Fabio Massimo, Quinto
Politico e generale romano (275 circa - 203 a.C.), soprannominato il Temporeggiatore (lat. cunctator), fu console per cinque volte. Dopo la sconfitta dei Romani al Trasimeno nel 217 a.C. fu eletto dittatore per condurre le operazioni belliche contro Annibale. M., sulla scorta di Livio (di cui cfr., per es., XXII xii e xxv-xxvi; XXVIII xl; XXX xxvi), cita il personaggio soprattutto per la sua strategia militare – non apprezzata dal Senato e dal popolo – che mirava a logorare le forze nemiche senza combattere in campo aperto. In Discorsi I liii 13-14, come esempio della difficoltà di convincere il popolo circa l’opportunità di scelte apparentemente deboli e destinate alla sconfitta, ma in realtà efficaci e risolutive, si ricorda che i Romani rifiutarono la linea del temporeggiare, autorizzando il magister equitum ad attaccare battaglia contro gli ordini di F. M. (l’esercito romano fu sconfitto e solo l’intervento del dittatore riuscì a limitare i danni: cfr. Livio XXII xxv-xxix; l’episodio anche in Arte della guerra IV 129-32). Nello stesso capitolo, poco più avanti (§ 21), F. M. è citato per il parere contrario dato alla richiesta di Scipione di trasferire in Africa la guerra contro Annibale. In Discorsi II xxiv 41-42, nel quadro di un discorso volto a ribadire l’inutilità delle fortezze per mantenere i territori conquistati, M. si sofferma – per mostrarne l’inefficacia – sull’esempio della rocca di Taranto che i sostenitori dell’efficacia delle fortezze potrebbero allegare. M. precisa che a recuperare la città – a seguito della sua espugnazione a opera di Annibale nel 212 a.C. – fu l’intero esercito, per di più guidato da un valoroso capitano come F. M., e non solo la guarnigione asserragliata nella fortezza (l’impresa, conclusasi nel 209 a.C., è narrata in Livio XXV xi e XXVII xv-xvi; cfr. anche Plutarco, Vite parallele: Fabio Massimo XXI-XXIII). In Discorsi III ix 5-10, dove si espone la teoria del «riscontro», F. M. è citato per la fase iniziale della guerra contro Annibale come perfetto esempio di conformità tra «tempi» e modi di procedere: le circostanze (le vittorie del giovane e impetuoso Annibale) richiedevano infatti un comportamento cauto e prudente come quello adottato dal dittatore, che si limitò a opporre resistenza al nemico. Qui F. M. è anche esempio di come i modi di procedere degli uomini, immodificabili, dipendano dalla propria indole e non da scelte strategiche: infatti F. M., quando i tempi mutarono e richiesero un comportamento impetuoso, non fu in grado di cambiare la sua scelta tattica e si oppose a Scipione che voleva assaltare il nemico in Africa; se fosse dipeso da F. M. – commenta M. – Roma non avrebbe mai potuto sconfiggere Annibale. Il fatto prova il vantaggio delle repubbliche – le quali, come Roma, possono contare sulla varietà di temperamento dei propri cittadini – rispetto alle monarchie. Nel capitolo successivo (Discorsi III x 10), M., polemizzando con la debolezza militare dei moderni, ne stigmatizza l’uso contemporaneo di evitare il più possibile la battaglia campale, giudicando pretestuoso giustificare tale scelta come imitazione della tattica utilizzata da F. M., che «differendo il combattere salvò lo stato ai Romani» (cfr. anche Livio XXX xxvi, che cita Ennio, e Cicerone, De officiis I xxiv 84 e De senectute iv 10). M. sottolinea, infatti, che è possibile comportarsi come il comandante romano – che teneva le truppe accampate in luoghi sicuri (cfr. Livio XXII xii) – solo nel caso in cui si sia a capo di un esercito talmente valoroso da scoraggiare il nemico ad attaccarlo (x 18 e 27). M. precisa poi che, a ben guardare, F. M. non fuggì lo scontro (infatti Annibale non ebbe ardire di assaltarlo): egli piuttosto prese tempo per combattere alle sue condizioni (§§ 19-20; identiche argomentazioni si leggono in Arte della guerra IV 116, 119, 125). In Discorsi III xxxiv 27 F. M. è ricordato per l’orazione che tenne (cfr. Livio XXIV viii) affinché si procedesse a una nuova votazione per la carica di console dopo l’elezione nel 214 a.C. di Tito Otacilio, secondo lui inadeguato (il discorso – esempio dei buoni ordinamenti dell’antica Roma, che prevedevano la possibilità di contrastare con orazioni pubbliche l’assegnazione di magistrature a persone non idonee – sortì l’esito sperato).
In Principe xvii 20 è ricordato il discorso che F. M. pronunciò in Senato per accusare Scipione – biasimato come «corruttore della romana milizia» (cfr. Livio XXIX xix) – di aver concesso troppa licenza ai soldati, causando così la ribellione nel 206 a.C. degli eserciti in Spagna.
In Arte della guerra III 78, Luigi Alamanni, impaziente di ascoltare Fabrizio Colonna descrivere un’ipotetica battaglia vinta dalla milizia, esorta l’ex condottiero citando ironicamente F. M. e la sua tattica del differimento invisa al popolo romano:
E non vorrei per cosa del mondo che voi diventassi Fabio Massimo, faccendo pensiero di tenere a bada il nimico e differire la giornata, perché io direi peggio di voi che il popolo romano non diceva di quello.
In Arte della guerra VI 186 il dittatore è menzionato come vittima di uno stratagemma cui ricorse Annibale, accerchiato dall’esercito romano, per liberarsi (per l’episodio, risalente al 217 a.C., a cui si accenna anche in Discorsi III xl 6, cfr. Livio XXII xvi-xvii, ma anche Polibio, Storie III 93-94; Plutarco, Fabio Massimo VI; Frontino, Strategemata I v 28). Poco più avanti (§ 189) F. M. è citato in riferimento a un espediente utilizzato da Annibale per «dividere le forze del nemico» (per cui cfr. Frontino I viii 2; l’episodio anche in Livio XXII xxiii e in Plutarco, Fabio Massimo VII 4), mentre in Arte della guerra VII 83 si ricorda un espediente cui ricorse F. M. nel 215 a.C. per «affamare» i Campani (per cui cfr. Frontino III iv 1).