quanti
Discreti per natura
Per spiegare il comportamento di atomi e molecole servono i quanti, pacchetti indivisibili di energia, azione, carica, forza. Essi permettono di affrontare fenomeni altrimenti incomprensibili – come l’irraggiamento di un corpo incandescente o l’effetto fotoelettrico – anche se spesso la spiegazione è più sorprendente del problema posto. La meccanica dei quanti, infatti, afferma che la luce è allo stesso tempo un’onda e un flusso di particelle, dà una nuova interpretazione alla teoria della misura, ammette il teletrasporto. Nonostante i problemi ancora irrisolti, questa parte della fisica ha permesso di comprendere la struttura della materia e realizzare tecnologie oggi fondamentali
La realtà che ci circonda ha una struttura discontinua, o discreta, come dicono gli scienziati: nel cuore della materia abbiamo molecole e atomi e, se guardiamo ancora più da vicino, incontriamo le particelle che li formano. Tuttavia non percepiamo la discontinuità: la struttura discreta della realtà si nasconde dietro un’apparente compattezza. I fenomeni ondulatori (onde e oscillazioni), continui per definizione, sono tra i più comuni della natura e l’energia che si propaga nello spazio grazie a essi sembra un flusso continuo, destinato a non arrestarsi mai.
Correva l’anno 1900 quando il fisico tedesco Max Planck mise in discussione l’idea che l’energia fluisse sempre in modo continuo e pensò anche a scambi tramite pacchetti discreti, cioè nettamente separati uno dall’altro, unità minime chiamate quanti. Lo scienzato introdusse i quanti come una comoda ipotesi capace di spiegare con semplicità il fenomeno noto come problema del corpo nero, un corpo ideale capace di assorbire tutte le radiazioni che lo colpiscono. In realtà un corpo effettivamente nero non può essere nemmeno osservato perché si possono ‘vedere’ solo gli oggetti che emettono radiazioni o che restituiscono in parte quelle ricevute. Descrivere matematicamente il suo comportamento era un annoso problema della fisica teorica, e Planck lo risolse suddividendo l’energia in pacchetti discreti, i quanti.
Che cosa sono in realtà i quanti? Per certi aspetti sono un po’ come i bit, che trasportano l’informazione digitale, un flusso potenzialmente continuo che ci avvolge ormai ventiquattro ore su ventiquattro, senza interrompersi mai, ma che si basa su una successione discreta di cifre, 0 e 1, dove non esistono ‘mezze porzioni’: i bit vanno sempre presi per intero.
L’ipotesi di Planck si è ben presto trasformata in qualcosa di più profondo di un semplice espediente per ‘far quadrare’ il bilancio energetico del corpo nero. Sin dal 1905 i quanti sono entrati ufficialmente nella descrizione della radiazione elettromagnetica grazie ad Albert Einstein. Il fisico tedesco – all’epoca soltanto un oscuro impiegato dell’ufficio brevetti di Berna – se ne servì infatti per dare una giustificazione teorica all’effetto fotoelettrico, osservato quando la radiazione colpisce una lastra metallica. L’effetto consiste nella produzione di elettroni (e dunque di corrente) da parte della lastra: i dati sperimentali mostravano che la quantità di elettroni non era legata all’intensità della radiazione, come si poteva pensare, ma alla frequenza. Una radiazione ultravioletta debole ma di frequenza elevata era in grado di estrarre elettroni, mentre non altrettanto poteva fare un’intensa radiazione rossa di frequenza inferiore. Einstein interpretò l’effetto fotoelettrico come la conseguenza dell’urto dei quanti di luce o fotoni sulla lastra: gli elettroni vengono espulsi dalla superficie se i quanti che urtano la lastra hanno sufficiente energia. L’energia trasportata dai quanti è E = hv, v è la frequenza della radiazione emessa e h una costante, chiamata proprio costante di Planck.
La costante di Planck vale appena alcuni decimi di milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo (10-34), e proprio a causa della sua piccolezza la discontinuità della materia rimane nascosta; tuttavia tale discontinuità si può ignorare nella descrizione di molti fenomeni quotidiani, ma non di quelli che agiscono sulla trama profonda della realtà, dove i protagonisti sono atomi e molecole.
A livello atomico i fenomeni di quantizzazione emergono chiaramente e gli esempi non mancano: la carica elettrica libera è sempre multipla di un’unità minima, detta carica elementare, che coincide con la carica di un elettrone o di un protone; le particelle che trasmettono le interazioni di campo sono i quanti del campo (gravitoni, fotoni, fononi e via dicendo a seconda che le forze coinvolte siano gravitazionali, elettromagnetiche, elastiche); gli elettroni negli atomi seguono orbite determinate dal quanto d’azione.
Nel mondo dei quanti, onde e particelle sono fenomeni complementari e non scindibili. L’ambiguo comportamento della luce, noto sin dal Seicento, è diventato più chiaro grazie alla teoria quantistica. Questa teoria ha permesso di capire che la luce in alcuni ambiti va trattata come un’onda, usando le equazioni di James Clerk Maxwell, ma talvolta il suo comportamento, come nell’effetto fotoelettrico, può essere spiegato solo ipotizzando una struttura corpuscolare, e per questo bisogna far ricorso ai fotoni.
Viceversa, un elettrone, che abitualmente consideriamo una particella, può anche agire come un’onda. Se, per esempio, indirizziamo un fascio di elettroni verso una superficie con due sottili fenditure, al di là delle fenditure otteniamo figure di interferenza e diffrazione del tutto analoghe a quelle prodotte da un raggio di luce o da altri fenomeni ondulatori. In questo caso non è impossibile stabilire attraverso quale delle due aperture è passato ogni singolo elettrone né determinare la traiettoria seguita dalla particella prima di raggiungere lo schermo. La meccanica quantistica – che è la parte della fisica teorica che si occupa dei quanti – non fornisce certezze, ma assegna semplicemente la probabilità di trovare la particella in un punto o in un altro dello spazio.
Per sapere dove effettivamente si trova l’elettrone dovremo, invece, effettuare una misura, processo in cui l’elettrone manifesta la sua natura di particella. Tuttavia nelle misurazioni condotte sui fenomeni a livello atomico esistono grandezze, come la posizione e la velocità, che non si possono determinare contemporaneamente. L’esattezza con cui si misura l’una influenza l’imprecisione che si commette nel determinare l’altra. Questo fatto è noto come principio di indeterminazione ed è stato formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Karl Heisenberg.
Secondo la fisica quantistica ogni misura è in grado di perturbare il fenomeno misurato: questo ha conseguenze pratiche nel campo delle misurazioni microscopiche. La misura, in questo contesto, non si limita a registrare un fenomeno ma è, in qualche misura, in grado di determinarlo. Questo fatto produce alcuni paradossi, il più celebre dei quali è quello del gatto di Schrödinger. Immaginiamo un gatto chiuso in una scatola, insieme a un dispositivo che, se azionato da un evento casuale come un decadimento radioattivo, libera veleno letale. Il gatto sarà vivo o morto in quest’istante, o tra dieci minuti, o tra un’ora? Per la meccanica quantistica è soltanto quando l’osservatore compie la sua ‘misura’ aprendo la scatola che l’evento si presenta in uno dei due stati possibili (gatto vivo, gatto morto). Finché nessuno apre la scatola, il gatto è sia vivo sia morto!
Il paradosso dello sfortunato animale, proposto per la prima volta da Edwin Schrödinger, uno dei fondatori della meccanica quantistica, vuole sottolineare il significato molto speciale che acquista la misura in questa teoria.
Lo sconcerto per la meccanica quantistica è del tutto naturale e lo stesso Richard P. Feynman, uno dei fisici che maggiormente hanno contribuito allo studio delle interazioni tra radiazione e materia, era solito affermare che nessuno capisce davvero la meccanica quantistica. Ma paradossi a parte – o meglio, forse, proprio in loro ragione – la meccanica quantistica ha permesso di sviluppare buona parte delle moderne tecnologie: dal laser al microscopio elettronico, alla diagnostica per immagini. Fenomeni come la superconduttività o materiali come i semiconduttori, oggi indispensabili per l’elettronica, hanno richiesto un assiduo ricorso alla teoria quantistica, che ricopre un ruolo fondamentale anche nello studio di oggetti decisamente poco comuni come stelle di neutroni e buchi neri.
La meccanica quantistica ha lasciato perplessi molti scienziati sin dai suoi esordi e celebri sono rimaste le appassionate discussioni tra due suoi fondatori, Niels Bohr, accanito sostenitore, e Albert Einstein, più critico e scettico. Einstein si impegnò a fondo nel tentativo di non considerare come ineliminabili i paradossi della meccanica quantistica, non ammettendo una teoria per cui la realtà esiste soltanto quando c’è qualcuno pronto a osservarla.
Il teletrasporto non esiste solo nei film di fantascienza. La meccanica quantistica prevede che si possa scomporre un oggetto in un punto e ricomporlo altrove, anche in una diversa galassia. In realtà a viaggiare non è l’oggetto in sé, ma il pacchetto di informazioni che raccoglie tutte le sue caratteristiche. Il teletrasporto non è
perciò un processo di duplicazione, come la trasmissione via fax, perché distrugge l’originale e l’oggetto che si ri-materializza è del tutto indistinguibile da esso.
I primi esperimenti nel campo del teletrasporto – limitato alle sole particelle elementari – risalgono al 1993 grazie agli sforzi di Charles Bennett dell’IBM.
I successi si sono però registrati solo alcuni anni dopo con il lavoro del gruppo di Anton Zeiliger, dell’Istituto di Fisica sperimentale di Vienna, e con le ricerche condotte da Francesco De Martini, dell’Università La Sapienza di Roma, che nel 1997 ha trasmesso le informazioni da un fotone a un altro.