, attraverso le sinapsi (detta ‛trasmissione telefonica'), ma anche per diffusione dei neurotrasmettitori negli spazi extrasinaptici (detta volume transmission o ‛trasmissione mediante altoparlante'). Questo concetto è importante, perché permette di capire il meccanismo d'azione di alcuni farmaci e nello stesso tempo spiega l'azione dei cosiddetti ‛neuromodulatori'. Il termine neuromodulatore si applica a numerose sostanze endogene che non trasmettono direttamente uno stimolo, di natura eccitatoria o inibitoria, da un neurone all'altro, ma modificano la capacità di un neurone di rispondere agli stimoli o modulano la liberazione di un neurotrasmettitore.
Fra i principali neuromodulatori ricorderemo l'adenosina, il nitrossido, le prostaglandine, alcune citochine, i corticosteroidi e i neurosteroidi. Gli stessi neutrotrasmettitori elencati nella tab. II possono fungere anche da neuromodulatori: per esempio, l'ACh può agire a livello dei recettori presinaptici. I neuromodulatori possono essere liberati dalle terminazioni nervose (per es., adenosina e nitrossido), ma anche dalle cellule gliali (per es., citochine e neurosteroidi), o possono essere portati dal sangue (per es., steroidi surrenalici, estrogeni). Il più importante esempio di psicofarmaco che agisce interferendo con l'azione di un neuromodulatore è rappresentato dalla caffeina, che blocca l'azione inibitoria dell'adenosina sulla liberazione dell'ACh, delle monoammine catecoliche e del glutammato.
Alcuni psicofarmaci agiscono inibendo i meccanismi di inattivazione del neurotrasmettitore: ciò provoca un aumento della concentrazione extracellulare del neurotrasmettitore, che a sua volta attiva i recettori e, nella maggior parte dei casi, induce in un secondo tempo una serie di complesse reazioni di adattamento dei recettori stessi. I tre più importanti farmaci che inibiscono l'inattivazione di neurotrasmettitori sono: 1) gli inibitori delle colinesterasi, che bloccano l'idrolisi enzimatica dell'ACh (per esempio, la tacrina); 2) gli inibitori delle monoamminossidasi (MAO), non selettivi o selettivi per la forma A o B, che inibiscono la deamminazione ossidativa delle monoammine: gli inibitori selettivi della MAO-A inducono un aumento dei livelli extracellulari di noradrenalina (NA) e 5-HT e sono impiegati come antidepressivi, gli inibitori selettivi delle MAO-B inducono un aumento della dopammina (DA) e sono utilizzati nel trattamento del morbo di Parkinson; 3) gli inibitori selettivi o non selettivi dei meccanismi di ricaptazione delle monoammine: gli antidepressivi triciclici sono inibitori non selettivi della ricaptazione della NA e della 5-HT, mentre la fluoxetina e i suoi analoghi sono inibitori selettivi della ricaptazione della 5-HT.
La ricaptazione delle monoammine e degli altri neurotrasmettitori dipende dall'attività di trasportatori selettivi presenti nella membrana plasmatica dei neuroni e delle cellule gliali, la cui funzione è quella di rimuovere dallo spazio extracellulare i neurotrasmettitori liberati dai neuroni riportandoli nelle cellule. Nel fare questo, essi contribuiscono a mettere fine all'azione postsinaptica dei neurotrasmettitori e a ripristinare i depositi intracellulari nei neuroni. I trasportatori di molti neurotrasmettitori (GABA, NA, DA, 5-HT, glicina) sono stati clonati ed è stato visto che appartengono a una famiglia di proteine omologhe. Nella membrana delle vescicole sinaptiche vi è un secondo tipo di trasportatori dei neurotrasmettitori, la cui funzione è quella di trasportare i neurotrasmettitori dal citoplasma nelle vescicole, ove sono accumulati, per essere poi liberati per esocitosi durante la trasmissione sinaptica.
c) I recettori
Sia i neurotrasmettitori, che trasmettono le informazioni fra neuroni, che i neuromodulatori, che ne regolano la liberazione o modificano l'eccitabilità neuronale, esercitano la loro azione legandosi a recettori specifici, sui quali agiscono anche numerosi psicofarmaci, come vedremo in seguito. I progressi delle conoscenze sui recettori rappresentano uno degli sviluppi più importanti della psicofarmacologia dell'ultimo decennio. Grazie alla biologia molecolare, è stato identificato e caratterizzato l'RNA che esprime la maggior parte dei recettori presenti nel sistema nervoso centrale sinora noti; sono state ottenute linee cellulari che esprimono i recettori, i quali possono così essere isolati e studiati con maggior facilità; sono stati creati animali nei quali sono stati eliminati i geni per recettori specifici (knock-out: v. farmacologia e sperimentazione animale, vol. X), di cui, grazie sia alle tecniche di biologia molecolare che ai nuovi ligandi, sono stati identificati numerosi sottotipi. Basti ricordare i 5 sottotipi dei recettori muscarinici per l'ACh, i 7 sottotipi dei recettori per la 5-HT, i 4 sottotipi dei recettori per la DA. I recettori si dividono in ionotropi, ad azione molto rapida, e metabotropi, ad azione più lenta, a seconda che siano accoppiati a un canale per gli ioni di cui modulano l'apertura, o a una proteina G e inducano la formazione di secondi messaggeri. L'impiego di ligandi marcati con isotopi non emittenti e della tomografia a emissione di positroni (PET) permette di visualizzare i recettori nel cervello umano e di studiarne l'occupazione da parte degli psicofarmaci (v. farmacologia molecolare, vol. X; v. neuroscienze: Basi molecolari della comunicazione neuronale, vol. XI).
5. Gli psicofarmaci usati in terapia: meccanismo di azione, efficacia e problemi connessi al loro impiego
Questo capitolo vuole mettere in risalto solo gli aspetti più interessanti, anche per il lettore non specializzato, dei meccanismi d'azione dei principali psicofarmaci, il loro significato euristico e la loro importanza terapeutica e sociale.
a) I farmaci per il trattamento della schizofrenia (o antischizofrenici o antipsicotici o neurolettici)
Ci sono in Italia circa 600.000 pazienti affetti da schizofrenia, cifra corrispondente a circa l'1-1,5% della popolazione generale, percentuale analoga a quella che si riscontra in tutti i paesi occidentali. La grande maggioranza di questi pazienti è trattata con antipsicotici, da soli o in associazione con altri neurofarmaci.
1. Antipsicotici tipici: fenotiazine, tioxanteni, butirrofenoni, dibenzossapine e dibenzotiazepine. - È stato ripetutamente confermato che tutte queste sostanze sono antagonisti dei recettori D2 per la DA, con maggiore o minore selettività. Il blocco dei recettori D2 è ritenuto il principale meccanismo dell'azione antipsicotica di questi farmaci. Né la PET, né l'impiego di molecole marcate non emittenti, tuttavia, ha permesso di visualizzare e calcolare la percentuale di occupazione dei recettori D2 nel cervello umano e di metterla in rapporto con il miglioramento indotto dalla terapia, per confermare la correlazione tra efficacia terapeutica e affinità per i recettori D2 dimostrata in vitro vent'anni fa. Alle dosi terapeutiche l'occupazione dei recettori D2 da parte dei farmaci è dell'ordine dell'80-90%; purtroppo, però, questa percentuale è correlata anche con i disturbi extrapiramidali (acatisia, reazioni distoniche, discinesie, parkinsonismo), che sono tra gli effetti collaterali più gravi della terapia con antipsicotici. Ricordiamo che l'inibizione dei recettori D2 della regione tubero-infundibolare causa un aumento dei livelli plasmatici di prolattina e di conseguenza disturbi endocrini, particolarmente a carico dell'apparato riproduttivo sia femminile che maschile. Allo stesso meccanismo va attribuito anche il blocco della termoregolazione che rende questi farmaci molto utili per instaurare una ipotermia controllata, ma è causa di ipertermia maligna in condizioni ambientali di surriscaldamento.
Quarant'anni di esperienza clinica con questo gruppo di farmaci e una estesa meta-analisi dei risultati ottenuti permettono di conoscerne con sicurezza vantaggi e limiti. Se da un lato il loro uso è stato il fattore principale che ha portato alla riduzione progressiva dei ricoveri negli ospedali psichiatrici, alla riforma dell'assistenza ai malati mentali in Italia (legge 180 del 1978) e alla definitiva chiusura dei manicomi alla fine del 1996, dall'altro oggi sappiamo che solo una parte dei sintomi sono controllati e che, nella maggior parte dei casi, i pazienti devono essere trattati con questi farmaci per il resto della loro vita, dopo il primo episodio psicotico, per evitare le ricadute, che avvengono con una probabilità di circa l'80% nel giro di due anni dall'interruzione della terapia. Per facilitare la terapia di mantenimento in pazienti che spesso hanno difficoltà o rifiutano di assumere con regolarità i farmaci, sono state sviluppate forme farmaceutiche a lunga durata di azione, il cui uso si è sempre più affermato: la somministrazione per via intramuscolare di una singola dose permette di ottenere livelli plasmatici terapeutici del farmaco per periodi da 2 a 4 settimane.
I sintomi che rispondono alla terapia con antipsicotici tipici sono quelli definiti come produttivi o positivi, quali allucinazioni, delirio, eccitazione, aggressività, mentre non rispondono i sintomi negativi, quali impoverimento ideativo, autismo, depressione, chiusura in se stessi. Alcuni degli antipsicotici tipici sono caratterizzati da un'intensa attività sedativa, presumibilmente dovuta al blocco di altri recettori (muscarinici, α-adrenergici, istaminergici) oltre a quelli dopamminergici; le proprietà sedative sono sfruttate in terapia per il trattamento delle forme acute di psicosi, sia di natura schizofrenica, sia dovute ad assunzione di farmaci quali anfetammina, cocaina, LSD. Molto diffuso, ma oggetto di discussioni deontologiche e, negli Stati Uniti, di regolamentazione da parte dell'autorità sanitaria, è l'uso degli antipsicotici nel trattamento dei disturbi non cognitivi del comportamento nella demenza senile di Alzheimer, quali aggressività, iperattività motoria, delirio e allucinazioni, mancanza di collaborazione con il personale infermieristico. Il controllo di questi sintomi con gli antipsicotici è in genere buono, ma è accompagnato da un peggioramento dei sintomi cognitivi, con riduzione dell'attenzione e della memoria.
2. Antipsicotici atipici: benzammidi, dibenzodiazepine, derivati del benzilossazolo. - Questi farmaci si differenziano dagli antipsicotici tipici in quanto comportano una minor incidenza di effetti collaterali acuti di tipo extrapiramidale e di discinesie tardive e sono efficaci anche sui sintomi negativi. La clozapina fu introdotta per la prima volta negli Stati Uniti negli anni settanta, ma il suo uso fu interrotto a causa della comparsa di casi fatali di agranulocitosi; venne reintrodotta negli anni ottanta, dopo un'attenta valutazione dei rischi rispetto ai benefici e dopo aver chiarito che la leucopenia, che compare in tutti i pazienti trattati con tale farmaco, raramente evolve in agranulocitosi. Il risperidone e l'olanzapina sono invece il frutto di ricerche chimiche e farmacologiche mirate a identificare antipsicotici con minori effetti collaterali.
Le ragioni delle differenze fra antipsicotici tipici e atipici consistono soprattutto nel fatto che questi ultimi sono caratterizzati da un'affinità minore per i recettori D2 e più elevata per i recettori D3 e D4, che hanno una distribuzione prevalentemente extrapiramidale, come dimostrato con la PET da studi preclinici sia nell'animale che nell'uomo. Inoltre la clozapina e, soprattutto, il risperidone hanno affinità per alcuni sottotipi dei recettori per la 5-idrossitriptammina, in particolare 5-HT2 e 5-HT3.
In conclusione, gli antipsicotici tipici e atipici sono farmaci di grande importanza terapeutica, perché permettono di ottenere in una buona parte dei pazienti un controllo, anche se non la guarigione, di molti dei sintomi della schizofrenia, soprattutto di quelli che rendono più difficile il loro reinserimento nella comunità e nella famiglia. Tali farmaci hanno modificato radicalmente la condizione di molti malati mentali, determinando un diverso atteggiamento della società nei loro confronti; come ha scritto Tobino (v., 19632): ‟Adesso accade che un uomo infuriato entra in manicomio e con poche pasticche, già il secondo o il terzo giorno si placa, fa come un tizzone immerso nell'acqua che frigge e fuma ma non più sfavilla l'incendio. E può accadere - non sempre, con discreta frequenza - che presto si ricostituisce, si stabilizza [...] e esce come un uomo dal cancello dell'ospedale".
Infine, non dobbiamo dimenticare l'importanza euristica di questo gruppo di farmaci nello studio dei meccanismi patogenetici della schizofrenia. La relazione fra occupazione dei recettori dopamminergici ed efficacia terapeutica degli antipsicotici atipici è stata la pietra angolare dell'ipotesi dopamminergica della schizofrenia: secondo questa ipotesi, riassunta nei termini più semplici, il meccanismo patogenetico della schizofrenia sarebbe identificabile in un disturbo della trasmissione dopamminergica delle vie mesolimbiche e mesocorticali, causato da molti fattori quali danni prenatali, genetici, ambientali. Pur non potendosi negare un ruolo dei meccanismi dopamminergici nell'espressione dei sintomi positivi, questa ipotesi è considerata semplicistica e non ha trovato conferme sperimentali dirette. Inoltre, mentre la dimostrazione dell'efficacia degli antipsicotici atipici e della loro azione sui recettori 5-HT sembra chiamare in causa anche i meccanismi serotoninergici, quanto meno nel manifestarsi dei sintomi negativi, i risultati delle ricerche sulla neurotrasmissione glutammatergica prospettano la possibilità di un coinvolgimento anche di questo sistema.
b) I farmaci antidepressivi
Un recente studio condotto su circa 3.000 soggetti ha consentito di dimostrare che il 2,1% della popolazione italiana fa uso di antidepressivi, cioè che 1,2 milioni di pazienti assumono per periodi variabili, ma sempre prolungati, uno dei farmaci descritti in questo paragrafo.
1. Inibitori delle monoamminossidasi (IMAO). - Come era stato previsto nell'articolo precedente, le ricerche sulle diverse forme molecolari di monoamminossidasi (MAO) hanno portato all'introduzione, nella terapia della depressione, di nuovi IMAO privi degli effetti collaterali che avevano relegato gli IMAO della prima generazione tra i farmaci cosiddetti di ‛seconda linea'. Le MAO sono enzimi, presenti in quasi tutti i tessuti, che inattivano le monoammine trasformandole, per deamminazione ossidativa, in aldeidi, successivamente convertite in acidi. Sono state identificate MAO di tipo A e B: substrati preferenziali della MAO-A sono la NA e la 5-HT, della MAO-B la feniletilammina. Ambedue le MAO agiscono sulla dopammina, ma la MAO-B è localizzata soprattutto nelle aree a innervazione dopamminergica e la sua inibizione causa un aumento dei livelli di DA. Gli inibitori introdotti in terapia negli anni cinquanta, quali ad esempio iproniazide, fenelzina, tranilcipromina, erano non selettivi (in quanto inibivano le MAO sia di tipo A che di tipo B) e irreversibili. La loro somministrazione era seguita da un aumento dei livelli tissutali di monoammine, da risultati terapeutici spesso buoni, ma anche da effetti collaterali in alcuni casi drammatici: infatti l'inibizione delle MAO-A della parete intestinale e del fegato permette l'assorbimento della tirammina presente in alcuni alimenti (formaggi, vini) in grado, per le sue proprietà di ammina simpaticomimetica indiretta, di liberare catecolammine dalle terminazioni simpatiche, con conseguenti possibili gravi crisi ipertensive, anche mortali.
Sono stati successivamente sintetizzati e introdotti in terapia inibitori selettivi irreversibili della MAO-B (per es., selegelina o deprenil, impiegato nella terapia del morbo di Parkinson), nonché inibitori selettivi e irreversibili (per es., clorgilina) e reversibili delle MAO-A. Tra questi ultimi, chiamati anche RIMA (Reversible Inhibitors of MAO-A), hanno trovato recente impiego nella terapia della depressione la moclobemide e la bromfaromina. La reversibilità dell'inibizione delle MAO-A della parete intestinale ha eliminato il rischio di crisi ipertensive, mentre l'aumento dei livelli extracellulari di NA e 5-HT nel cervello è associato a buoni effetti terapeutici. Va inoltre ricordato che l'inibizione delle MAO porta a una riduzione della produzione di radicali liberi nei tessuti e a un presumibile effetto neuroprotettivo, attualmente oggetto di numerosi studi (v. radicali liberi: Biologia e patologia, vol. XI).
2. Antidepressivi triciclici. - Questi farmaci, introdotti negli anni cinquanta, hanno rappresentato fino a poco tempo fa il cardine della terapia della depressione maggiore e sono ancora adesso largamente usati, anche in ragione del loro basso costo rispetto ai farmaci più recenti. L'esperienza acquisita su una vastissima casistica ha insegnato che la maggioranza dei pazienti risponde al trattamento con questi farmaci con un miglioramento dell'umore e dei sintomi organici, quali insonnia e anoressia, apprezzabile dopo diverse settimane. Vi è tuttavia un numero consistente di pazienti che non risponde alla terapia con antidepressivi triciclici (non responders), per i quali si deve ricorrere ad altri tipi di antidepressivi o all'elettroshock. L'interruzione della terapia è spesso accompagnata da ricadute, per cui si pone il problema della durata della terapia di mantenimento. La tossicità di questi farmaci è soprattutto a carico del sistema cardiovascolare, così che ne è controindicato l'uso in pazienti cardiopatici. All'attività anticolinergica, antimuscarinica, posseduta in misura maggiore o minore dagli antidepressivi triciclici, si devono particolari effetti collaterali - quali secchezza delle fauci, stipsi, disturbi della minzione, disturbi della accomodazione dell'occhio - che ne limitano l'uso negli anziani.
Il meccanismo d'azione iniziale di questi farmaci, ben dimostrato, consiste nel blocco non selettivo della ricaptazione delle monoammine. In particolare, amitriptilina e clorimipramina bloccano preferenzialmente la captazione della 5-HT, mentre imipramina, desmetilimipramina e nortriptilina bloccano preferenzialmente quella della NA. Tuttavia sono ancora da chiarire le modificazioni dei meccanismi della neurotrasmissione monoamminergica che avvengono fra il blocco della ricaptazione - che in genere è già massimale dopo 3 giorni di terapia ed è accompagnato da un aumento dei livelli extracellulari di monoammine - e il miglioramento clinico che si manifesta dopo alcune settimane; i risultati delle ricerche sperimentali lasciano intravedere una cascata di eventi biochimici che coinvolgono i secondi messaggeri e modificazioni nel numero e nell'affinità dei recettori per le monoammine.
3. Bloccanti selettivi della captazione della serotonina (SSRI, Selective Serotonin Reuptake Inhibitors). - Questo gruppo di farmaci, che comprende fluoxetina, fluvoxammina, paroxetina, sertralina, citalopram, sta progressivamente sostituendo gli altri antidepressivi nel trattamento non solo della depressione maggiore, ma anche degli attacchi di panico, dei disordini dell'alimentazione (anoressia e bulimia) e di quelle forme di disturbi dell'umore che possono essere considerate ai margini della patologia. Il prototipo di questi farmaci è la fluoxetina, introdotta in terapia negli Stati Uniti nel 1987 sotto forma di un prodotto denominato Prozac, nome che, a causa del suo sorprendente successo commerciale, è largamente noto al grande pubblico ed è quasi divenuto sinonimo di antidepressivo. Se negli anni settanta le sindromi ansiose sembravano rappresentare la patologia psichiatrica più comune - e nomi come Librium e Valium erano sulla bocca di tutti, sui giornali di informazione e nei romanzi, quali sinonimi di ansiolitico -, negli anni novanta il tipo prevalente di patologia mentale è identificabile nei disturbi dell'umore e il Prozac è il farmaco più usato. Numerosi libri divulgativi sono stati dedicati al Prozac, dal più noto, Listening to Prozac di Kramer (v., 1993), a Living with Prozac di Elfenbein (v., 1995), fino al romanzo di E. Wurtzel (v., 1995) Prozac nation: young and depressed in America, il cui assunto è che la diffusione di questo farmaco negli Stati Uniti è tale da poter considerare questa nazione ‛il paese del Prozac'. Anche in Italia la fluoxetina è largamente prescritta, sia sotto il nome di Prozac che sotto altri nomi commerciali, ed è stata oggetto di molta attenzione da parte della stampa.
È difficile comprendere perché e in quale misura il ‛costo della modernità' debba essere la depressione, come viene sostenuto da più parti, e un'analisi di questo fenomeno è al di fuori degli scopi di questo articolo; si deve comunque notare che l'estesa prescrizione di Prozac e di altri antidepressivi da parte dei medici avviene molto spesso al di fuori di una precisa diagnosi di depressione. È forse questo un tentativo di controllare farmacologicamente pretesi disturbi dell'umore, che spesso altro non sono che l'infelicità insita nella condizione umana, per cui la prescrizione del Prozac è stata considerata da alcuni una ‛cosmesi dell'animo'.
Una delle ragioni del successo degli SSRI dipende dal fatto di essere meglio tollerati degli altri antidepressivi e di causare, in genere, limitati effetti collaterali. Anche se gli SSRI, per definizione, hanno tutti lo stesso meccanismo d'azione e presentano una percentuale di successi terapeutici che si aggira attorno al 70%, vi sono importanti differenze nel profilo di azione dei diversi farmaci di questo gruppo, dal punto di vista sia farmacocinetico che degli effetti collaterali. Questi sono rappresentati soprattutto da disturbi gastrointestinali, seguiti da tremori e insonnia. Data la loro scarsa cardiotossicità, è possibile usare questi farmaci anche in pazienti cardiopatici. Le differenze fra i diversi farmaci di questo gruppo permettono di scegliere quello più adatto al singolo paziente. Va inoltre ricordato che la fluoxetina esercita anche un'azione anoressizzante, che da un lato la fa preferire nel trattamento dei disturbi dell'umore accompagnati da alcune turbe del comportamento alimentare, dall'altro ne incoraggia l'uso al di fuori di una stretta indicazione psichiatrica.
Anche nel caso degli SSRI, la necessità di prolungare il trattamento per diverse settimane perché compaiano gli effetti terapeutici induce alla ricerca di mezzi farmacologici per accelerarne la comparsa. Un significativo accorciamento del tempo necessario a ottenere una riduzione della gravità della sintomatologia è stato ottenuto somministrando il pindololo associato alla fluoxetina. Il pindololo è non solo un bloccante dei recettori β-adrenergici, ma anche un antagonista dei recettori serotoninergici 5-HT1; questi sono autorecettori somatodendritici che in presenza di aumentate concentrazioni extracellulari di 5-HT, quali quelle indotte dagli SSRI, inibiscono, con un meccanismo a feedback negativo, l'attività dei neuroni serotoninergici, riducendo l'effetto degli antidepressivi. Il blocco di questi recettori potenzia l'effetto degli SSRI: nelle prove cliniche la latenza sembra passare da 29 a 19 giorni.
Così come gli antipsicotici hanno avuto una grande importanza euristica nella formulazione della teoria dopamminergica della schizofrenia, gli SSRI hanno messo in risalto il ruolo della 5-HT nella patogenesi dei disturbi dell'umore, dando origine alla teoria serotoninergica della depressione, e hanno posto in ombra il ruolo della NA. I risultati di numerose ricerche neurochimiche sembrano dimostrare l'esistenza, nella depressione maggiore, di una ipofunzione dei meccanismi serotoninergici: per esempio, nel liquor delle vittime di suicidi attuati con mezzi traumatici è stata osservata una diminuzione dei livelli del principale metabolita della 5-HT, l'acido 5-idrossindolacetico, indice di una ridotta liberazione di 5-HT. Non è stato tuttavia chiarito in quale maniera le modificazioni del metabolismo della 5-HT agiscano sul tono dell'umore e se esse siano responsabili delle alterazioni dell'asse ipofisi-surrene, che sono sempre più insistentemente chiamate in causa nella patogenesi della depressione.
4. Altri farmaci antidepressivi (atipici). - Accanto ai grandi gruppi di antidepressivi che abbiamo descritto ve ne è uno la cui efficacia terapeutica non può essere attribuita al blocco della captazione delle monoammine, ma a un'interazione di tipo agonista o antagonista con alcuni dei sottotipi dei recettori per la 5-HT; tra gli appartenenti a questo gruppo ricorderemo il trazodone, il nefazodone e il bupropione.
In conclusione, pur essendo ancora ben lontani dal comprendere il meccanismo di azione degli antidepressivi e i meccanismi patogenetici dei disturbi dell'umore, va rilevato che tutti i farmaci attivi in queste patologie mentali interferiscono con la funzione dei sistemi monoamminergici, in particolare con quelli a mediazione serotoninergica. L'ipotesi più plausibile è che la causa prima dei disturbi dell'umore, quale che essa sia, porti a un'alterata funzione dei neuroni monoamminergici - serotoninergici in particolare - e che tutti i farmaci efficaci nel suo trattamento inizialmente facciano aumentare, con meccanismi diversi, i livelli extracellulari di monoammine.
Oltre a quelli inerenti agli effetti collaterali, vanno ricordati altri importanti problemi connessi con la terapia con antidepressivi. Il primo è la durata della terapia in rapporto con il rischio delle ricadute: infatti, in più del 50% dei pazienti la malattia evolve con episodi ripetuti. Dopo un trattamento iniziale di almeno sei mesi che abbia determinato il controllo della sintomatologia, sta all'esperienza del medico stabilire se interrompere gradualmente la terapia farmacologica, anche in considerazione del supporto psicologico offerto dalla famiglia e dall'ambiente, salvo riprenderla senza esitazione in caso di ricomparsa dei disturbi. L'interruzione della terapia con antidepressivi va condotta in maniera molto graduale perché, come emerge anche da una recente rassegna, la sindrome da astinenza da antidepressivi è un fenomeno frequente e spesso non diagnosticato che può manifestarsi con tutti i tipi di farmaci. Ansia, disturbi del sonno, cambiamento dell'umore, malessere generale e disturbi gastrointestinali sono i sintomi più frequenti, e possono facilmente essere scambiati con una ripresa della sintomatologia depressiva. Inoltre, l'interruzione della terapia con antidepressivi spesso incontra l'opposizione del paziente che, temendo di ricadere nella situazione di angosciosa sofferenza dalla quale è uscito grazie al trattamento farmacologico, si aggrappa al farmaco, verso il quale finisce con l'avere una dipendenza psicologica. Infine, va menzionato il problema, spesso discusso sulla stampa di informazione, riguardante la possibilità che, nella fase iniziale della terapia, i pazienti siano indotti al suicidio, in molti casi scegliendo come mezzo l'antidepressivo loro prescritto. Si è scritto che l'inizio della guarigione fa sì che il paziente si renda pienamente conto della sofferenza dalla quale sta uscendo e che arrivi a togliersi la vita per non correre il rischio di doverla affrontare nuovamente; anche se le analisi dei lavori pubblicati dimostrano che, in realtà, tra i pazienti depressi trattati con antidepressivi il numero di suicidi non è maggiore che tra quelli non trattati, non di meno il rischio che i farmaci antidepressivi possano essere utilizzati a scopo suicida va sempre tenuto presente e deve indurre il medico a prescriverne ogni volta limitati quantitativi.
c) I farmaci usati nel trattamento dei disturbi bipolari dell'umore (stabilizzanti dell'umore)
Il manuale diagnostico e statistico (DSM-IV) dell'American Psychiatric Association (v., 1994) classifica i disturbi bipolari in disturbi di tipo I o II in base alla maggiore o minore presenza di episodi maniacali o ipomaniacali e di episodi depressivi maggiori. Il principale farmaco, impiegato sia per il trattamento delle forme acute che per la prevenzione della ricomparsa delle manifestazioni, rimane il litio. Il litio viene talvolta prescritto anche per la terapia della depressione unipolare, in associazione con antidepressivi per accorciarne la latenza e potenziarne l'effetto terapeutico.
Il meccanismo mediante il quale il litio esercita la sua azione stabilizzante dell'umore non è stato ancora chiarito, anche se l'elenco delle azioni neurochimiche che esso esercita, alle concentrazioni terapeutiche, è diventato sempre più lungo. Per la sua natura di catione monovalente il litio interferisce, a livello delle membrane, con i meccanismi di trasporto del sodio e del potassio, della colina, del triptofano e di altri metaboliti. Nel citoplasma interferisce con la sintesi di secondi messaggeri, poiché inibisce sia il ciclo dei fosfoinositoli che la formazione di AMP ciclico. Il litio si lega alla subunità α delle proteine G impedendone il legame con il GTP e la conseguente attivazione della fosfolipasi C e dell'adenilciclasi; inoltre inibisce la fosfatasi, che stacca l'inositolo dall'inositolfosfato e lo rende disponibile per la nuova sintesi del fosfatidilinositolo; infine inibisce direttamente l'adenilciclasi. Queste azioni influenzano la trasmissione a livello di diversi sistemi monoamminergici, presumibilmente soprattutto in quei circuiti nei quali l'attività neuronale è più intensa e che sono pertanto più vulnerabili. All'inibizione della adenilciclasi si devono sia la poliuria, causata da una ridotta azione dell'ormone antidiuretico sui tubuli distali, sia l'ipotiroidismo, dovuto all'effetto sulla tiroide che provoca una riduzione della sintesi e della liberazione di T4. Malgrado queste complesse azioni, il litio - somministrato sotto forma di carbonato, solfato, glutammato - è in generale ben tollerato, se i livelli plasmatici sono attentamente controllati e mantenuti nell'ambito delle concentrazioni terapeutiche, comprese entro limiti piuttosto stretti: i suoi numerosi e polimorfi effetti tossici iniziano a manifestarsi quando la litiemia supera il valore di 1,5 milliequivalenti per litro. Ai primi disturbi, consistenti in fini tremori delle mani, difficoltà di parola, alterazioni dell'attenzione e della memoria, seguono disturbi gastrointestinali, aritmie cardiache e infine stato confusionale e convulsioni. Per evitare la comparsa di tali effetti tossici, occorre controllare periodicamente i livelli plasmatici del litio: un aumento della litiemia può infatti conseguire anche a un aumento del riassorbimento renale di litio in seguito a eccessiva perdita di sodio, causata, per esempio, dall'assunzione di farmaci diuretici o da particolari condizioni organiche, quali intensa sudorazione o diarrea. Decenni di uso su larga scala del litio se hanno permesso di ridimensionare il timore della possibile insorgenza di insufficienza renale in seguito a trattamento prolungato, non sono però valsi a chiarire del tutto se la sua assunzione in gravidanza faccia aumentare il rischio di malformazioni fetali.
Nei pazienti nei quali il litio è controindicato perché affetti da patologie cardiache, da ipotiroidismo o da insufficienza renale, i disturbi bipolari dell'umore possono essere trattati con carbamazepina o acido valproico. La carbamazepina è stata introdotta in terapia negli anni cinquanta per il trattamento di forme nevralgiche, quali la nevralgia del trigemino. Negli anni settanta è stata dimostrata la sua azione anticonvulsivante, che ne ha fatto gradualmente il farmaco di prima scelta per il trattamento delle convulsioni parziali e tonico-cloniche. La prima segnalazione di una sua efficacia terapeutica nei disturbi bipolari risale anch'essa agli anni settanta, ma solo negli anni ottanta alcuni studi controllati ne hanno dimostrato inequivocabilmente l'efficacia nella terapia delle forme bipolari e di alcune forme di depressione unipolare. Una vicenda simile è quella dell'acido valproico che, introdotto in terapia negli anni sessanta, si è gradualmente guadagnato un ruolo primario nel trattamento di diverse forme di epilessia e solo successivamente ne è stata dimostrata l'efficacia nel trattamento delle forme bipolari. Con quale meccanismo questi farmaci esercitino la loro azione nei disturbi dell'umore non è stato ancora definito. La carbamazepina attenua la scarica ripetitiva dei neuroni evocata da una depolarizzazione sostenuta: questo effetto è presumibilmente dovuto a un'interferenza con i canali per il sodio voltaggio-dipendenti che si manifesta in un prolungamento della loro inattivazione. È stata anche dimostrata la capacità della carbamazepina di interagire con i sistemi GABA-ergici e di potenziare gli effetti dell'adenosina, ma non è stata chiarita l'importanza di tali azioni per spiegare l'efficacia terapeutica del farmaco.
L'acido valproico stimola l'enzima glutammico-decarbossilasi, che forma il GABA dall'acido glutammico, e inibisce la GABA-transaminasi e la succinico-semialdeide-deidrogenasi, che inattivano il GABA; pertanto la sua somministrazione è accompagnata da un aumento di GABA nel cervello di animali da esperimento e nel liquido cerebrospinale di pazienti trattati. Tuttavia, non è stato dimostrato con certezza che l'attività terapeutica del farmaco dipenda soltanto da tali aumentati livelli di GABA: è probabile che anche nel caso dell'acido valproico svolga un ruolo importante la sua capacità di interferire con i canali del sodio, simile a quella della carbamazepina. Un indubbio vantaggio di questi due farmaci è che i loro effetti collaterali sono più blandi e meno frequenti di quelli del litio.
d) I farmaci usati nel trattamento dell'ansia
Malgrado che la medicina ufficiale abbia assunto nel corso degli ultimi anni un atteggiamento critico nei riguardi della terapia con ansiolitici - per i limiti della loro efficacia ma soprattutto per i rischi di abuso e dipendenza e per gli effetti collaterali - le benzodiazepine, che rimangono i più importanti ansiolitici, sono fra i farmaci maggiormente prescritti in molti paesi occidentali. Secondo un recente studio italiano, nel 1993 ha fatto uso di benzodiazepine l'8,6% del campione di adulti esaminato, con una netta prevalenza del sesso femminile e degli anziani (v. Magrini e altri, 1996); il 70% dei consumatori cronici di benzodiazepine, quelli cioè che le hanno assunte quotidianamente per un periodo di almeno 6 mesi, ha infatti più di 65 anni. Questi dati sono abbastanza simili a quelli raccolti nel 1989 su 23.000 pazienti negli Stati Uniti, dei quali il 6,2% (4,2% uomini e 8% donne) faceva uso di benzodiazepine; di questi il 10% ne faceva uso da almeno un anno e il 13,7% aveva più di 64 anni. Tuttavia, il confronto con precedenti studi, condotti sempre negli Stati Uniti, rivela una progressiva riduzione dell'uso delle benzodiazepine, poiché nel 1970 la quota della popolazione americana che assumeva ansiolitici e sedativi arrivava al 15%. I soggetti che fanno maggior uso di benzodiazepine sono, nell'ordine, disoccupati, pensionati, casalinghe e lavoratori con posizioni direttive e di responsabilità; ciò dimostra che, a prescindere dalle ragioni mediche che possono determinarne la prescrizione, le benzodiazepine sono usate soprattutto allo scopo di attenuare uno stato di disagio nei riguardi delle proprie condizioni di vita, che si traduce o viene percepito o diagnosticato come ansia. Forse nessun farmaco meglio degli ansiolitici può ‟strappare dalla memoria un dolore che vi ha messo le radici, cancellare le angosce scritte nel cervello [...] liberare il petto da quell'ingombro pericoloso che [...] grava sul cuore" (W. Shakespeare, Macbeth, atto V, scena III).
L'ansia, che può essere considerata un'emozione universale dell'uomo, può manifestarsi in molte forme - che vanno dal disagio all'apprensione, fino ad arrivare agli attacchi di panico - ed è causa di numerosi sintomi organici a livello cardiaco, respiratorio, gastrointestinale. Da tutto ciò deriva che, se un limitato stato d'ansia fa parte della condizione umana e può essere considerato utile per affrontare con successo i problemi della vita quotidiana, un alto livello di ansia dà origine ai complessi quadri di patologia mentale che sono classificati dal DMS-IV come ‛disturbi di ansia' e sono suddivisi in attacchi di panico, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi acuti da stress e disturbi generalizzati da ansia (v. American Psychiatric Association, 1994). Le benzodiazepine ansiolitiche attualmente più usate in Italia sono il lorazepam, il bromazepam, il diazepam e l'alprazolam. L'esperienza clinica degli ultimi anni ha dimostrato che gli attacchi di panico e i disturbi ossessivo-compulsivi sono controllati in maniera molto più efficace dagli antidepressivi SSRI che dalle benzodiazepine. Le condizioni patologiche che possono giustificare una prescrizione di benzodiazepine, limitata nella durata, sono, oltre ai disturbi d'ansia, i disturbi del sonno, la depressione e, in associazione con farmaci specifici, la schizofrenia, nonché stati spastici della muscolatura scheletrica su base reumatica e infiammatoria; per il trattamento di queste ultime condizioni viene sfruttata l'attività miorilassante propria di molte benzodiazepine. Molto utile è l'impiego delle benzodiazepine nel trattamento dei pazienti alcolisti, sia per il controllo della sindrome da astinenza sia per la disintossicazione. Alcune benzodiazepine, quali il flunitrazepam e il triazolam, possiedono spiccate proprietà ipnotiche e sono indicate solo per i disturbi del sonno. Va inoltre ricordato che diverse benzodiazepine sono dotate di proprietà anticonvulsivanti: il diazepam o il lorazepam per via endovenosa sono molto utili per controllare attacchi convulsivi causati sia da epilessia che da intossicazioni, e il clonazepam per via orale trova impiego in alcune forme di epilessia. Infine, le benzodiazepine sono usate nell'induzione dell'anestesia chirurgica. Nell'uso come ipnotici le benzodiazepine sono oggi spesso sostituite con successo dallo zolpidem, un derivato imidazopiridinico privo di azioni miorilassanti e anticonvulsivanti. L'unica alternativa moderna alle benzodiazepine per il trattamento dell'ansia generalizzata è il buspirone, un antagonista parziale dei recettori 5-HT1 privo di azioni dirette o allosteriche sui recettori GABAA, la cui efficacia terapeutica induce a ritenere che anche la 5-HT intervenga nella patogenesi dell'ansia: la latenza di due settimane circa nella comparsa dell'effetto terapeutico ne ha tuttavia limitato l'affermazione.
L'impiego di benzodiazepine al di fuori delle indicazioni sopra elencate, attualmente oggetto di discussione, è ritenuto inutile e potenzialmente dannoso: la prescrizione di tali farmaci è spesso attuata in maniera superficiale e la loro assunzione può diventare un'incontrollata automedicazione cronica. I problemi connessi con l'uso cronico delle benzodiazepine sono rappresentati da una eccessiva sedazione e dalla dipendenza fisica. I sintomi riscontrabili nei pazienti che usano cronicamente benzodiazepine, particolarmente evidenti nelle persone anziane che hanno una maggior sensibilità verso questi farmaci, consistono in riduzione dell'attenzione, perdita della memoria, deficit psicomotori, lieve atassia con rischio di cadute; la ridotta attenzione e i deficit psicomotori possono essere causa di incidenti automobilistici o sul lavoro. È inoltre abbastanza frequente l'intossicazione acuta da benzodiazepine per tentato suicidio che, tuttavia, solo raramente è causa di morte, in quanto le benzodiazepine hanno una tossicità acuta molto bassa.
I dati sulla frequenza e sulla gravità della dipendenza dalle benzodiazepine e della conseguente sindrome da astinenza sono stati oggetto di discussioni e di contrastanti valutazioni del rischio. In linea di massima si può ritenere che dopo sei mesi di trattamento con dosi terapeutiche di benzodiazepine ansiolitiche o ipnotiche il 5-10% dei consumatori sviluppi una sindrome da astinenza; questa percentuale sale al 75% dopo 6-8 anni di trattamento. La sindrome da astinenza si manifesta come ripresa dei sintomi per i quali il farmaco è stato prescritto, come ad esempio insonnia e ansia, ai quali possono aggiungersi altri sintomi di diversa gravità, quali disforia, dolori muscolari, depersonalizzazione, fino, nelle forme più gravi, all'insorgenza di convulsioni.
Va infine menzionata la diffusione fra i tossicomani delle benzodiazepine come farmaci di abuso, usate sia da sole, soprattutto il flunitrazepam e il temazepam, per ottenere euforia; sia in associazione, per potenziare l'effetto degli oppiacei e dell'alcool o per attenuare il crash dopo l'euforia conseguente ad assunzione di cocaina o anfetammine. A causa di questo abuso e del rischio di dipendenza, in molti paesi la prescrizione di benzodiazepine è sottoposta a controlli.
Dalla fine degli anni settanta si è assistito da un lato allo sviluppo del dibattito sulla reale utilità dell'uso delle benzodiazepine, in quanto con la sospensione della loro assunzione alcuni pazienti migliorano, ma la qualità della vita di altri pazienti peggiora sensibilmente; dall'altro a quello delle ricerche precliniche che hanno chiarito il meccanismo di azione di queste sostanze e creato le premesse per la scoperta di nuovi ansiolitici. È noto dalla metà degli anni settanta che le benzodiazepine potenziano i meccanismi inibitori centrali mediati dal GABA, in quanto legandosi con alta affinità a un sito posto sulla subunità α del recettore GABAA agiscono come modulatori allosterici positivi del GABA: infatti fanno aumentare la frequenza di apertura dei canali per lo ione cloro indotta dal legame del GABA con il suo recettore. Le benzodiazepine che potenziano gli effetti del GABA sono definite ‛agonisti'. Vi è una seconda classe di ligandi che fa diminuire la frequenza di apertura dei canali per il cloro e induce ansia, stato di veglia, convulsioni: questi sono i modulatori allosterici negativi o ‛agonisti inversi'. I ligandi di una terza classe impediscono la modulazione da parte degli agonisti e degli agonisti inversi, e sono chiamati ‛antagonisti'; il loro prototipo è il flumazenil, che è impiegato nel trattamento delle intossicazioni acute da benzodiazepine. Infine vi è una quarta classe di modulatori allosterici parzialmente positivi o parzialmente negativi, definibili come agonisti parziali o agonisti inversi parziali. Sono attualmente in uso, o in studio, alcuni agonisti parziali caratterizzati da alta affinità per il recettore e bassa attività intrinseca, tra i quali ricordiamo lo zolpidem, l'abecarnil e l'imidazenil; questi farmaci dovrebbero indurre un modesto aumento del tono inibitorio GABA-ergico, sufficiente a esercitare effetto ansiolitico o ipnotico ma non a indurre sedazione, deficit cognitivi e atassia.
Il recettore GABAA è un pentamero formato da 5 subunità. Poiché è noto che ben 16 geni codificano le subunità, è possibile che nel SNC vi sia l'espressione di un numero straordinario di differenti sottotipi di recettori GABAA. È anche possibile che in futuro siano sintetizzati ligandi capaci di modulare specifici sottotipi dei recettori GABAA. È questo uno dei molti campi nei quali prosegue la ricerca di nuovi farmaci ansiolitici, cui si associa quella sui meccanismi neurochimici dell'ansia. È interessante notare che fra il 1990 e il 1995 sono state brevettate nel mondo circa 1.500 nuove molecole dotate di azione ansiolitica: di queste, 184 agiscono sui meccanismi GABA-ergici, circa 500 sui meccanismi serotoninergici e un centinaio interferisce con le azioni centrali della colecistochinina. Ciò dimostra innanzitutto che per l'industria farmaceutica i disturbi d'ansia costituiscono un vasto mercato potenziale e che nella patogenesi dell'ansia si profilano, oltre a fattori che interferiscono con i meccanismi GABA-ergici, anche alterazioni di altri importanti meccanismi della neurotrasmissione.
e) I farmaci per le demenze senili
Fino ai primi anni ottanta le conseguenze economiche dell'invecchiamento della società non erano state ancora pienamente percepite e di nessun farmaco era stata dimostrata, con adeguate sperimentazioni cliniche, l'efficacia nel trattamento della demenza di Alzheimer. Gli ultrasessantacinquenni erano il 9,5% della popolazione italiana nel 1961 e saranno il 20% nel 2000: uno su venti di questi individui soffre di demenza e questo numero sale al 20% negli ultraottantenni. L'elevato costo sociale ed economico di questa malattia spinge a un'attiva ricerca sulla eziopatogenesi delle demenze e allo sviluppo di farmaci che possano prevenirle o ritardarne il decorso. I farmaci oggi disponibili sono riconducibili a due gruppi: gli inibitori delle colinesterasi, la cui efficacia è riconosciuta dagli organismi di controllo americani, e i nootropi, la cui efficacia terapeutica è oggetto di dubbi e riserve. La demenza senile è caratterizzata non solo da disturbi della memoria, ma anche da vari altri sintomi - complesse alterazioni della personalità, delirio, agitazione e disturbi del sonno - per il cui trattamento si ricorre a un uso cauto e limitato di farmaci antipsicotici, ansiolitici e ipnotici, in considerazione della grande suscettibilità dell'anziano ai loro effetti collaterali.
1. Inibitori delle colinesterasi. - Negli Stati Uniti sono stati sinora autorizzati due farmaci appartenenti a questo gruppo, la tacrina nel 1994 e il donepezil nel 1996, e altri sono prossimi alla registrazione. Si tratta di inibitori dotati di selettività diversa per l'acetilcolinesterasi e la butirrilcolinesterasi. L'inibizione di questi enzimi è seguita da un aumento, negli spazi intersinaptici, dei livelli di ACh che, liberata dagli impulsi nervosi, non è idrolizzata dalle esterasi; ne consegue un potenziamento, nel sistema nervoso centrale e negli organi periferici, della funzione dei sistemi a mediazione colinergica. Questi farmaci sono il risultato della ‛ipotesi colinergica' dei disturbi cognitivi della demenza di Alzheimer, proposta agli inizi degli anni ottanta sulla base di numerose ricerche anatomo-cliniche e sperimentali che hanno dimostrato sia la degenerazione dei neuroni colinergici dei nuclei del cervello anteriore - in particolare del nucleo magnocellulare di Meynert - di pazienti affetti da demenza senile, sia il ruolo del sistema colinergico nei processi cognitivi. Purtroppo l'efficacia terapeutica di questi farmaci è limitata, perché solo un terzo dei pazienti trattati risponde con un miglioramento dei processi cognitivi, raramente tale da cambiarne la qualità della vita e ridurne le necessità di assistenza; i loro effetti collaterali, al contrario, sono numerosi e richiedono un attento controllo.
2. Attivatori dei meccanismi cognitivi. - Questa definizione comprende un numeroso ed eterogeneo gruppo di farmaci, fra i quali i più noti sono i nootropi. I nootropi costituiscono un'interessante categoria di farmaci che comprende il piracetam, che ne è stato il prototipo, l'aniracetam, il nefiracetam e altri - tutti caratterizzati dalla capacità di far migliorare l'apprendimento e la memoria in molti modelli animali e in alcune situazioni nell'uomo - privi di evidenti effetti stimolanti e dotati di scarsa tossicità sistemica. Mancano tuttavia sperimentazioni cliniche sufficientemente ampie da eliminare ogni dubbio sulla loro efficacia e utilità al fine di migliorare la vita quotidiana dei pazienti affetti da demenza. La recente dimostrazione che questi farmaci potenziano la trasmissione glutammatergica modulando uno dei sottotipi dei recettori per il glutammato e, direttamente o indirettamente, stimolano anche il sistema colinergico centrale, ha fornito una razionale spiegazione del loro meccanismo di azione e ha fatto aumentare l'interesse nei loro riguardi. I nootropi sono proposti anche per far migliorare apprendimento e memoria in soggetti normali. Gli attivatori dei processi cognitivi comprendono numerose altre sostanze, quali l'acetilcarnitina, la fosfatidilserina, la pentossifillina, alcuni derivati della colina e la nimodipina, bloccante dei canali del calcio: l'efficacia terapeutica nelle demenze di tali farmaci, in commercio in alcuni paesi europei, non è sufficientemente documentata e per essi non è proposto un chiaro meccanismo d'azione.
6. Gli allucinogeni o psicotomimetici
Appartengono a questo gruppo le sostanze (definite anche psichedeliche) responsabili dei ‛disturbi indotti da allucinogeni' secondo la classificazione del DSM-IV (v. American Psychiatric Association, 1994). Esse possono, come in passato, essere suddivise in due classi: a) sostanze (quali LSD, mescalina, derivati delle anfetammine) che producono psicosi funzionali rapportabili alla schizofrenia; b) sostanze, quali gli anticolinergici naturali (atropina, scopolammina) o di sintesi (benztropina, orfenadrina), che inducono una sindrome simile alle psicosi organiche con delirio. È molto raro l'abuso del secondo gruppo di sostanze, le quali, in genere in associazione con altri farmaci, possono invece essere causa di intossicazioni accidentali.
Dopo la diffusione degli allucinogeni negli anni settanta, nel periodo della cultura dei ‛figli dei fiori', il loro uso è diminuito fortemente negli anni ottanta, ma è poi ripreso negli anni novanta. In un'indagine del 1993, circa l'11% degli studenti americani ha dichiarato di aver usato qualche volta sostanze allucinogene. Nessuno crede più che la loro assunzione possa allargare le ‛porte della percezione', facilitare l'attività creativa od offrire la chiave per la comprensione dei meccanismi patogenetici della schizofrenia. Sono finite le ricerche cliniche sull'LSD, ma proseguono quelle sul meccanismo d'azione e sulle azioni tossiche soprattutto dei derivati dell'anfetammina, imposte dalle conseguenze del loro abuso. Oggi gli allucinogeni sono usati per fuggire dalla realtà, per entrare in uno stato di euforia, per rimuovere le inibizioni rendendo così più facile l'inserimento nel gruppo dei coetanei, per annullare la fatica nella ‛febbre del sabato sera'. Con l'eccezione di alcune comunità amerinde che usano ancora la mescalina e la psilocibina - contenute rispettivamente in un cactus, il peyotl (Lophophora williamsii), e nel fungo Psylocibe mexicana - in riti religiosi, gli allucinogeni serotoninergici e adrenergici sono usati a scopo ricreazionale. Gli allucinogeni sono tradizionalmente descritti in un capitolo a parte rispetto alle altre sostanze di abuso per la loro straordinaria capacità di alterare i processi cognitivi, per l'origine del loro impiego che risale alle culture primitive e per il loro meccanismo d'azione. Per quanto riuniti in un unico gruppo nel DSM-IV e in molti trattati, gli allucinogeni tradizionali - LSD, mescalina, psilocibina, ibogaina - e quelli di sintesi, le cosiddette ‛tecno-droghe' di cui l'ecstasy è la più nota, presentano numerose differenze.
L'LSD è straordinariamente attiva, causa allucinazioni già a dosi di 25-50 microgrammi e ha effetti di lunga durata; i derivati dell'anfetammina, invece, sono usati a dosi di molte decine di mg e hanno effetti di durata più breve. Per la sua struttura indolica, simile a quella della 5-HT, l'LSD interagisce con i recettori di questo neurotrasmettitore; tuttavia, è stata dimostrata una correlazione tra affinità per i recettori della 5-HT del sottotipo 5-HT2 e potenza allucinogena anche per la mescalina, la psilocibina e i derivati dell'anfetammina, dimetossimetilanfetammina (DOM) e metilendiossimetamfetammina (MDMA, ecstasy). Tutte queste sostanze possiedono anche o un'azione diretta sui recettori della DA o la capacità di liberare DA dalle terminazioni nervose. Infine, DOM e ecstasy agiscono come neurotossine per i neuroni serotoninergici, dei quali causano la degenerazione nel ratto e presumibilmente anche nell'uomo, dato che è stata osservata una riduzione dei livelli dei metaboliti della 5-HT nel liquor di consumatori cronici. I molti aspetti del ‛viaggio' (trip) buono o di quello cattivo, come vengono chiamati gli effetti dell'LSD, sono stati oggetto di numerose descrizioni (v. psicofarmacologia, vol. V): allucinazioni visive, uditive, spesso sinestesia, sensazioni conseguenti a percezioni sensoriali alterate, per cui suoni possono essere percepiti come immagini e immagini come suoni. Talvolta il ‛viaggio' può finire con la morte, perché depersonalizzazione, distorsione della percezione del proprio corpo e perdita del senso critico danno l'illusione di poter volare e il soggetto si lancia nel vuoto e precipita.
Gli effetti allucinogeni dei derivati anfetamminici sono meno intensi; predominano l'eccitazione, l'euforia, la perdita del senso di fatica, che uniti alla musica ritmica, alla danza, alla presenza di molte persone producono uno stato di trance, ricercato soprattutto nei raves, grandi feste giovanili diffuse prima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti e nel resto dell'Europa negli anni ottanta. L'ecstasy, che in molti paesi è stata dichiarata illegale solo negli ultimi anni, è stata utilizzata per rendere più facile e aperto il rapporto in psicoterapia ed è stata definita anche ‛droga dell'amore' in quanto, secondo Saunders (v., 1995), ‟apre il cuore e permette all'amore di fluire". Disturbi gastrointestinali, emicrania, disturbi cardiocircolatori, ma soprattutto colpi di calore sono gli effetti collaterali più comuni causati da queste sostanze nei consumatori non abituali; inoltre, la perdita di senso critico indotta dai derivati dell'anfetammina è responsabile dei frequenti catastrofici incidenti automobilistici che coinvolgono giovani durante i fine settimana. In Gran Bretagna fra il 1988 e il 1995 sono state segnalate 53 morti riferibili all'ecstasy.
L'uso cronico di allucinogeni, particolarmente di LSD, è raro e induce tolleranza, anche crociata con altri allucinogeni. Gli allucinogeni non danno una vera e propria dipendenza, ma sono descritti casi di craving (desiderio spasmodico) e di uso persistente malgrado ‛viaggi cattivi', caratterizzati da attacchi di panico, e la percezione degli effetti negativi sulla memoria. Gli allucinogeni possono determinare flashbacks, cioè una transitoria ricomparsa di disturbi della percezione analoghi a quelli provati sotto l'effetto del farmaco, mesi o anni dopo l'ultima assunzione; il loro abuso può coesistere con uno stato psicotico cronico, condizione questa abbastanza comune della quale, tuttavia, non è ancora stata chiarita la genesi, se cioè l'uso degli allucinogeni induca una psicosi cronica in un individuo altrimenti normale o se riveli una patologia non manifesta.
7. Gli psicofarmaci di abuso e il loro uso a scopo ricreazionale
Negli ultimi anni, lo studio di queste sostanze ha acquistato nella psicofarmacologia uno spazio più ampio. Ciò è dovuto alla diffusione sempre maggiore delle sostanze stupefacenti, che rappresentano ormai uno dei più gravi problemi della società: ‟la malattia chiamata dipendenza" secondo ‟The lancet". Non è compito della psicofarmacologia spiegare le ragioni di questo fenomeno, che riguarda soprattutto i giovani dai 18 ai 30 anni e che, assieme all'aumento dei casi di depressione, viene ritenuto un indice di quello che i mezzi di comunicazione definiscono come ‛il disagio giovanile'. Possiamo a questo proposito ricordare l'interpretazione che di tale fenomeno ha dato Aldous Huxley (v., 1963) in The doors of perception. Heaven and hell, in un'epoca nella quale l'abuso di droghe era ancora limitato: ‟Che l'umanità in genere possa mai fare a meno dei ‛paradisi artificiali', sembra molto improbabile. La maggior parte degli uomini e delle donne conduce una vita, nella peggiore delle ipotesi così penosa, nella migliore così monotona, che il desiderio di evadere, la smania di trascendere se stessi, sia pure per qualche momento, è, ed è stato sempre, uno dei principali bisogni dell'anima". Pertanto, se prendiamo in considerazione anche alcool, caffeina, nicotina e psicofarmaci, oltre alle sostanze illegali, praticamente la totalità della popolazione dai 15-18 anni in poi ne fa uso e, sulla base di dati americani ritenuti validi anche per l'Italia, il 66% dei giovani ha ‛sperimentato' droghe illegali.
La società moderna deve affrontare il difficile problema di dove porre il limite fra uso legale e illegale degli psicofarmaci, nel tentativo di conciliare la libertà dell'individuo di cercare la sua via alla ‛felicità', con conseguente danno alla sua salute che si traduce in una spesa per la comunità, e il costo sociale e finanziario della repressione. I fattori che giustificano un atteggiamento più o meno repressivo da parte della società sono la potenziale tossicità acuta e cronica della droga, la sua capacità di indurre abitudine (dipendenza) e di dare origine a comportamenti criminali o comunque aberranti. Tuttavia, la valutazione di questi fattori è spesso influenzata da criteri religiosi e politici.
Due elementi interagiscono nell'instaurarsi della tossicomania: le proprietà farmacologiche delle droghe, responsabili dei loro effetti acuti e cronici; e i fattori di rischio - demografici, sociali, ambientali, fisiologici e, secondo recenti ricerche, genetici - che spingono un certo numero di individui a usare saltuariamente o cronicamente le droghe. In questo capitolo tratteremo brevemente del primo dei due elementi. La proprietà farmacologica principale di una droga è la capacità di indurre dipendenza. La tab. III classifica le sostanze psicoattive in base a questa proprietà.
Poiché tutti i farmaci che inducono dipendenza nell'uomo la inducono anche nell'animale da esperimento, è stato possibile fare grandi progressi nella comprensione dei meccanismi della dipendenza. È stato dimostrato negli animali che le sostanze con capacità alta e moderata/alta di indurre dipendenza stimolano il sistema di gratificazione presente nel cervello ed elevano i livelli extracellulari di DA. Il sistema di gratificazione, presumibilmente presente anche nell'uomo, coinvolge numerose strutture cerebrali e ha la caratteristica fisiologica di tradurre in un rinforzo positivo situazioni naturali, quali l'assunzione di cibo, l'attività sessuale, le interazioni sociali, essenziali per la sopravvivenza dell'individuo e la continuità della specie. Il principale mediatore di questo sistema è la DA. È stato osservato che se a un ratto viene data la possibilità di autostimolarsi attraverso una leva che attiva un elettrodo impiantato in uno dei nuclei del sistema di gratificazione, esso tende a stimolarsi in continuazione. Analogamente, il ratto che ha la possibilità di iniettarsi eroina o cocaina ripete continuamente la somministrazione, sviluppando un comportamento di costante ricerca del farmaco simile a quello del tossicomane. Ciò è dovuto inizialmente alla ricerca di un'immediata gratificazione, o rinforzo, data dal farmaco; in secondo luogo, il ripetersi delle somministrazioni porta rapidamente all'instaurarsi di una complessa catena di modificazioni neurochimiche dei sistemi di neurotrasmissione che porta alla tolleranza e alla necessità della presenza dello psicofarmaco per il normale funzionamento del sistema. Si instaura così la dipendenza, che si manifesta con la sindrome da astinenza se la somministrazione è interrotta. Tuttavia, non tutti i farmaci che causano dipendenza esercitano queste azioni: l'alcool aumenta i livelli di DA, ma il suo effetto sul sistema di gratificazione è difficile da dimostrare; la caffeina attiva il sistema dopamminergico, ma inibisce il sistema di gratificazione. Le benzodiazepine inducono un certo grado di autosomministrazione nel ratto, ma inibiscono sia il sistema di gratificazione sia l'attività dei neuroni dopamminergici. Presumibilmente altri sistemi neuronali, mediati dall'adenosina e dal GABA, potrebbero essere coinvolti nell'instaurarsi della dipendenza.
1. Sostanze di abuso legali. - Caffeina, alcool e nicotina sono le sostanze di abuso accettate dalla società occidentale, sia pure con alterne vicende. La caffeina, assunta sotto forma di caffè, tè, bevande dissetanti e preparazioni farmaceutiche per combattere il raffreddore e analgesiche, è la sostanza psicoattiva più diffusa nel mondo. Negli Stati Uniti l'80% della popolazione consuma quotidianamente caffeina; in Italia il consumo annuo pro capite di caffè supera i 4 kg. Il motivo dell'uso della caffeina sta nella sua capacità di provocare un modesto grado di stimolazione del sistema nervoso centrale che si traduce in aumento dell'attenzione e attenuazione del senso di fatica. Il suo meccanismo di azione consiste nell'antagonismo non selettivo per i recettori dell'adenosina che, prodotta dalla degradazione dell'ATP, è presente nel cervello, ove esercita il ruolo di neuromodulatore ad azione preferenzialmente inibitoria. La caffeina possiede una bassa capacità di indurre tossicomania e una ridotta tossicità; tuttavia non è raro che nei consumatori di più di una decina di tazze di caffè al giorno compaiano tolleranza e dipendenza, disturbi cardiovascolari, insonnia e ansia.
La storia e le azioni dell'alcool etilico, il cui uso è iniziato circa 8.000 anni a. C., sono già state descritte (v. psicofarmacologia, vol. V). Il suo largo e tradizionale consumo sotto forma di vino, birra, liquori, il suo posto nella religione, nella cultura di molti paesi, la sua importanza economica fanno sì che la regolamentazione del suo uso sia affidata soprattutto all'autocontrollo da parte dei consumatori, anche se esso possiede una moderata capacità di indurre dipendenza e una rilevante tossicità acuta e cronica, e se la sua assunzione può indurre un comportamento antisociale e violento. Negli Stati Uniti l'alcolismo è diffuso tra il 5-10% degli uomini e il 3-5% delle donne; anche in Italia le malattie somatiche associate all'abuso di alcool sono diventate uno dei maggiori problemi della salute (basti pensare alla cirrosi e al cancro del fegato). Per questa ragione le ricerche precliniche e cliniche sull'alcool sono state e sono tuttora molto intense e hanno consentito sia di individuare un'importante componente genetica che induce all'abuso, sia di dimostrare che, pur non avendo propri siti recettoriali, l'etanolo interferisce con recettori di altri neurotrasmettitori; esso, infatti, inibisce i recettori NMDA (N-metil-D-aspartato) del glutammato e si lega al complesso molecolare del recettore GABAA, potenziando l'inibizione mediata dal GABA, effetto questo che può essere antagonizzato da alcune benzodiazepine. Occorre ancora ricordare che l'etanolo attenua la risposta dell'adenilatociclasi all'attivazione da parte di specifici agonisti, che l'alcolismo cronico induce una degenerazione dei nuclei colinergici del cervello anteriore, causa di disturbi della memoria, e infine che la terapia della tossicomania da alcool è stata perfezionata con l'introduzione di nuove sostanze, fra le quali l'idrossibutirrato.
La nicotina possiede una capacità di indurre tossicomania piuttosto alta, tanto che la dipendenza da nicotina è descritta dal DSM-IV: solo il 5% dei fumatori che intende smettere vi riesce senza un aiuto farmacologico e psicologico. Inoltre, sia la nicotina che il fumo del tabacco sono la causa di malattie cardiovascolari e polmonari. L'elevato costo per la comunità della patologia da fumo ha causato negli anni ottanta un drastico cambiamento nell'atteggiamento della società dei paesi occidentali nei riguardi del fumo, che, soprattutto negli Stati Uniti, ha determinato l'introduzione di molte limitazioni all'uso del tabacco e una consistente diminuzione nel numero dei fumatori. La nicotina è un agonista dei recettori nicotinici per l'acetilcolina nel sistema nervoso; negli ultimi anni sono stati identificati numerosi sottotipi di recettori nicotinici nel cervello ed è stato dimostrato che la nicotina attiva il sistema dopamminergico sul quale agiscono anche cocaina, anfetammina e morfina.
2. Sostanze di abuso illegali: marijuana, morfina e analoghi, cocaina, anfetammine, fenciclidina. - Se da un lato i danni per la salute spingono la società a limitare l'uso del tabacco e a sorvegliare quello dell'alcool, dall'altro il consumo illegale della marijuana si è tanto esteso negli ultimi anni da suscitare un ampio movimento in favore di una sua legalizzazione, soprattutto per le difficoltà, il costo e le conseguenze penali cui vanno incontro i giovani a causa dell'attuale politica repressiva. Non vi è dubbio che la marijuana e le altre preparazioni di Cannabis sativa (var. indica) possiedono una capacità moderata/bassa di indurre dipendenza e una bassa tossicità acuta, tanto che gli effetti di una singola dose non sono più gravi di quelli di qualche birra. Tuttavia, gli effetti sulla memoria, la sindrome amotivazionale, gli attacchi di panico, la depressione dei sistemi immunitari, gli effetti sui polmoni osservati nei consumatori abituali o cronici vanno considerati con preoccupazione e potrebbero diventare a loro volta motivo di grave danno per la salute e di elevato costo per la comunità, nel caso di una liberalizzazione. Il principio attivo contenuto nella Cannabis è il tetraidrocannabinolo, la cui farmacologia è stata estesamente studiata negli ultimi anni. È stato identificato e clonato il suo recettore specifico, accoppiato a proteine G e presente in molte regioni cerebrali e in tessuti periferici; è stato anche scoperto un ligando endogeno di questo recettore, l'etanolammide dell'acido arachidonico o anandammide. Infine, il tetraidrocannabinolo e alcuni suoi derivati di sintesi esercitano azioni antiemetica e antiemicranica e riducono la pressione endoculare nel glaucoma, per cui è in discussione il loro impiego a fini terapeutici.
I derivati dell'oppio (di cui l'eroina è il principale), la cocaina e le anfetammine sono i più pericolosi stupefacenti a larga diffusione; negli Stati Uniti, secondo dati del DSM-IV riferiti a un anno, ne fa uso rispettivamente il 2,5%, il 3% e l'1,7% della popolazione. I loro meccanismi di azione sono in buona parte noti: gli oppioidi inducono sia l'analgesia, sia gli effetti cercati dai tossicomani - come euforia, piacere, sedazione - agendo su recettori specifici i cui ligandi endogeni sono le endorfine. I complessi effetti stimolanti della cocaina sono dovuti al blocco della ricaptazione della DA e della 5-HT e al conseguente potenziamento dell'azione di questi due neurotrasmettitori. Le anfetammine liberano DA e NA dalle terminazioni nervose: alla liberazione della prima sono attribuite l'euforia e l'aumento della motilità, a quella della seconda l'effetto antifatica e di veglia. Tuttavia, come abbiamo già visto, la dipendenza è indotta da tutte queste sostanze con un meccanismo comune sul sistema di gratificazione. Non bisogna dimenticare che la morfina e molti altri oppioidi sono insostituibili analgesici per il controllo di molte forme di dolore, sia acuto che cronico.
La fenciclidina, impiegata in via sperimentale come anestetico per via endovenosa e abbandonata per il suo potere allucinogeno, è usata, attualmente meno che in passato, per la complessa sintomatologia di depersonalizzazione, allucinazioni ed eccitazione (fino al comportamento violento) che essa induce, soprattutto se fumata. Molto interesse hanno suscitato le analogie fra sintomatologia da fenciclidina e alcuni sintomi della schizofrenia, come pure il meccanismo di azione di questa sostanza, che sembra dovuto a un blocco dei recettori del tipo NMDA per il glutammato: anche su tali elementi, fra gli altri, è basata la teoria che attribuisce la patogenesi della schizofrenia a una disfunzione di sistemi neuronali mediati dal glutammato.
8. Psicofarmacologia e società
Se teniamo conto degli psicofarmaci usati a scopo terapeutico e di quelli usati e abusati a scopo ricreazionale non è esagerato affermare che la psicofarmacologia pervade ampiamente la società moderna e ne determina molti comportamenti. Sul versante terapeutico, la chiusura dei manicomi in Italia e la radicale modificazione dell'assistenza psichiatrica sono una dimostrazione dell'impatto positivo, sia pure con qualche riserva, che gli psicofarmaci hanno sulla società. Sul versante delle sostanze di abuso, se nel secolo scorso il commercio dell'oppio fu causa di una guerra fra Gran Bretagna e Cina, oggi il commercio della cocaina condiziona la vita sociale e politica di alcune repubbliche sudamericane, e la repressione del contrabbando di eroina e cocaina richiede un impegno economico che diviene ogni giorno più gravoso da parte dell'Europa e degli Stati Uniti. Va inoltre rilevato il fatto che la grande criminalità organizzata e la microcriminalità cittadina, stimolate l'una dai profitti derivanti dal commercio illegale, l'altra semplicemente dalla necessità di procurarsi la dose quotidiana di droga, sono diventate il maggior problema per l'ordine pubblico in tutto il mondo.
Libri, articoli di giornali, siti su Internet forniscono informazioni sugli psicofarmaci, mentre il problema della liberalizzazione della marijuana e la scelta della linea di condotta più vantaggiosa per la comunità nei riguardi delle droghe più pericolose sono costantemente oggetto di discussioni a tutti i livelli politici, e si trascurano spesso i danni immediati o futuri per la salute a favore di posizioni liberistiche dettate da problemi contingenti. Sembra che la comunità umana sia sempre più alla ricerca di quella ‟droga perfetta [...] euforizzante, narcotica, piacevolmente allucinogena" immaginata negli anni trenta da Huxley (v., 1932) nel libro Brave new world.
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