Tacito, Publio Cornelio
Storico romano (1°-2° sec. d.C.). Ignote sono le date di nascita e di morte (n. forse 55 ca.-m. 120 ca.), così come la famiglia e il censo (probabilmente senatorio), come anche l’origine (si è pensato, tra l’altro, alla Gallia Narbonese o Cisalpina). Visse a lungo a Roma, ricoprendo cariche pubbliche fin dai tempi di Vespasiano; nel 77 o 78 sposò la figlia di Giulio Agricola, il conquistatore della Britannia, e ciò gli facilitò la carriera. Con Domiziano fu pretore (88) e all’epoca di Nerva consul suffectus (97); quindi si dedicò completamente all’attività letteraria, tranne un periodo di proconsolato in Asia (112 o 113). Scrisse: Agricola (De vita Iulii Agricolae); Germania (De origine et situ Germanorum); Storie (Historiae); Annali (Ab excessu Divi Augusti libri). Queste due ultime opere, le principali, comprendevano in totale 30 libri (12 o 14 delle Storie, 18 o 16 degli Annali); i libri delle Storie vennero alla luce presumibilmente dal 105 in poi, quelli degli Annali sulla fine del regno di Traiano. Ne restano: delle Storie, i primi 4 e parte del 5° (anni 69-70); degli Annali, i primi 4 e parte del 5° (anni 14-29), il 6° (anni 31-37) e dall’11° al 16° (anni 47-66), tranne capitoli iniziali del 6°, principio dell’11° e fine del 16° libro. A T. è anche attribuito (seguendo una congettura umanistica, non si sa quanto fondata sulla tradizione manoscritta) il Dialogo sugli oratori (Dialogus de oratoribus), sulle cause della decadenza dell’arte oratoria, che sono individuate di volta in volta nel diverso tipo di educazione rispetto al passato, nel mutato insegnamento retorico e principalmente nelle condizioni politiche proprie del regime monarchico, che impediva ormai la libertà di parola. Circa la paternità del dialogo non c’è accordo tra gli studiosi, molti dei quali trovano non conciliabile con le altre opere di T. lo stile di questa e mettono in rilievo numerose difficoltà storiche e cronologiche (si è pensato perciò anche a Quintiliano, a Plinio il Giovane e ad altri ancora). L’attività di T. era al culmine quando l’impero romano, dopo la crisi post-neroniana e il regno dispotico di Domiziano, raggiungeva nel complesso la sua acme di equilibrio esterno e interno col principato di Traiano, in cui T. vedeva realizzata l’auspicata collaborazione tra principe e senatori. Tuttavia, tutta l’opera di T. riflette nella sua genesi non il momento positivo del regime imperiale, bensì le angustie profonde che tormentavano la classe senatoria, ancora non rassegnata alla soluzione del principato, ma sempre più chiaramente incapace, anche di fronte a sé stessa, di mutare i termini della situazione ristabilendo le antiche libertà. Dominante nel pensiero storico di T. è perciò un’acuta e dolorosa sensibilità per le contraddizioni e gli aspetti oscuri della vita morale e politica dell’impero postaugusteo. Il principato è sentito quale triste fatalità, qualificato non come logica e necessaria soluzione della crisi repubblicana, ma come segno di un oscuro destino di decadenza civile. La sua verità storica non è quindi nella sua positiva funzione di governo, bensì nella sua natura atroce di potere assoluto, la cui nota essenziale (che lo rendeva ossessivamente interessante per T.) consisteva nel suo destino di autodistruzione, realizzato nell’atmosfera torbida degli intrighi di corte e nell’impotenza abietta della classe dirigente romana, in una Roma sempre più lontana dalle antiche virtù politiche ed etiche che l’avevano resa padrona del mondo. Nella disfunzione e nella tendenziale anarchia del potere centrale è latente la possibilità di uno smarrimento della forza dominatrice di Roma; comincia perciò a nascere con T. una singolare attenzione per le forze barbariche vive fuori del dominio romano (interessanti alcune considerazioni dello storico nella Germania): questa consapevolezza, peraltro, è appena germinale. L’interesse di T. pare rivolto alle vicende della corte e del senato, più che alla storia dell’impero considerato nel suo insieme. La narrazione dell’età di Tiberio, di Claudio, di Nerone e dei quattro imperatori degli anni 69-70 (è quanto, peraltro, rimane della sua opera storica) si distende in una serie di amare analisi della psicologia degli attori massimi della vicenda, gli imperatori stessi in primo luogo, le loro famiglie, i generali, gli alti funzionari, i senatori e i cavalieri coinvolti nei laceranti contrasti per il potere. Certo, nel maturare di questa singolare prospettiva storico-politica, contò molto la triste esperienza del dispotismo di Domiziano (come emerge da alcune splendide pagine dell’Agricola) che avvelenò lo spirito di T., inducendolo a illuminare tutta la passata vicenda imperiale, fin dalle origini, di una luce violenta, nella quale le ombre si ingigantiscono e i particolari risplendono sinistramente. La cruda verità umana del principato corrotto e della corruzione senatoria è in ultima analisi l’assoluta verità della storia di Roma nel 1° secolo. Gli antichi ideali repubblicani, per i quali T. nutre una contenuta nostalgia, nulla possono ora, poiché la triste realtà del funesto potere del tetro e maligno Tiberio, del ridicolo e sinistro Claudio, del folle Nerone, dei drammatici avvenimenti dell’anno dei quattro imperatori sta proprio nell’abiezione e nello smarrimento della classe senatoria ed equestre, centro vitale dell’antica repubblica. Nel quadro fosco di questa realtà, che non ha in sé stessa alternative di miglioramento, si salvano soltanto singoli personaggi, per le loro doti di dignità e di onestà, che li riscattano come individui. Certo, la grandiosa realtà dell’impero di Roma non è messa in dubbio da T., anzi costituisce lo sfondo del dramma del principato e del senato romano; non si può dire che in lui vi sia il senso di una decadenza politica dell’impero come universale dominio sulle genti (né vi poteva essere, in età traianea). Nell’ampia tela della narrazione tacitiana l’impero continua a vivere come realtà di forza militare e civile; né lo storico si pose nettamente la questione di come ciò potesse accadere se tanto abietta era l’azione del potere centrale. La storia di T. trae del resto il suo straordinario fascino anche dalle sue drammatiche contraddizioni e dallo sforzo d’intendere e descrivere una realtà ripugnante, il principato, alla cui sopravvivenza era peraltro legata la sorte dell’unico valore storico universale ancora concepibile, l’impero romano. L’acutezza dell’indagine psicologica di quei mostruosi fenomeni che a T. appaiono gli imperatori e il mondo che li circonda, prende corpo, nelle Storie e negli Annali, in uno stile conciso singolarissimo, nel quale sono tutte le risorse della lingua latina contro i dettami del classicismo. Si sente in ciò la padronanza derivante da una forte esperienza retorica; T. aveva coltivato splendidamente l’avvocatura, anche se di rado, mostrando già allora (come testimonia Plinio il Giovane) una innata tendenza alla gravitas dello stile, l’austera serietà. Egli non indulge mai alla distensione di una lettura tranquilla, anzi costringe il lettore a misurare concretamente, nello sforzo d’intendere il complesso e tormentato periodare (dallo sceltissimo, spesso insolito e arcaizzante vocabolario), le difficoltà di un’indagine acuta e serrata. Anche coloro che hanno svalutato T. come storico, riguardando alla tendenziosità delle fonti cui egli sembra aver soprattutto attinto per la sua narrazione (libelli senatori, memorialistica di perseguitati dal dispotismo imperiale ecc.), e alla singolare parzialità della sua prospettiva, hanno sempre riconosciuto in lui le doti di un grande artista, creatore di personaggi e di scene d’incomparabile complessità e tragica potenza.