Quirinale
Gli inquilini del Colle
Il settennato Ciampi
di
10 maggio
I 1010 grandi elettori, senatori, deputati e rappresentanti delle Regioni, riuniti a Montecitorio in seduta comune, al quarto scrutinio eleggono undicesimo presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano. Il 15 maggio, dopo il giuramento di fronte al Parlamento e l’omaggio al Milite ignoto, Napolitano sale al Quirinale per il passaggio delle consegne con Carlo Azeglio Ciampi.
Prima del Quirinale
Carlo Azeglio Ciampi, decimo presidente della Repubblica italiana, ha cominciato la sua carriera in sordina. Fino all’età di quarant’anni è stato uno dei tanti funzionari della Banca d’Italia: un ispettore di campagna, come si diceva di coloro che svolgevano compiti ispettivi nelle varie città d’Italia, quando si trattava di città minori. E nessuno, fuori dell’istituzione, sapeva che esistesse. Era di sede a Macerata, aveva moglie e figli, sembrava appagato delle sue condizioni di vita, e quasi certamente lo era. Chi avrebbe immaginato quel che sarebbe venuto in seguito? Nel 1960, chiamato, non sapeva bene perché, all’ufficio studi della Banca, si trasferì a Roma e lì cominciò l’ascesa. Partendo dall’ufficio studi, Ciampi ha percorso una carriera le cui tappe, nella loro successione, sono certamente fuori del comune, una più dell’altra: segretario generale, direttore generale, governatore della Banca d’Italia, e poi primo ministro, ministro del Tesoro in due governi, infine capo dello Stato. Nessun italiano può vantare un cursus honorum altrettanto prestigioso. Ma l’aspetto più incredibile di questa eccezionale carriera è che, per compierla, Ciampi non ha mosso un dito: ha solo studiato indefessamente, questo sì, per essere di volta in volta all’altezza dei compiti che svolgeva. Non ha accettato, nonostante le allettanti offerte, candidature al Parlamento. Non ha mirato a nomine o promozioni. Anzi, ogni volta ha cercato di evitare la carica che gli era offerta. Come è stato possibile, il miracolo Ciampi? Un personaggio del genere merita un attento studio. Che ci aiuterà a comprendere le caratteristiche del suo settennato.
Cominciamo dalle origini. Vi sono esempi nella storia, in altri paesi più che nel nostro, di personaggi non particolarmente ambiziosi, a cui sono capitate in sorte funzioni importanti nella vita pubblica. Ciò accadeva per lo più per via della nascita, che implicava l’appartenenza a una certa classe sociale, o a un certo ambiente. Lord Home, in Inghilterra, diventò ministro degli Esteri e primo ministro senza averne molta voglia: gli chiesero di assumere quegli impegni e lui accettò, per spirito di servizio. Ma Home era il quattordicesimo conte della dinastia, apparteneva di diritto alla classe dirigente del Regno Unito. Carlo Azeglio (nato il 9 dicembre 1920, a Livorno) non apparteneva a dinastie di sorta. Suo padre era un ottico, proprietario di un negozio. Studiò dai gesuiti (la famiglia era cattolica osservante), poi si iscrisse alla Normale di Pisa. Doveva avere una buona testa, senza dubbio, perché all’età di 26 anni aveva conseguito due lauree, lettere e giurisprudenza. Di economia neanche l’ombra: segno che alla Banca proprio non pensava.
Erano gli anni del fascismo. Un giovane intelligente reagiva in un modo o nell’altro agli eventi, la conquista dell’Etiopia, le sanzioni, la guerra di Spagna, il convegno di Monaco: entusiasmandosi per l’impero sui colli fatali; o indignandosi per la libertà conculcata. Carlo Azeglio fu tra quelli, una minoranza, che si indignarono. Era patriota; ma capiva che non c’era solo la patria, c’era anche l’Europa. Quando fu annunciata, il 10 giugno, la dichiarazione di guerra, stava cenando nel refettorio dell’università, e prese parte, con gli altri studenti, a una bravata: intonarono la Marsigliese. Concepì una grande ammirazione per un uomo di prestigio, Guido Calogero, uno dei fondatori del Partito d’azione. Ma non ebbe le asprezze, le insofferenze di altri che aderirono allo stesso partito. Era un ragazzo equilibrato, un ragazzo normale. Chiamato sotto le armi, sottotenente di complemento, andò a combattere in Grecia. L’8 settembre, una data che si rivelò fatale per tanti altri italiani da quelle parti, si trovava per puro caso in licenza, a casa: a conferma che ogni grande carriera avviene anche con l’aiuto della fortuna. Andò a Roma, dove avrebbe potuto imboscarsi, in attesa di nuovi eventi. Preferì passare clandestinamente la linea del fronte, si arruolò nell’esercito regolare. Capitò in un reparto dove si facevano discorsi disfattisti, discorsi che non gli piacevano. Più di una volta, trattenendo a stento l’ira, reagì.
Un’annotazione del diario (11 aprile 1944) fa presagire, già da allora, il Ciampi che conosciamo: «…oggi, discutendo con due colleghi, a un certo punto sono stato costretto a scattare. “Il popolo italiano, dicono, non è un popolo maturo, è un popolo di servi.” È la solita ributtante frase di chi vuol fare l’uomo superiore e fregarsene di tutto. Sarà pur difficile, rispondo io, l’opera di rieducazione ed elevazione morale e politica, così difficile da far temere addirittura una quasi-impossibilità. Ma perché non voler almeno tentare?… Altro argomento negativo è quello di ammettere una disonestà e malafede generale, per cui tutti quanti agiscono solo per il proprio sudicio vantaggio… Dopo questa discussione, un collega mi ha consigliato di moderarmi, perché potrei avere delle noie di servizio dai più elevati in grado (…) Invece, ora che so questo, pigerò sull’argomento quanto più ad alta voce potrò, di punizioni disciplinari non me ne importa». E qui, in quest’annotazione del diario, scritta esclusivamente per sé stesso, abbiamo già tutto Ciampi, il senso etico, la fedeltà ai principi, l’amor di patria, la speranza di redenzione pubblica, il disinteresse personale; e, insieme, una certa ingenuità.
La prima caratteristica che emerge da questi esordi del personaggio, e che spiega il seguito, è l’equilibrio. Giovane di buon intelletto, dotato di cultura (capace di lunghe citazioni di latino, come si usava fra le persone colte in altri tempi; a diciotto anni andò a Bonn per approfondire la conoscenza del tedesco), Carlo Azeglio era in pace con il mondo; nelle sue condizioni di vita, tutto sommato modeste, trovava l’equilibrio psicologico. Questo equilibrio è la prima spiegazione dei successi futuri, e aiuta a capire quale sarebbe stato lo spirito della sua presidenza, dei suoi sette anni. Quella di Carlo Azeglio Ciampi era destinata a essere una presidenza serena. La seconda spiegazione è Franca.
Si conobbero a diciotto anni, alla Normale, lui studente di terz’anno (aveva fatto due ‘salti’ al liceo), lei matricola; si sposarono a ventiquattro, alla fine della guerra. «Ci amiamo oggi, come cinquanta anni fa – donna Franca ha detto di recente in una lunga intervista a Massimo Giannini, biografo del marito – non possiamo fare a meno l’uno dell’altra». E questa non è una frase fatta: chi li conosce dice che è proprio così. Franca ha avuto e ha tuttora, per lui, un’importanza capitale. Basta vederli insieme per rendersene conto. Ma la moglie è stata determinante, nella carriera del marito, anche per una ragione specifica. Subito dopo le due lauree Carlo Azeglio, privo di ambizioni, ‘azionista’ tranquillo, cioè militante del Partito d’azione del quale aprì la sezione di Livorno, aveva intrapreso la carriera di insegnante: professore di liceo. Chi sa: forse, con quel suo carattere pacifico, avrebbe continuato a insegnare per tutta la vita. Fu Franca a suggerirgli di cambiare lavoro. Gli disse, come confidò in quella stessa intervista a Massimo Giannini: «Carlo, fai il concorso in Banca d’Italia: lo stipendio è buono, e non si lavora poi così tanto». Non proprio il viatico per un futuro governatore. Ma così fu che Carlo Azeglio rinunciò al liceo e cambiò mestiere. Senza Franca non sarebbe entrato in banca. Senza la banca non vi sarebbe stata la successiva carriera.
La Banca d’Italia è fucina di classe dirigente; una delle poche, forse ormai l’unica esistente in Italia. Premesso che ogni paese, per prosperare, deve avere una classe dirigente abbastanza omogenea, meglio se ereditaria, l’Inghilterra del passato se l’è formata nelle scuole famose, collegate con l’aristocrazia e con la borghesia finanziaria (la battaglia di Waterloo, si disse, è stata vinta sui campi da gioco di Eton, essendo Eton per l’appunto una di quelle scuole); la Francia l’ha ricevuta dall’ENA, la Scuola nazionale per l’amministrazione; la Germania di altri tempi si è affidata al militarismo prussiano. In Italia alcune istituzioni hanno conseguito un certo spirito di corpo, hanno dato vita a qualche tradizione: la Marina, il ministero degli Esteri. Ma la Banca d’Italia ha offerto il contributo migliore alla classe dirigente nazionale: basti pensare ai governi della Repubblica, da Luigi Einaudi a Tommaso Padoa Schioppa. Vale la pena di chiedersi perché dal palazzo di via Nazionale provengano tante persone di primo piano.
L’istituzione si giova in primo luogo, dice chi la conosce bene, delle sue grandi dimensioni, che di per sé la rendono importante; e ha sempre svolto una mansione, la gestione della moneta, che richiede bravura, sagacia, senso della responsabilità, approfondite cognizioni tecniche. E questo è, per così dire, il punto di partenza. Importante è inoltre un internazionalismo congenito: le varie banche centrali formano una specie di club internazionale, i loro capi si incontrano di continuo qua e là per il mondo. Ma la Banca d’Italia non sarebbe diventata una grande scuola di personale dirigente se non avesse avuto al vertice, attraverso gli anni, personaggi fuori del comune, da Bonaldo Stringher a Einaudi, da Donato Menichella a Guido Carli e a Paolo Baffi, che hanno determinato lo stile, la serietà, la filosofia, e in primo luogo la coscienza del servizio pubblico. Tutti, fino ai funzionari più giovani, grazie a quella scuola hanno imparato a giudicare ogni problema secondo l’interesse generale, quello che Carli chiamava ‘il senso dell’establishment’: una mentalità che talvolta porta a conseguenze estreme, a solidarietà eccessive, ma ha grande valore.
Tale è lo spirito dell’istituzione che chi entra a farne parte, in qualche modo, acquista mentalità e comportamenti particolari. Se ne percepisce un’eco in questa esortazione che Ciampi, diventato presidente della Repubblica, avrebbe poi rivolto a chi lavora per lo Stato: «Gli impiegati e i funzionari non dovrebbero limitarsi a dire: sono a posto perché ho fatto il compito che mi è stato assegnato. Dovrebbero dire invece: perché mi è stato detto di far questo? Potrei fare qualche cosa di diverso e di migliore? Potrei fare di più?». Questo è, dunque, lo spirito dell’istituzione. Lo stile della Banca, peraltro, si scopre anche in annotazioni che sembrano marginali. Ancora adesso si evitano, nei documenti, certe espressioni improprie, che Einaudi, nella sua pignoleria, aveva elencato: non usare per esempio il termine drastico, anche per voci extrafinanziarie, come (diceva ironicamente) gli emetici; non dire mai verificarsi per accadere, perché tale uso è improprio, verificarsi ha un altro significato. Chi ha fatto il ginnasio 60 o 70 anni fa ricorda probabilmente di avere appreso precetti simili da qualche vecchio professore.
L’elezione a presidente
I precedenti spiegano lo stato d’animo con cui Carlo Azeglio Ciampi ha ricevuto, e accettato, l’offerta della presidenza.
Ricostruiamo gli eventi. Nella primavera del 1999, quando bisogna trovare il successore di Oscar Luigi Scalfaro, la politica italiana è in subbuglio, come spesso succede: «una maggioranza di centro-sinistra lacerata al suo interno, – cito ancora Massimo Giannini – un’opposizione di centro-destra che si pronuncia solo per anatemi, e un piccolo arcipelago di minoranze che si elidono l’una con l’altra». Circolano vari nomi: quello di Scalfaro per una riconferma (ma Berlusconi dice che «due o tre milioni di persone scenderebbero in piazza» per impedirla), Franco Marini, Nicola Mancino, Rosa Russo Jervolino, Giuliano Amato. Confusione suprema. Alla fine, la sera dell’8 maggio, Berlusconi convoca ad Arcore Fini e Casini, suoi alleati. Dall’incontro escono tre nomi: Amato, Mancino e Ciampi. Il giorno dopo Gianni Letta, gran consigliere di Berlusconi, chiama D’Alema, allora presidente del Consiglio: se il centro-sinistra è d’accordo, va bene Ciampi. D’Alema (con una specie di motu proprio, senza consultare nessuno) si dice d’accordo.
Ciampi reagisce secondo il suo costume. Quando gli offrirono il governatorato della Banca d’Italia, fece il possibile per evitarlo: Domine non sum dignus. Indicò anche il nome di chi, a suo parere, sarebbe stato più adatto di lui: Bruno Visentini. Quando gli altri insistettero, accettò: per spirito di servizio, e perché il rifiuto sarebbe stato una viltà. Successivamente, nel 1993, gli chiesero di fare un governo e di presiederlo: obiettò che lui, privo di un seggio in Parlamento, sarebbe stato un rischio per le istituzioni, ma quando Scalfaro, allora presidente della Repubblica, gli disse che non c’era altra scelta, accettò. Adesso, avendo lui 79 anni, e soprattutto il desiderio di ritirarsi a vita privata e fare il nonno, si ripete la scena consueta: gli dicono che non c’è altra scelta possibile. Ancora una volta accetta.
Ciampi è stato dunque, rispetto ai predecessori, un presidente anomalo, oltre che riluttante. Prima di lui, con l’eccezione di Luigi Einaudi, i presidenti della Repubblica erano tutti uomini politici di vecchia militanza. Personaggi come Saragat, Segni, Scalfaro hanno guidato nella loro vita partiti e governi, perseguendo ciascuno attraverso gli anni i suoi obiettivi, che avevano comunque un contrassegno politico: rafforzare la propria parte, ridimensionare la parte avversaria, prendere decisioni di rilevanza sociale. Giunti alla fase finale della loro attività, quando ebbero la possibilità di accedervi, questi personaggi videro nella presidenza della Repubblica un coronamento della propria carriera, molto onorevole, di grande prestigio, con la possibilità di esercitare pur sempre un’influenza sulla cosa pubblica. Ma questa possibilità era severamente limitata dalla Costituzione, che dà al presidente della Repubblica, tutto sommato, poteri modesti: in prevalenza funzioni di rappresentanza, non decisionali. Inevitabilmente provarono pertanto, nei loro sette anni, molte frustrazioni, più o meno gravi secondo le circostanze.
Per il carattere, contrassegnato come si è visto da grande equilibrio psicologico, e per la provenienza, non politica in senso stretto, Ciampi è stato un presidente diverso. Poiché non apparteneva ad alcun partito (l’unico col quale aveva avuto a che fare nella primissima gioventù, il Partito d’azione, non esisteva più, e non aveva sentito il desiderio di rimpiazzarlo) e poiché non disponeva di un seggio in Parlamento e aveva solo fatto amicizia, attraverso gli anni, con qualche singolo uomo politico, per simpatia o, come diceva lui in certi casi, per comunanza di valori, quando aveva svolto azione di governo, in qualità di primo ministro (aprile 1993-maggio 1994) o di ministro del Tesoro (governo Prodi e governo D’Alema, fra il 1996 e il 2000), si era prefisso in sostanza obiettivi economici e finanziari, quindi di ordine tecnico: si era soprattutto adoperato per la partecipazione dell’Italia all’euro, secondo gli accordi di Maastricht, e quello fu il suo capolavoro. Quando gli fu chiesto di trasferirsi al Quirinale, e di assumere la presidenza della Repubblica, non aveva alle spalle alcun sogno politico incompiuto. Era, veramente, al di sopra delle parti.
Gli anni della presidenza
Questa realtà ha dato l’impronta alla sua presidenza. Non ha mai mostrato predisposizione per l’oratoria. «Soffro di agorafobia; – ha confessato – prendere la parola in una piazza o davanti a platee troppo vaste mi blocca». Ha scelto pertanto, per comunicare con i suoi veri interlocutori, che erano i semplici cittadini, un metodo tranquillo: quando parlava in pubblico estraeva dalla tasca un bigliettino e lo leggeva. Una prosa chiara e ben costruita, accurata e precisa, senza voli retorici. Con questa prosa, che trovava poi l’espressione più solenne nei messaggi di Capodanno, diffondeva la sua idea di patria, la sua visione dell’Italia. Un patriottismo semplice, quasi ingenuo, il suo; un patriottismo da uomo comune; dettato da impulsi spontanei, non senza umiltà: «Se devo riandare a un momento in cui ho avvertito la responsabilità e l’orgoglio di rappresentare il nostro Paese – ha detto, ed era quasi una confessione – ripenso al maggio 1993, quando da presidente del Consiglio andai a fare una visita di Stato in Germania. Da noi le cose non andavano bene, in ogni senso, credibilità e affidabilità erano purtroppo questioni aperte. A un certo punto, stavo a fianco di Kohl su un palco, fu issato il tricolore mentre la banda suonava Mameli. Beh, un brivido mi corse lungo la schiena e mi tremarono le gambe».
Non è facile diffondere l’idea di Italia in termini positivi, tali da inorgoglire gli italiani: le cose non vanno bene, per ripetere l’espressione del presidente, da tanto tempo, e non solo in quel maggio del 1993. Si susseguono le lacerazioni, le controversie, le baruffe. Abbiamo cominciato una grande guerra stando da una parte, l’abbiamo finita trovandoci dalla parte opposta. Abbiamo vissuto un umiliante 8 settembre, quando si sono prodotte due Italie, partigiani e neo-fascisti. Poi sono venuti i democristiani e i comunisti, in crisi di incomunicabilità. L’8 settembre: secondo Ernesto Galli della Loggia, professore di università, articolista del Corriere della Sera, in quel giorno «è morta la patria». Ciampi non accetta la sentenza di condanna: secondo lui la patria non è mai morta. Lui vede nelle vicende italiane «una storia fatta di momenti esaltanti e di errori, di progressi e di scontri politici e sociali. Fatta di Caporetto e di Vittorio Veneto, di 8 settembre e di 2 giugno e di 25 aprile»; ma «l’Italia che sognavo, libera, né fascista né comunista, alla fine siamo riusciti a costruirla. È un grande Paese…». Nel giudizio del passato si esprime con una specie di ecumenicità, che tutto abbraccia: emerge così un buon padre della patria, una patria di cui fanno parte tutti gli italiani, i partigiani ai quali lui si è sempre sentito più vicino, ma anche i fascisti che dopo l’8 settembre credettero di servire l’onore nazionale militando dalla parte opposta; i liberali, i democratici, ma anche gli uomini di fede comunista, molti dei quali hanno creduto ‘nei valori della società civile’. Quella di Ciampi è stata, sempre, una visione positiva. «Nell’idea di rinnovamento – ha detto l’11 novembre 1999, in visita a la Repubblica – quello che è accaduto in questi anni in Italia è stato centrale; rinnovamento che ha un significato, sia pure con tante traversie, con tante difficoltà, con tanti strascichi. Da un lato portare un’ondata di moralità nella vita pubblica; dall’altro rendersi conto del rischio che l’Italia stava correndo di restare addietro in un mondo che procedeva, ormai, in maniera estremamente rapida. Di qui è nato anche un sentimento di orgoglio del Paese sul quale, anche io, ho fatto molto conto per la campagna per l’Europa: cioè, il Paese si è reso conto che ha le possibilità, ha la base, soprattutto morale, ha una tradizione storica che gli permette, direi, quasi l’obbliga, a non rimanere indietro in un mondo che cambia rapidamente, in un’Europa che, di questo cambiamento, si è sentita e intende essere parte fondamentale».
Gli italiani sono continuamente impegnati in un’analisi introspettiva, in un esame di sé stessi e del proprio paese, per capire quale posto occupano nella graduatoria internazionale: siamo progrediti o sottosviluppati? È dal 1860 che l’Italia vorrebbe essere una grande potenza, come la Germania, come la Francia e l’Inghilterra, e non lo è. Ciampi dà un giudizio insieme realistico e fiducioso: vede i difetti, i ritardi, le manchevolezze, però è convinto che vi siano la volontà e la capacità di crescere, e tutte le vicissitudini passate, anche le più tragiche, come quell’8 settembre che a taluno sembra una data di morte, servono in realtà alla maturazione, al progresso. Con un traguardo: l’Europa. Nell’ideale europeo egli conserva la fede, che ormai a tanti sembra anch’essa ingenua, dei padri fondatori che, al confino nell’isola di Ventotene, scrivevano negli anni del fascismo e della guerra i loro manifesti.
«In Italia mi sento livornese, in Europa mi sento italiano, nel mondo mi sento europeo»: una sintesi perfetta del buon cittadino, in pace con l’umanità. «Lo ripeto in continuazione: – diceva in quella visita a la Repubblica dell’11 novembre – il fatto che undici Paesi, in Europa, abbiano scelto di rinunciare alla sovranità di battere moneta è un fatto politico di straordinaria importanza che va al di là del valore stesso economico, monetario di questa grande operazione. Significa veramente il superamento della mentalità che ha insanguinato l’Europa della prima metà del secolo. È il vero modo di mettere la parola fine ai nazionalismi deteriori, a tutto quello che ha portato alle due guerre mondiali e al totalitarismo fra la prima e la seconda… Questi principi porteranno poi a delle conseguenze, secondo me, inevitabili, di proseguire, avanzare ancora nell’opera di integrazione europea, a cominciare dal campo della politica estera e della difesa… Nei viaggi che ho compiuto fuori dell’Italia… ho avvertito un nuovo modo di guardare all’Europa e all’Italia: all’Europa come a un’entità che esiste e, in particolare, all’Italia che di questa entità è parte fondamentale».
Parole d’obbligo, da parte di un presidente? Carlo Azeglio Ciampi crede a quel che dice. È, nonostante la sua carriera eccezionale, nonostante le cariche eccelse, un uomo semplice, simile a tanti connazionali per bene come lui, convinto che la vita sia essenzialmente ‘famiglia e lavoro’, contento di trascorrere tranquille vacanze borghesi con la famiglia, nella casa modesta di Santa Severa, con il pattino sulla spiaggia per fare ogni mattina un po’ d’esercizio.
Prediche inutili, le sue, come quelle di Einaudi? Certamente hanno trovato, fin dal primo momento, un’eco fra tanti cittadini. Già nel primo anno della sua presidenza Ciampi ha ricevuto da persone comuni, fatto senza precedenti, 16.000 lettere.
Il presidente della Repubblica ha mansioni e prerogative, quali la nomina dei ministri e la firma delle leggi, che lo mettono in rapporto quasi quotidiano con il Parlamento e con il governo. Ciampi fu eletto presidente nel maggio del 1999, quando il governo di centro-sinistra era presieduto da Massimo D’Alema, e non vi furono problemi. Poi vennero, nell’aprile del 2000, le dimissioni di D’Alema: Ciampi affidò l’incarico di fare il nuovo governo a Giuliano Amato, e non vi furono problemi neanche con lui. La situazione cambiò dopo le elezioni del maggio 2001, che diedero una maggioranza netta al centro-destra, guidato da Silvio Berlusconi. Da quel momento, i problemi furono numerosi.
In verità si è creata, con quelle elezioni, una situazione senza precedenti: due tipi umani totalmente diversi, uno al Quirinale, l’altro a Palazzo Chigi, si sono trovati uno di fronte all’altro, in un continuo confronto. Di Ciampi abbiamo detto: la sua unica ambizione nella vita è stata quella di assolvere bene, con scrupolo e con efficienza, quei compiti che la sorte, di volta in volta, gli ha assegnato, si trattasse di un ispettorato di campagna alla Banca d’Italia o della presidenza della Repubblica al Quirinale. All’estremo opposto, per la mentalità e per la filosofia di vita, troviamo Berlusconi: un uomo che sempre è stato guidato dalla religione del successo. Le sue ambizioni erano enormi: a ogni vittoria, e ne ha raccolte tante, subito pensava alla battaglia successiva. Quando si rese conto che gli italiani, arricchiti dal miracolo economico, volevano case, costruì una città-satellite, che chiamò Milano-Due: un’altra Milano, insomma. Poi intuì che si apriva l’era della televisione e creò un impero televisivo, che dominava l’Italia e aveva propaggini all’estero. Infine entrò in politica e conquistò un potere sconfinato, senza precedenti nella storia della Repubblica. Tante clamorose vittorie furono rese possibili dalle doti del personaggio, senza dubbio eccezionali; e, in pari misura, dalla sua spregiudicatezza. Berlusconi è sempre stato insofferente delle regole: quando dava vita all’impero televisivo, mirando al monopolio assoluto, si servì del rapporto privilegiato con Bettino Craxi, che esercitava un potere di interdizione ed era in grado di rendere impossibile la votazione di qualsiasi legge, per impedire al Parlamento di legiferare in materia televisiva. Se invece le regole già esistevano, e ostacolavano i suoi progetti, Berlusconi ha cercato di modificarle.
Fra due personaggi diametralmente opposti era inevitabile una tensione continua. Ed era inevitabile che le difficoltà più gravi sorgessero nel campo della giustizia, per il fatto che Berlusconi è stato sottoposto a un gran numero di processi. Conquistata la maggioranza in Parlamento nel 2001, Berlusconi elaborò un piano su due linee: norme specifiche per variare i tempi di prescrizione o le sanzioni previste per determinati reati e un diverso ordinamento della magistratura. Quanto all’ordinamento giudiziario, la riforma del centro-destra mirava a separare la funzione accusatoria (i pubblici ministeri) da quella giudicante, e a stabilire sui giudici in genere, sui pubblici ministeri in particolare, un certo controllo del potere politico.
Altre difficoltà sono sorte nel campo dell’informazione: un tema sul quale Ciampi ha deciso di rivolgere un messaggio al Parlamento, che non piacque al presidente del Consiglio. Terza occasione di tensione fra il Quirinale e il Parlamento erano i propositi di mutare l’assetto costituzionale dello Stato. La Lega Nord, alleata della coalizione di governo, con antiche tendenze separatiste poi abbandonate, ha imposto una richiesta di decentramento (con il passaggio di varie funzioni alle Regioni: la cosiddetta devolution) a un’Italia che non è nata come Repubblica federale, ma come Repubblica unitaria (la stessa istituzione delle Regioni come enti amministrativi, prevista fin dal 1946, è stata attuata con grande ritardo).
Una nuova legge elettorale, varata alla fine della legislatura, con il ritorno al sistema proporzionale dopo che quello maggioritario era stato approvato da un referendum, ha creato a sua volta gravi tensioni. Era una legge frettolosa; il suo stesso promotore ha riconosciuto già in prossimità delle elezioni che è pessima.
A partire dal 2001, dunque, la democrazia italiana è governata per cinque anni da un presidente del Consiglio diverso, per il suo passato e per la sua mentalità, da tutti quelli che lo hanno preceduto: un uomo d’affari di vasta ricchezza, che controlla, direttamente o indirettamente, l’intero sistema televisivo. Egli è sostenuto dalla maggioranza in Parlamento, e nel sistema democratico la maggioranza conferisce il diritto di governare. Non è certo nei poteri del presidente della Repubblica, ammesso che lo voglia, di risanare le anomalie della situazione italiana. Altro è il suo compito: egli deve garantire che le leggi approvate dal Parlamento non ledano i principi della Costituzione.
Ho indicato i principali settori in cui sono sorti dubbi di costituzionalità. Separazione dei poteri (quindi indipendenza della magistratura dal potere politico), pluralità dell’informazione, unità dello Stato sono principi costituzionali, che devono essere salvaguardati. Non è questa la sede per indicare i casi specifici in cui sono sorti dubbi di costituzionalità, o per descrivere la natura degli interventi da parte del Quirinale. Interessa invece il metodo adottato da Ciampi per appianare, di volta in volta, i vari contrasti. Molti avversari del governo avrebbero voluto da parte sua un’opposizione risoluta, a oltranza. Quando una legge era da lui rimandata al Parlamento, perché giudicata in qualche suo articolo incompatibile con la Costituzione, ed era poi corretta dal Parlamento in modo solo marginale, certi oppositori avrebbero voluto, invece della firma presidenziale, un nuovo rinvio: e così all’infinito. Ma questo comportamento avrebbe scatenato prima o dopo un conflitto assai grave, dalle conseguenze imprevedibili, fra la presidenza della Repubblica e il potere legislativo. Ciampi, per fortuna, lo ha evitato. Egli ha sempre cercato di unire fermezza e diplomazia. Certo ha ridotto il danno, evitando il peggio. Il metodo Ciampi ha dato origine a quella che si è definita la moral suasion. Il presidente seguiva, per così dire dietro le quinte, il lavoro di preparazione di leggi che potevano dare luogo a contrasti, cercando di fare sapere al legislatore quali sarebbero state le difficoltà, se si fosse presa una certa strada. Metodo certamente saggio, suggerito dalla prudenza e dal buon senso. Si profilava il pericolo che la presidenza della Repubblica, con la moral suasion, diventasse in qualche modo corresponsabile dell’attività legislativa: il pericolo quindi (secondo gli oppositori più risoluti della maggioranza parlamentare) di inquinarsi. Ma questo sarebbe stato, tutto sommato, il male minore.
Un bilancio finale
La presidenza Ciampi è piaciuta agli italiani. Questo presidente onesto, amante della patria, cultore di antiche virtù, capace di parlare un linguaggio comprensibile a tutti, e di infondere un po’ di ottimismo, un po’ di fiducia in un paese lacerato da tante controversie, mortificato da tanti insuccessi, ha ottenuto in sette anni un’immensa popolarità. Quella da lui frequentata, d’altra parte, è stata un’Italia diversa dall’Italia poco attraente che appare attraverso le cronache quotidiane dei mezzi di informazione. Ciampi ha trasmesso l’immagine di un’Italia migliore, e coloro che hanno viaggiato attraverso la penisola al suo seguito hanno visto che quell’Italia migliore esiste davvero, non è un’utopia.
Il finale è stato bello. Nell’imminenza della fine del mandato, gli è stato chiesto da tutte le principali forze politiche, non con una mossa concordata ma in ordine sparso, di accettare l’elezione per altri sette anni. Si ripeteva così, ancora una volta, la scena consueta: l’offerta di una carica (in questo caso di un rinnovo di carica) al personaggio che non la chiedeva. La risposta, stilata senza enfasi ma con tranquilla semplicità, è stata un modello di buon senso e di modestia. Ciampi nel passato, per amor di patria, aveva sempre detto di sì. Questa volta ha risposto di no, per due ragioni: una di carattere pubblico, essendo opportuna in una Repubblica, ha spiegato, la rotazione dei suoi presidenti, una di carattere personale, essendo la sua un’età (86 anni alla fine del 2006) ormai avanzata. Così il decimo presidente della Repubblica italiana è uscito di scena, con eleganza, per tornare nel suo modesto appartamento romano, dalle parti di via Nomentana. Era il 15 maggio. Pochi giorni dopo, il 2 giugno, il suo successore assisteva alla solenne parata militare che proprio lui, Ciampi, aveva voluto restaurare nella sua solennità, per contribuire al senso della patria fra gli italiani.
repertorio
I presidenti della Repubblica italiana
Enrico De Nicola
Enrico De Nicola nacque a Napoli il 9 novembre 1877. Laureatosi in giurisprudenza a soli diciotto anni, si dedicò alla professione forense, diventando uno dei maggiori avvocati penalisti italiani. Di cultura laica, fece parte dell’area politica liberale giolittiana. Eletto deputato per la prima volta nel 1909, rimase a Montecitorio fino al 1928. Fu sottosegretario alle Colonie dal 1913 al 1914, nel quarto governo Giolitti, e al Tesoro nel 1919, nel governo Orlando, e in tale veste presiedette la commissione per la riforma dell’Amministrazione dello Stato. Nominato presidente della Camera dei deputati nel giugno 1920 e poi confermato nella legislatura successiva fino al gennaio 1924, durante il fascismo si ritirò dalla vita politica. Nominato senatore del Regno nel 1929, non partecipò mai ai lavori dell’Assemblea, con l’unica eccezione del voto sui Patti Lateranensi.
Tornò alla politica dopo l’8 settembre 1943 come protagonista della ‘tregua’ che risolse la gravissima crisi istituzionale determinata dal contrasto tra la volontà del re di rimanere sul trono e i partiti antifascisti, che volevano l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, la rinunzia del principe Umberto e la formazione di una reggenza. La proposta di De Nicola della luogotenenza di Umberto in nome di Vittorio Emanuele, fino a quando il popolo italiano non fosse stato in condizione di decidere sulla questione istituzionale, fu accettata dal re nel febbraio 1944, con l’intesa di renderla esecutiva il giorno in cui le truppe alleate fossero entrate a Roma.
Deputato della Consulta nazionale, dove presiedette la Commissione giustizia, subito dopo il voto in favore della Repubblica nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, fu eletto dall’Assemblea costituente capo provvisorio dello Stato (al primo scrutinio con 396 voti su 501) il 28 giugno 1946. Prestò giuramento il 1° luglio (nel frattempo le relative funzioni erano state esercitate transitoriamente dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi). Dimessosi per motivi di salute, fu riconfermato il 26 giugno 1947 (al 1° scrutinio con 405 voti su 523) e in qualità di capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre 1947 promulgò la nuova Costituzione, approvata dall’Assemblea costituente e controfirmata dal presidente della Costituente Umberto Terracini, dal presidente del Consiglio De Gasperi e dal guardasigilli Giuseppe Grassi. A norma della prima disposizione finale transitoria della Costituzione, dal 1° gennaio 1948 De Nicola assunse il titolo di presidente della Repubblica (per nomina convenzionale).
Particolarmente stimato per l’onestà, l’umiltà e l’austerità dei costumi, De Nicola rifiutò lo stipendio previsto per il capo dello Stato e, considerando la provvisorietà della sua carica, ritenne improprio stabilirsi al Quirinale, optando per Palazzo Giustiniani. Terminò il mandato l’11 maggio 1948. In seguito, senatore a vita, ricoprì gli incarichi di presidente del Senato, dall’aprile 1951 al giugno 1952, quando si dimise in occasione delle votazioni per la legge elettorale sul cosiddetto premio di maggioranza, e di presidente della Corte Costituzionale dal gennaio 1956 al marzo 1957, ritirandosi poi a vita privata. Morì a Torre del Greco il 10 ottobre 1959.
Luigi Einaudi
Luigi Einaudi nacque a Carrù, in provincia di Cuneo, il 24 marzo 1874. Laureatosi in giurisprudenza, insegnò scienza delle finanze all’Università di Torino e all’Università Bocconi di Milano. Su posizioni sempre più apertamente liberal-conservatrici, prese parte attiva alla vita politica ed economica del paese sostenendo, sia dalle colonne della Stampa (fino al 1900) e del Corriere della Sera (fino al 1925 e dopo il 1943) sia dal 1919 come senatore, battaglie contro il protezionismo agrario e industriale, per la perequazione tributaria tra le regioni e i gruppi sociali, per la moralizzazione della vita parlamentare, per l’indipendenza della magistratura, per un più equo trattamento economico-tributario e politico di tutti i cittadini.
Noto a livello internazionale per i suoi studi economici che difendevano l’idea del liberismo, corrispondente finanziario del settimanale The Economist, essendo contrario al fascismo fu costretto nel 1926 ad abbandonare l’insegnamento universitario e nel 1935 a mettere fine alla rassegna mensile La riforma sociale, fondata da Francesco Saverio Nitti e Luigi Roux nel 1900, che dirigeva dal 1908. Pubblicò poi, dal 1935 al 1943, la Rivista di storia economica. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si rifugiò in Svizzera fino al 1945.
Componente della Consulta nazionale dal 1945 al 1946 e deputato all’Assemblea costituente come rappresentante dell’Unione democratica nazionale, divenne senatore di diritto nel 1948. Nel quarto governo De Gasperi (1947-48) fu vicepresidente del Consiglio e ministro delle Finanze e del Tesoro fino al 6 giugno 1947, poi vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana per breve tempo, nel 1946, ricoprì l’incarico di governatore della Banca d’Italia dal gennaio 1945 fino all’11 maggio 1948 quando (al quarto scrutinio con 518 voti su 872) divenne il primo presidente della Repubblica eletto secondo il dettato della Costituzione; prestò giuramento il giorno successivo.
Durante il suo settennato, improntato alla discrezione e al rigore morale, fu tra i primi e più convinti sostenitori della necessità di creare l’Europa unita e, avversario di ogni forma di monopolio, si schierò in particolare contro quello statale nel settore della scuola. Al termine del mandato, il 25 aprile 1955, riprese l’attività di docente universitario. Autore di numerosissime pubblicazioni scientifiche, soprattutto di carattere economico, alcune delle quali tradotte nelle principali lingue straniere, per i suoi altissimi meriti scientifici ebbe innumerevoli riconoscimenti a livello nazionale e internazionale. Morì a Roma il 30 ottobre 1961.
Giovanni Gronchi
Giovanni Gronchi nacque a Pontedera, in provincia di Pisa, il 10 settembre 1887. Entrato a far parte del Movimento cristiano sorto nel 1902 intorno al sacerdote Romolo Murri, si laureò in lettere alla Normale di Pisa e dal 1911 al 1915 insegnò a Parma, Massa, Bergamo e Monza.
Partecipò come volontario alla Prima guerra mondiale e nel 1919 fu uno dei fondatori del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo. Eletto deputato per tre legislature, continuò contemporaneamente la sua militanza nel sindacalismo cattolico, divenendo segretario della Confederazione dei lavoratori cristiani. Nominato sottosegretario all’Industria e commercio nel primo governo Mussolini (1922), si dimise nell’aprile dell’anno successivo, quando al Congresso di Torino vennero decisi la non collaborazione e il ritiro dal governo dei rappresentanti del PPI. Rieletto deputato nel 1924, passò all’opposizione e partecipò alla scissione ‘dell’Aventino’ per cui fu dichiarato decaduto dal mandato parlamentare nel 1926. Negli anni del fascismo dovette rinunciare all’insegnamento e si dedicò ad attività commerciali e industriali; durante la Resistenza fu, insieme ad Alcide De Gasperi, rappresentante della Democrazia Cristiana nel Comitato di Liberazione Nazionale. Nominato ministro dell’Industria e commercio nel 1944 (secondo e terzo governo Bonomi) e nel 1945 (governo Parri e primo governo De Gasperi), fu presidente del gruppo parlamentare democristiano all’Assemblea costituente. Eletto deputato nelle prime due legislature repubblicane, ricoprì la carica di presidente della Camera dei deputati dal 1948 fino al 29 aprile 1955, quando fu eletto presidente della Repubblica (al quarto scrutinio con 658 voti su 833); prestò giuramento l’11 maggio. Riconoscendo la propria elezione come l’inizio di una nuova fase della storia italiana, chiuso il periodo del dopoguerra e della ricostruzione, diede alla figura costituzionale del presidente della Repubblica un’accentuazione nel senso di un maggior dinamismo e di una accresciuta iniziativa politica. Per quanto riguarda la politica interna, sollecitò la realizzazione degli istituti costituzionali ancora inattuati (Corte Costituzionale, Regioni, Consiglio superiore della magistratura, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), la promulgazione di leggi ordinarie che dessero luogo ai principi costituzionali di uguaglianza e di preminenza del lavoro, e l’ampliamento delle basi democratiche del potere, superando le fratture fra maggioranza e opposizione. In politica estera, in sintonia con il presidente dell’Ente nazionale idrocarburi, Enrico Mattei, caldeggiò una politica autonoma dell’Italia nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Nel 1956 si pronunciò a favore dell’ammissione alle Nazioni Unite della Cina popolare e, all’insaputa del governo, elaborò, e sottopose all’Unione Sovietica, un piano per la riunificazione e la neutralizzazione della Germania. In occasione dei suoi numerosi viaggi all’estero, soprattutto quelli negli Stati Uniti (1956) e in URSS (1960), le sue dichiarazioni a favore della coesistenza pacifica e del disarmo bilanciato resero sempre più evidente il contrasto con la linea del governo e alimentarono aspre polemiche. Finì il mandato il 6 maggio 1962 e come senatore a vita si iscrisse al gruppo misto. Fu autore di numerosi scritti di carattere politico. Morì a Roma il 17 ottobre 1978.
Antonio Segni
Antonio Segni nacque a Sassari il 2 febbraio 1891. Laureatosi in giurisprudenza nel 1913, dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale aderì, nel gennaio del 1919, al Partito Popolare Italiano. Nel 1920 iniziò la carriera universitaria come docente di diritto commerciale nelle Università di Pavia, Perugia e Cagliari, e di diritto processuale civile a Sassari, dove fu rettore dal 1946 al 1951, e a Roma fino al 1961. Con l’avvento del fascismo abbandonò del tutto l’attività politica, ma dopo la Liberazione fu uno dei principali promotori della Democrazia Cristiana in Sardegna. Membro della prima Consulta regionale dell’isola, collaborò alla stesura della legge 28 dicembre 1944, la carta fondamentale dell’autonomia sarda. Eletto deputato all’Assemblea costituente e al Parlamento dalla prima legislatura, preparò il piano di riforma agraria come sottosegretario (terzo governo Bonomi, governo Parri e primo governo De Gasperi) e poi come ministro dell’Agricoltura dal 1946 al 1951 (dal secondo al sesto governo De Gasperi). Nelle successive legislature ebbe l’incarico di ministro della Pubblica Istruzione quasi ininterrottamente dal luglio 1951 al gennaio 1954 (settimo governo De Gasperi, governo Pella), di presidente del Consiglio dal luglio 1955 al maggio 1957 (come tale firmò i trattati istitutivi della CEE e dell’EURATOM il 25 marzo 1957), di ministro della Difesa nel 1958 (governo Fanfani), di presidente del Consiglio e ministro dell’Interno dal febbraio 1959 al marzo 1960, di ministro degli Esteri nel 1960 e nel 1962 (governo Tambroni, terzo e quarto governo Fanfani).
Eletto presidente della Repubblica (al nono scrutinio con 443 voti su 854) il 6 maggio 1962, prestò giuramento l’11 maggio indicando come punti fermi cui ispirare il compimento del suo mandato l’ideale europeistico, la fedeltà all’Alleanza atlantica, il rigoroso rispetto della Costituzione e delle prerogative politiche del Parlamento e del governo, l’impegno a operare per l’ordinato progresso della democrazia italiana. Nella sua permanenza al Quirinale, essendo un conservatore, Segni ebbe tensioni con la parte politica che spingeva per le riforme sociali e strutturali. Colpito da ictus nell’agosto 1964, fu sostituito per quattro mesi dal presidente del Senato Cesare Merzagora e si dimise il 6 dicembre. Fu autore di scritti di materia giuridica e agraria. Morì a Roma il 1° dicembre 1972.
Giuseppe Saragat
Giuseppe Saragat nacque a Torino il 12 settembre 1898. Laureatosi in scienze economiche e commerciali, dopo aver combattuto come volontario nella Prima guerra mondiale, nel 1922 entrò nel Partito socialista unitario e nel 1925 ne fu eletto membro della direzione. L’espatrio forzato di tutti i dirigenti socialisti lo portò nel 1926 in Austria e poi in Francia, dove si dedicò allo studio e partecipò al movimento antifascista e socialista. Tornato in patria nel 1943 per combattere contro la Repubblica di Salò, nel 1944 fu arrestato, consegnato alle autorità tedesche e condannato a morte insieme a Sandro Pertini, con il quale riuscì poi a evadere e a riprendere l’attività clandestina nell’esecutivo del Partito socialista di unità proletaria a Milano. Dopo la liberazione, fece parte del primo governo Bonomi come ministro senza portafoglio e nell’aprile 1945 fu nominato ambasciatore a Parigi. Deputato alla Costituente, fu eletto presidente dell’Assemblea il 25 giugno 1946, ma si dimise l’anno successivo quando, avendo provocato la cosiddetta ‘scissione di palazzo Barberini’, abbandonò il PSIUP per fondare il più moderato e riformista Partito socialista dei lavoratori italiani (successivamente Partito socialista democratico italiano), del quale divenne segretario.
Nominato vicepresidente del Consiglio nel 1947 (quarto governo De Gasperi) e nel 1948, quando ricoprì anche l’incarico di ministro della Marina mercantile (quinto governo De Gasperi), fu eletto deputato nel 1948 e in tutte le legislature successive. Nel novembre 1949 si dimise dal governo per riassumere la segreteria del PSDI, che mantenne fino al 1954, anno in cui ebbe nuovamente l’incarico di vicepresidente del Consiglio dei governi Scelba e nel primo governo Segni (1955). Di nuovo segretario del PSDI dal 1957 al 1964, fu ministro degli Esteri dal 1963 (primo e secondo governo Moro) fino a quando fu eletto presidente della Repubblica (al ventunesimo scrutinio con 646 voti su 963) il 28 dicembre 1964; prestò giuramento il giorno successivo. Il suo mandato presidenziale, che si svolse negli anni dell’inizio del terrorismo e della contestazione, terminò il 28 dicembre 1971. Saragat tornò alla politica attiva nel PSDI, del quale assunse la presidenza nel 1975. Morì a Roma l’11 giugno 1988.
Giovanni Leone
Giovanni Leone nacque a Napoli il 3 novembre 1908. Laureatosi in giurisprudenza nel 1929 e in scienze politiche e sociali nel 1930, divenne docente di diritto e procedura penale nel 1933 e insegnò nelle Università di Camerino, Messina, Bari, Napoli e Roma. Oltre che professore universitario, fu famosissimo avvocato penalista e autore di numerosissime pubblicazioni giuridiche, alcune delle quali tradotte in lingue straniere. Dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale, nel 1944 si iscrisse alla Democrazia Cristiana, divenendo l’anno successivo segretario politico del comitato napoletano del partito. Deputato all’Assemblea costituente, partecipò attivamente all’elaborazione della Costituzione, in particolare come relatore del titolo concernente la magistratura. Eletto deputato al Parlamento dal 1948, nel 1955 subentrò a Giovanni Gronchi, divenuto capo dello Stato, alla presidenza della Camera che conservò fino al 1963. Rappresentante dell’ala più conservatrice della DC, grazie alle sue doti di mediatore ebbe un ruolo importante nella soluzione di numerose crisi tra maggioranza e opposizione. Presidente del Consiglio dal giugno al dicembre 1963 e dal giugno al dicembre 1968, fu nominato senatore a vita il 27 agosto 1967 «per aver illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo scientifico e sociale». Eletto presidente della Repubblica il 24 dicembre 1971 (al ventitreesimo scrutinio con 518 voti su 1008), prestò giuramento il 29 dicembre. Svolse il suo mandato in un periodo particolarmente complesso, tanto da essere costretto (per la prima volta nella storia della Repubblica) a sciogliere anticipatamente il Parlamento nel 1972 e nel 1976. Negli ultimi tempi del suo mandato, fu più volte oggetto di campagne di stampa che lo indicavano come compromesso nello scandalo Lockheed e in altre operazioni economiche e finanziarie. Varie forze politiche, preoccupate che le accuse, sebbene prive di prove, mettessero in crisi la credibilità della figura del presidente della Repubblica, insistettero perché si dimettesse. Respingendo ogni addebito con un messaggio al paese, Leone lasciò la presidenza il 15 giugno 1978, sei mesi in anticipo rispetto alla fine del mandato. Morì a Roma il 9 novembre 2001.
Sandro Pertini
Sandro Pertini nacque a Stella Ligure, in provincia di Savona, il 25 settembre 1896. Laureatosi in giurisprudenza all’Università di Genova e in scienze politiche e sociali a Firenze, partecipò giovanissimo alla Prima guerra mondiale e poi intraprese la professione forense. Ostile fin dall’inizio al regime fascista, si iscrisse al Partito socialista unitario dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti (1924) e nel 1925 affrontò il primo di una lunga serie di processi per aver redatto e diffuso un opuscolo antifascista. Condannato al confino nel 1926, fuggì insieme a Filippo Turati in Francia, dove gli fu concesso asilo politico. Nel 1929 ritornò in Italia con un passaporto falso; riconosciuto e arrestato, fu condannato a 11 anni di reclusione; dopo averne scontati sette, fu assegnato al confino rifiutando di impetrare la grazia e lottando per la rivendicazione dei pur pochi diritti riconosciuti ai carcerati. Con la caduta di Mussolini, nell’agosto 1943 tutti i confinati furono liberati e Pertini riprese l’attività nella Resistenza come membro del Partito socialista nel Comitato di Liberazione Nazionale. Nuovamente arrestato a Roma a ottobre e consegnato alle autorità tedesche, insieme a Giuseppe Saragat fu condannato a morte e liberato dai compagni di lotta. Riprese quindi a dirigere la lotta partigiana come segretario del Partito socialista nei territori occupati prendendo parte, tra l’altro, alla difesa di Roma a Porta San Paolo, alla liberazione di Firenze e all’organizzazione dell’insurrezione di Milano, per cui gli fu poi conferita, nel 1958, la medaglia d’oro al valor militare per meriti partigiani. Fu Pertini ad annunciare alla radio la liberazione dell’Italia dai nazifascisti il 25 aprile 1945, lo stesso giorno in cui suo fratello Eugenio moriva nel campo di sterminio di Flossenbürg. Conclusa la Resistenza, fu segretario del Partito socialista italiano di unità proletaria dall’aprile al dicembre 1945 e membro della direzione fino al 1948, dedicandosi contemporaneamente al giornalismo come direttore dell’Avanti! (dal 1945 al 1946 e dal 1950 al 1952) e del Lavoro nuovo di Genova (1947). Eletto deputato alla Costituente, senatore nel 1948 e deputato al Parlamento in tutte le consultazioni elettorali dal 1953 al 1978, fu membro delle commissioni Interni e Affari costituzionali, e poi presidente della Camera dei deputati dal 1968 al 1976. Divenuto presidente della Repubblica l’8 luglio 1978 con una maggioranza rimasta ineguagliata (al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995), prestò giuramento il giorno successivo. Nel periodo della sua permanenza al Quirinale contribuì al riavvicinamento degli italiani alle istituzioni grazie al suo rigore morale, al suo amore per la patria, al suo carisma, alla sua vena ironica, alla grande comunicativa e a un linguaggio semplice ed efficace, a volte anche duro. Contemporaneamente, pur nel rispetto dei limiti costituzionali, diede un contributo attivo alla soluzione di alcune crisi di governo. Terminò il mandato presidenziale il 23 giugno 1985. Morì a Roma il 24 febbraio 1990.
Francesco Cossiga
Francesco Cossiga è nato a Sassari il 26 luglio 1928. Laureato in giurisprudenza, insegnò diritto costituzionale all’Università della sua città. Iscritto giovanissimo (1945) alla Democrazia Cristiana e contemporaneamente attivo nell’Azione cattolica e nella FUCI, fu eletto deputato in tutte le consultazioni elettorali dal 1958 al 1979. Durante la sua carriera politica ricoprì gli incarichi di sottosegretario alla Difesa dal 1966 al 1969 (terzo governo Moro, secondo governo Leone, primo e secondo governo Rumor) e ministro senza portafoglio per l’organizzazione della Pubblica Amministrazione dal 1974 al 1976 (quarto governo Moro). Come ministro dell’Interno, nel 1976 (quinto governo Moro e terzo governo Andreotti) e nel 1978 (quarto governo Andreotti), riformò i servizi segreti e creò i reparti speciali della Polizia e dei Carabinieri. Si dimise dall’incarico dopo l’uccisione di Aldo Moro, il 9 maggio 1978. Presidente del Consiglio dal 1979 al 1980, fu eletto senatore nel 1983 e assunse la presidenza del Senato il 12 luglio 1983. Divenne presidente della Repubblica (al primo scrutinio con 752 voti su 977) il 24 giugno 1985 e prestò giuramento il 3 luglio. Inizialmente improntò il suo mandato a una rigorosa osservanza della Costituzione, poi, dal 1990, si orientò verso una crescente interazione con la politica dell’esecutivo e con l’attività dei partiti, spesso uscendo fuori dagli schemi tradizionali e innescando aperti contrasti, che suscitarono sia consensi sia riserve. In particolare si fece sempre più deciso ed esplicito fautore di riforme istituzionali in senso presidenzialista, ottenendo l’appoggio di socialisti, liberali, missini e delle leghe, ma creando un’opposizione crescente nella DC e soprattutto inducendo il Partito democratico della sinistra a chiederne formalmente l’impeachment nel 1991. Dimessosi il 28 aprile 1992, due mesi prima del termine del settennato, scelse di svolgere soltanto l’attività di senatore fino al febbraio del 1998, quando diede vita a una nuova formazione politica, l’Unione democratica per la Repubblica, che lasciò l’anno successivo. Alla fine del 2005 ha annunciato con una lettera pubblicata su Libero di non volersi più occupare attivamente di politica.
Oscar Luigi Scalfaro
Oscar Luigi Scalfaro è nato a Novara il 9 settembre 1918. Laureatosi nel 1941 in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano, vinse il concorso per la magistratura nel 1942. Presidente dell’Azione Cattolica della diocesi di Novara, durante la Resistenza svolse opera di assistenza aiutando gli antifascisti incarcerati e le loro famiglie. Lasciata la toga per la politica nel 1946, fu eletto per la Democrazia Cristiana deputato all’Assemblea costituente e successivamente al Parlamento dal 1948 fino al 1992. Nel corso della sua lunga carriera politica ha ricoperto gli incarichi di sottosegretario al ministero del Lavoro e della previdenza sociale nel 1954 (primo governo Fanfani), alla presidenza del Consiglio dei ministri e allo Spettacolo nel 1954 (governo Scelba), al ministero di Grazia e giustizia nel 1955 (primo governo Segni) e nel 1957 (governo Zoli), al ministero dell’Interno nel 1959 (secondo governo Segni) e nel 1960 (governo Tambroni, terzo governo Fanfani). È stato poi ministro dei Trasporti e dell’aviazione civile nel 1966 (terzo governo Moro), nel 1968 (secondo governo Leone), nel 1972 (primo governo Andreotti), ministro della Pubblica istruzione nel 1972 (secondo governo Andreotti) e ministro dell’Interno nel 1983 (primo governo Craxi), nel 1986 (secondo governo Craxi), nel 1987 (sesto governo Fanfani). Presiedette la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli interventi per la ricostruzione dei territori della Basilicata e Campania colpiti dai terremoti del 1980-81. Il 24 aprile 1992 fu scelto come successore di Nilde Iotti alla presidenza della Camera dei deputati, anche per aver difeso le prerogative del Parlamento nei mesi precedenti, di fronte alle ipotesi di riforme istituzionali prospettate dal capo dello Stato Cossiga. Eletto presidente della Repubblica il 25 maggio 1992 (al sedicesimo scrutinio con 672 voti su 1002), prestò giuramento il 28 maggio. Negli anni di presidenza, accentuò il ruolo di garante degli equilibri istituzionali, soprattutto nei momenti cruciali della crisi del sistema politico e nel difficile passaggio fra la prima e la seconda Repubblica. Terminò il suo mandato il 15 maggio 1999. Come senatore a vita ha aderito al gruppo misto. Al termine della XIV legislatura, nel corso della quale ha presentato numerosi disegni di legge riguardanti l’emigrazione, è stato presidente del comitato promotore del referendum contro la riforma della seconda parte della Costituzione.