QUALITÀ
. In generale, il termine filosofico di "qualità" (gr. ποιότης, lat. qualitas) designa qualsiasi aspetto formale, e concretamente determinato, di una data realtà riflettente più la natura di una cosa che non la sua materia; si può quindi dire che non ci sia parte del reale, e in genere del pensabile, che non cada sotto il suo concetto, in quanto è considerata secondo una certa sua determinazione. Questo suo aspetto formale, d'altronde, fa sì che alla determinazione qualitativa astrattamente presa rimanga obiettivamente estraneo il carattere di esistenza o d'inesistenza oggettiva della realta a cui la determinazione stessa si riferisce: così, p. es., gli aspetti qualitativi di un dato cane rimangono identici, sia che esso resti semplicemente rappresentato nella fantasia sia che esso appaia constatabile nell'esperienza sensibile (salvo nel caso che si pretenda di considerare come concreta qualità anche la fisica nota dell'esistenza). S'intende quindi come il concetto di qualità sia stato, fin dalle sue prime formulazioni, affiancato a quello di sostanza, a quest'ultimo venendo attribuita la nota fondamentale dell'esistenza oggettiva e all'altro restando invece precipuamente assegnata la determinazione degli aspetti formali: donde la posizione del concetto di qualità come suprema classe di tutti i concetti designanti comunque un'inerenza a una sostanza o soggetto (attributi, proprietà, facoltà, ecc.). Questa relazione della qualità alla sostanza doveva d'altronde rimanere sempre varia, perché, concepita in concreto, la stessa sostanza non poteva non manifestare aspetti qualitativi diversi, essenziali e accidentali, e quindi invadere il campo della qualità propriamente detta, assegnando a questa solo la parte meno essenziale delle determinazioni formali (come accadeva in Aristotele, in cui la sostanza, prima categoria, era già pienamente determinata nella sua essenza prima ancora che ad essa inerissero le forme della qualità, seconda categoria): ma per la stessa ragione si poteva anche osservare come la qualità venisse così a manifestare un più vasto ambito ideale, riassorbendo in sé la maggior parte del contenuto concettuale della sostanza (e così, p. es., Spinoza, che pur risolveva nella sostanza divina ogni realtà dell'universo, la concepiva d'altro lato come completamente costituita, nella sua essenza, dalla somma degli attributi). Il concetto di qualità si distingue poi tipicamente da quello di quantità (che in Aristotele gli segue immediatamente nella serie delle categorie), il quale lo presuppone negativamente, assumendo di costituire il complesso delle determinazioni che, prescindendo da ogni concreto aspetto qualitativo della realtà, si riferiscono soltanto ai suoi aspetti misurabili e quindi matematizzabili in funzione di unità di misura, e cioè in primo luogo alla sua estensione spazio-temporale. Ma s'intende che nessuna considerazione quantitativa materiale sarebbe concepibile se non sussistesse nella realtà almeno una minima determinazione qualitativa, senza di che essa svanirebbe nel nulla e non rimarrebbe più alcun oggetto da misurare: e ciò equivale a dire che anche di fronte alla quantità materiale la qualità serba la posizione di esigenza ontologica che ha il concreto materiale; mentre pure la qualità si estende, fuori delle cose materiali, anche alle cose spirituali.
La prima esplicita determinazione storica del concetto di qualità si ha, come si è già ricordato, con Aristotele, che, sistemando alcuni accenni platonici, assegna ad esso, nella serie delle categorie, il secondo posto, subito dopo quello della sostanza. E la logica stoica accentua fortemente la valutazione aristotelica, perché, riducendo l'intera serie delle categorie al solo binomio della sostanza e della qualità, mostra di ricomprendere sotto l'unico concetto di quest'ultima tutte le varie attribuzioni del reale che Aristotele aveva classificato anche nelle otto categorie, che nella sua logica seguivano a quel binomio. Così, Plotino inclina a sussumere sotto il concetto di qualità ogni determinazione del reale, considerando priva di qualità soltanto la materia, nella sua assoluta indeterminatezza e inferiorità. Nel Medioevo, la filosofia scolastica rimette in onore la concezione aristotelica, e, insistendo su una partizione che già si trovava delineata nello Stagirita, divide le qualità nei quattro gruppi delle proprietà (habitus et dispositio), delle facoltà (naturalis potentia et impotentia), delle passioni (passio et passiva qualitas) e delle configurazioni geometriche (figura et forma). D'altra parte, rielaborando e arricchendo questa partizione, essa vi aggiunge tra l'altro il binomio delle qualitates manifestae et sensibiles e delle qualitates occultae: distinzione importante, perché ponendo il contrasto delle qualità apparenti (e tali erano, in fondo, tutte quelle di Aristotele, per cui la natura non avesse un nocciolo segreto che sorreggesse le sue forme esterne) e delle qualità celate e perciò più profonde e sostanziali, presuppone l'idea di una natura in parte ignota, che si nasconde sotto le manifestazioni sensibili, e prepara quindi tanto l'occultismo, l'alchimia e la magia, quanto l'indagine naturalistica del Rinascimento.
Nell'età moderna una profonda trasformazione del concetto di qualità è operata dall'empirismo. L'analisi soggettivistica della sensazione pone le qualità oggettive in stretto rapporto con la funzione percipiente: così il Locke può definire in generale la qualità come capacità, che una cosa possiede, di produrre una rappresentazione nella coscienza umana. Ma questa posizione del problema fa naturalmente sorgere il dubbio che la qualità che si manifesta alla coscienza sensibile sia diversa da quella che sussiste nella realtà oggettiva come capacità d'ingenerare nel senziente quella stessa esperienza sensibile. Di qui la distinzione, a cui è condotto il Locke, delle "qualità primarie" dalle "qualità secondarie" (il termine di qualitates primariae, o primae, risaliva alla scolastica, che l'aveva usato per designare le qualità fondamentali di una data realtà, chiamando invece secundae o secundariae le qualità derivate da quelle). Le prime, secondo il Locke, esistono effettivamente nell'oggetto, questo non essendo concepibile come privo di esse, e sono l'estensione, la compattezza, lo stato di moto o di quiete, la conformazione geometrica; le altre non hanno invece realtà oggettiva, e sono soltanto modificazioni che nell'organo di senso si producono per il contatto con le cose, in funzione di certe loro qualità primarie: e tali sono tutte le qualità propriamente sensibili, e cioè i colori, i suoni, i sapori, gli odori, ecc. Nel fatto, se non nel nome, tale distinzione è peraltro assai più antica del Locke: già chiaramente espressa da Democrito (per cui reale è soltanto la disposizione degli atomi nel vuoto, e "convenzionale" ogni percezione sensibile che essa ingeneri nel soggetto) e quindi, sulle sue tracce, da Epicuro, essa è riaffermata in età moderna dal Campanella, dal Galilei, dal Hobbes, dal Descartes, per non citare che i nomi principali. Ma il Locke ha avuto il merito di riproporre la questione con tale nettezza, da far subito avvertire come il processo di soggettivazione a cui erano state sottoposte le qualità non potesse arrestarsi alla sfera delle secondarie, ma dovesse estendersi anche a quella delle primarie. Egli apre così il passo agli altri maestri dell'empirismo inglese, Berkeley e Hume che, mostrando come le qualità primarie non siano in concreto mai percepibili senza il concorso delle secondarie, concludono che quell'inerenza a un soggetto senziente, che appare imprescindibile per la concepibilità di queste ultime, dev'essere considerata come costitutiva anche della natura delle prime. La teoria delle "qualità sensibili" chiude quindi la sua storia con la dimostrazione del carattere soggettivo di tutti gli aspetti qualitativi (e cioè, senz'altro, di tutti gli aspetti) della realtà.
Il Kant, che pure segue, sotto certo aspetto, la distinzione delle qualità primarie dalle secondarie, in quanto considera meramente empiriche le concrete qualità sensibili ed eleva invece a forme pure dell'intuizione il tempo e lo spazio, congiunge d'altronde il suo soggettivismo empiristico e idealistico con motivi della concezione aristotelica della qualità, quando accoglie e sistema questo concetto nella sua dottrina delle categorie. La qualità è infatti considerata dal Kant come una delle quattro categorie principali: e le tre in cui essa si specifica, cioè la realtà, la negazione e la privazione, non sono poi, nella loro origine e sostanza, altro che le forme qualitative assunte dal giudizio nella logica aristotelica. Secondo la qualità, infatti, il giudizio si distingueva in affermativo (A è B), negativo (A non è B), indefinito (A è non-B): ed è facile vedere come da queste forme derivino le tre categorie kantiane della qualità. Questa elevazione kantiana della qualità a categoria dell'intelletto provoca d'altronde, nell'idealismo postkantiano, i varî tentativi di una deduzione dialettica: così, p. es., lo Schelling deduce la qualità dalla quantità, considerando la prima come momento più complesso della seconda nel processo di riflessione dell'intelligenza, mentre il Hegel la pone invece come idealmente anteriore alla quantità, connettendola con le prime determinazioni dialettiche dell'essere. Nel pensiero contemporaneo, il problema del concetto di qualità ha sempre più perduto importanza: da un lato la scienza fisico-matematica della natura ha tenuto ferma, e anzi accentuata, l'interpretazione puramente quantitativa dell'intera realtà; dall'altro, il soggettivismo, l'idealismo, l'intuizionismo hanno per varie vie cooperato a dimostrare l'incessante divenire dell'esperienza, che non soffre stabili determinazioni qualitative, giustificate in realtà non solo come termini di riferimento pratico, ma come punti fissi nel progresso dell'indagine scientifica. Così, ad esempio, il Bergson ha detto che le qualità della materia non sono che istantanee con le quali ci s'illude di fissare nella conoscenza la sua essenziale instabilità.