Abstract
L’impiego pubblico subisce nel tempo profonde trasformazioni. Il regime pubblicistico, consolidatosi all’inizio del Novecento, alla fine del secolo lascia spazio ad un’ampia privatizzazione dei rapporti di lavoro. La centralità in questo quadro acquisita dalla fonte contrattuale collettiva, al termine del primo decennio del secolo attuale, viene rivista a favore del recupero di centralità della legge. Gli interventi del legislatore incrementano nel tempo i profili di specialità del rapporto di lavoro, per cui attualmente l’impiego alle dipendenze dell’amministrazione è in gran parte un rapporto di lavoro di diritto privato speciale.
La disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle p.a. si è profondamente trasformata nel tempo e nella sua evoluzione ha descritto una sorta di parabola, prima allontanandosi dal modello di regolazione dei rapporti di lavoro privati nel quale era inizialmente inclusa, e poi tornando verso quel modello, che nel frattempo, però, si era a sua volta trasformato.
Il punto di partenza di questo percorso si colloca nella seconda metà dell’Ottocento ed è segnato dalla identità della disciplina del rapporto di lavoro pubblico e di quello privato. L’ambito su cui incide la regolazione giuridica in questa fase è minimo e riguarda unicamente lo scambio fra prestazione lavorativa e corrispettivo. Fino alla fine del secolo, infatti, diritti e obblighi del datore di lavoro e del lavoratore sono, nel pubblico come nel privato, quelli nascenti dal vincolo contrattuale. Accanto alla disciplina di tali aspetti residua un’ampia porzione del rapporto che, non trovando una emersione a livello contrattuale, resta, per così dire, sotto la superficie del diritto, nell’area del non regolato. Se nel privato è il potere conformativo del datore di lavoro a rimanere nell’ombra, nel pubblico è l’autodeterminazione organizzativa della p.a. che, pur incidendo sul rapporto con i lavoratori, si muove in una sfera propria, regolata da “leggi amministrative”, così qualificate per indicarne l’inidoneità a fondare diritti e obblighi e, di conseguenza, la non giustiziabilità.
Come è noto, è proprio la percezione della necessità di misurare la legittimità del potere attribuito dalle “leggi amministrative” che porta nel 1889 alla istituzione di una giurisdizione, quella del Consiglio di Stato, in grado di conoscere dell’applicazione di esse. In questo modo si promuove anche l’emersione dalla sfera interna alla superficie del diritto di quella parte del rapporto di impiego pubblico che era rimasta sommersa nell’indistinta area del potere organizzativo dell’amministrazione. La duplice natura dell’impiego pubblico è così finalmente tutta declinata in ambito giuridico: da una parte la dimensione privata dello scambio fra lavoro e retribuzione, dall’altra, quella pubblica, collegata all’esercizio del potere organizzativo dell’amministrazione incidente sul rapporto di lavoro.
Da questa fase in poi, anche ad opera del giudice amministrativo, che peraltro a partire dal 1923 acquisirà la giurisdizione esclusiva in materia, prende avvio il processo giuridico, ma anche culturale, di “pubblicizzazione” del lavoro alle dipendenze della p.a., processo che finirà per attrarre sotto il manto della disciplina pubblica anche alcuni aspetti della relazione lavorativa prima ricostruiti come privati. è il caso, ad esempio, della retribuzione del lavoratore pubblico, che in una prima fase verrà trasfigurata da diritto nascente dalla relazione lavorativa ad attribuzione patrimoniale in dotazione all’organo e in funzione di continuità del servizio e di decoro dell’impiegato che lo impersona. Del lavoro pubblico il giudice enfatizzerà, infatti, il carattere di prestazione che non si esaurisce nella messa a disposizione di una semplice attività lavorativa, ma che comporta la partecipazione all’esercizio della cosa pubblica. Ciò servirà anche a sterilizzare la dimensione contrattuale del rapporto lavorativo, contrapponendo ad essa l’idea di uno status giuridico integralmente regolato dalla legge che corrisponde all’incorporazione dell’individuo nell’organizzazione della quale è divenuto parte e nell’ambito della quale è quindi fisiologicamente assente alcun conflitto.
Il primo consolidamento di una disciplina speciale del rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a. avviene già all’inizio del Novecento con il R.d. 22.11.1908, n. 693 che approva il testo unico delle leggi sullo stato degli impiegati.
Nel 1923 due interventi ravvicinati, il R.d. 11.11.1923, n. 2395 e il R.d. 30.12.1923, n. 2960, disciplinano la speciale carriera dei dipendenti pubblici regolandone concorso e avanzamenti anche attraverso la configurazione legislativa dei gradi e delle qualifiche del personale.
L’avvento della Costituzione, pur non imponendo, diversamente da quanto accade in altre costituzioni europee, un modello pubblicistico dell’impiego alle dipendenze della p.a., non modifica il quadro. La codificazione completa del sistema del pubblico impiego, secondo una logica di piena specialità pubblicistica rispetto a quello privato, avviene infatti poco dopo, a metà del secolo scorso, con l’adozione dei 386 articoli del Testo unico degli impiegati civili dello Stato, il d.P.R. 10.1.1957, n. 3.
L’idea di uno status speciale del lavoratore pubblico trova un’importante teorizzazione anche a livello scientifico. Uno dei primi e più noti approcci teorici alla questione è quello di Santi Romano (Romano, S., I poteri disciplinari della pubblica amministrazione, in Scritti minori, Milano, 1950, II, 75) che inquadra il rapporto lavorativo con l’amministrazione nella teoria degli ordinamenti minori, aprendo definitivamente la strada alla ricostruzione del pubblico impiego come ordinamento interno. Sulla scia di tale impostazione prende corpo l’idea che lo status speciale di funzionario pubblico sia connesso a quello di cittadino e in particolare di quest’ultimo riproduca, se pure sotto altro profilo, le dimensioni della appartenenza, della partecipazione e della relazione di sottomissione-protezione con lo Stato. L’eco di tale ricostruzione si coglie ancora alla fine degli anni Sessanta in importanti contributi di dottrina che continuano ad inquadrare la relazione fra lavoratore e amministrazione al di fuori della dinamica contrattuale, proponendo una visione dell’impiego alle dipendenze di quest’ultima come forma di partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica (Pastori, G., La burocrazia, Padova, 1967).
La tutela dei lavoratori pubblici all’inizio della seconda metà del Novecento è più articolata di quella che il giudice del lavoro è in grado di offrire ai lavoratori privati. La sottoposizione del rapporto di impiego con la p.a. alla giurisdizione amministrativa se, da un lato, contribuisce alla sua pubblicizzazione, dall’altro consente al giudice di operare un sindacato sul potere datoriale della p.a. molto più penetrante di quello del giudice del lavoro nei confronti dei datori di lavoro privati, offrendo di fatto una tutela più consistente ai lavoratori, nonostante l’inquadramento della gran parte delle situazioni soggettive di cui sono portatori non come diritti, ma come interessi legittimi. A partire dagli anni Settanta si assiste però ad un progressivo arricchimento delle garanzie per il lavoro privato (l. 20.5.1970, n. 300) e significativamente anche il giudice ordinario subisce una attrazione verso il modello di tutela del lavoratore pubblico, come testimonia la nota e controversa giurisprudenza della Cassazione che, richiamandosi a categorie quali l’interesse legittimo di diritto privato e l’eccesso di potere datoriale, apre la strada al sindacato sui poteri del datore di lavoro privato nella gestione del rapporto (Cass., S.U., 2.11.1979, n. 5688; Cass., S.U., 4.1.1980, n. 1).
Mano a mano che le due discipline del lavoro pubblico e di quello privato vanno avvicinandosi, anche la Corte costituzionale non manca di sanzionare l’irragionevolezza di alcune differenze nella tutela dei lavoratori, contribuendo all’uniformazione di due ambiti di regolazione che, pur rimanendo ambientati in sistemi diversi, vanno sempre più avvicinandosi nei contenuti.
Contemporaneamente anche le organizzazioni sindacali premono per avere un ruolo più consistente nella regolazione del rapporto pubblico e promuovono l’ingresso della contrattazione collettiva in questo ambito. All’inizio degli anni Ottanta, la l. 29.3.1983, n. 93 introduce il meccanismo del recepimento del contratto collettivo tramite regolamento, utilizzando tale fonte unilaterale per inserire nella disciplina pubblicistica del rapporto di impiego i contenuti negoziali che già regolavano il rapporto di lavoro privato.
All’inizio degli anni Novanta le differenze fra le due discipline del lavoro, storicamente divise dalla diversa natura giuridica dei rapporti, sono oramai minime e la strada per una nuova uniformazione è definitivamente segnata.
La l. 23.10.1992, n. 421 porta il processo alle sue estreme conseguenze e delega il Governo a ricondurre i rapporti di lavoro con le amministrazioni sotto la disciplina del diritto civile, a prevederne la regolazione mediante contratti individuali e collettivi e a completare il quadro mediante l’attribuzione delle controversie di lavoro riguardanti i pubblici dipendenti al giudice ordinario. La delega viene attuata con il d.lgs. 3.2.1993, n. 29, seguito da alcuni successivi decreti correttivi. Ma il processo prosegue e il legislatore pochi anni dopo adotta la l. 15.3.1997, n. 57 che autorizza il successivo d.lgs. 31.3.1998, n. 80 a dare luogo a quella che è stata definita la “seconda privatizzazione”. Con essa si completa la riconduzione al regime di diritto privato del rapporto di lavoro, oltre che del personale, di tutta la dirigenza pubblica e si sancisce il definitivo passaggio della giurisdizione al giudice ordinario. La disciplina in materia viene unificata nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165, che raccoglie le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle p.a.
Dal processo di privatizzazione la legge esclude subito alcune categorie di lavoratori, la cui disciplina resta regolata dal diritto pubblico. Si tratta dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, degli avvocati e procuratori dello Stato, del personale militare e delle forze di polizia di Stato, del personale della carriera diplomatica e prefettizia, dei funzionari di autorità indipendenti e dei professori universitari.
La disciplina del lavoro di tutti gli altri dipendenti pubblici è regolata dal codice civile, dalle leggi sul lavoro subordinato nell’impresa e dalla contrattazione collettiva. A quest’ultima si riconosce inizialmente l’importante ruolo di proteggere l’uniformità fra lavoro pubblico e privato, consentendole, a meno che la legge non lo vieti espressamente, di derogare, rendendole così inapplicabili, alle norme che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle p.a. o a categorie di essi. Le uniche differenze che l’impianto normativo della privatizzazione del pubblico impiego ammette da subito, in quanto necessarie e funzionali alla specificità del rapporto di lavoro privato con la p.a., sono di due tipi. La prima riguarda la sottrazione alla privatizzazione del momento selettivo di coloro che accederanno all’impiego: il concorso resta, cioè, una procedura amministrativa di carattere pubblicistico regolata dal diritto pubblico e sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo. Le seconde, invece, pur restando ambientate nel diritto privato, configurano alcuni profili di specialità del rapporto. Si tratta delle regole che disciplinano in maniera diversa da quanto accade nel privato le conseguenze dell’esercizio di fatto di mansioni superiori e della violazione delle regole per l’assunzione, le progressioni interne di carriera, l’autorizzazione allo svolgimento di attività al di fuori dell’orario di lavoro e, attualmente, la valutazione delle performance e il conferimento delle premialità di risultato.
La privatizzazione del rapporto di lavoro in Italia, diversamente da quanto accade nei principali Paesi europei, vede coinvolta anche la dirigenza pubblica, ivi compresa quella di vertice. Si tratta di una scelta particolare che differenzia il nostro modello organizzativo dagli altri sistemi in cui i lavoratori che partecipano direttamente all’esercizio delle funzioni amministrative sono legati all’amministrazione da rapporti di diritto pubblico. In Italia tale più ampia privatizzazione dei rapporti lavorativi è stata resa possibile dal convergere di due elementi. Il primo attiene, come accennato, alla mancanza in Costituzione di una opzione per il regime pubblico della relazione che lega all’amministrazione non solo il personale che svolge funzioni strumentali, ma anche i funzionari che ricoprono organi titolari di competenze che abilitano all’esercizio di vere e proprie funzioni pubbliche. La nostra Carta fondamentale chiede al legislatore di normare l’organizzazione dell’amministrazione in modo da garantirne imparzialità e buon andamento, senza imporre alcuna scelta in ordine al regime giudico del rapporto fra di essa e i propri dipendenti, ivi compresi i funzionari dirigenti (in questo senso si veda la lucida ricostruzione di Orsi Battaglini, A., Fonti normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, in Gior. dir. lav. rel. ind., 1993, 462; ma già Id., Autonomia collettiva, principio di legalità e struttura delle fonti, ivi, 1983, 237).
L’altro aspetto che ha permesso al nostro modello di estendere la privatizzazione del rapporto di lavoro ai dirigenti è, invece, collegato alla scelta di concentrare sulla dimensione organizzativa molta parte delle garanzie in ordine all’esercizio imparziale del potere amministrativo. La decisione sulle competenze da affidare ad un organo e conseguentemente al suo titolare, nonché le regole in ordine alle modalità di svolgimento dell’azione amministrativa che in queste è compresa, sono rimesse a fonti e poteri di diritto pubblico, consentendo che il rapporto di lavoro del dirigente e gli atti di incarico siano ricondotti, senza rischi per la funzione, al diritto privato (Pioggia, A., La competenza amministrativa. L’organizzazione fra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001). Anche la Corte costituzionale ha avuto modo di confermare questo impianto, ricordando come, alla luce del nostro testo fondamentale, l’imparzialità «non debba essere garantita necessariamente nelle forme dello statuto pubblicistico del dipendente, ben potendo viceversa trovare attuazione in un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici» (C. cost., 25.7.1996, n. 313). A partire da questa pronuncia e per gli anni successivi i giudici costituzionali non hanno però mancato di rimarcare l’importanza che anche la disciplina privata che regola lo status lavorativo e professionale della dirigenza debba curare il rispetto dell’imparzialità, che il nostro ordinamento garantisce anche attraverso il principio di distinzione fra indirizzo politico e gestione amministrativa. Alla luce di tale principio, che rappresenta un’altra specificità del modello italiano, ai dirigenti sono riservati tutti i poteri di gestione e amministrazione attiva, mentre le competenze del vertice politico sono limitate all’assunzione delle scelte e all’adozione degli atti qualificabili come di indirizzo. La posizione che la dirigenza assume in questo quadro impone una particolare attenzione alla cura dell’imparzialità di coloro che ricoprono questa posizione, richiedendo anche alla disciplina privata del rapporto di tenere conto, con le proprie regole, dell’esigenza di rendere il dirigente immune da indebite pressioni interne ed esterne.
La privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione non ha avuto unicamente la funzione di riportare ad uniformità le discipline della relazione lavorativa nel pubblico e nel privato, ma ha consentito anche un allentamento della rigidità che aveva caratterizzato la gestione delle prestazioni dei lavoratori nel previgente sistema del pubblico impiego. Il meccanismo delle piante organiche, in cui ciascuno vedeva identificata la propria minuta posizione nella distribuzione degli uffici, delle qualifiche funzionali (non meno di otto) e soprattutto dei puntuali elenchi delle mansioni collegate a ciascuna di esse rendeva il personale pubblico una risorsa “rigida”, il cui impiego produttivo non poteva andare molto oltre la gestione amministrativo burocratica di dinamiche fortemente regolate.
L’art. 53 del d.lgs. n. 29/1993 contiene già un primo elemento di rottura di tale rigidità, prevedendo la possibilità che il prestatore di lavoro sia adibito a mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale nella quale è inserito. Anche la pianta organica, intesa come previa e rigida distribuzione del personale fra i singoli uffici, viene sostituita dalla dotazione organica e dall’assegnazione del personale alle strutture a cui sono preposti i dirigenti, senza l’indicazione dell’ufficio di destinazione. Ma la svolta effettiva avviene grazie alla stagione contrattuale della fine degli anni Novanta che sancisce una profonda revisione degli ordinamenti professionali nei diversi comparti, sostituendo ai livelli le più ampie aree di inquadramento (non più di quattro), e abolendo di fatto i mansionari a favore di declaratorie esemplificative di compiti collegati ai diversi profili professionali.
La maggiore flessibilità che in questo modo si realizza è coerente con l’attribuzione ai dirigenti di strumenti che dovrebbero rendere praticabile un impiego più elastico delle risorse umane attraverso scelte orientate al perseguimento dell’efficienza nella gestione amministrativa. In questo quadro si inserisce coerentemente la previsione dell’art. 5 del d.lgs. n. 165/2001 che riconosce ai dirigenti «la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» nella organizzazione del personale e nella gestione della prestazione lavorativa. Se il rapporto di lavoro si costituisce con l’amministrazione di appartenenza, i poteri datoriali, con particolare riferimento a quelli che consentono la conformazione della prestazione lavorativa alle esigenze dell’organizzazione nella quale si è inseriti, sono affidati ai dirigenti che interpretano il ruolo del datore di lavoro nel rapporto con il personale alle dipendenze dell’amministrazione. La possibilità di impiegare le risorse umane in maniera funzionale alle finalità da raggiungere è assicurata anche dall’attribuzione ai dirigenti del potere di fare scelte di minuta organizzazione, sempre nell’esercizio della capacità di diritto privato, e con ciò di conformare anche la distribuzione dei compiti e dei carichi di lavoro fra gli uffici alle esigenze operative della struttura diretta.
Le fonti che disciplinano il rapporto di lavoro con la p.a. si articolano su di un duplice livello: quello normativo, occupato dalla disciplina comune contenuta nel codice civile e nelle leggi sul lavoro subordinato e da alcune norme speciali la cui applicazione è limitata ai lavoratori pubblici, e quello contrattuale, di cui sono protagonisti il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, la contrattazione integrativa a livello di singola amministrazione e, infine, i contratti individuali.
La competenza ad adottare gli atti di regolazione che si collocano al livello normativo, con particolare riferimento alle norme speciali, deve essere ricostruita alla luce dell’attuale distribuzione del potere legislativo, così come risulta dalla modifica costituzionale adottata con l. cost. 18.10.2001, n. 3.
Prima della privatizzazione del rapporto di lavoro, la stretta attinenza della disciplina dell’impiego pubblico all’organizzazione degli uffici attraeva nell’ambito organizzativo diversi aspetti della relazione lavorativa pubblica. Nella versione originaria dell’art. 117 Cost. alle regioni spettava la competenza concorrente a disciplinare l’«ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla regione» e a ciò si ritenevano collegati molti elementi del rapporto di lavoro.
Nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione ha modificato la distribuzione del potere legislativo fra Stato e regioni ed ha incluso fra le materie di competenza esclusiva della legge statale quella relativa all’ “ordinamento civile” (art. 117, co. 2, lett. l, Cost.).
L’avvenuta migrazione nell’area del diritto privato della disciplina del rapporto di impiego alle dipendenze delle p.a. consente oggi di ricostruire in maniera molto ampia la competenza della legge dello Stato a regolare le relazioni lavorative con l’amministrazione. In tale ambito rientrano senz’altro tutti gli aspetti della disciplina lavorativa che attengono alla regolazione civilistica del rapporto, quali esemplificativamente la natura del contratto, i dritti e obblighi delle parti, la giurisdizione o il regime del licenziamento. Gli istituti mantenuti in regime pubblicistico, quelli assoggettati ad un “diritto misto” pubblico e privato, quelli collegati all’organizzazione, quantunque privata, sono da ritenersi, invece, estranei all’ordinamento civile in senso stretto e quindi rimessi alla competenza regionale esclusiva. Ciò vale, ad esempio, per le modalità di accesso all’impiego (nell’ambito del vincolo costituzionale dell’accesso per concorso), per la definizione degli organici o per il regime della mobilità e delle progressioni interne.
In questo quadro non bisogna dimenticare gli enti locali, ai quali l’art. 114 Cost. riconosce potestà statutaria e regolamentare. In tale ambito di autonomia possono senz’altro ritenersi incluse scelte incidenti sulla relazione lavorativa, soprattutto dei dirigenti, quali quelle relative al contenuto e ai livelli degli incarichi dirigenziali, o alla verifica dei risultati.
Naturalmente tale schematica ricostruzione non è esaustiva di tutte le questioni che si pongono in materia di riparto di competenze normative sulla disciplina dell’impiego alle dipendenze delle diverse p.a.. Molte altre sono infatti le materie di competenza statale esclusiva la cui considerazione può entrare in gioco: dalla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio», alla «previdenza sociale» fino agli «organi di governo … di comuni, province e città metropolitane». Al tempo stesso anche le materie di competenza statale e regionale concorrente, quali «tutela e sicurezza del lavoro», «professioni», «tutela della salute», «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica» possono legittimare le regioni alla regolazione di molti aspetti della relazione lavorativa, così come a maggior ragione può dirsi a proposito di quelle di competenza regionale esclusiva, come «istruzione e formazione professionale».
Al termine del primo decennio del secolo attuale il legislatore è tornato sulla disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a. con la l. 4.3.2009, n. 15 e il successivo d.lgs. 27.10.2009, n. 150. Tale intervento normativo si qualifica come scelta di forte recupero di spazio per la legge statale perlomeno sotto due profili. Il primo riguarda il ridimensionamento del ruolo della contrattazione, non soltanto attraverso la limitazione del suo ambito di intervento, dal quale ora sono escluse, fra le altre, le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, alle prerogative dirigenziali o al conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali, ma soprattutto per il tramite del capovolgimento del previgente rapporto fra contrattazione e legge. Attualmente, infatti, il contratto potrebbe derogare alle norme speciali dettate dalla legge per i lavoratori della p.a., soltanto laddove fosse la legge stessa a consentirlo espressamente. A limitare ulteriormente l’incidenza del contratto collettivo nella disciplina dell’impiego hanno poi contribuito anche i blocchi della contrattazione imposti dagli interventi normativi per la stabilizzazione finanziaria susseguitisi a partire dal 2010.
Sotto il secondo profilo il d.lgs. n. 150/2009 sembra caratterizzato da una spinta ad un recupero di centralismo della legge statale anche nel sistema delle relazioni fra livelli di governo, dal momento che riconosce ad essa l’autorità di ridisegnare profondamente il funzionamento delle diverse amministrazioni attraverso la regolazione di molti aspetti che riguardano l’organizzazione più che la disciplina civile della relazione lavorativa.
Dal punto di vista dei contenuti l’intervento normativo del 2009 si qualifica per il forte investimento sulla valutazione delle performance organizzative ed individuali della dirigenza e sulla imposizione di una sempre più stretta interconnessione fra la valutazione, la retribuzione e le responsabilità attribuite ai dirigenti.
Un aspetto che sin dall’inizio caratterizza la specialità del rapporto di impiego privato alle dipendenze della p.a. è quello dei doveri di comportamento dei dipendenti. L’esercizio della propria attività professionale all’interno dell’amministrazione è, infatti, fonte di specifiche forme di doverosità, che vanno oltre il mero impegno assunto contrattualmente a mettere a disposizione la propria prestazione lavorativa in cambio della retribuzione prevista in sede contrattuale. Basti a questo fine riferirsi allo statuto costituzionale del pubblico dipendente in cui sono contenuti il dovere di servire in modo “esclusivo” la Nazione (art. 98, Cost.) e di operare “con disciplina ed onore” (art. 54, Cost.).
Della articolazione di siffatti doveri in tipologie di comportamenti attesi si fa carico il Codice di comportamento, adottato dal Governo e oggetto di necessaria specificazione da parte delle singole amministrazioni (art. 54, d.lgs. n. 165/2001), la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è invece da definirsi in sede contrattuale. Il complicato e di fatto non troppo efficiente collegamento tra doveri stabiliti unilateralmente in sede pubblica e sanzioni, da individuarsi invece attraverso il contratto, ha contribuito a indebolire l’efficacia di tale sistema stimolando il legislatore ad intervenire di nuovo per precisarne alcuni aspetti.
Nel 2009 con il d.lgs. n. 150 si è provveduto a ridimensionare il ruolo del contratto anche sotto questo profilo, regolando il procedimento disciplinare e prevedendo alcune ipotesi di infrazione e sanzione per la violazione dei doveri di comportamento. Sulla materia è poi tornata anche la l. 6.11.2012, n. 190, avente ad oggetto la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella p.a.. Attraverso la riformulazione dell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 il legislatore ha meglio definito il raccordo tra doveri pubblici e sanzioni contrattuali e ha riconosciuto una autonoma valenza, non solo giuridica, ma anche a fini disciplinari, alle disposizioni del Codice di comportamento (Carloni, E., Il nuovo Codice di comportamento ed il rafforzamento dell’imparzialità dei funzionari pubblici, in Istituzioni del federalismo, 2013, 377).
Tale ultimo intervento normativo rappresenta il più importante tentativo di valorizzazione dello statuto costituzionale dei funzionari pubblici dopo l’entrata in vigore del nostro testo fondamentale. Ciò avviene essenzialmente attraverso un investimento sull’etica pubblica e sulla dimensione soggettiva dell’imparzialità. Il legislatore, nella consapevolezza dell’insufficienza della repressione penale nel contenimento dei fenomeni corruttivi, ha previsto, oltre al rafforzamento della responsabilità disciplinare, una serie di misure di trasparenza, regole sulle condotte, incompatibilità ed inconferibilità relative agli incarichi, e misure di prevenzione dei conflitti di interesse che si estendono anche a vincoli post employment.
d.P.R. 10.1.1957, n. 3; l. 23.10.1992, n. 421; d.lgs. 3.2.1993, n. 29; l. 15.3.1997, n. 57; d.lgs. 31.3.1998, n. 80; d.lgs. 30.3.2001, n. 165; l. 4.3.2009, n. 15; d.lgs. 27.10.2009, n. 150; l. 6.11.2012, n. 190.
La produzione scientifica in materia di impiego alle dipendenze della p.a. è ricchissima. In questa sede si richiamano i contributi (oltre a quelli già citati nel testo) dei quali si è più direttamente tenuto conto nella redazione della presente voce: Battini, S., Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Padova, 2000; Carinci, F.-Zoppoli, L., a cura di, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004; Cassese, S.-Battini, S., a cura di, Dall’impiego pubblico al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Milano, 1997; Carloni, E., Ruolo e natura dei c.d. “codici etici” delle amministrazioni pubbliche, in Dir. pubbl., 2002, 319 ss.; Cavallo Perin, R., Le ragioni di un diritto ineguale e le peculiarità del rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, in Dir. amm., 2003, 119; Corpaci, A., Revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Le regioni, 2001, 1305 ss.; D’Alberti, M., a cura di, L’alta burocrazia. Studi su Bretagna, Stati Uniti di America, Spagna, Francia,Italia, Bologna, 1994; D’Alessio, G., La nuova dirigenza pubblica, Roma, 1999; D’Alessio, G., Pubblico impiego, in Corso, G.-Lopilato, V., a cura di, Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, Milano, 2006, 408 ss.; Gardini, G., L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione, Milano, 2003; Giannini, M.S., Impiego pubblico (teoria e storia), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 305 ss.; Mattarella, B.G., I codici di comportamento , in Riv. giur. lav., 1996, 275 ss.; Merloni, F.- Cavallo Perin, R. (a cura di), Al servizio della nazione, Etica e statuto dei funzionari pubblici, Milano, 2009; Merloni, F., Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Bologna, 2006; Merloni, F., Organizzazione amministrativa e garanzie dell’imparzialità, in Dir. pubbl., 2009, 70 ss.; Merloni, F., Amministrazione ‘neutrale’ e amministrazione imparziale (a proposito dei rapporti tra ‘politica’ e ‘amministrazione’), in Dir. pubbl., 1997, 324 ss.; Nicosia, G., Dirigenze responsabili e responsabilità dirigenziali pubbliche, Torino, 2011; Pioggia, A., Giudice e funzione amministrativa, Milano, 2004; Pioggia, A., La Corte costituzionale e il modello italiano di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in della Cananea, G.-Dugato, M., a cura di, Diritto amministrativo e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 255 ss.; Ponti, B., Indipendenza del dirigente e funzione amministrativa, Rimini, 2012; Rusciano, M., Il diritto del lavoro italiano nel federalismo, in Lav. dir., 2001, 491 ss.; Zoppoli, L., a cura di, Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Napoli, 2009.